31/12/2014
Class Enemy: il suicidio come specchio dell’incomprensione
“La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive”
Thomas Mann
Vedere Class Enemy,
del regista Rok Bicek, è sicuramente un’esperienza da provare, perchè
ci parla in modo profondo di cosa vuol dire vivere la scuola oggi, tanto
per gli studenti, quanto per chi a scuola ci lavora, così come per le
famiglie. Vediamo generazioni che non posseggono gli strumenti per
parlarsi, per capirsi (i programmi ministeriali, ovunque, non servono a
ciò) per avere il tempo e la pazienza di avviare un percorso di crescita
interpersonale.
Il film, partendo dal suicidio
di una studentessa in una classe che ha appena visto arrivare un serio e
rigido supplente, evolve continuamente nelle scene fino ad approdare a
quella che pensiamo sia la questione centrale che si pone oggi sul tema:
questo modo di “educare”, a queste condizioni e con questi tempi, è
funzionale solo a replicare l’esistente. Lo vediamo bene nei colloqui
tra genitori e professori in seguito ad uno dei tanti momenti di
tensione mostrati, quando gli studenti prendono il supplente come caprio
espiatorio della morte della giovane: i genitori non solo mostrano come
la propria provenienza di classe conduca a questo o quel comportamento,
ma che la cosa si riflette sui figli in maniera identica. La scuola,
dunque, anche se letteralmente si divide in “classi”, non livella e non
livellava nemmeno ieri le differenze di classe; gli studenti, provenendo
da contesti sociali diversi, non rappresentano una classe con gli
stessi interessi nel lungo periodo. Quel che il film di Bicek ricorda è
che il ribellismo giovanile è ovunque insito nei ragazzi, che
l’organizzazione massificata e lineare dell’apprendimento, specie con
l’evoluzione tecnologica, rende apatici, non incuriosisce, non dà un
motivo valido per seguire una lezione. Per lo più, come uno spacciatore,
somministra pillole ideologiche e astratte di vario tipo, aspettando
che le pecore tornino al gregge. I ragazzi sono oggi bombardati di
informazioni propagandistiche, ma non hanno gli strumenti (e come loro
gli adulti) per filtrarle, non posseggono cioè una chiave di lettura
della realtà, quindi si incazzano e agiscono d’istinto. Non riescono a
comprendere l’importanza delle contraddizioni, devono necessariamente
aggrapparsi a punti di riferimento come le mode, non decise da loro e in
continuo mutamento; si sentono quindi spaesati, in perenne
competizione, anche se a volte scoprono che possono cooperare per
raggiungere risultati migliori, pur nel misero contesto sociale nel
quale sono immersi. E con questo hanno a che fare inevitabilmente i
professori, i quali provano ad assecondare in modo bonario gli studenti
fallendo platealmente: pur in una situazione “ottimale”, direbbero molti
sociologi, dal momento che nel video vediamo un istituto ben attrezzato
ed organizzato, il bubbone è pronto ad esplodere e l’istituzione non
può far niente contro il penetrare degli effetti sociali della realtà.
“Mi sembra importante poter
parlare, attraverso l’arte cinematografica, di temi che riflettano sia
la società nazionale che quella mondiale”, ha commentato il regista: una
frase non da poco, perchè consente di togliere un velo sulle
stucchevoli retoriche nazionali (ci basta e avanza quella nel Belpaese)
de “più fondi alla scuola e all’università”. Spesso infatti questi
appelli prescindono dal contesto e, oltre a mostrare un certo cinismo
economicista, aggirano la questione. Non si tratta infatti, e il film ce
lo ricorda, di buttare più benzina in un serbatoio di una macchina
altrimenti “sana”: è proprio tutta la struttura, a livello globale che
non regge più! Se guardiamo i dati
sui suicirdi nel mondo, in particolare nella fascia tra i 15 e i 29
anni, vediamo che il suicidio è la seconda causa di morte, uno ogni 40
secondi; se a questo sommiamo il livello del consumo di sostanze tra
adolescenti e non, i cui primi approcci comiciano ad essere sempre più
“precoci”, se, inoltre, provassimo ad essere un po’ più onesti con noi
stessi ci renderemmo conto che non è possibile, razionalmente, pensare
che l’educazione dei ragazzi possa avvenire scaricandoli da qualche
parte (come la scuola) in un contesto dove (dagli Usa all’Italia) gli
insegnanti sono pagati una miseria e dove, pur con tutti i mezzi per
“risparmiare tempo”, siamo sempre di fretta e non abbiamo mai abbastanza
tempo per ciò che dovrebbe essere indispensabile, appagante.
I risultati sono sotto i nostri occhi: il disagio
esistenziale, in Italia come altrove, si esprime in forme diverse, ma
lo sostanza è identica. La risposta non si trova, sempre per sfatare un
altro mito, nella “cultura” genericamente intesa, così come in un tipo
particolare di questa. Un tempo la retorica de “un popolo ignorante è
manipolabile” poteva anche reggere ma, oggi, di fronte alla conferma del
fatto che le classi dominanti si impongono tanto con “l’ignoranza”
quanto con la loro di “cultura”, è necessario iniziare a chiarirsi le
idee sul tipo di società che vogliamo domani. Perchè in questi “popoli”
il nemico è sempre appartenente ad una classe ben precisa, responsabile
del disastro dei nostri giorni. Ha una responsabilità enorme sulla
formazione delle giovani menti, che non riesce e non può, per assenza di
tempo speso in modo sociale, portare avanti seguendo i bisogni umani.
Il nemico, come recita il titolo del film, è sì in classe, dove ogni
giorno avviene la somministrazione dell’ideologia dominante, ma è anche
fuori: in casa, al lavoro, per strada. Non possiamo personificare e ogni
personalizzazione servirebbe solo come capro espiatorio: è questa
l’essenza del nostro rapporto sociale. E, come scriveva qualcuno, non si
tratta tanto di interpretarlo, ma di cambiarlo!
Guerre valutarie e Quirinale
Per orientarsi nella battaglia che sta
per iniziare intorno al Quirinale, dobbiamo capire che c’è una novità
rispetto al passato: questa volta il Presidente, molto più che da
Montecitorio in congiunta con Palazzo Madama, scaturirà da telefonate in
congiunta fra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.
Intendiamoci: anche in passato ci sono
stati tentativi stranieri di influenzare l’elezione del Presidente e non
solo – come è facile immaginare – da parte degli americani, ma anche di
altri. Ad esempio, nel 1972, sovietici e rumeni tentarono di convincere
il Pci a votare Fanfani (il De Gaulle italiano, si diceva) per ottenere
un corso della nostra politica estera meno sdraiato sulla Nato. Ma si
trattò di poca roba e non sempre andata a segno (come il caso appena
citato dimostra). Soprattutto, si trattava di tentativi scoordinati fra
loro e senza troppo crederci. Nel complesso, in materia di Quirinale, le
dinamiche della politica interna hanno sempre prevalso sulle pressioni
internazionali, anche perché la casella più importante e tenuta d’occhio
non era il Quirinale ma Palazzo Chigi.
Questa volta è diverso, perché la globalizzazione impone dinamiche diverse
che mescolano molto più del passato il dentro ed il fuori ed, in
secondo luogo, perché il Quirinale è diventato più interessante di
Palazzo Chigi anche in ragione della stabilità settennale del primo e
della precarietà del secondo.
Partiamo in particolare da un dato: la guerra valutaria in atto.
Re dollaro non è più il re incontrastato
di un tempo, quando le incaute sfide di marco e yen venivano
rapidamente ridimensionate e ridotte ai margini. Oggi il dollaro deve
fare i conti con lo yuan renminbi cui è legato da un perverso intreccio:
il secondo si tiene volutamente sotto apprezzato per favorire le
esportazioni, ma inizia ad essere accettato come moneta di scambio
internazionale (come è accaduto da ultimo nel contratto sino-russo per
il gas e da altre intese con paesi asiatici e latino-americani). Cercare
di destabilizzarlo sarebbe non solo difficile e poco utile, ma anche
pericoloso, visto che, nella pancia della banca centrale cinese,
riposano tre mila miliardi di dollari fra banconote e T bond pronti ad
essere riversati sul Mercato, con gli effetti che è facile immaginare.
D’altro canto, anche ai cinesi non conviene tirare la corda più di
tanto, perché, se il dollaro va a fondo, quei tre milioni di miliardi
vanno in fumo e, poi, si brucia il principale mercato di sbocco delle
sue merci. Ai cinesi dà fastidio che gli americani emettano liquidità a
tutto sprint, con l’effetto di svalutare i loro stessi crediti, ma,
poi, alla fine, conviene acconciarsi in un equilibri precario, che non
esclude i colpi bassi, ma non può mai saltare del tutto.
Come terzo incomodo fra i due colossi, c’è l’Euro,
una moneta sbagliata che non dovrebbe esistere ed, invece, esiste.
Anche l’Euro qui e lì inizia ad essere accettato come moneta di scambio e
di riserva e, anche se non ha mai insidiato davvero re dollaro, resta
una sorta di minaccia permanente. Soprattutto, corre il rischio di agire
costantemente in controtendenza, finendo con il rendere molto più
precario l’equilibrio fra i primi due.
Non è un mistero che una parte degli americani vedrebbe volentieri sparire questa moneta. Non sono dello
stesso parere altri americani che, pur auspicando un ridimensionamento
“politico” di questa moneta, non ne vogliono il crollo, temendo un
effetto domino. Ma, sia che si voglia far fuori l’Euro, sia che lo si
voglia solo ridimensionare (come si fece con lo yen nel 1985), occorre
metterci le mani su ed il modo migliore è controllarne il punto debole.
E, se la Germania ne è il punto forte, l’Italia ne è il punto debole.
Grecia, Portogallo, forse Spagna, possono rappresentare malanni seri, ma
curabili, mentre l’Italia, con i suoi 2.000 e passa miliardi di
debito, rappresenta il vero rischio mortale. Ad un default italiano,
l’euro non sopravvivrebbe. Forse nascerebbe l’Euro del Nord, comunque
non ci sarebbe più l’Euro come lo conosciamo.
Ad essere sinceri, l’Italia è già un
paese tecnicamente fallito, perché il debito non è ripagabile neanche in
prospettiva assai lontana, perché la pressione fiscale indotta dal peso
degli interessi condanna la nostra economia a lenta morte per asfissia,
perché il Pil è condannato a scendere, per cui il debito è destinato a
crescere in rapporto al Pil, anche restando fermo. E c’è anche chi
pretende che troviamo altri 100 miliardi all’anno per rispettare il
patto di stabilità che prevede il dimezzamento del debito entro un certo
numero di anni: follie.
Dunque, l’Italia è un cadavere tenuto a
galla con interventi tampone di volta in volta e non si sa bene per
quanto. Ma prima o poi, è di qui che occorrerà partire per rifare
l’ordine monetario del continente.
In questo quadro, il Presidente Napolitano ha agito come sorta di garante-commissario,
diventando il vero interlocutore a livello internazionale mentre
Berlusconi, Monti, Letta, Renzi si succedevano l’uno all’altro, quattro
presidenti in tre anni (se contiamo dall’inizio del governo
Berlusconi).
Si capisce che, per il sistema
internazionale, un interlocutore stabile sia una esigenza di primaria
importanza. Ed è importante che il presidente sia “la persona giusta”,
capace di usare i “poteri silenti” previsti dalla Carta Costituzionale.
Di qui le crescenti interferenze su una questione che, in altri tempi,
sarebbe stata assai meno notata nell’agenda internazionale.
Chi lo ha capito per primo, fra i candidati, è stato Prodi
che ha iniziato una complessa manovra avvolgente proprio sul piano
internazionale, capendo che i voti necessari si possono raccogliere più
facilmente fuori che in Italia. Sarà un caso (certamente) ma dopo la
visita di Prodi a Mosca, il Cavaliere ha esplicitamente lasciato cadere
il veto su di lui dicendosi pronto a discuterne, mentre Minzolini e
Rossella hanno esplicitamente invitato Berlusconi a far sua questa
candidatura; persino la Santanchè (ho detto la Santanchè! Avete
sentito?) abbandona toni pregiudizialmente ostili e si dice pronta a
pensarci.
Sicuramente Prodi non ha problemi a
farsi appoggiare da Berlino, di cui è stato sempre tanto amico. Ed anche
da Francoforte non dovrebbe mancare la simpatia. In fondo, poi Prodi
potrà sdebitarsi con Draghi assicurandogli l’appoggio italiano per la
candidatura al Fmi. Il problema più serio è il nulla osta a stelle e
strisce. Per quanto russi, tedeschi e Bce possano essere autorevoli,
sarebbe dura spuntarla contro un veto americano. Anche perché
sicuramente lui non è il candidato naturale di Renzi, che lo vede come
il fumo negli occhi. Il fiorentino, lo abbiamo detto molte volte, non è
un genio, però capisce perfettamente che, con Prodi al Quirinale, la sua
permanenza a Palazzo Chigi potrebbe durare meno di un mese. E, per
quanto i rapporti fra Renzi e l’attuale amministrazione americana non
siano affatto splendidi, però potrebbe tornargli utilissimo attaccarsi a
quel veto ed ostentare la più schietta ortodossia atlantica, pur di
evitare che la “mortadella dal volto umano” si insedi sul Colle. Vice
versa, se ci fosse una pressione congiunta di russi, tedeschi e Bce, con
un appoggio americano anche solo tiepido, sarebbe costretto ad
accettarlo ed, anzi, a proporlo, almeno per evitare di subirlo
apertamente.
Ma gli americani che pensano di Prodi?
E’ sempre stato amico della Germania, da sette-otto anni lo è pure della
Cina, tresca con i russi, è stato ostile alla guerra del Golfo. Con
questi precedenti non dovrebbe avere speranza alcuna. Ma, in politica,
mai dire mai. Proprio in questi giorni, è uscita su “Italia Oggi” una interessante intervista
a Edward Luttwak – e il signore si che se ne intende! – il quale, ha
spiegato il perché ed il percome l’euro sia stato un clamoroso
fallimento dal quale, in qualche modo, bisogna uscire prima che sia
troppo tardi, all’intervistatore che gli ricorda come fra i primissimi
fautori dell’Euro ci sia stato tal Romano Prodi, che oggi aspira al
Colle, risponde letteralmente “Prodi è un economista provato e una
persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta
illimitata, però lui dovrebbe dire: <>>”.
Che, traducendo liberamente
dall’inglese-americano all’italiano, a noi suona così: “Prodi è stato un
nostro nemico ed un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno
dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si
intestardisce a fare il filo tedesco e a difendere l’Euro, se ne può
discutere”. O no!?
Insomma, non è detto che dal Potomac
debba necessariamente arrivare un “niet” e si capisce che, in ogni caso,
gli americani di una Pinotti, di un Veltroni, di un Franceschini non
sanno che farsene e non prendono neppure in considerazione nomi che non
abbiano una qualche caratura internazionale (non a caso nell’intervista
Luttwak non cita nessun altro aspirante al Colle). Il che non vuol dire
che i giochi siano fatti: bisogna vedere sino a che punto questa
dichiarazione corrisponda agli umori ufficiali della Casa Bianca e poi
se Prodi saprà convincere i suoi vecchi antipatizzanti. Ma ci dice che
la partita è molto più aperta di quel che si pensi e che, per ora,
l’unica candidatura in pista a livello internazionale è quella di Prodi.
Potrebbero subentrare quelle di Amato, D’Alema, Cassese o, al massimo, Gentiloni, ma per ora il nome che si fa è solo quello del Professore.
Siria - A Kobane un funerale al giorno, ma i kurdi avanzano
di Chiara Cruciati – il manifesto
A Diyarbakir e Suruc c’è grande fermento. Le due città kurde a sud della Turchia non hanno mai interrotto le attività di sostegno a Kobane, la città kurda a nord della Siria: «Ogni giorno siamo costretti a celebrare il funerale di un combattente di Kobane – dice al manifesto Murad Akincilar, direttore dell’Istituto di Ricerca Sociale e Politica di Diyarbakir – Ma la speranza è forte».
Tre mesi e mezzo di resistenza popolare hanno fatto di Kobane il simbolo della battaglia contro il fanatismo dell’Isis e gli interessi strategici dello Stato-nazione turco. La stampa mondiale ha concentrato occhi e orecchie sulla città e sul progetto di democrazia diretta di Rojava.
