di Giovanni Iozzoli
Recentemente mi è capitato di attraversare i gironi grotteschi della sanità campana, un continente perduto e selvaggio dal quale tanti non sono tornati.
Quando si parla di “malasanità”, il senso comune non rappresenta adeguatamente la realtà: le formiche in bocca e le garze nello stomaco sono solo le vette sublimi, il guizzo poetico, si può dire, di un sistema che è nella sua quotidianità, nella sua ordinarietà, che riesce a dare veramente il peggio di sé. E’ una sanità di classe, i cui dispositivi di esclusione incidono ormai in misura notevole sulla distribuzione generale del reddito: sulle famiglie, in Campania e in tutto il martoriato mezzogiorno, sono stati scaricati i costi sociali, occulti e diretti, della massiccia ritirata del welfare sanitario; e il risultato, in termini di impoverimento assoluto e relativo, è tragicamente evidente. Migliaia di nuclei familiari tracollano o si indebitano o si costringono a dolorosissimi viaggi della speranza, per affrontare eventi che dovrebbero essere normalmente a carico del Servizio Sanitario Nazionale sui territori. La continua evocazione della biopolitica, come categoria omnibus dell’analisi, trova proprio su questo terreno una sua evidente giustificazione: una brutta diagnosi diventa immediatamente lotta per la sopravvivenza fisica ed economica – i tempi della vita biologica e le forme della riproduzione sociale, si rivelano nel loro nudo intreccio. Pochi altri terreni sono più immediatamente politici di questo. Eppure la sinistra di classe, i movimenti, lo hanno spesso snobbato pur essendo chiaro, fin dagli anni '70, che la figura del salario, nella sua nuova dimensione sociale, vedeva le prestazioni del welfare assumere un ruolo via via più centrale in una configurazione moderna dell’idea di reddito.
Ma che succede quando si entra nel tunnel della malattia? La via crucis, di solito, comincia con la diagnostica a pagamento. Esperienza comune, quella del medesimo esame che il pubblico offre in 8/12 mesi e il privato il giorno dopo a pagamento, magari nella stessa struttura. Là, immediatamente il destino del malato biforca le sue direttrici: sommersi e salvati si definiscono sulla base di una Tac e di una carta di credito. In alternativa il “viaggio al termine della notte” può iniziare con l’ingresso al Pronto Soccorso, un locale generalmente scassato e insalubre, che ti accoglie senza troppi infingimenti, rivelandosi subito per ciò che è. Il Pronto Soccorso della Campania non è più un mero presidio sanitario – è piuttosto un luogo dell’anima e del destino, anzi, un “non luogo” che ha perso le caratteristiche di pronto intervento ed è diventato tante altre cose: dispositivo di selezione, appendice senza letti che allarga abusivamente la capacità di ricovero, parcheggio per utenti su cui pendono decisioni irrevocabili. Pudicamente etichettato OBI (osservazione breve intensiva), con il retrogusto ironico di una “osservazione” che non sarà “breve” e meno che mai “intensiva”. Per il sociologo può rappresentare una specie di cartina di tornasole attraverso cui leggere la disgregazione della società meridionale. Per il filosofo, un occasione di meditazione sulla caducità dell’esistenza umana. Perché al Pronto Soccorso si accede liberamente, ma un volta dentro, l’evoluzione di quella destinazione è totalmente ignota, dipendente da un intreccio di cause e condizioni assolutamente non governabile: saloni, corridoi, sedie e lettighe possono rimanere occupati per giorni, dentro un clima caotico, isterico, tra personale cronicamente sottodimensionato (150 milioni di ore di straordinario richieste solo quest’anno!), medici, infermieri e Oss che danzano come formiche impazzite in mezzo a un’umanità derelitta di malati e parenti che stazionano in questo girone, supplicando e minacciando. I morituri vanno sbattuti a casa il prima possibile, per non compromettere le statistiche; gli altri sono in gioco, nella grande lotteria quotidiana di questo o quel letto che può liberarsi, anche a 20 km di distanza.
