di Giorgio Bona
Al manca al fià (in dialetto piemontese sono senza fiato). Non era un
atleta dopo la maratona a dirmi queste parole, ma un lavoratore
dell’Eternit, la fabbrica di amianto che aveva la sua sede a Casale
Monferrato. Queste parole espresse con ilarità, con lo sfoggio di una
semplice battuta, non evitano di suscitare indignazione sapendo le cause
da cui provengono, perché sono pietre dure, precise e ti lasciano il
segno.
Perché? Cominciamo così, facendo, come si dice di solito, a fare un po’ di spazio tra le cose, muovendosi nella memoria.
Dal 1973 al 1977 frequentai un noto istituto superiore di Casale
Monferrato. In quegli anni di pendolarismo scolastico mi fermavo con
alcuni compagni a pranzo presso una trattoria con prezzi molto popolari,
dove gravitavano a fine turno anche i lavoratori della Grande Fabbrica.
Il titolare, allora, per ragioni di spazio, disponeva tutti in
un’unica tavolata, studenti e operai insieme, per quel convivio veloce
prima di riprendere le rispettive attività.
Richiamavano la nostra attenzione quelle tutte blu ricoperte di
polvere che noi allevati, come dicevano i nostri vecchi, nel latte di
gallina, osservavamo con una certa curiosità ma anche con profondo
rispetto.
È in quel contesto abbiamo cominciato a conoscere in teoria il mondo
della fabbrica, di quella fabbrica in particolare, la Eternit come era
chiamata dai casalesi, il più grande stabilimento d’amianto in Europa.
Oggi, ricordando quegli anni, della città mi rimane impressa la
Eternit che è stata il primo impatto insieme alla caserma militare. A
Casale erano decine le reclute che provenivano da ogni parte d’Italia a
fare il CAR. Prendo spunto per raccontare un aneddoto abbastanza ironico
per dire che le reclute che si trovavano in città avevano trasformato
il nome della città da Casale Monferrato in Casale “m’han fregato”
proprio per il periodo di tre mesi di naja da scontare in attesa di una
nuova destinazione.
Ma torniamo all’Eternit. In quegli anni la scuola coordinò una visita
all’interno dello stabilimento. Era una di quelle visite che gli
istituti organizzavano in collaborazione con le aziende per dare una
conoscenza agli studenti del mondo del lavoro.
Quello che mi aveva colpito e che aveva suscitato le domande di tutti
era riferito all’ambiente e alle condizioni in cui si trovavano i
lavoratori, domande che aspettano una risposta ancora adesso.
Casale era una città che contava 34.000 abitanti e circa 1800 sono
morti di mesotelioma pleurico, il tumore dei polmoni provocato
dall’amianto.
E allora proviamo a capirci qualcosa. Si dice che per decenni nessuno
avesse sospettato che il materiale lavorato fosse così pericoloso, ma
tra i lavoratori qualche presentimento già trapelava e il sospetto che
qualcosa di drammatico potesse venire fuori. Annotiamo che da quando
l’ordinanza del sindaco di allora Riccardo Coppo stabilì la chiusura
della fabbrica, proibendo la produzione d’amianto sul territorio
casalese erano state attivate circa duecento denunce e quattrocento
richieste di verifiche di rischio che l’azienda non aveva preso in
considerazione.
La testimonianza di un sindacalista FIOM-CGIL racconta del suo primo
giorno di lavoro in Eternit, nel gennaio del 1974, quando si trovò
davanti Pietro Marengo, l’operaio più vecchio. Stava seduto su un sacco
di amianto, era uno degli ultimi facchini ad aver lavorato la fibra con
le mani, spostandola con il forcone per disfarla. Il giovane assunto fu
colpito dalle parole dell’anziano collega che erano macigni con un
seguito pesante: cosa sei venuto a fare qui che sei così giovane? Sei
venuto a morire anche tu?
Sempre il sindacalista ricorda: nel mio reparto c’era Evasio, il suo
stradinom era Il Palombaro, veniva a lavorare ricoperto di sacchetti di
plastica. “ho una moglie e un figlio piccolo. Non voglio morire.”
Si ricordano le vittime, ognuno con una storia diversa, dal momento
che c’era una morte la settimana, quasi come un bollettino di guerra.
Il reparto dove l’amianto veniva lavorato era quello delle materie
prime situato in un sotterraneo, dove giungevano sacchi di iuta mal
sigillati di circa sessanta chili che i lavoratori, senza mezzi di
precauzione, aprivano con un coltello. Appena aperto veniva messo a
macinare sotto quattro molazze per disintegrare la fibra. I lavoratori
avevano il compito di spurgare questi macchinari ogni volta che si
bloccavano e lo facevano smuovendo e grattando l’amianto senza un minimo
di protezione. Successivamente il prodotto veniva stoccato.
Negli ultimi venti anni di vita della fabbrica questo reparto venne
chiuso senza alcun tipo di smaltimento, lasciandolo tale e quale come
era stato dismesso e l’amianto veniva inviato direttamente nel reparto
degli impasti, un reparto dove avveniva la realizzazione delle miscele
per la produzione di tubi e lastre.
Questo reparto era forse ancor più nocivo di quello chiuso
precedentemente, perché quando si introduceva l’amianto a secco nel
miscelatore si alzava una quantità di polvere impressionante, dove i
lavoratori a fine turno si spolveravano addirittura con l’aria
compressa.
Se la nebbia offuscava l’intera fabbrica, alla fine del turno c’era
una montagnola di polvere che superava addirittura il metro. Soltanto
negli ultimi anni di produttività, gli ultimi anni prima che la fabbrica
cessasse, hanno cominciato ad attuare quelle che venivano definite
“lavorazioni sicure” dell’amianto con delle minime precauzioni che
comprendevano l’installazione di ventoline che aspiravano le polveri di
tornitura, successivamente filtrate e rimesse in circolo di lavorazione.
Queste ventoline dovevano lasciare nell’ambiente aria pulita (in
teoria).
A questo bisogna fare una precisazione tecnica, ma facilmente
comprensibile anche da chi non è addetto al mestiere, ovvero che per il
loro funzionamento che avrebbe parzialmente migliorato l’ambiente perché
questo non risolveva completamente il problema, era quello di una
manutenzione quotidiana, ma in questo senso l’azienda decise per una
pulizia settimanale.
C’è anche da aggiungere che non era previsto un vero e proprio
smaltimento delle polveri che venivano espulse all’esterno della
fabbrica, per cui si disperdevano all’esterno in quanto il portone del
reparto a pressione veniva lasciato sempre aperto.
Sì, queste erano le condizioni di lavoro, questa era la vita dei lavoratori dentro una scatola nera rivestita di polvere bianca.
(continua)
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