Dopo oltre cento giorni di combattimenti strada per strada, la fine dell’anno per le Unità di Difesa popolare maschili e femminili (Ypg e Ypj) significa speranza. Le notizie che giungono dalla città assediata dal 15 settembre dalle milizie di al-Baghdadi, una città che ha pianto centinaia di morti e ha assistito impotente alla fuga di oltre 100mila civili, raccontano dell’avanzata delle forze di difesa.
Negli ultimi giorni i kurdi hanno ottenuto altre vittorie: hanno lanciato una controffensiva sulla strategica collina di Mshta Nur con il sostegno dei peshmerga iracheni, guadagnando un centinaio di preziosi metri a sud e est. A dare man forte, nel giorno di Santo Stefano, 31 raid della coalizione guidata dagli Stati Uniti, seguiti ai 10 del giorno di Natale.
Un’avanzata lenta ma continua che ha permesso ai kurdi di Kobane di assumere il controllo del 60% del territorio, costringendo alla ritirata su più fronti i miliziani dell’Isis. A ottobre la caduta della città sembrava imminente, oggi non lo è: lo Stato Islamico si è arroccato a sud est, la linea del fronte si allontana dal centro cittadino e gli islamisti sono stati costretti a lasciare le stazioni di polizia e gli uffici governativi a nord e al centro. E venerdì i kurdi hanno ripreso il controllo della sede del comune di Kobane dopo ore di scontri a fuoco.
«L’iniziativa è nelle mani delle Ypg e delle Ypj da almeno un mese ormai e ogni giorno riceviamo buone notizie – spiega al manifesto l’attivista kurda Burcu Çiçek Sahinli da Suruc – La città è stata ripulita dalle gang dell’Isis, ogni giorno vengono riprese nuove postazioni: luoghi strategici come il Centro Culturale e alcune scuole sono tornati sotto il controllo kurdo. I miliziani dell’Isis scappano, non riescono a frenare l’offensiva di Ypg e Ypj: hanno giustiziato 100 dei loro combattenti che volevano abbandonare il campo di battaglia».
«Stanno ancora attaccando la città – continua Burcu – e gli scontri sono ancora duri, ma i kurdi sembrano sempre più vicini alla vittoria. Cinque famiglie rifugiate a Suruc sono tornate a vivere in città con i bambini piccoli».
Oltre all’Isis, la resistenza kurda è costretta a combattere un altro nemico, la Turchia. Ankara tenta da tempo di spezzare i legami tra il Kurdistan del nord e Rojava, impedendo ai combattenti del Pkk – i primi ad entrare a Kobane in sostegno alla popolazione assediata – di portare uomini e armi. Non solo: più volte i profughi kurdi a Suruc, che da tre mesi e mezzo monitorano il confine con Kobane, raccontano di scambi ripetuti tra gendarmeria turca e miliziani dell’Isis.
«La Turchia teme un Kurdistan unito e continua a sostenere apertamente lo Stato Islamico. Il 25 novembre c’è stato un nuovo caso di ‘solidarietà’: i terroristi dell’Isis hanno preso un villaggio kurdo dentro il territorio turco e sono stati autorizzati dall’esercito di Ankara a usare la comunità come base di appoggio per attacchi contro Ypg e Ypj. La scorsa settimana abbiamo visto i miliziani islamisti rubare auto in Turchia con i soldati turchi che avevano abbandonato le postazioni, lasciandoli fare».
Al sostegno militare che i kurdi imputano alla Turchia – il cui obiettivo è evitare una crescita della resistenza kurda e il possibile contagio dell’esperimento Rojava nel proprio territorio – si aggiunge il mancato supporto ai 230mila profughi di Kobane e Sinjar che hanno attraversato la frontiera per avere salva la vita. Accolti dai comuni kurdi turchi a sud in campi profughi gestiti dalle sole municipalità, con l’arrivo dell’inverno i rifugiati vivono in condizioni sempre più precarie.
«Dopo i due campi precedenti, a Suruc ne abbiamo aperto un terzo – conclude Burcu – Ma i bisogni sono ancora grandi, non tutti i campi hanno riscaldamento elettrico, mancano cibo e materiali per l’igiene personale. Le autorità turche peggiorano la situazione: feriti arrivati da Kobane sono stati arrestati, è stata detenuta anche una dottoressa volontaria. Poco importa: noi proseguiamo nelle nostre attività: abbiamo creato consigli giovanili e femminili, librerie e scuole in madre lingua kurda». Kobane resiste di qua e di là dalla frontiera.
Fonte
A Diyarbakir e Suruc c’è grande fermento. Le due città kurde a sud della Turchia non hanno mai interrotto le attività di sostegno a Kobane, la città kurda a nord della Siria: «Ogni giorno siamo costretti a celebrare il funerale di un combattente di Kobane – dice al manifesto Murad Akincilar, direttore dell’Istituto di Ricerca Sociale e Politica di Diyarbakir – Ma la speranza è forte».
Tre mesi e mezzo di resistenza popolare hanno fatto di Kobane il simbolo della battaglia contro il fanatismo dell’Isis e gli interessi strategici dello Stato-nazione turco. La stampa mondiale ha concentrato occhi e orecchie sulla città e sul progetto di democrazia diretta di Rojava.
Dopo oltre cento giorni di combattimenti strada per strada, la fine dell’anno per le Unità di Difesa popolare maschili e femminili (Ypg e Ypj) significa speranza. Le notizie che giungono dalla città assediata dal 15 settembre dalle milizie di al-Baghdadi, una città che ha pianto centinaia di morti e ha assistito impotente alla fuga di oltre 100mila civili, raccontano dell’avanzata delle forze di difesa.
Negli ultimi giorni i kurdi hanno ottenuto altre vittorie: hanno lanciato una controffensiva sulla strategica collina di Mshta Nur con il sostegno dei peshmerga iracheni, guadagnando un centinaio di preziosi metri a sud e est. A dare man forte, nel giorno di Santo Stefano, 31 raid della coalizione guidata dagli Stati Uniti, seguiti ai 10 del giorno di Natale.
Un’avanzata lenta ma continua che ha permesso ai kurdi di Kobane di assumere il controllo del 60% del territorio, costringendo alla ritirata su più fronti i miliziani dell’Isis. A ottobre la caduta della città sembrava imminente, oggi non lo è: lo Stato Islamico si è arroccato a sud est, la linea del fronte si allontana dal centro cittadino e gli islamisti sono stati costretti a lasciare le stazioni di polizia e gli uffici governativi a nord e al centro. E venerdì i kurdi hanno ripreso il controllo della sede del comune di Kobane dopo ore di scontri a fuoco.
«L’iniziativa è nelle mani delle Ypg e delle Ypj da almeno un mese ormai e ogni giorno riceviamo buone notizie – spiega al manifesto l’attivista kurda Burcu Çiçek Sahinli da Suruc – La città è stata ripulita dalle gang dell’Isis, ogni giorno vengono riprese nuove postazioni: luoghi strategici come il Centro Culturale e alcune scuole sono tornati sotto il controllo kurdo. I miliziani dell’Isis scappano, non riescono a frenare l’offensiva di Ypg e Ypj: hanno giustiziato 100 dei loro combattenti che volevano abbandonare il campo di battaglia».
«Stanno ancora attaccando la città – continua Burcu – e gli scontri sono ancora duri, ma i kurdi sembrano sempre più vicini alla vittoria. Cinque famiglie rifugiate a Suruc sono tornate a vivere in città con i bambini piccoli».
Oltre all’Isis, la resistenza kurda è costretta a combattere un altro nemico, la Turchia. Ankara tenta da tempo di spezzare i legami tra il Kurdistan del nord e Rojava, impedendo ai combattenti del Pkk – i primi ad entrare a Kobane in sostegno alla popolazione assediata – di portare uomini e armi. Non solo: più volte i profughi kurdi a Suruc, che da tre mesi e mezzo monitorano il confine con Kobane, raccontano di scambi ripetuti tra gendarmeria turca e miliziani dell’Isis.
«La Turchia teme un Kurdistan unito e continua a sostenere apertamente lo Stato Islamico. Il 25 novembre c’è stato un nuovo caso di ‘solidarietà’: i terroristi dell’Isis hanno preso un villaggio kurdo dentro il territorio turco e sono stati autorizzati dall’esercito di Ankara a usare la comunità come base di appoggio per attacchi contro Ypg e Ypj. La scorsa settimana abbiamo visto i miliziani islamisti rubare auto in Turchia con i soldati turchi che avevano abbandonato le postazioni, lasciandoli fare».
Al sostegno militare che i kurdi imputano alla Turchia – il cui obiettivo è evitare una crescita della resistenza kurda e il possibile contagio dell’esperimento Rojava nel proprio territorio – si aggiunge il mancato supporto ai 230mila profughi di Kobane e Sinjar che hanno attraversato la frontiera per avere salva la vita. Accolti dai comuni kurdi turchi a sud in campi profughi gestiti dalle sole municipalità, con l’arrivo dell’inverno i rifugiati vivono in condizioni sempre più precarie.
«Dopo i due campi precedenti, a Suruc ne abbiamo aperto un terzo – conclude Burcu – Ma i bisogni sono ancora grandi, non tutti i campi hanno riscaldamento elettrico, mancano cibo e materiali per l’igiene personale. Le autorità turche peggiorano la situazione: feriti arrivati da Kobane sono stati arrestati, è stata detenuta anche una dottoressa volontaria. Poco importa: noi proseguiamo nelle nostre attività: abbiamo creato consigli giovanili e femminili, librerie e scuole in madre lingua kurda». Kobane resiste di qua e di là dalla frontiera.
Fonte
Unione Europea. Parole "riformatrici" e scenari di disgregazione
È l'ora delle “riforme dei trattati” che reggono l'Unione Europea. Dopo sei anni passati a difendere “austeramente” le regole scritte ai tempi di Maastricht (quando le economie nazionali “tiravano” e l'inflazione era ancora un problema per alcuni paesi), nel pieno di una crisi da cui nessuno sa come uscire, mentre un paese membro come la Grecia è di nuovo sull'orlo del baratro dopo essersi suicidato obbedendo – pur tra grandi resistenze popolari e sindacali – agli ordini della Troika... ecco che i sommi criminali che reggono la baracca cominciano ad ammettere che “così non va”. E quindi bisognerà cambiare qualcosa.
Prima che tiriate un sospiro di sollievo, vi consigliamo di abbandonare ogni illusione. Quando costoro parlano di “riformare” qualcosa stanno ceratamene meditando: un nostro peggioramento nelle condizioni di vita, nei livelli salariali, nei poteri democratici.
Ma qualcosa devono cambiare. Giusto per capire che aria tira, il primo capitolo che verrà aperto riguarda ancora una volta le banche, e quindi il baricentro del sistema bancario europeo: la Bce. Si sono accorti, questi criminali che passano per super-esperti, che l'Unione bancaria varata appena due anni fa ha un difetto strutturale piuttosto serio. In pratica, affidare alla Bce la sorveglianza sulle banche private comunitarie configura un possibile “conflitto di interessi”, visto che la stessa Bce deve decidere su tassi di interesse, prestiti, acquisti di titoli (privati e di stato), ecc. Quindi si comincia a parlare di istituire un'altra “autorità indipendente” – sia mai detto che ci sia un potere autorizzato a mettere il naso nelle banche dipendente dalla “volontà popolare”, cui pure si plaude quando c'è da destabilizzare paesi fuori del recinto – incaricata di questa specifica bisogna.
Ma il cuore della partita sulle “regole” si giocherà ancora una volta intorno alla Grecia, martoriato paese condannato a fare da cavia. Troppo piccolo per far crollare l'Unione Europea in caso di fallimento procurato, ma anche abbastanza grande da fornire test attendibili sul grado di sopportazione popolare e sulle dinamiche politiche interne scatenate dalle misure in stile Troika, Atene va alle elezioni anticipate con un carico “sperimentale” molto superiore alle sue possibilità di controllo.
Al centro c'è il “pericolo Syriza”, sottoposta contemporaneamente a una campagna elettorale europea di taglio “terroristico” e a trattative semi-formali per neutralizzarne l'eventuale vittoria. Evento peraltro per nulla facile, se per vittoria bisogna intendere la formazione di un governo e dunque una maggioranza parlamentare che i sondaggi per ora escludono.
Ma il “laboratorio greco” è importante anche al di là delle intenzioni della coalizione che governerà il paese dopo il 25 gennaio. I mercati finanziari stanno attendendo con crescente impazienza l'uso del “bazooka” promesso da Mario Draghi ormai oltre due anni fa. Si tratta della grande “immissione di liquidità” fatta di acquisti di titoli di Stato – per ora si è limitata a prestiti alle banche, oltre ad acquisti mirati di titoli-spazzatura privati – la cui componente principale dovrebbe riguardare proprio i bond italiani, spagnoli, portoghesi e naturalmente greci.
Qui, come noto, Bundesbank (e Merkel e Shaeuble) punta i piedi, temendo di dover coprire con soldi dei contribuenti tedeschi eventuali perdite della Bce. Se uno di quei paesi fallisce, automaticamente i titoli di stato messi in cassaforte diventano carta straccia. Ma anche se davvero Syriza riuscisse a formare un governo e mantenesse poi l'intenzione di “ricontrattare il debito”, puntando a un consistente taglio delle cifre da restituire, i conti della Bce subirebbero un certo scossone.
Non è finita. Qualsiasi governo Atene si dia, il problema resta aperto. Perché può benissimo trovarsi nella condizione di non riuscire a pagare neanche obbedendo agli ultimi ordini della Troika (allungamento ulteriore dell'età pensionabile, ulteriori privatizzazioni, ecc). A quel punto “i mercati” taglierebbero i rifornimenti (la Grecia si troverebbe di nuovo a non poter rifinanziare il proprio debito) e la “paurosa” eventualità di una uscita di Atene dall'euro sarebbe quasi una conseguenza obbligata, anche se non voluta.
Con questa incertezza sul futuro a breve, dunque, le pressioni tedesche per “immobilizzare” Draghi si fanno più intense. Così come il vuoto chiacchiericcio su “riforme dei trattati”, su cui nessuno azzarda né previsioni né tantomeno ipotesi. Qualsiasi modifica dello status quo, infatti, comporta perdite di posizione per alcuni e migliore posizionamento per altri, con inevitabile contorno di trattative lunghissime, oscurissime, fatali per paesi – come l'italietta renziana – la cui unica idea di sviluppo consiste nell'offrirsi nudi e indifesi agli “investimenti stranieri” (proprio come l'Albania, “tasse basse e niente sindacati”).
Ma “cambiare si deve”. Se n'è convinto anche il presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, che ha provato a indicare la direzione con una intervista a Repubblica, nei giorni scorsi: la Bce potrebbe acquistare titoli di Stato soltanto se il “rischio di insolvenza” resta a carico delle banche centrali nazionali, non di quella comunitaria. Sembra un compromesso, in realtà prefigura – nemmeno nascondendolo troppo – una separazione dei destini. Senza “mutua assicurazione”, senza condivisione dei rischi, infatti, non può esistere alla lunga nessuna comunità sovranazionale. Tantomeno se erogatrice di regole strangolatrici come l'attuale Unione Europea.
La Germania sta dunque accarezzando l'idea di un'Unione più arcigna con i deboli e contemporaneamente rassicurante con i forti (“solo vantaggi, niente rischi”). Oppure ognuno per sé. Alla faccia dell'”europeismo” come valore assoluto...
Fonte
Prima che tiriate un sospiro di sollievo, vi consigliamo di abbandonare ogni illusione. Quando costoro parlano di “riformare” qualcosa stanno ceratamene meditando: un nostro peggioramento nelle condizioni di vita, nei livelli salariali, nei poteri democratici.
Ma qualcosa devono cambiare. Giusto per capire che aria tira, il primo capitolo che verrà aperto riguarda ancora una volta le banche, e quindi il baricentro del sistema bancario europeo: la Bce. Si sono accorti, questi criminali che passano per super-esperti, che l'Unione bancaria varata appena due anni fa ha un difetto strutturale piuttosto serio. In pratica, affidare alla Bce la sorveglianza sulle banche private comunitarie configura un possibile “conflitto di interessi”, visto che la stessa Bce deve decidere su tassi di interesse, prestiti, acquisti di titoli (privati e di stato), ecc. Quindi si comincia a parlare di istituire un'altra “autorità indipendente” – sia mai detto che ci sia un potere autorizzato a mettere il naso nelle banche dipendente dalla “volontà popolare”, cui pure si plaude quando c'è da destabilizzare paesi fuori del recinto – incaricata di questa specifica bisogna.