La noncuranza con in cui trattiamo le questioni malattia/salute, il modo in cui stiamo affrontando l’invecchiamento galoppante della popolazione, è assolutamente incomprensibile, oltre che irresponsabile.
Le dinamiche demografiche del paese e il grande tema delle non autosufficienza, dovrebbero essere al centro di ogni programma e intervento di governo: per semplice calcolo statistico nessuna famiglia sarà esclusa, nel corso dei prossimi anni, dall’attraversamento di questi terreni minati. Il problema è che le classi dirigenti nostrane – la pseudo borghesia italiana senza storia e senza ruolo – sono abituate a trovare ogni risposta nel privato. E’ per quello che c’è così scarsa preoccupazione per il “regionalismo differenziato” che le regioni del nord stanno contrattando in queste settimane, e che tutti sanno rappresenterà la tomba finale dei sistemi sanitari delle regioni del sud.
Ma come siamo arrivati a questo degrado?
E’ necessario interrogarsi bene su cosa è successo negli ultimi 20 anni, in questo paese, perchè questa è una nazione senza memoria collettiva, un grande malato d’Alzheimer facile da interdire. E allora ricordiamoci che l’Italia è da molti lunghi anni in avanzo primario. Avanzo primario. Non è un dettaglio macroeconomico. Vuol dire concretamente che la società ha prodotto più ricchezza, fiscalmente prelevata, delle equivalenti prestazioni sociali di cui ha goduto. E questo anno dopo anno. Poi il debito cresceva lo stesso, perchè sfortunatamente le leggi reali dell’economia sono testardamente irriducibili alla teologia dogmatica impartita alla Luiss o alla Bocconi. Ma di fatto, la società italiana, virtuosamente, dava più di quello che prendeva. A questa materialissima realtà fatta di numeri e segni meno, corrispondeva una pesante operazione ideologica mirante a farci sentire parassiti e cicale. Troppo welfare, troppi sprechi, troppa generosità – e anche se la spesa sociale procapite era in calo costante, tra le più basse dell’area Ocse, le siringhe costavano sempre troppo, con la diagnostica si esagerava, per non parlare poi dei baby pensionati, delle assunzioni abusive, dei furbetti del cartellino...
Insomma: un popolo di formiche abbacchiate, veniva descritto come dedito a pantagrueliche crapule collettive, beoni e mangiatori folli, dissipatori dei beni comuni. La costruzione dell’ethos dell'”uomo indebitato” è stata necessaria a tenere in piedi questa colossale bugia sociale e di classe. La creazione della colpa – anonima, collettiva, come una mannaia (poveri neonati, che nascono con 30.000 euro di debiti!) – doveva servire a tenerci bassi, morigerati e disciplinati. Tra parentesi, è più o meno il medesimo approccio che stanno usando sul tema del reddito: la povertà è una colpa, devi emendarti con un adeguato stile di vita, il reddito garantito sarà una provvisoria e parzialissima sospensione della pena a patto che il Tribunale di Sorveglianza (i centri per l’Impiego) certifichi la tua disponibilità a redimerti dalla colpa originaria.
Ideologie colpevolizzanti, aziendalizzazione e tagli selvaggi
Ecco perchè i pronto soccorso sono strapieni di lettighe cariche di vecchi abbandonati. E’ perchè abbiamo creduto alle loro ignobili bugie, alle loro statistiche farlocche, abbiamo creduto alle favole sulla scarsità delle risorse pubbliche nell’epoca di massima esplosione della ricchezza privata. Abbiamo creduto alla leggenda di un popolo di dissipatori non meritevoli neanche di morire in un letto di ospedale.