Ma il cuore della partita sulle “regole” si giocherà ancora una volta intorno alla Grecia, martoriato paese condannato a fare da cavia. Troppo piccolo per far crollare l'Unione Europea in caso di fallimento procurato, ma anche abbastanza grande da fornire test attendibili sul grado di sopportazione popolare e sulle dinamiche politiche interne scatenate dalle misure in stile Troika, Atene va alle elezioni anticipate con un carico “sperimentale” molto superiore alle sue possibilità di controllo.
Al centro c'è il “pericolo Syriza”, sottoposta contemporaneamente a una campagna elettorale europea di taglio “terroristico” e a trattative semi-formali per neutralizzarne l'eventuale vittoria. Evento peraltro per nulla facile, se per vittoria bisogna intendere la formazione di un governo e dunque una maggioranza parlamentare che i sondaggi per ora escludono.
Ma il “laboratorio greco” è importante anche al di là delle intenzioni della coalizione che governerà il paese dopo il 25 gennaio. I mercati finanziari stanno attendendo con crescente impazienza l'uso del “bazooka” promesso da Mario Draghi ormai oltre due anni fa. Si tratta della grande “immissione di liquidità” fatta di acquisti di titoli di Stato – per ora si è limitata a prestiti alle banche, oltre ad acquisti mirati di titoli-spazzatura privati – la cui componente principale dovrebbe riguardare proprio i bond italiani, spagnoli, portoghesi e naturalmente greci.
Qui, come noto, Bundesbank (e Merkel e Shaeuble) punta i piedi, temendo di dover coprire con soldi dei contribuenti tedeschi eventuali perdite della Bce. Se uno di quei paesi fallisce, automaticamente i titoli di stato messi in cassaforte diventano carta straccia. Ma anche se davvero Syriza riuscisse a formare un governo e mantenesse poi l'intenzione di “ricontrattare il debito”, puntando a un consistente taglio delle cifre da restituire, i conti della Bce subirebbero un certo scossone.
Non è finita. Qualsiasi governo Atene si dia, il problema resta aperto. Perché può benissimo trovarsi nella condizione di non riuscire a pagare neanche obbedendo agli ultimi ordini della Troika (allungamento ulteriore dell'età pensionabile, ulteriori privatizzazioni, ecc). A quel punto “i mercati” taglierebbero i rifornimenti (la Grecia si troverebbe di nuovo a non poter rifinanziare il proprio debito) e la “paurosa” eventualità di una uscita di Atene dall'euro sarebbe quasi una conseguenza obbligata, anche se non voluta.
Con questa incertezza sul futuro a breve, dunque, le pressioni tedesche per “immobilizzare” Draghi si fanno più intense. Così come il vuoto chiacchiericcio su “riforme dei trattati”, su cui nessuno azzarda né previsioni né tantomeno ipotesi. Qualsiasi modifica dello status quo, infatti, comporta perdite di posizione per alcuni e migliore posizionamento per altri, con inevitabile contorno di trattative lunghissime, oscurissime, fatali per paesi – come l'italietta renziana – la cui unica idea di sviluppo consiste nell'offrirsi nudi e indifesi agli “investimenti stranieri” (proprio come l'Albania, “tasse basse e niente sindacati”).
Ma “cambiare si deve”. Se n'è convinto anche il presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, che ha provato a indicare la direzione con una intervista a Repubblica, nei giorni scorsi: la Bce potrebbe acquistare titoli di Stato soltanto se il “rischio di insolvenza” resta a carico delle banche centrali nazionali, non di quella comunitaria. Sembra un compromesso, in realtà prefigura – nemmeno nascondendolo troppo – una separazione dei destini. Senza “mutua assicurazione”, senza condivisione dei rischi, infatti, non può esistere alla lunga nessuna comunità sovranazionale. Tantomeno se erogatrice di regole strangolatrici come l'attuale Unione Europea.
La Germania sta dunque accarezzando l'idea di un'Unione più arcigna con i deboli e contemporaneamente rassicurante con i forti (“solo vantaggi, niente rischi”). Oppure ognuno per sé. Alla faccia dell'”europeismo” come valore assoluto...
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L'hacker di Interview? Un ex della Sony
Non avrà mai l'importanza della "boccetta" agitata da uno spiritato Colin Powell davanti all'assemblea plenaria dell'Onu, per strappare un consenso all'invasione dell'Iraq, ma anche la storiella del "cyber-terrorismo della Corea del Nord" contro il sito della Sony - "colpevole" di aver prodotto e diffuso Interview, un filmetto molto visto e ancor più criticato dagli spettatori - resterà negli annali come esempio di quanto la menzogna sistematica sia ormai uno dei principali strumenti di governo. A livello globale e/o nazionale.
Non che non ci fossero state perplessità "forti" sulla capacità del regime nordcoreano di attaccare informaticamente i siti di un colosso come la Sony e altri collegati. Ma "tutto può essere", nel mondo dei servizi segreti e delle guerre non convenzionali. Ora la certezza che i coreani di Pyonyang non c'entrano nulla, mentre i sospetti si concentrano su un semplice ex dipendente dello zaibatsu giapponese, desideroso di vendetta per qualche sgarbo o licenziamento.
Una bella differenza, non c'è che dire. Ma i giornali occidentali hanno forse cambiato tono? Macché... Nuova sceneggiatura, nuova narrazione e via, come se nulla fosse. Del resto, l'unica dittatura davvero intollerabile è quella dell'avversario, no?
La spiegazione razionale e corroborata da evidenze è arrivata dai ricercatori dell’azienda di cyber-intelligence Norse. A forza di computare dati e tracce informatiche, il cerchio dei sospetti si è ridotto a sei persone. Nessuno dei quali con domicilio oltre cortina di bambù. Lavorando poi sulle competenze tecniche necessarie a portare un attacco del genere si arriva rapidamente a uno, massimo due, anche se magari per l'occasione si potrebbe essere costituita una "posse" tra ex dipendenti Sony con esperienze negative simili. Si punta infatti su un gruppo di licenziati nel mese di maggio di quest'anno.
Chi ne dovrebbe uscire mediaticamente massacrato è però il governo statunitense, che aveva messo la faccia sulla responsabilizzazione della Corea del Nord, con Obama impegnatissimo a recitare la parte della "libertà di espressione". Pensate che qualcuno stia rimproverando al "commande in chief" la figuraccia rimediata a livello globale? Nessuno, tra i media importanti. E dire che non si tratta di figuracce che aiutino la credibilità internazionale degli Stati Uniti...
Il gruppo di hacker autori dell'attacco avevano probabilmente fatto conto esplicito sul fatto che l'amministrazione Usa avrebbe colto al volo l'occasione per esercitare "pressione" contro la Corea del Nord (nel film si sbeffeggia senza mezzi termini il terzo Kim della dinastia al potere). Si erano infatti anche dati un nome - i “Guardiani della pace” - che doveva far pensare a misteriosi "pontieri" tra culture e dittature diverse. Fino a minacciare "attacchi a i cinema" che avessero osato proiettare il film.
Persino l’Fbi ne esce svergognata: aveva infatti stabilito "con assoluta certezza" che il codice del malware usato dagli hacker per attaccare la Sony è del tutto simile a quelli usati dalla Corea del Nord. Alcuni informatici, però avevano ben presto spiegato che un codice così "vecchio" (anche temporalmente") non avrebbe mai potuto superare nessuno dei livelli di sicurezza moderni.
Volete ridere? L’Fbi resta ferma sulla sua posizione. Non sapendo scegliere cosa sia più ridicolo, se ammettere la falsificazione o proseguirla, contando sulla "memoria corta" della cosiddetta opinione pubblica occidentale. Ammaestrati da media falsari al limite dell'arma impropria.
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Non che non ci fossero state perplessità "forti" sulla capacità del regime nordcoreano di attaccare informaticamente i siti di un colosso come la Sony e altri collegati. Ma "tutto può essere", nel mondo dei servizi segreti e delle guerre non convenzionali. Ora la certezza che i coreani di Pyonyang non c'entrano nulla, mentre i sospetti si concentrano su un semplice ex dipendente dello zaibatsu giapponese, desideroso di vendetta per qualche sgarbo o licenziamento.
Una bella differenza, non c'è che dire. Ma i giornali occidentali hanno forse cambiato tono? Macché... Nuova sceneggiatura, nuova narrazione e via, come se nulla fosse. Del resto, l'unica dittatura davvero intollerabile è quella dell'avversario, no?
La spiegazione razionale e corroborata da evidenze è arrivata dai ricercatori dell’azienda di cyber-intelligence Norse. A forza di computare dati e tracce informatiche, il cerchio dei sospetti si è ridotto a sei persone. Nessuno dei quali con domicilio oltre cortina di bambù. Lavorando poi sulle competenze tecniche necessarie a portare un attacco del genere si arriva rapidamente a uno, massimo due, anche se magari per l'occasione si potrebbe essere costituita una "posse" tra ex dipendenti Sony con esperienze negative simili. Si punta infatti su un gruppo di licenziati nel mese di maggio di quest'anno.
Chi ne dovrebbe uscire mediaticamente massacrato è però il governo statunitense, che aveva messo la faccia sulla responsabilizzazione della Corea del Nord, con Obama impegnatissimo a recitare la parte della "libertà di espressione". Pensate che qualcuno stia rimproverando al "commande in chief" la figuraccia rimediata a livello globale? Nessuno, tra i media importanti. E dire che non si tratta di figuracce che aiutino la credibilità internazionale degli Stati Uniti...
Il gruppo di hacker autori dell'attacco avevano probabilmente fatto conto esplicito sul fatto che l'amministrazione Usa avrebbe colto al volo l'occasione per esercitare "pressione" contro la Corea del Nord (nel film si sbeffeggia senza mezzi termini il terzo Kim della dinastia al potere). Si erano infatti anche dati un nome - i “Guardiani della pace” - che doveva far pensare a misteriosi "pontieri" tra culture e dittature diverse. Fino a minacciare "attacchi a i cinema" che avessero osato proiettare il film.
Persino l’Fbi ne esce svergognata: aveva infatti stabilito "con assoluta certezza" che il codice del malware usato dagli hacker per attaccare la Sony è del tutto simile a quelli usati dalla Corea del Nord. Alcuni informatici, però avevano ben presto spiegato che un codice così "vecchio" (anche temporalmente") non avrebbe mai potuto superare nessuno dei livelli di sicurezza moderni.
Volete ridere? L’Fbi resta ferma sulla sua posizione. Non sapendo scegliere cosa sia più ridicolo, se ammettere la falsificazione o proseguirla, contando sulla "memoria corta" della cosiddetta opinione pubblica occidentale. Ammaestrati da media falsari al limite dell'arma impropria.
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Renzi, quale immagine per il 2015?
Nell’ultimo sondaggio disponibile sul presidente del consiglio (Euromedia, 23 dicembre) si può notare un calo della popolarità di Renzi del dieci per cento, dal 53 al 43, in soli cinque mesi.
Si tratta di una stima significativa in quanto proviene dal mainstream,
Euromedia lavora per Ballarò, e del tipo che difenderebbe Renzi anche
in caso di necessità di deportazione di un po’ di popolazione in Albania
per abbassare il rapporto deficit-pil.
redazione, 31 dicembre 2014
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Entrando nel dettaglio del calo della
popolarità di Renzi troviamo, nel campione analizzato da Euromedia, un
31 per cento che definisce il presidente del consiglio un “affabulatore”, un 15,8 che lo considera solo “uno scaltro opportunista” e non manca un undici e passa per cento che lo rappresenta semplicemente come un “incapace”.
Il 67 per cento del campione ritiene poi che Renzi non abbia rispettato
le promesse fatte. Dato che va considerato sovrapponibile a quello del
72 per cento degli intervistati che si dice preoccupato per la propria
situazione economica. Visto che Renzi era stato presentato, attraverso
un marketing non originale ma pervasivo, come la carta matta in grado di
invertire il declino economico del paese i risultati sono
significativi. Tanto più in un sondaggio per un canale nettamente
schierato a favore del premier. Se confrontiamo questi dati con i
sondaggi Demos, di due giorni precedenti a quanto pubblicato da
Euromedia, si nota però un altro passaggio. Ovvero come al calo di
popolarità di Renzi, registrato anche da Demos, corrisponda una
erosione, ma non un crollo, delle intenzioni di voto verso il PD. Demos
stima infatti un crollo di 24 punti nel gradimento del presidente del
consiglio (da 74 % di giugno al 50 per cento di dicembre) ma un calo di
soli tre punti dal risultato elettorale del maggio 2014 ad oggi.
Ma perché Renzi cala, anche vistosamente, e il PD tiene?
Di qui quattro considerazioni
- E’ da escludere che il PD prenda voti NONOSTANTE Renzi.
Non solo per la forte personalizzazione del rapporto tra segretario e
partito. Ma anche perché, negli studi sui flussi elettorali delle
europee, è stato dimostrato come proprio il fattore Renzi abbia inciso
per attirare voti di centrodestra verso il PD. O per galvanizzare
l’elettorato deluso del centrosinistra.
- Bisogna considerare, come scriveva Le
Bon, che questi aggregati collettivi non pensano secondo una logica
consequenziale ma per immagini non sempre collegate tra loro. Per cui se l’immagine di Renzi premier è logorata non è affatto detto che lo sia quella di Renzi legata al PD. Anzi quest’ultima oggi sembra ancora dinamica e produce senso di successo.
- Finora la delusione verso il presidente del consiglio ha, come abbiamo visto, aumentato soprattutto i tassi di astensionismo. Favorendo, astuzia della storia della piccola politica, proprio il Pd. Come in Emilia-Romagna.
- Naturalmente l’immagine logorata del premier può anche arrivare in tempi brevi a logorare quella del candidato Pd.
Quali possono essere i fattori in grado di accelerare un processo di
logoramento i cui tempi sono fondamentali per decidere o meno della vita
del Pd?
Elenchiamo tre fattori diversi tra loro
ma, allo stesso tempo, sovrapponibili secondo come si potranno disporre
gli eventi dei prossimi mesi. Dimentichiamo che la Cgil, almeno con l’attuale dirigenza, sia in grado di mettere davvero in difficoltà questo governo.
Gli scioperi insapori e indolori che si prevedono, dopo la serie di
decreti attuativi sull’abolizione dell’articolo 18, servono per
garantire, finché tiene, il funzionamento interno dell’organizzazione.
O, al massimo, per tenere sul piano simbolico ed identitario. La Cgil
non è strutturata, neanche se lo volesse, per una conflittualità estesa e
vincente. I fattori possibili di logoramento di Renzi, come vediamo, sono altri:
- Esplosione di una delle tante bolle finanziarie che vagano per il pianeta.
Se le banche centrali non governano il fenomeno può accadere anche già
nel 2015. Il riflesso verso l’Italia sarebbe ovviamente enorme, anche se
forse non di immediato impatto politico (le bolle del ’98 non hanno
inciso subito sul panorama politico, ma nel 2001, e quella del 2008 ha
sinistrato il centrodestra solo dopo l’esplosione del debito sovrano del
2011). A questo punto però temi e linguaggi definiti come populisti dal
mainstream potrebbero prendere il sopravvento. Renzi, che è bravo a
cavalcare questi linguaggi potrebbe non farlo con la consueta abilità. E
di fronte a un momento drammatico. Perché dovrebbe tutelare interessi
che richiedono altri tipi di mosse e di linguaggio. Se fosse così per
l’immagine di Renzi sarebbero grossi problemi. E quindi per il PD che,
senza il tubo di ossigeno renziano, si troverebbe senza personaggi in
grado di attirare consenso.
- Il fattore Salvini. A
prescindere dalla situazione economica e finanziaria internazionale,
che resterà grave almeno per tutto il prossimo anno, il fattore Salvini
sta prendendo piede nel paese. Nel senso del simbolico (per adesso) di
una soluzione di destra, populista, securitaria, forcaiola e liberista,
ma neopaternalista nella concezione dello stato sociale, con tanto di
simulacro comunitario. In fondo la crescita di Salvini non dispiace a
Renzi che ritiene di giocarsi la partita del potere in uno scontro
liberal vs. populismo che lo vedrebbe, secondo l’immagine che i guru di
Renzi hanno del paese, vincente. Il punto è che, mai successo, nei
sondaggi la Lega ha raggiunto Forza Italia. E che Salvini sta crescendo
in intenzioni di voto proprio in aree dove il Pd è forte (Nord Ovest e
centro). Siccome quando si è forti al nord un alleato al sud lo si trova
sempre, la storia del centrodestra è lì a testimoniarlo, il fattore
Salvini può logorare davvero l’immagine di Renzi. Rivelandosi, invece
che il miglior avversario possibile, quello che ti attira consensi da
ogni dove per fare fronte democratico, magari il più scomodo dei
competitori.
- Il fattore Grecia. Se
è vero che la Cgil può far poca paura a Renzi diversamente, scherzi
della globalizzazione, può avvenire per la Grecia. E’ ovvio che se
Tsipras prende il potere gli effetti in Europa si faranno sentire. Si
tratta, dal punto di vista dell’immagine, di un leader più giovane di
Renzi e più di sinistra. Promuove politiche verso le quali il governo
Renzi, a meno di non voler cambiare completamente pelle, non potrà che
entrare in rotta di collisione. Più Tsipras, e magari con lui la
questione spagnola con Podemos, è destinato a dettare l’agenda europea, e
quindi italiana, dei prossimi mesi, più Renzi è destinato a sciogliersi
di fronte alla sua immagine. Perché perderebbe in dinamicità e
progressismo: due fattori che, grazie ad equivoci tipici
dell’immaginario di massa, Renzi possiede secondo l’elettorato di
centrosinistra. Non potendosi allontanare più di tanto sia dalla
Germania sia, soprattutto, dalla Bce, Renzi è destinato ad apparire come
è: un residuo reaganiano richiamato a nuova vita dalla necessità di
avere una immagine dinamica da parte del mainstream. Più Tsipras
diventerà popolare anche in Italia, giocoforza anche solo per i problemi
che comporterà al mainstream europeo, più Renzi ne risentirà. In caso
di bluff o di fallimento Syriza in Grecia, si capisce, il danno sarà
quindi anche per la sinistra italiana.
Inoltre, Renzi non ha tanto
bisogno di azzeccare il candidato per il quirinale, quella è roba che
serve per gli equilibri di potere interni al ceto politico, ma di
trovare una emergenza, un evento, un dramma che lo facciano emergere
come leader. Visto che dall’economia non uscirà un granché nel
prossimo anno (salvo magari un più zero virgola di Pil che sui media
sarà venduto come boom economico). Se troverà un evento grosso da cavalcare, con tanto di scenografia appropriata, allora potrà frenare
il calo di consensi. C’è da sperare che non accada ma sarebbe opportuno
anche fare qualcosa per contribuire a deteriorare velocemente l’immagine
di Renzi. Questo si che sarebbe un atto politico.
Intanto, tra tweet e disillusione,
conferenze stampa a reti unificate e astensione, il governo Renzi va.
Pieno di guerre tra bande, scossoni e trame come nella prima repubblica.
Raccontando di svolte copernicane, linguaggio politicamente liso e
vecchio di almeno trent’anni, di concretezza, di fare, di innovazioni
che esistono solo per le redazioni amiche.
redazione, 31 dicembre 2014
Fonte
Caccia italiani nel Baltico per operazioni Nato anti-Russia
Il 27 dicembre quattro caccia multiruolo Eurofighter “Typhoon” dell’Aeronautica militare italiana sono giunti nella base lituana di Siauliai per partecipare alla Baltic Air Patrol (BAP), l’operazione Nato di “pattugliamento” e “vigilanza” dei cieli del Baltico e di “difesa” aerea di Estonia, Lettonia e Lituania, partner orientali dell’Alleanza atlantica. I caccia, gli equipaggi e il personale impegnati nella missione che durerà sino all’aprile 2015 provengono dal 4° Stormo dell’Aeronautica di Grosseto, dal 36° Stormo di Gioia del Colle (Bari) e dal 37° Stormo di Trapani-Birgi.
L’Italia assumerà il comando della BAP con i “Typhoon” a partire dal 1° gennaio 2015. Alla missione Nato parteciperanno anche quattro caccia Mig-29 delle forme armate polacche schierati anch’essi a Siauliai, quattro “Typhoon” spagnoli di base nell’aeroporto militare di Amari (Estonia), quattro cacciabombardieri belgi F-16 a Malbork (Polonia) e altri quattro velivoli d’attacco britannici attesi nel Baltico a gennaio. I caccia sostituiranno i 16 velivoli che erano stati assegnati sino ad oggi dal Comando Nato alla Baltic Air Patrol (caccia “Eurofighter” tedeschi, F-18 canadesi, F-16 olandesi e portoghesi).
L’Eurofigter “Typhoon” in dotazione all’Aeronautica italiana è un caccia di ultima generazione con ruolo primario di “superiorità aerea” e intercettore. Con una lunghezza di 16 metri e un’apertura alare di 11, il guerriero europeo può raggiungere la velocità massima di 2 mach (2.456 Km/h) e un’autonomia di volo di 3.700 km. Il velivolo è armato di micidiali strumenti bellici: cannoni Mauser da 27 mm; bombe a caduta libera Paveway e Mk 82, 83 e 84 da 500 a 2.000 libbre e a guida GPS JDAM; missili aria-aria, aria-superficie e antinave a guida radar e infrarossa. Con tutta probabilità, il ciclo operativo nei cieli del Baltico consentirà ai caccia italiani di testare sul campo anche il nuovo missile da crociera MBDA “Storm Shadow”, con oltre 500 chilometri di raggio d’azione, la cui integrazione come sistema d’arma del “Typhoon” è stata avviata nei mesi scorsi da Alenia-Aermacchi (Finmeccanica) nel poligono di Salto di Quirra, in Sardegna. Gli “Storm Shadow” erano stati impiegati finora solo dai cacciabombardieri “Tornado” nelle operazioni di guerra in Iraq e in Libia nel 2011.
La Nato garantisce le attività di “sicurezza” dei cieli delle Repubbliche baltiche dall’aprile 2004, sulla base di un accordo collettivo firmato con i governi di Estonia, Lettonia e Lituania. Nel 2010 Bruxelles ha deciso di prorogare le missioni di pattugliamento aereo sino alla fine del 2014, ma le Repubbliche baltiche hanno ottenuto un’ulteriore estensione della BAP sino al dicembre 2018, con la speranza tuttavia che essa ottenga alla fine lo status di “missione permanente della Nato”.
Ad oggi, solo 14 paesi dell’Alleanza Atlantica hanno partecipato alla Baltic Air Patrol. Con l’arrivo dei caccia di Spagna e Italia per il 37° ciclo operativo 2015, il numero degli alleati Nato raggiunge quota 16, a cui si aggiungerà presto pure l’Ungheria con i cacciabombardieri Saab “Gripen”. La grave crisi in Ucraina e l’allarme causato dalla presunta escalation delle attività dei caccia russi sul Mar Baltico, ha convinto Bruxelles a potenziare progressivamente il numero dei velivoli coinvolti nel pattugliamento del fronte orientale dell’Alleanza: dal maggio 2014 i caccia assegnati a BAP sono aumentati da quattro a sedici, mentre sempre a Siauliai sono stati trasferiti anche sei caccia F-15 ed un aerocisterna KC-135 dell’US Air Force.
La partecipazione dell’Aeronautica militare italiana alla Baltic Air Patrol era stata preparata da una missione ispettiva a Kaunas (Lituania) - luglio 2013 - di una delegazione guidata dal Capo del 3° Reparto dello Stato maggiore, gen. Gianni Candotti. I militari italiani si recarono successivamente nelle basi aeree di Siauliai ed Amari, per concordare con le aeronautiche di Lituania ed Estonia l’organizzazione nel 2014 di un mini deployment addestrativo con velivoli Eurofigther “per testare la risposta del sistema d’arma ai climi freddi”. Il tour italiano nel Baltico servì pure a rafforzare la partnership nel settore industriale-militare. Alla Lithuanian Air Force, tra il 2006 al 2008, Alenia Aeronautica (Finmeccanica) aveva consegnato tre velivoli da trasporto tattico C27J “Spartan”. “Il Comandante dell’Aeronautica lituana, gen. Edvardas Mazeikis, ha espresso il proprio apprezzamento per le capacità conseguite con questi velivoli di produzione italiana”, riportò una nota del Ministero della difesa, a conclusione della missione ispettiva nel Baltico. “Proprio tale capacità offre un’importante possibilità di concreta cooperazione, nell’immediato, nel settore dell’addestramento dei piloti lituani presso il National Training Center di Pisa ed, in prospettiva, per la condivisione di esperienze operative e manutentive”. Nell’autunno del 2012, un’altra azienda del gruppo Finmeccanica, Selex Sistemi Integrati, aveva fornito il sistema di gestione del combattimento (CMS) “Athena” e le centrali di tiro “Medusa” MK4/B per i nuovi pattugliatori della classe “Flyvefisken” della Marina militare lituana.
Con la partecipazione alla Baltic Air Patrol, l’Aeronautica militare vede crescere ulteriormente il proprio ruolo a livello internazionale. Attualmente i caccia italiani sono impegnati pure nel pattugliamento dei cieli dell’Islanda (a rotazione con altri partner Nato), della Slovenia e dell’Albania. Si tratta di un impegno finanziario assai oneroso che nessun partner europeo della Nato ha finora voluto assumersi. L’Aeronautica è impegnata pure nelle operazioni di guerra contro l’Isis, grazie a un velivolo per il rifornimento in volo KC-767, due aerei senza pilota “Predator A” e quattro cacciabombardieri “Tornado”, schierati in Kuwait e Iraq. Da Gibuti, in Corno d’Africa, decollano quotidianamente due droni “Predator” del 32° Stormo di Amendola (Foggia), contribuendo alle operazioni Ue e Nato contro la pirateria e di quelle delle forze armate somale contro le milizie islamico radicali Al Shabab.
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L’Italia assumerà il comando della BAP con i “Typhoon” a partire dal 1° gennaio 2015. Alla missione Nato parteciperanno anche quattro caccia Mig-29 delle forme armate polacche schierati anch’essi a Siauliai, quattro “Typhoon” spagnoli di base nell’aeroporto militare di Amari (Estonia), quattro cacciabombardieri belgi F-16 a Malbork (Polonia) e altri quattro velivoli d’attacco britannici attesi nel Baltico a gennaio. I caccia sostituiranno i 16 velivoli che erano stati assegnati sino ad oggi dal Comando Nato alla Baltic Air Patrol (caccia “Eurofighter” tedeschi, F-18 canadesi, F-16 olandesi e portoghesi).
L’Eurofigter “Typhoon” in dotazione all’Aeronautica italiana è un caccia di ultima generazione con ruolo primario di “superiorità aerea” e intercettore. Con una lunghezza di 16 metri e un’apertura alare di 11, il guerriero europeo può raggiungere la velocità massima di 2 mach (2.456 Km/h) e un’autonomia di volo di 3.700 km. Il velivolo è armato di micidiali strumenti bellici: cannoni Mauser da 27 mm; bombe a caduta libera Paveway e Mk 82, 83 e 84 da 500 a 2.000 libbre e a guida GPS JDAM; missili aria-aria, aria-superficie e antinave a guida radar e infrarossa. Con tutta probabilità, il ciclo operativo nei cieli del Baltico consentirà ai caccia italiani di testare sul campo anche il nuovo missile da crociera MBDA “Storm Shadow”, con oltre 500 chilometri di raggio d’azione, la cui integrazione come sistema d’arma del “Typhoon” è stata avviata nei mesi scorsi da Alenia-Aermacchi (Finmeccanica) nel poligono di Salto di Quirra, in Sardegna. Gli “Storm Shadow” erano stati impiegati finora solo dai cacciabombardieri “Tornado” nelle operazioni di guerra in Iraq e in Libia nel 2011.
La Nato garantisce le attività di “sicurezza” dei cieli delle Repubbliche baltiche dall’aprile 2004, sulla base di un accordo collettivo firmato con i governi di Estonia, Lettonia e Lituania. Nel 2010 Bruxelles ha deciso di prorogare le missioni di pattugliamento aereo sino alla fine del 2014, ma le Repubbliche baltiche hanno ottenuto un’ulteriore estensione della BAP sino al dicembre 2018, con la speranza tuttavia che essa ottenga alla fine lo status di “missione permanente della Nato”.
Ad oggi, solo 14 paesi dell’Alleanza Atlantica hanno partecipato alla Baltic Air Patrol. Con l’arrivo dei caccia di Spagna e Italia per il 37° ciclo operativo 2015, il numero degli alleati Nato raggiunge quota 16, a cui si aggiungerà presto pure l’Ungheria con i cacciabombardieri Saab “Gripen”. La grave crisi in Ucraina e l’allarme causato dalla presunta escalation delle attività dei caccia russi sul Mar Baltico, ha convinto Bruxelles a potenziare progressivamente il numero dei velivoli coinvolti nel pattugliamento del fronte orientale dell’Alleanza: dal maggio 2014 i caccia assegnati a BAP sono aumentati da quattro a sedici, mentre sempre a Siauliai sono stati trasferiti anche sei caccia F-15 ed un aerocisterna KC-135 dell’US Air Force.
La partecipazione dell’Aeronautica militare italiana alla Baltic Air Patrol era stata preparata da una missione ispettiva a Kaunas (Lituania) - luglio 2013 - di una delegazione guidata dal Capo del 3° Reparto dello Stato maggiore, gen. Gianni Candotti. I militari italiani si recarono successivamente nelle basi aeree di Siauliai ed Amari, per concordare con le aeronautiche di Lituania ed Estonia l’organizzazione nel 2014 di un mini deployment addestrativo con velivoli Eurofigther “per testare la risposta del sistema d’arma ai climi freddi”. Il tour italiano nel Baltico servì pure a rafforzare la partnership nel settore industriale-militare. Alla Lithuanian Air Force, tra il 2006 al 2008, Alenia Aeronautica (Finmeccanica) aveva consegnato tre velivoli da trasporto tattico C27J “Spartan”. “Il Comandante dell’Aeronautica lituana, gen. Edvardas Mazeikis, ha espresso il proprio apprezzamento per le capacità conseguite con questi velivoli di produzione italiana”, riportò una nota del Ministero della difesa, a conclusione della missione ispettiva nel Baltico. “Proprio tale capacità offre un’importante possibilità di concreta cooperazione, nell’immediato, nel settore dell’addestramento dei piloti lituani presso il National Training Center di Pisa ed, in prospettiva, per la condivisione di esperienze operative e manutentive”. Nell’autunno del 2012, un’altra azienda del gruppo Finmeccanica, Selex Sistemi Integrati, aveva fornito il sistema di gestione del combattimento (CMS) “Athena” e le centrali di tiro “Medusa” MK4/B per i nuovi pattugliatori della classe “Flyvefisken” della Marina militare lituana.
Con la partecipazione alla Baltic Air Patrol, l’Aeronautica militare vede crescere ulteriormente il proprio ruolo a livello internazionale. Attualmente i caccia italiani sono impegnati pure nel pattugliamento dei cieli dell’Islanda (a rotazione con altri partner Nato), della Slovenia e dell’Albania. Si tratta di un impegno finanziario assai oneroso che nessun partner europeo della Nato ha finora voluto assumersi. L’Aeronautica è impegnata pure nelle operazioni di guerra contro l’Isis, grazie a un velivolo per il rifornimento in volo KC-767, due aerei senza pilota “Predator A” e quattro cacciabombardieri “Tornado”, schierati in Kuwait e Iraq. Da Gibuti, in Corno d’Africa, decollano quotidianamente due droni “Predator” del 32° Stormo di Amendola (Foggia), contribuendo alle operazioni Ue e Nato contro la pirateria e di quelle delle forze armate somale contro le milizie islamico radicali Al Shabab.
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Onu: Stati Uniti e Australia affondano la risoluzione palestinese
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha respinto questa notte la risoluzione presentata dal rappresentante della Giordania per il riconoscimento dell'indipendenza della Palestina: il testo ha ottenuto otto voti favorevoli, due contrari e cinque astensioni. Per essere adottata la risoluzione avrebbe dovuto raccogliere il consenso di almeno nove dei 15 stati membri del Consiglio.
Il testo, assai ammorbidito rispetto a quello presentato inizialmente, prevedeva un accordo di pace entro i prossimi 12 mesi e il ritiro israeliano dai territori occupati da Israele entro la fine del 2017.