Bisognerebbe prendere la signora Lagarde o il sig. Moscovici o la cara Emma Bonino (che immaginiamo non abbia affrontato i suoi guai oncologici passando per le forche caudine della sanità dei poveri) e costringerli a trascorrere una bella giornata in un pronto soccorso di Napoli, Avellino, Aversa o Torre del Greco. Obbligarli a parlare con la gente. Presentare la realtà così com’è: eccole qui, le cicale dell’indebitamento italiano, ecco le Caterine, le Carmele e le Marie, con le calze nere e le gambe storte, con al braccio un sacchetto della spesa e una bottiglietta d’acqua, e a fianco una barella con un marito ultraottantenne che piange, cateterizzato, con l’ossigeno e qualche piaga sporca; eccole lì che cercano con lo sguardo implorante un sanitario e pregano Padre Pio che si liberi un posto, un posto qualsiasi che le tolga da quel camerone di pronto soccorso – un cesso per 50 malati – cercando mentalmente di enumerare amici e conoscenti, per ricordare se hanno un qualche santo in paradiso che può agevolare l’uscita dal purgatorio. E dopo qualche giorno così odi tutti – odi gli stranieri, odi gli irraggiungibili ricchi, odi quelli più poveri di te che sono tuoi competitori – e tutto questo odio non trova sbocco, diventa livore sordo, invettiva contro il destino umano, e invece è solo il risultato di una colossale ritirata degli investimenti pubblici in questo paese, iniziata quando gli illuminati gestori della transizione post-prima repubblica, ci consegnarono tutti, noi, le nostre vite e il bilancio dello Stato, alle delizie del mercato globale.
Abbiate il coraggio di guardare, quei pronto soccorso strapieni di un’umanità sconfitta. Tra i lamenti dei malati, e oltre, nelle periferie gomorizzate, nelle campagne della malamodernizzazione del nostro sud, nei “paesi dell’osso” dell’appennino svuotato e senza anima, lungo l’asse di un paio di generazioni senza reddito e senza futuro, si avverte in sottofondo, minaccioso, l’urlo belluino della modernità: Guai ai poveri! Guai a voi.
E non c’è posto per arcaici razzismi, in questa maledizione sociale: stranieri e italianissimi, guai a voi tutti indistintamente, popolazione eccedente e improduttiva, zavorra umana, non abbiamo posti letto per le vostre vecchiaie luride, non abbiamo soldi neanche per i vostri pannoloni. Possiamo solo trasformare quei Pronto Soccorso eternamente intasati, nei nuovi lazzaretti in cui la società stocca i suoi esuberi in attesa dello smaltimento.
Uno sceneggiatore dell’assurdo, ci vorrebbe. Uno bravo. E anche un regista visionario. Dovrebbero inventare una trama per un film apocalittico-metaforico. All’improvviso – colpa di un esperimento dall’esito incontrollato – i malati, soprattutto i più vecchi, soprattutto i moribondi, si alzano tutti dalle loro lettighe, caracollanti, insensibili, zombi della vendetta sociale. Nonostante le pistolettate delle guardie giurate, arrivano negli uffici dei direttori sanitari, li uccidono e ne dilaniano i cadaveri. E poi imperversano nelle aree ospedaliere, e poi fuori nei quartieri, finalmente liberi dai bomboloni di ossigeno e dalle inutili flebo; e arrivano fino agli assessorati regionali alla sanità, agli uffici pomposi dei “governatori”, dove esercitano una giustizia cieca e sommaria. E poi si mettono in marcia in autostrada, lenti e inesauribili, verso i palazzi romani, con un vago istinto di vendetta, mormorando minacciosi tra le labbra, le parole segrete della loro furia: Fiscal Compact, Maastricht, Patto di stabilità...
I nostri vecchi. Le nostre vecchie storie. Da Napoli a Potenza a Reggio Calabria, giù fino ad Atene, in nome di Dio: ma come abbiamo potuto permettere tanto abbandono? Come abbiamo potuto consentirlo?
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