Il testo, presentato con riluttanza dalla Giordania dopo l'imprimatur, anch'esso riluttante, dei Paesi della Lega Araba, prevedeva la dichiarazione della sovranità palestinese su Cisgiordania e Gaza con Gerusalemme Est come capitale e una “soluzione giusta” delle questioni pendenti, incluso il ritorno dei profughi palestinesi del 1948. La scelta di puntare sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu era stata voluta dal presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, per mettere Israele con le spalle al muro perché un voto favorevole avrebbe spianato la strada, teoricamente, alla nascita dello Stato di Palestina obbligando di fatto Israele a trattare un accordo bilaterale.
Hanno votato contro la risoluzione gli Stati Uniti e l'Australia. Parere favorevole è stato espresso invece da Francia, Cina, Russia, Argentina, Ciad, Cile, Giordania, Lussemburgo. Tra gli astenuti Regno Unito, Lituania, Corea del Sud, Rwanda, Nigeria.
L’assenza del quorum ha comportato la bocciatura senza obbligare Washington ad usare il diritto di veto, anche se gli Stati Uniti avevano preannunciato che se fosse stato necessario lo avrebbero fatto.
"Questa risoluzione incoraggia le divisioni e non un compromesso", ha incredibilmente dichiarato l'ambasciatrice statunitense all'Onu, Samantha Power. "Questo testo evoca le preoccupazioni solo di una delle parti in causa", ha aggiunto la diplomatica statunitense, che ha difeso la posizione di Washington favorevole ai negoziati diretti. "La pace necessita scelte e compromessi difficili ad un tavolo dei negoziati", ha insistito Power.
"Un calendario per i negoziati è necessario", ha argomentato invece la Francia che, con Germania e Gran Bretagna si era adoperata nelle ultime settimane per una versione ancora più morbida del documento: "La soluzione dei due stati sta diventando un miraggio: gli insediamenti illegali da parte di Israele stanno minando la possibilità di creare uno stato palestinese", ha detto l'ambasciatore Francois Delattre spiegando le ragioni del suo si al testo.
Il rappresentante palestinese all'Onu, Riyad Mansour, ha accusato il Consiglio di sicurezza di non volersi assumere le proprie responsabilità. "I palestinesi e il mondo non possono più attendere. Questo messaggio, a dispetto dell'esito spiacevole di oggi, è chiaro a tutti", ha dichiarato il diplomatico.
“E’ una sconfitta per la legge internazionale” ha accusato invece Saeb Erakat, capo negoziatore di Abu Mazen, preannunciando un “nuovo tentativo con il Consiglio di Sicurezza” quando in gennaio si insedieranno i cinque nuovi membri non-permanenti (Angola, Malaysia, Venezuela, Nuova Zelanda e Spagna sostituiranno Ruanda, Corea del Sud, Argentina, Australia e Lussemburgo) e promettendo che “se anche questo secondo tentativo fallirà andremo al Tribunale penale internazionale” per accusare Israele di “crimini di guerra” in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
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Il testo, assai ammorbidito rispetto a quello presentato inizialmente, prevedeva un accordo di pace entro i prossimi 12 mesi e il ritiro israeliano dai territori occupati da Israele entro la fine del 2017.
Il testo, presentato con riluttanza dalla Giordania dopo l'imprimatur, anch'esso riluttante, dei Paesi della Lega Araba, prevedeva la dichiarazione della sovranità palestinese su Cisgiordania e Gaza con Gerusalemme Est come capitale e una “soluzione giusta” delle questioni pendenti, incluso il ritorno dei profughi palestinesi del 1948. La scelta di puntare sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu era stata voluta dal presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, per mettere Israele con le spalle al muro perché un voto favorevole avrebbe spianato la strada, teoricamente, alla nascita dello Stato di Palestina obbligando di fatto Israele a trattare un accordo bilaterale.
Hanno votato contro la risoluzione gli Stati Uniti e l'Australia. Parere favorevole è stato espresso invece da Francia, Cina, Russia, Argentina, Ciad, Cile, Giordania, Lussemburgo. Tra gli astenuti Regno Unito, Lituania, Corea del Sud, Rwanda, Nigeria.
L’assenza del quorum ha comportato la bocciatura senza obbligare Washington ad usare il diritto di veto, anche se gli Stati Uniti avevano preannunciato che se fosse stato necessario lo avrebbero fatto.
"Questa risoluzione incoraggia le divisioni e non un compromesso", ha incredibilmente dichiarato l'ambasciatrice statunitense all'Onu, Samantha Power. "Questo testo evoca le preoccupazioni solo di una delle parti in causa", ha aggiunto la diplomatica statunitense, che ha difeso la posizione di Washington favorevole ai negoziati diretti. "La pace necessita scelte e compromessi difficili ad un tavolo dei negoziati", ha insistito Power.
"Un calendario per i negoziati è necessario", ha argomentato invece la Francia che, con Germania e Gran Bretagna si era adoperata nelle ultime settimane per una versione ancora più morbida del documento: "La soluzione dei due stati sta diventando un miraggio: gli insediamenti illegali da parte di Israele stanno minando la possibilità di creare uno stato palestinese", ha detto l'ambasciatore Francois Delattre spiegando le ragioni del suo si al testo.
Il rappresentante palestinese all'Onu, Riyad Mansour, ha accusato il Consiglio di sicurezza di non volersi assumere le proprie responsabilità. "I palestinesi e il mondo non possono più attendere. Questo messaggio, a dispetto dell'esito spiacevole di oggi, è chiaro a tutti", ha dichiarato il diplomatico.
“E’ una sconfitta per la legge internazionale” ha accusato invece Saeb Erakat, capo negoziatore di Abu Mazen, preannunciando un “nuovo tentativo con il Consiglio di Sicurezza” quando in gennaio si insedieranno i cinque nuovi membri non-permanenti (Angola, Malaysia, Venezuela, Nuova Zelanda e Spagna sostituiranno Ruanda, Corea del Sud, Argentina, Australia e Lussemburgo) e promettendo che “se anche questo secondo tentativo fallirà andremo al Tribunale penale internazionale” per accusare Israele di “crimini di guerra” in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
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L’estrema destra ucraina: dai battaglioni al parlamento
di Simone Pieranni - Il Manifesto 30/12/2014
Quando nelle ultime elezioni in Ucraina si è scoperto che Svoboda, partito di estrema destra, non aveva superato la soglia del 5%, alcuni giornalisti nostrani avevano specificato che questa notizia smentiva «l’allarme neonazi» in Ucraina. Pigi Battista – noto «esperto» di cose ucraine e russe – dopo le elezioni (presidenziali) di maggio, precedenti a quelli di ottobre, aveva twittato
Al di là delle «profonde analisi», la verità racconta un’altra storia: l’importanza della destra nelle proteste di Majdan non è negata da nessuno, specie dai media internazionali.
Sappiamo bene che la forza di un’organizzazione paramilitare in piazza conta, al di là del risultato elettorale successivo, soprattutto in un paese in guerra e diviso. Inoltre, anziché fermarsi ai semplici dati elettorali, sarebbe stato necessario approfondire, giusto per rendersi conto di almeno un paio di cose. In primo luogo che oggi quasi tutti i rappresentanti più noti dei gruppi di estrema destra sono in parlamento o ricoprono cariche pubbliche rilevanti (come ad esempio quella di capo della polizia di Kiev).
In secondo luogo si appurerebbe un dato importante: che di esponenti dei gruppi «di movimento» di estrema destra, erano farcite le liste di quasi tutti i partiti politici ucraini che si sono presentati alle ultime elezioni politiche; tutti partiti contraddistinti da venature populiste, nazionaliste e patriottiche.
I gruppi più noti della destra ucraina, Svoboda e Settore Destro, protagonisti della Majdan, hanno quindi perso una sorta di battaglia politica, sopraffatti dalla capacità di altri partiti di assicurarsi parte del loro elettorato, grazie ad un progressivo spostamento a destra di tutte le forze politiche nazionali ucraine. Altro che scomparsa, si è trattato di una riorganizzazione, alla luce della nuova situazione in cui versa il Paese.
L’Unione Patriottica
Andriy Biletsky capo dell’Unione Patriottica, gruppo neonazi membro della famiglia di estrema destra allargata della National Socialist Assembly, era anche capo del noto «battaglione Azov» ed è stato eletto in parlamento l’ottobre scorso.
L’Unione Patriottica, secondo alcuni esperti internazionali sulle destre nell’Europa orientale e in Russia, come Anton Shekovotsov, visiting fellow all’Institute for Human Sciences di Vienna, avrebbe soppiantato le storiche formazioni di destra ucraine, protagoniste della Majdan. L’Up non avrebbe partecipato alla Majdan per un motivo molto semplice: i propri rappresentanti più noti erano in carcere e sarebbero stati liberati solo dopo la «Rivoluzione».
A questo si vanno ad aggiungere più fattori, responsabili del crollo elettorale delle storiche forze di estrema destra.
La loro sconfitta elettorale non nega la rilevanza nei fatti della Majdan, né pone in difficoltà un’estrema destra che anche a causa di legami relazionali ed economici con chi è al potere oggi in Ucraina, ricopre ancora ruoli chiave (ed è capace di creare sistemi economici basati sulla sicurezza e su commerci illegali, oltre ad assicurare la capacità di intimidire tanto gli attivisti di sinistra, quanto gli attivisti lgbt ucraini, menando duro come da tradizione).
Partiamo dal dato elettorale: perché Svoboda e Settore Destro hanno ottenuto risultati negativi alle elezioni (Svoboda, non ha superato lo sbarramento al 5 per cento)?
Secondo Shekovotsov i motivi sono vari: Svoboda, fino alla cacciata di Yanukovich era il principale partito di opposizione al vecchio oligarca, come confermato dai buoni risultati alle elezioni del 2012. Con la Majdan e la sconfitta di Yanukovich è venuto meno uno dei motivi del suo successo, unitamente ad un altro fatto: lo scontro con la Russia ha tolto a Svoboda il patentino di unico gruppo «patriottico» in circolazione.
Populismo e patriottismo sono diventati il simbolo di ogni raggruppamento politico ucraino e l’estrema destra si è così persa e distribuita tra tutti i partiti. Nel partito di Yatseniuk, il premier attuale e del post Majdan, «militavano» Biliestky e Vadym Troyan, esponenti di rilievo del noto battaglione militare Azov, dichiaratamente neonazista e considerato formato da criminali di guerra da diversi rapporti di Amnesty (non solo Azov, qui il report sul battaglione Aydar).
«Presumo che gli elettori più moderati siano tornati a votare per le forze nazional-democratiche – ha scritto Shekovotsov – come il Fronte Popolare. Parte dell’ex elettorato di Svoboda sembra essere andato a Settore Destro e al Partito Radicale di Lyashko. L’inclusione di questi due partiti nella categoria di estrema destra è provvisoria. Come partito politico, Settore Destro è oggi molto diverso dal movimento che con lo stesso nome si è formato durante il 2014; il partito è meno radicale del movimento; il Partito Radicale di Lyashko è pericolosamente populista ed è una tipica forza anti-establishment. Tuttavia, sia Settore Destro sia il Partito Radicale sono membri di un’estrema destra minoritaria». In ogni caso, il leader di Settore Destro Dmytro Yarosh è stato eletto in parlamento. Così come Biletsky e Troyan. O come Ihor Mosiychuk, eletto nel Partito radicale e compatriota di Biletskiy.
Secondo Hromadske, media nazionalista, ma ottima fonte sull’Ucraina, «ha una storia lunga e ben documentata di partecipazione a movimenti di estrema destra che risale alla metà degli anni 1990. Prima di entrare nell’Unione Patriottica è stato membro del Partito nazionalsocialista, che sarebbe poi diventato Svoboda nel 2004». Prima di essere eletto come rappresentante del Consiglio comunale di Kiev, e poi deputato al parlamento ucraino, come membro del Partito Radicale, Mosiychuk fu per breve tempo un vice comandante del battaglione Azov.
Amicizie storiche
Secondo in comando nel «Battaglione Azov», il tenente colonnello Vadym Troyan è stato nominato capo della polizia di Kiev. Troyan ha ottenuto questa carica direttamente dal ministro dell’interno Avakov, lo scorso 31 ottobre. Le cause? Secondo Avakov, Troyan, «ha dimostrato professionalità e coraggio durante le azioni e i combattimenti della campagna anti terrorismo nelle regioni orientali».
Vadym Troyan è membro dell’Unione Patriottica, nonché ex membro del «battaglione Azov», «patrocinato» dal vice ministro Anton Geraschenko e da Arsen Avakov. «Perché – si chiede il professor Shekovotsov – il ministero dell’Interno ucraino promuovere i leader di un’organizzazione neonazista? Né Avakov né Gerashchenko sono neo-nazisti. La spiegazione sembra risiedere nel loro passato e in una sinistra idea di clientelismo».
Avakov, Biletskiy e Troyan provengono da Kharkiv e si conoscono almeno fin dal 2009, quando Avakov era ancora governatore della regione. «A Kharkiv, ha scritto Shekovotsov, il Pu è stato coinvolto in attività discutibili, che vanno da attacchi contro i commercianti vietnamiti, alla chiusura di imprese». Gli attivisti del Pu si distinsero per favori ad amici di Avakov, fornendo anche la sicurezza per le proteste a Kharkiv del Blocco di Yuliya Tymoshenko (a quel tempo Avakov era a capo dell’ufficio regionale del BYuT).
«Il coinvolgimento di oggi dei leader Pu nella polizia ucraina è guidata dalla fiducia di Avakov nell’organizzazione con cui ha lavorato in passato. Avakov sembra anche credere nella fedeltà personale del battaglione di Azov utilizzato come una sorta di esercito privato per motivi di lavoro o politici».
Ed è stato probabilmente Avakov che ha suggerito a Poroshenko di concedere la cittadinanza ucraina al membro bielorusso del battaglione Azov, Sergey Korotkikh già coinvolto nei movimenti neonazisti in Bielorussia e Russia a partire dalla fine del 1990.
Vanno bene tutti i neonazi, perfino quelli di doppia cittadinanza russa e bielorussa. E invece di scomparire, i leader sono entrati in parlamento.
Fonte
Quando nelle ultime elezioni in Ucraina si è scoperto che Svoboda, partito di estrema destra, non aveva superato la soglia del 5%, alcuni giornalisti nostrani avevano specificato che questa notizia smentiva «l’allarme neonazi» in Ucraina. Pigi Battista – noto «esperto» di cose ucraine e russe – dopo le elezioni (presidenziali) di maggio, precedenti a quelli di ottobre, aveva twittato
Al di là delle «profonde analisi», la verità racconta un’altra storia: l’importanza della destra nelle proteste di Majdan non è negata da nessuno, specie dai media internazionali.
Sappiamo bene che la forza di un’organizzazione paramilitare in piazza conta, al di là del risultato elettorale successivo, soprattutto in un paese in guerra e diviso. Inoltre, anziché fermarsi ai semplici dati elettorali, sarebbe stato necessario approfondire, giusto per rendersi conto di almeno un paio di cose. In primo luogo che oggi quasi tutti i rappresentanti più noti dei gruppi di estrema destra sono in parlamento o ricoprono cariche pubbliche rilevanti (come ad esempio quella di capo della polizia di Kiev).
In secondo luogo si appurerebbe un dato importante: che di esponenti dei gruppi «di movimento» di estrema destra, erano farcite le liste di quasi tutti i partiti politici ucraini che si sono presentati alle ultime elezioni politiche; tutti partiti contraddistinti da venature populiste, nazionaliste e patriottiche.
I gruppi più noti della destra ucraina, Svoboda e Settore Destro, protagonisti della Majdan, hanno quindi perso una sorta di battaglia politica, sopraffatti dalla capacità di altri partiti di assicurarsi parte del loro elettorato, grazie ad un progressivo spostamento a destra di tutte le forze politiche nazionali ucraine. Altro che scomparsa, si è trattato di una riorganizzazione, alla luce della nuova situazione in cui versa il Paese.
L’Unione Patriottica
Andriy Biletsky capo dell’Unione Patriottica, gruppo neonazi membro della famiglia di estrema destra allargata della National Socialist Assembly, era anche capo del noto «battaglione Azov» ed è stato eletto in parlamento l’ottobre scorso.
L’Unione Patriottica, secondo alcuni esperti internazionali sulle destre nell’Europa orientale e in Russia, come Anton Shekovotsov, visiting fellow all’Institute for Human Sciences di Vienna, avrebbe soppiantato le storiche formazioni di destra ucraine, protagoniste della Majdan. L’Up non avrebbe partecipato alla Majdan per un motivo molto semplice: i propri rappresentanti più noti erano in carcere e sarebbero stati liberati solo dopo la «Rivoluzione».
A questo si vanno ad aggiungere più fattori, responsabili del crollo elettorale delle storiche forze di estrema destra.
La loro sconfitta elettorale non nega la rilevanza nei fatti della Majdan, né pone in difficoltà un’estrema destra che anche a causa di legami relazionali ed economici con chi è al potere oggi in Ucraina, ricopre ancora ruoli chiave (ed è capace di creare sistemi economici basati sulla sicurezza e su commerci illegali, oltre ad assicurare la capacità di intimidire tanto gli attivisti di sinistra, quanto gli attivisti lgbt ucraini, menando duro come da tradizione).
Partiamo dal dato elettorale: perché Svoboda e Settore Destro hanno ottenuto risultati negativi alle elezioni (Svoboda, non ha superato lo sbarramento al 5 per cento)?
Secondo Shekovotsov i motivi sono vari: Svoboda, fino alla cacciata di Yanukovich era il principale partito di opposizione al vecchio oligarca, come confermato dai buoni risultati alle elezioni del 2012. Con la Majdan e la sconfitta di Yanukovich è venuto meno uno dei motivi del suo successo, unitamente ad un altro fatto: lo scontro con la Russia ha tolto a Svoboda il patentino di unico gruppo «patriottico» in circolazione.
Populismo e patriottismo sono diventati il simbolo di ogni raggruppamento politico ucraino e l’estrema destra si è così persa e distribuita tra tutti i partiti. Nel partito di Yatseniuk, il premier attuale e del post Majdan, «militavano» Biliestky e Vadym Troyan, esponenti di rilievo del noto battaglione militare Azov, dichiaratamente neonazista e considerato formato da criminali di guerra da diversi rapporti di Amnesty (non solo Azov, qui il report sul battaglione Aydar).
«Presumo che gli elettori più moderati siano tornati a votare per le forze nazional-democratiche – ha scritto Shekovotsov – come il Fronte Popolare. Parte dell’ex elettorato di Svoboda sembra essere andato a Settore Destro e al Partito Radicale di Lyashko. L’inclusione di questi due partiti nella categoria di estrema destra è provvisoria. Come partito politico, Settore Destro è oggi molto diverso dal movimento che con lo stesso nome si è formato durante il 2014; il partito è meno radicale del movimento; il Partito Radicale di Lyashko è pericolosamente populista ed è una tipica forza anti-establishment. Tuttavia, sia Settore Destro sia il Partito Radicale sono membri di un’estrema destra minoritaria». In ogni caso, il leader di Settore Destro Dmytro Yarosh è stato eletto in parlamento. Così come Biletsky e Troyan. O come Ihor Mosiychuk, eletto nel Partito radicale e compatriota di Biletskiy.
Secondo Hromadske, media nazionalista, ma ottima fonte sull’Ucraina, «ha una storia lunga e ben documentata di partecipazione a movimenti di estrema destra che risale alla metà degli anni 1990. Prima di entrare nell’Unione Patriottica è stato membro del Partito nazionalsocialista, che sarebbe poi diventato Svoboda nel 2004». Prima di essere eletto come rappresentante del Consiglio comunale di Kiev, e poi deputato al parlamento ucraino, come membro del Partito Radicale, Mosiychuk fu per breve tempo un vice comandante del battaglione Azov.
Amicizie storiche
Secondo in comando nel «Battaglione Azov», il tenente colonnello Vadym Troyan è stato nominato capo della polizia di Kiev. Troyan ha ottenuto questa carica direttamente dal ministro dell’interno Avakov, lo scorso 31 ottobre. Le cause? Secondo Avakov, Troyan, «ha dimostrato professionalità e coraggio durante le azioni e i combattimenti della campagna anti terrorismo nelle regioni orientali».
Vadym Troyan è membro dell’Unione Patriottica, nonché ex membro del «battaglione Azov», «patrocinato» dal vice ministro Anton Geraschenko e da Arsen Avakov. «Perché – si chiede il professor Shekovotsov – il ministero dell’Interno ucraino promuovere i leader di un’organizzazione neonazista? Né Avakov né Gerashchenko sono neo-nazisti. La spiegazione sembra risiedere nel loro passato e in una sinistra idea di clientelismo».
Avakov, Biletskiy e Troyan provengono da Kharkiv e si conoscono almeno fin dal 2009, quando Avakov era ancora governatore della regione. «A Kharkiv, ha scritto Shekovotsov, il Pu è stato coinvolto in attività discutibili, che vanno da attacchi contro i commercianti vietnamiti, alla chiusura di imprese». Gli attivisti del Pu si distinsero per favori ad amici di Avakov, fornendo anche la sicurezza per le proteste a Kharkiv del Blocco di Yuliya Tymoshenko (a quel tempo Avakov era a capo dell’ufficio regionale del BYuT).
«Il coinvolgimento di oggi dei leader Pu nella polizia ucraina è guidata dalla fiducia di Avakov nell’organizzazione con cui ha lavorato in passato. Avakov sembra anche credere nella fedeltà personale del battaglione di Azov utilizzato come una sorta di esercito privato per motivi di lavoro o politici».
Ed è stato probabilmente Avakov che ha suggerito a Poroshenko di concedere la cittadinanza ucraina al membro bielorusso del battaglione Azov, Sergey Korotkikh già coinvolto nei movimenti neonazisti in Bielorussia e Russia a partire dalla fine del 1990.
Vanno bene tutti i neonazi, perfino quelli di doppia cittadinanza russa e bielorussa. E invece di scomparire, i leader sono entrati in parlamento.
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Norman Atlantic. I morti accertati sono saliti a undici, ma non sono tutti
Il bilancio dei morti nell’incendio e naufragio della Norman Atlantic è salito a 11 vittime. Tre sono sicuramente dei camionisti napoletani riconosciuti dai familiari. Ci sono poi vittime anche tra i soccorritori, di cui due marinai di un rimorchiatore albanese colpiti da un cavo che si è spezzato durante le manovre di aggancio. Al momento i naufraghi messi in salvo, sono 427, ma il numero dei morti sembra purtroppo destinato a salire. Resta il giallo sul fatto che la nave trasportasse altre persone che non risultano però nella lista dei passeggeri. Nel gruppo dei 49 naufraghi giunti al porto di Bari su un mercantile, ci sono infatti due immigrati clandestini afghani. Il settimanale greco To Vima, ha diffuso il numero di 38 dispersi. Il Procuratore di Bari ha affermato che potrebbero esserci altri cadaveri ancora sulla nave ed ha chiarito che nessuno può impossessarsi del relitto senza commettere un reato. La Marina però ha segnalato la presenza di rimorchiatori albanesi incaricati dall'armatore di trainare la nave a Valona. “Abbiamo chiesto alle autorità albanesi di assicurarsi che questo non accada” dicono dalla procura di Bari, che ha ottenuto intanto il via libera dalle autorità giudiziarie albanesi per rimorchiare traghetto fino a Brindisi dove il Norman Atlantic resterà sotto sequestro. Ricordiamo che il bilancio dei morti dell'ultimo grande naufragio navale, la Costa Concordia, era stato di 32 vittime.
Le pessime condizioni meteorologiche ostacolano però l'arrivo sulle coste italiane di altri naufraghi del Norman Atlantic. Si sta dirigendo verso il porto di Taranto il mercantile 'Aby Jeannette' di bandiera maltese a bordo del quale ci sono 39 naufraghi del traghetto Norman Atlantic. Il forte vento e il mare grosso hanno reso impossibili le operazioni di sbarco nel porto di Manfredonia (Foggia). Sul mercantile ci sono anche due persone con ferite lievi, gli altri sarebbero tutti in buone condizioni.
Il comandante della nave, Argilio Giacomazzi, e l'armatore, sono indagati per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. La competenza territoriale per le indagini sull'incendio del traghetto Norman Atlantic è della procura di Bari.
Fonte
Le pessime condizioni meteorologiche ostacolano però l'arrivo sulle coste italiane di altri naufraghi del Norman Atlantic. Si sta dirigendo verso il porto di Taranto il mercantile 'Aby Jeannette' di bandiera maltese a bordo del quale ci sono 39 naufraghi del traghetto Norman Atlantic. Il forte vento e il mare grosso hanno reso impossibili le operazioni di sbarco nel porto di Manfredonia (Foggia). Sul mercantile ci sono anche due persone con ferite lievi, gli altri sarebbero tutti in buone condizioni.
Il comandante della nave, Argilio Giacomazzi, e l'armatore, sono indagati per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. La competenza territoriale per le indagini sull'incendio del traghetto Norman Atlantic è della procura di Bari.
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La crisi, l'Istat, l'occupazione e l'ideologia
Ogni crisi conosce oscillazioni, punti di frenata o addirittura di rimbalzo. E' accaduto anche in quella del 1929, e fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Ma è difficile frenare l'ideologia sparata a palle incatenate dai media di regime quando si parla di economia. La "ripresa alla fine del tunnel" è in fondo un articolo di fede, non il risultato di analisi razionali dei dati.
Dunque, in molti, nelle redazioni, si sono fermati alla lettura delle poche righe dell'abstract, in testa alla "nota mensile" Istat sull'andamento dell'economia italiana per decretare che "La fase di contrazione dell'economia italiana è attesa arrestarsi nei prossimi mesi, in presenza di segnali positivi per la domanda interna".
La recessione sta per finire, la crescita è quasi qui, le ricette della Troika funzionano, il governo Renzi sta facendo il giusto! Titoli tra il disperato e il millenaristico, salvo fermarsi sulla riga successiva del "riassunto", che spiega come "Le condizioni del mercato del lavoro rimangono tuttavia difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita". Ma chissenefrega dei disoccupati, in fondo, viva la fine della crisi!
Conviene andare nei dettagli - là dove il diavolo costruisce le sue tane - per capirci qualcosa di più. In fondo l'Istat è un istituto serio, tenuto in piedi da ricercatori preparati, a dispetto dei presidenti nominati dai vari governi per tentare di mitigarne i rilievi critici o le previsioni "pessimistiche" (cioè: realistiche).
Basta iniziare con il testo vero e proprio per apprendere che "Con l’eccezione degli Stati Uniti, tra i paesi avanzati prevalgono segnali di rallentamento (Figura 1), che si riflettono nella continua caduta del prezzo delle materie prime in dollari". Linea piatta, poco al di sopra della zero, per l'intera zona euro. Quindi, se proprio disturba sentir parlare di recessione, al massimo si potrebbe discutere di "stagnazione". Saremo pure "gufi", ma non ci sembra una grande prospettiva. E in fondo, come detto, dopo tre anni di caduta continua, un momento di stop ci sta tutto. Non contraddice la tendenza, ne rallenta l'andamento...
La produzione industriale dell'ultimo mese disponibile a consuntivo, del resto, "risulta stagnante" (+0,1%); qualche segnale positivo arriva dalla caduta verticale del prezzo del petrolio e dalla svalutazione dell'euro rispetto al dollaro. Due fattori "esogeni", o addirittura politici, che migliorano le prospettive a breve per le esportazioni. Punto.
I fattori di incertezza - sia lode all'Istat per la scientificità - prevalgono di gran lunga. Il beneficio per le esportazioni, infatti, appare fortemente mitigato dalla contemporanea caduta delle entrate dei paesi esportatori di petrolio, che quindi sono costretti - tra le prime cose - a ridurre le importazioni dai paesi manifatturieri. Quel che guadagni da una parte, insomma, rischi di perderlo dall'altra. C'è addirittura una quantificazione accurata: un esercizio di simulazione effettuato per questa nota 1 indica che la caduta del prezzo del petrolio produrrebbe un limitato effetto espansivo. Per l’area dell’euro esso sarebbe stimato pari a 0,1 e 0,3 decimi di punto, rispettivamente, nel 2015 e 2016. Nel 2015, l’impatto sarebbe nullo in Italia e Germania e pari a 1 decimo di punto in Francia e Spagna". Quasi nulla, alla fin fine.
Per l'Italia in particolare, anche il terzo trimestre si è chiuso in negativo; il -0,1% sarebbe insignificante se non arrivasse alla fine di altri undici trimestri col segno meno. Vanno male costruzioni, commercio, i "servizi di mercato".
Ma per il futuro a breve c'è - soltanto - "Un miglioramento del clima di fiducia" in un paio di comparti,peraltro mitigata da un calo in altri. Si può capire che, per esempio, il manifatturiero vede bene la compresenza contemporanea di calo dei prezzi energetici, svalutazione della moneta e jobs act, ma "Nel complesso, l’indice IESI (Istat Economic Sentiment Indicator) è risultato invariato".
Volendo fare una previsione sul quarto trimestre (che si chiude oggi), l'Istat azzarda "stazionarietà". Ovvero crescita zero dopo una lunga caduta. Evviva?
L'occupazione, si diceva, continua a calare; ma chi lavora è inchiodato al posto molto di più: "crescita delle ore lavorate 0,0 sia in termini di monte ore complessivo (+0,4 rispetto a T2) sia delle ore lavorate per dipendente (+0,3%)". Né le cose sembrano andar meglio guardando alle dinamiche degli inoccupati: "da un lato nuovi attori si muovono alla ricerca di un posto di lavoro, dall’altra le persone già sul mercato sperimentano difficoltà crescenti nel trovare una occupazione". Meno occupati, più sfruttati; più paura di perdere il posto, più persone che cercano un lavoro, a qualsiasi costo.
Cose normali in tempi di crisi, che c'è di "positivo"?
Il rapporto completo dell'Istat.
Fonte
Dunque, in molti, nelle redazioni, si sono fermati alla lettura delle poche righe dell'abstract, in testa alla "nota mensile" Istat sull'andamento dell'economia italiana per decretare che "La fase di contrazione dell'economia italiana è attesa arrestarsi nei prossimi mesi, in presenza di segnali positivi per la domanda interna".
La recessione sta per finire, la crescita è quasi qui, le ricette della Troika funzionano, il governo Renzi sta facendo il giusto! Titoli tra il disperato e il millenaristico, salvo fermarsi sulla riga successiva del "riassunto", che spiega come "Le condizioni del mercato del lavoro rimangono tuttavia difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita". Ma chissenefrega dei disoccupati, in fondo, viva la fine della crisi!
Conviene andare nei dettagli - là dove il diavolo costruisce le sue tane - per capirci qualcosa di più. In fondo l'Istat è un istituto serio, tenuto in piedi da ricercatori preparati, a dispetto dei presidenti nominati dai vari governi per tentare di mitigarne i rilievi critici o le previsioni "pessimistiche" (cioè: realistiche).
Basta iniziare con il testo vero e proprio per apprendere che "Con l’eccezione degli Stati Uniti, tra i paesi avanzati prevalgono segnali di rallentamento (Figura 1), che si riflettono nella continua caduta del prezzo delle materie prime in dollari". Linea piatta, poco al di sopra della zero, per l'intera zona euro. Quindi, se proprio disturba sentir parlare di recessione, al massimo si potrebbe discutere di "stagnazione". Saremo pure "gufi", ma non ci sembra una grande prospettiva. E in fondo, come detto, dopo tre anni di caduta continua, un momento di stop ci sta tutto. Non contraddice la tendenza, ne rallenta l'andamento...
La produzione industriale dell'ultimo mese disponibile a consuntivo, del resto, "risulta stagnante" (+0,1%); qualche segnale positivo arriva dalla caduta verticale del prezzo del petrolio e dalla svalutazione dell'euro rispetto al dollaro. Due fattori "esogeni", o addirittura politici, che migliorano le prospettive a breve per le esportazioni. Punto.
I fattori di incertezza - sia lode all'Istat per la scientificità - prevalgono di gran lunga. Il beneficio per le esportazioni, infatti, appare fortemente mitigato dalla contemporanea caduta delle entrate dei paesi esportatori di petrolio, che quindi sono costretti - tra le prime cose - a ridurre le importazioni dai paesi manifatturieri. Quel che guadagni da una parte, insomma, rischi di perderlo dall'altra. C'è addirittura una quantificazione accurata: un esercizio di simulazione effettuato per questa nota 1 indica che la caduta del prezzo del petrolio produrrebbe un limitato effetto espansivo. Per l’area dell’euro esso sarebbe stimato pari a 0,1 e 0,3 decimi di punto, rispettivamente, nel 2015 e 2016. Nel 2015, l’impatto sarebbe nullo in Italia e Germania e pari a 1 decimo di punto in Francia e Spagna". Quasi nulla, alla fin fine.
Per l'Italia in particolare, anche il terzo trimestre si è chiuso in negativo; il -0,1% sarebbe insignificante se non arrivasse alla fine di altri undici trimestri col segno meno. Vanno male costruzioni, commercio, i "servizi di mercato".
Ma per il futuro a breve c'è - soltanto - "Un miglioramento del clima di fiducia" in un paio di comparti,peraltro mitigata da un calo in altri. Si può capire che, per esempio, il manifatturiero vede bene la compresenza contemporanea di calo dei prezzi energetici, svalutazione della moneta e jobs act, ma "Nel complesso, l’indice IESI (Istat Economic Sentiment Indicator) è risultato invariato".
Volendo fare una previsione sul quarto trimestre (che si chiude oggi), l'Istat azzarda "stazionarietà". Ovvero crescita zero dopo una lunga caduta. Evviva?
L'occupazione, si diceva, continua a calare; ma chi lavora è inchiodato al posto molto di più: "crescita delle ore lavorate 0,0 sia in termini di monte ore complessivo (+0,4 rispetto a T2) sia delle ore lavorate per dipendente (+0,3%)". Né le cose sembrano andar meglio guardando alle dinamiche degli inoccupati: "da un lato nuovi attori si muovono alla ricerca di un posto di lavoro, dall’altra le persone già sul mercato sperimentano difficoltà crescenti nel trovare una occupazione". Meno occupati, più sfruttati; più paura di perdere il posto, più persone che cercano un lavoro, a qualsiasi costo.
Cose normali in tempi di crisi, che c'è di "positivo"?
Il rapporto completo dell'Istat.
Fonte
Cosa c’è in gioco in Grecia (e in Europa)
Fallito l’ultimo tentativo di eleggere il presidente, la Grecia va verso elezioni anticipate, il 25 gennaio. Secondo i sondaggi è al momento in testa (con maggioranza relativa) il partito di sinistra Syriza.
Syriza viene abitualmente chiamata “sinistra radicale”, e cosi in effetti dice anche il suo nome. Tuttavia il suo programma è tendenzialmente socialdemocratico, neokeynesiano e a tratti addirittura rooseveltiano. Il Psi di Nenni, cinquant’anni fa, era probabilmente più radicale. Non è che se da noi si autodefiniscono di sinistra Boschi, D’Alema e Gutgeld, debba andare così per forza dappertutto.
Altro equivoco diffuso è che se in Grecia vince Syriza, Atene uscirà dall’euro e questo potrebbe essere l’inizio della fine della moneta unica, a domino.
Syriza in realtà non chiede l’uscita dall’euro, ma la rinegoziazione del debito greco; in particolare degli interessi, che soffocano ogni possibilità di investimento pubblico finalizzata alla ripresa. Il modello a cui Tsipras ha fatto più volte riferimento è quello che ha permesso alla Germania di rinascere quando, nel 1953, la sua economia era strangolata dai debiti (tra cui quelli di guerra) e il governo di Bonn ottenne una rimodulazione con moratoria di cinque anni.
In merito al rapporto con l’Europa, il tratto forte di Syriza è la richiesta di un cambiamento nel ruolo della Bce perché finanzi direttamente gli Stati e i programmi di investimento pubblico: «Siamo in attesa di vedere la portata e soprattutto i risultati del Quantitative Easing, che Draghi ha promesso e che dovrebbe apportare benefici tangibili all’economia reale», ha spiegato recentemente Dimitrios Papadimoulis, vicepresidente del Parlamento Ue e principale esponente di Syriza nella Ue. Non è esattamente una posizione bolscevica, né lunare.
Ovviamente non mancano gli interrogativi, il primo dei quali riguarda la stessa Syriza (che, non dimentichiamolo, nasce come coalizione, per di più di sinistra: dunque con tutti i limiti di compattezza derivati) e la possibile maggioranza di governo che attorno a Syriza può formarsi.
Ma credo che gli elementi forti di una possibile vittoria di Syriza trascendano gli aspetti programmatici che riguardano la Grecia e siano invece altri due; questi sì, potenzialmente molto rilevanti anche per il resto d’Europa.
Il primo è che per la prima volta, nel Continente, potrebbe andare al governo una forza esterna all’accoppiata classica centrodestra-centrosinistra, le due forze che si sono alternate per oltre mezzo secolo e che oggi ancora dominano (talvolta in alleanze più o meno allargate) dalla Germania alla Francia, dalla Spagna al Regno Unito, Italia compresa. In altri termini, sarebbe la prima prova di governo, con tutte le responsabilità connesse, per uno di quegli aggregati politici che – in diversissimo modo – tendono a rappresentare la cosiddetta maggioranza invisibile (il turno dopo potrebbe essere quello spagnolo).
Il secondo aspetto, ancora più fondamentale, è che per la prima volta da molto tempo avremmo uno Stato europeo che tenterebbe di rapportarsi alla stessa Ue, alla Troika e più in generale ai poteri economici con tutta la forza che deriva dal suo essere uno Stato e una democrazia, cioè cercando di restituire alla politica la sovranità che le spetta.
Questa sì che sarebbe una rivoluzione, dopo gli ultimi trent’anni.
Chissà se gliela lasceranno fare.
Fonte
Syriza viene abitualmente chiamata “sinistra radicale”, e cosi in effetti dice anche il suo nome. Tuttavia il suo programma è tendenzialmente socialdemocratico, neokeynesiano e a tratti addirittura rooseveltiano. Il Psi di Nenni, cinquant’anni fa, era probabilmente più radicale. Non è che se da noi si autodefiniscono di sinistra Boschi, D’Alema e Gutgeld, debba andare così per forza dappertutto.
Altro equivoco diffuso è che se in Grecia vince Syriza, Atene uscirà dall’euro e questo potrebbe essere l’inizio della fine della moneta unica, a domino.
Syriza in realtà non chiede l’uscita dall’euro, ma la rinegoziazione del debito greco; in particolare degli interessi, che soffocano ogni possibilità di investimento pubblico finalizzata alla ripresa. Il modello a cui Tsipras ha fatto più volte riferimento è quello che ha permesso alla Germania di rinascere quando, nel 1953, la sua economia era strangolata dai debiti (tra cui quelli di guerra) e il governo di Bonn ottenne una rimodulazione con moratoria di cinque anni.
In merito al rapporto con l’Europa, il tratto forte di Syriza è la richiesta di un cambiamento nel ruolo della Bce perché finanzi direttamente gli Stati e i programmi di investimento pubblico: «Siamo in attesa di vedere la portata e soprattutto i risultati del Quantitative Easing, che Draghi ha promesso e che dovrebbe apportare benefici tangibili all’economia reale», ha spiegato recentemente Dimitrios Papadimoulis, vicepresidente del Parlamento Ue e principale esponente di Syriza nella Ue. Non è esattamente una posizione bolscevica, né lunare.
Ovviamente non mancano gli interrogativi, il primo dei quali riguarda la stessa Syriza (che, non dimentichiamolo, nasce come coalizione, per di più di sinistra: dunque con tutti i limiti di compattezza derivati) e la possibile maggioranza di governo che attorno a Syriza può formarsi.
Ma credo che gli elementi forti di una possibile vittoria di Syriza trascendano gli aspetti programmatici che riguardano la Grecia e siano invece altri due; questi sì, potenzialmente molto rilevanti anche per il resto d’Europa.
Il primo è che per la prima volta, nel Continente, potrebbe andare al governo una forza esterna all’accoppiata classica centrodestra-centrosinistra, le due forze che si sono alternate per oltre mezzo secolo e che oggi ancora dominano (talvolta in alleanze più o meno allargate) dalla Germania alla Francia, dalla Spagna al Regno Unito, Italia compresa. In altri termini, sarebbe la prima prova di governo, con tutte le responsabilità connesse, per uno di quegli aggregati politici che – in diversissimo modo – tendono a rappresentare la cosiddetta maggioranza invisibile (il turno dopo potrebbe essere quello spagnolo).
Il secondo aspetto, ancora più fondamentale, è che per la prima volta da molto tempo avremmo uno Stato europeo che tenterebbe di rapportarsi alla stessa Ue, alla Troika e più in generale ai poteri economici con tutta la forza che deriva dal suo essere uno Stato e una democrazia, cioè cercando di restituire alla politica la sovranità che le spetta.
Questa sì che sarebbe una rivoluzione, dopo gli ultimi trent’anni.
Chissà se gliela lasceranno fare.
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La Grecia al voto, Syriza alla prova decisiva
Non sappiamo come andranno le prossime elezioni greche. Nonostante tutti i sondaggi diano Syriza primo partito greco, oltretutto con un discreto margine, siamo abbastanza coscienti che di qui al 25 gennaio l’attacco frontale contro ipotesi di governo anti-liberista si dispiegherà con tutta la sua forza, intimorendo una parte dell’elettorato oggi a favore di Syriza. La vittoria di Tsipras non è per nulla scontata, e non è neanche detto che Syriza voglia davvero vincerle queste elezioni. Una vittoria, la responsabilità di formare un governo, renderebbero necessarie delle decisioni politiche che fino ad oggi Syriza ha sempre rimandato, consapevole del tornante storico che potrebbe determinare non solo per la Grecia ma per tutta l’Unione Europea. Nei fatti, la probabilità di una vittoria del soggetto politico guidato da Tsipras da diversi mesi ha prodotto una revisione della radicalità delle proposte politiche presentate agli elettori. Il mantenimento dell’Euro, ad esempio, da questione dibattuta e controversa si è trasformata in certezza, scomparendo dal programma politico del partito greco. Così come il rispetto dei trattati, degli accordi finanziari, eccetera. In questi mesi è sembrato che l’impegno principale di Tsipras fosse quello di tranquillizzare i mercati e le istituzioni della UE. Un tattica persino condivisibile se volta a spezzare la valanga ideologica contraria che in questo mese verrà messa in campo contro la probabilità di un governo di sinistra. Il problema è se si tratti di tattica o di paura, e per capirlo non resta che attendere l’esito elettorale e sperare nella vittoria di Tsipras e compagni. L’unica questione posta apertamente in discussione è la presenza della cosiddetta “troika”, che nei fatti gestisce la politica greca. Una questione certamente importante, anche se ormai secondaria. La “troika” governa bene anche per procura, come vediamo in Italia con Renzi, e non è necessario l’intervento diretto stile Irlanda.
Sarebbe sbagliato non augurarci una vittoria di Syriza. Un governo guidato da una forza effettivamente di sinistra sarebbe in ogni caso una svolta salutare e possibilmente feconda per tutta la politica europea, soprattutto per quei paesi che subiscono la politica economica della UE e non la determinano. Siamo insomma di fronte ad un passaggio importante: la vittoria di Syriza potrebbe accelerare determinate tendenze politiche tali da mettere in discussione l’architettura “unionista”, liberista e imperialista del soggetto Unione Europea. La perdita di un pezzo sarebbe un colpo non indifferente nel processo di concentrazione capitalista europeo. Il problema è se questo pezzo, guidato per la prima volta da un governo socialdemocratico radicale, abbia davvero voglia di spezzare il circolo vizioso europeista, o adeguarsi lottando su aspetti marginali dello stesso. Staremo a vedere, ma in ogni caso un eventuale governo guidato da Syriza sarebbe una tappa fondamentale anche per noi. Se sarà il bastione dal quale rinforzare le lotte europee sarebbe un passo in avanti per tutti, al di là delle differenze interne alla sinistra anti-capitalista. Se dovesse invece essere l’ennesima delusione, potrebbe essere un colpo dal quale difficilmente potremmo riprenderci.
Fonte
30/12/2014
La Troika fa campagna contro Syriza, ma Bce e Merkel trattano con Tsipras
In un clima di forte polarizzazione e di duri confronti politici è iniziata oggi in Grecia, ufficialmente, la campagna elettorale per le elezioni generali anticipate. Il premier greco Antonis Samaras è stato ricevuto questa mattina dal Presidente uscente della Repubblica Karolos Papoulias per decidere le questioni di carattere tecnico – lo scioglimento del Parlamento e la data delle elezioni – secondo quanto prevede la Costituzione greca. Oggi stesso Papoulias dovrà firmare il decreto presidenziale per lo scioglimento del Parlamento e fissare la data delle elezioni che secondo quanto annunciato dal premier si dovrebbero tenere il 25 gennaio prossimo.
Ieri Samaras, parlando ai ministri del governo bocciato dal voto parlamentare di ieri sul successore di Papoulias, durante l'ultimo Consiglio dei ministri, ha invitato tutti “a fare il loro dovere” e ha voluto ricordare che "la Grecia si trova molto vicino alla salvezza definitiva, ma potrebbe anche entrare in una nuova avventura mai conosciuta sinora. Se il popolo fa la scelta giusta - ha aggiunto Samaras - il populismo questa volta sarà sconfitto definitivamente".
Insomma un invito ai suoi collaboratori a non risparmiarsi in una campagna elettorale che si annuncia assai combattiva e la rivendicazione di un risultato – aver traghettato la Grecia fuori dalla crisi nonostante i duri sacrifici sopportati – che nella realtà non corrisponde ai fatti concreti.
Da parte sua il vice premier Evanghelos Venizelos, leader del Pasok (socialisti) che insieme a Nea Dimokratia di Samaras sostengono il governo di coalizione uscente, ha addebitato esplicitamente ai parlamentari di Chysi Avgi (il partito nazista) quella che ha definito “l’interruzione artificiale della legislatura”. "Ci troviamo di fronte ad un ricatto delle istituzioni con l'aiuto del partito di Chrysi Avgi - ha detto Venizelos - Si tratta di un’interruzione artificiale della legislatura avvenuta contro la volontà del popolo greco". In realtà lo stesso candidato governativo Dimas aveva affermato nei giorni scorsi che se fosse stato eletto anche in virtù dei voti positivi dei parlamentari di Alba Dorata – otto dei quali, in carcere, sono stati condotti temporaneamente in aula per il voto di ieri mattina a bordo dei cellulari della polizia – avrebbe rinunciato all’incarico. Semmai il fatto politico che Venizelos si è ‘dimenticato’ di segnalare è che a favore dell’ex commissario europeo ed ex ministro conservatore hanno votato due deputati passati da Alba Dorata al gruppo degli indipendenti, accolti da minacce e sputi da parte dei loro camerati.
Toni apocalittici e ultimativi quelli dei due leader della maggioranza che hanno a disposizione poche settimane per convincere i greci a non mandare a casa la maggioranza che ha governato finora il paese sotto dettatura di una troika che partecipa anch’essa alla campagna elettorale con esternazioni quanto mai invadenti.
A ben vedere la Commissione Europea e il Fondo Monetario Internazionale sono già entrati nel dibattito elettorale con tutto il loro peso, nel tentativo di frenare un possibile spostamento a sinistra del panorama politico. Ad esempio il FMI, per bocca del suo portavoce Gerry Rice, ha emesso un comunicato in cui annuncia la sospensione del programma di salvataggio di Atene – la concessione di nuovi prestiti – finché non sarà possibile trattare con il nuovo governo uscito dal voto di fine gennaio. Inoltre il commissario europeo agli Affari Economici, Pierre Moscovici, ha esplicitamente avvertito che “un massiccio appoggio tra i votanti e i leader politici al necessario processo di riforme dirette a migliorare la crescita sarà essenziale per la Grecia”. Al tempo stesso la Commissione Europea ha incitato i cittadini e i politici ellenici a mostrare un forte impegno nei confronti dell’UE e delle riforme ‘suggerite’ da Bruxelles che prevedono più libertà di licenziamento per le imprese private e l’amministrazione pubblica, un ulteriore taglio a pensioni e salari, più privatizzazioni.
L’Eurozona, sotto la spinta di Berlino, ha concesso ad Atene una estensione del periodo di salvataggio fino alla fine di febbraio ed in parallelo ha prorogato la disponibilità dei buoni del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria nella riserva del Fondo di Stabilità Finanziario Greco utilizzata per ricapitalizzare le banche elleniche. La proroga si è resa necessaria dal momento che l’intervento europeo sarebbe scaduto il 31 dicembre, data dopo la quale la Grecia sarebbe rimasta senza il sostegno finanziario degli altri membri dell’Ue e di fronte al mancato accordo con i creditori internazionali su una ulteriore tranche di ‘aiuti’ da parte della troika si sarebbe trovata con le casse vuote. Una ‘rottura’ che Berlino e soci si sono premurati di evitare, concedendo per l’appunto una proroga che costituisce un formidabile tema di ricatto nei confronti della società greca in vista del voto del 25 gennaio che le istituzioni politiche ed economiche continentali si prefiggono esplicitamente di condizionare.
Infatti la chiusura a febbraio del 2015 dell’attuale revisione del piano di salvataggio costituisce una ‘precondizione’ per lo stanziamento finale, così come per qualsiasi altro credito ad Atene da parte dell’Eurogruppo.
Il leader della principale forza di sinistra del paese, cosciente del ruolo che il ricatto e le istituzioni europee avranno in una campagna elettorale che di fatto rappresenta un referendum pro o contro la sudditanza del paese alla troika, tenta di mandare all’elettorato messaggi rassicuranti. "Con la mancata elezione del presidente della Repubblica, il popolo greco ha vinto una battaglia. Ora il popolo ha l'esperienza, la conoscenza e la scelta nelle sue mani. Potrà scegliere la strada dei memorandum oppure quella della salvezza sociale" ha affermato Alexis Tsipras.
Se dovesse vincere Nea Dimokratia – ammesso che riesca a formare un governo – tutto rimarrebbe come negli ultimi anni, anche se forse l’Unione Europea potrebbe essere incitata comunque ad allentare un poco la corda ad Atene per evitare di strozzare il paziente.
Ma se dovesse vincere Syriza e il partito di sinistra fosse in grado di trovare alcuni partner per formare un governo alternativo non è detto che lo scenario sarà quello di uno scontro frontale tra Atene e Bruxelles.
Negli ultimi mesi una delle attività principali di Alexis Tsipras è stata quella di accreditare il partito nato da una coalizione tra gli ex comunisti del Synaspimos ed altre realtà di sinistra come una forza responsabile presso la politica, i media e l’imprenditoria continentali. Il che, lo abbiamo visto in queste settimane, non ha evitato che i mercati finanziari accogliessero con un tonfo lo scioglimento del parlamento e la sconfitta dell’attuale maggioranza di governo.
Ma secondo vari analisti se da una parte Tsipras e i suoi accentuano la moderazione del programma di un eventuale governo presieduto da Syriza anche dall’altra parte si tendono ponti con coloro che potrebbero sostituire Nea Dimokratia e il Pasok alla guida del paese. Ciò che spaventa di più l’establishment europeo, in fin dei conti, non è un governo socialdemocratico in uno dei Pigs – anche se certamente su alcune delle misure concrete la distanza con Syriza è molta – quanto una possibile rottura politica con la sudditanza nei confronti della Troika e dei meccanismi coercitivi messi in campo dall’Unione Europea attraverso i trattati e i memorandum che possa avere un effetto domino anche in altri quadranti del continente.
E così, secondo l’inviata a Berlino della Stampa Tonia Mastrobuoni, Angela Merkel e la Bce avrebbero già iniziato una trattativa con il leader di Syriza e i suoi economisti servendosi in particolare di un economista tedesco. “Lo 007 della partita greca, racconta un’autorevole fonte tedesca, è un brillante economista di 48 anni dal sorriso gentile, con un master alla Bocconi e una reputazione da straordinario mediatore. È stato membro del comitato esecutivo della Bce ma anche consigliere del governo tedesco e viceministro delle Finanze, è uomo di fiducia sia di Mario Draghi, sia di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. In queste settimane di attesa ansiosa dell’ennesima tappa del dramma greco, forse il solo uomo che poteva tentare la «mission impossible», una triangolazione dietro le quinte tra Berlino-Francoforte-Atene per preparare il dopo-elezioni elleniche. Così Jörg Asmussen sta già incontrando in segreto i vertici del partito che uscirà probabilmente vincitore dalle urne: Syriza” racconta la Mastrobuoni.
Secondo la giornalista l’attuale sottosegretario al Lavoro tedesco è volato ad Atene nelle scorse settimane, ma ha anche incontrato gli uomini di Tsipras a Berlino per cominciare a prefigurare uno scenario post-elettorale che non precipiti nuovamente l’Europa nell’incubo del 2012, quando si rischiò la fine dell’euro.
La campagna elettorale sarà dura, il popolo greco è allo stremo e Tsipras ha costruito il suo consenso sulla promessa di porre fine al giogo imposto dalla troika. Se Syriza chiede ufficialmente una conferenza internazionale su modello di quella dell’inizio degli Anni '50 che abbonò i debiti alla Germania distrutta dalla guerra, ricorda però l’inviata della Stampa, “contrariamente a quanto riportato da innumerevoli cronache, il suo partito non ha mai chiesto di uscire dall’euro, né ha intenzione di fare colpi di testa, nel caso di vittoria elettorale. Anche ieri il suo portavoce, Niko Pappas, ha dichiarato al telefono da Atene che nel caso di un governo Tsipras, la Grecia «non prenderà decisioni unilaterali» e si è detto «sicuro» che «con l’Europa troveremo un’intesa che terrà conto dell’interesse di ambo le parti»”.
I consiglieri di Tsipras starebbero trattando non solo con Jörg Asmussen, ma anche con un membro dell’attuale comitato esecutivo della Banca Centrale Europea. Nulla di male, naturalmente. A patto però che la promessa di un cambiamento radicale non si riveli una bolla di sapone...
Fonte
Ieri Samaras, parlando ai ministri del governo bocciato dal voto parlamentare di ieri sul successore di Papoulias, durante l'ultimo Consiglio dei ministri, ha invitato tutti “a fare il loro dovere” e ha voluto ricordare che "la Grecia si trova molto vicino alla salvezza definitiva, ma potrebbe anche entrare in una nuova avventura mai conosciuta sinora. Se il popolo fa la scelta giusta - ha aggiunto Samaras - il populismo questa volta sarà sconfitto definitivamente".
Insomma un invito ai suoi collaboratori a non risparmiarsi in una campagna elettorale che si annuncia assai combattiva e la rivendicazione di un risultato – aver traghettato la Grecia fuori dalla crisi nonostante i duri sacrifici sopportati – che nella realtà non corrisponde ai fatti concreti.
Da parte sua il vice premier Evanghelos Venizelos, leader del Pasok (socialisti) che insieme a Nea Dimokratia di Samaras sostengono il governo di coalizione uscente, ha addebitato esplicitamente ai parlamentari di Chysi Avgi (il partito nazista) quella che ha definito “l’interruzione artificiale della legislatura”. "Ci troviamo di fronte ad un ricatto delle istituzioni con l'aiuto del partito di Chrysi Avgi - ha detto Venizelos - Si tratta di un’interruzione artificiale della legislatura avvenuta contro la volontà del popolo greco". In realtà lo stesso candidato governativo Dimas aveva affermato nei giorni scorsi che se fosse stato eletto anche in virtù dei voti positivi dei parlamentari di Alba Dorata – otto dei quali, in carcere, sono stati condotti temporaneamente in aula per il voto di ieri mattina a bordo dei cellulari della polizia – avrebbe rinunciato all’incarico. Semmai il fatto politico che Venizelos si è ‘dimenticato’ di segnalare è che a favore dell’ex commissario europeo ed ex ministro conservatore hanno votato due deputati passati da Alba Dorata al gruppo degli indipendenti, accolti da minacce e sputi da parte dei loro camerati.
Toni apocalittici e ultimativi quelli dei due leader della maggioranza che hanno a disposizione poche settimane per convincere i greci a non mandare a casa la maggioranza che ha governato finora il paese sotto dettatura di una troika che partecipa anch’essa alla campagna elettorale con esternazioni quanto mai invadenti.
A ben vedere la Commissione Europea e il Fondo Monetario Internazionale sono già entrati nel dibattito elettorale con tutto il loro peso, nel tentativo di frenare un possibile spostamento a sinistra del panorama politico. Ad esempio il FMI, per bocca del suo portavoce Gerry Rice, ha emesso un comunicato in cui annuncia la sospensione del programma di salvataggio di Atene – la concessione di nuovi prestiti – finché non sarà possibile trattare con il nuovo governo uscito dal voto di fine gennaio. Inoltre il commissario europeo agli Affari Economici, Pierre Moscovici, ha esplicitamente avvertito che “un massiccio appoggio tra i votanti e i leader politici al necessario processo di riforme dirette a migliorare la crescita sarà essenziale per la Grecia”. Al tempo stesso la Commissione Europea ha incitato i cittadini e i politici ellenici a mostrare un forte impegno nei confronti dell’UE e delle riforme ‘suggerite’ da Bruxelles che prevedono più libertà di licenziamento per le imprese private e l’amministrazione pubblica, un ulteriore taglio a pensioni e salari, più privatizzazioni.
L’Eurozona, sotto la spinta di Berlino, ha concesso ad Atene una estensione del periodo di salvataggio fino alla fine di febbraio ed in parallelo ha prorogato la disponibilità dei buoni del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria nella riserva del Fondo di Stabilità Finanziario Greco utilizzata per ricapitalizzare le banche elleniche. La proroga si è resa necessaria dal momento che l’intervento europeo sarebbe scaduto il 31 dicembre, data dopo la quale la Grecia sarebbe rimasta senza il sostegno finanziario degli altri membri dell’Ue e di fronte al mancato accordo con i creditori internazionali su una ulteriore tranche di ‘aiuti’ da parte della troika si sarebbe trovata con le casse vuote. Una ‘rottura’ che Berlino e soci si sono premurati di evitare, concedendo per l’appunto una proroga che costituisce un formidabile tema di ricatto nei confronti della società greca in vista del voto del 25 gennaio che le istituzioni politiche ed economiche continentali si prefiggono esplicitamente di condizionare.
Infatti la chiusura a febbraio del 2015 dell’attuale revisione del piano di salvataggio costituisce una ‘precondizione’ per lo stanziamento finale, così come per qualsiasi altro credito ad Atene da parte dell’Eurogruppo.
Il leader della principale forza di sinistra del paese, cosciente del ruolo che il ricatto e le istituzioni europee avranno in una campagna elettorale che di fatto rappresenta un referendum pro o contro la sudditanza del paese alla troika, tenta di mandare all’elettorato messaggi rassicuranti. "Con la mancata elezione del presidente della Repubblica, il popolo greco ha vinto una battaglia. Ora il popolo ha l'esperienza, la conoscenza e la scelta nelle sue mani. Potrà scegliere la strada dei memorandum oppure quella della salvezza sociale" ha affermato Alexis Tsipras.
Se dovesse vincere Nea Dimokratia – ammesso che riesca a formare un governo – tutto rimarrebbe come negli ultimi anni, anche se forse l’Unione Europea potrebbe essere incitata comunque ad allentare un poco la corda ad Atene per evitare di strozzare il paziente.
Ma se dovesse vincere Syriza e il partito di sinistra fosse in grado di trovare alcuni partner per formare un governo alternativo non è detto che lo scenario sarà quello di uno scontro frontale tra Atene e Bruxelles.
Negli ultimi mesi una delle attività principali di Alexis Tsipras è stata quella di accreditare il partito nato da una coalizione tra gli ex comunisti del Synaspimos ed altre realtà di sinistra come una forza responsabile presso la politica, i media e l’imprenditoria continentali. Il che, lo abbiamo visto in queste settimane, non ha evitato che i mercati finanziari accogliessero con un tonfo lo scioglimento del parlamento e la sconfitta dell’attuale maggioranza di governo.
Ma secondo vari analisti se da una parte Tsipras e i suoi accentuano la moderazione del programma di un eventuale governo presieduto da Syriza anche dall’altra parte si tendono ponti con coloro che potrebbero sostituire Nea Dimokratia e il Pasok alla guida del paese. Ciò che spaventa di più l’establishment europeo, in fin dei conti, non è un governo socialdemocratico in uno dei Pigs – anche se certamente su alcune delle misure concrete la distanza con Syriza è molta – quanto una possibile rottura politica con la sudditanza nei confronti della Troika e dei meccanismi coercitivi messi in campo dall’Unione Europea attraverso i trattati e i memorandum che possa avere un effetto domino anche in altri quadranti del continente.
E così, secondo l’inviata a Berlino della Stampa Tonia Mastrobuoni, Angela Merkel e la Bce avrebbero già iniziato una trattativa con il leader di Syriza e i suoi economisti servendosi in particolare di un economista tedesco. “Lo 007 della partita greca, racconta un’autorevole fonte tedesca, è un brillante economista di 48 anni dal sorriso gentile, con un master alla Bocconi e una reputazione da straordinario mediatore. È stato membro del comitato esecutivo della Bce ma anche consigliere del governo tedesco e viceministro delle Finanze, è uomo di fiducia sia di Mario Draghi, sia di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. In queste settimane di attesa ansiosa dell’ennesima tappa del dramma greco, forse il solo uomo che poteva tentare la «mission impossible», una triangolazione dietro le quinte tra Berlino-Francoforte-Atene per preparare il dopo-elezioni elleniche. Così Jörg Asmussen sta già incontrando in segreto i vertici del partito che uscirà probabilmente vincitore dalle urne: Syriza” racconta la Mastrobuoni.
Secondo la giornalista l’attuale sottosegretario al Lavoro tedesco è volato ad Atene nelle scorse settimane, ma ha anche incontrato gli uomini di Tsipras a Berlino per cominciare a prefigurare uno scenario post-elettorale che non precipiti nuovamente l’Europa nell’incubo del 2012, quando si rischiò la fine dell’euro.
La campagna elettorale sarà dura, il popolo greco è allo stremo e Tsipras ha costruito il suo consenso sulla promessa di porre fine al giogo imposto dalla troika. Se Syriza chiede ufficialmente una conferenza internazionale su modello di quella dell’inizio degli Anni '50 che abbonò i debiti alla Germania distrutta dalla guerra, ricorda però l’inviata della Stampa, “contrariamente a quanto riportato da innumerevoli cronache, il suo partito non ha mai chiesto di uscire dall’euro, né ha intenzione di fare colpi di testa, nel caso di vittoria elettorale. Anche ieri il suo portavoce, Niko Pappas, ha dichiarato al telefono da Atene che nel caso di un governo Tsipras, la Grecia «non prenderà decisioni unilaterali» e si è detto «sicuro» che «con l’Europa troveremo un’intesa che terrà conto dell’interesse di ambo le parti»”.
I consiglieri di Tsipras starebbero trattando non solo con Jörg Asmussen, ma anche con un membro dell’attuale comitato esecutivo della Banca Centrale Europea. Nulla di male, naturalmente. A patto però che la promessa di un cambiamento radicale non si riveli una bolla di sapone...
Fonte
Torna la strategia della Tensione?
La storia ripete, ma la seconda volta è solo una farsa.
A circa 24 ore dalla sentenza della corte d’Assise di Torino che ha assolto
i militanti del movimento No Tav dall’accusa di terrorismo (finalmente
una sentenza giuridicamente decente!), è iniziata una serie di attentati
ai treni ad opera di “anarco-insurrezionalisti”.
Ovvio il coro di ministri e politicanti vari che hanno subito
rilanciato dicendo che la sentenza era un errore e che questo è
terrorismo. Negli stessi giorni, era tratto in arresto un gruppo di neo fascisti a Pescara.
In particolare il gruppo di eversori, denominato “Avanguardia
ordinovista”, avrebbe avuto in mente decine di omicidi di politici,
magistrati e di preti progressisti, sino a provocare un rivolgimento
istituzionale per il quale aveva bella e pronta una nuova Costituzione
che, fra l’altro, avrebbe abolito il diritto di voto.
Insomma siamo in pieno remake degli anni
settanta, fra attentati “anarchici” ai treni e complotti neo nazisti.
Qualche differenza, per la verità, ci sarebbe: ad esempio è possibile
che gli attentatori ferroviari questa volta siano effettivamente (o più
semplicemente, si ritengano) anarchici e non fascisti come nel 1969, ma
resterebbe da vedere se fra loro non ci sia qualche suggeritore di ben
altra estrazione.
Così come è plausibilissimo che un
gruppo di poveri spostati di provincia abbia progettato, magari in preda
ai fumi dell’alcool, omicidi politici a go go ed abbia sognato una
nuova Italia fascista. Tutto sta a vedere quale fosse poi la reale
pericolosità del gruppo e cosa ci fosse di concreto nella preparazione
di questi omicidi. Il semplice fatto che pensassero in quattro gatti, da
Pescara, di dar via ad una rivoluzione fascista nell’Italia del 2014, non depone molto bene sul loro stato di sobrietà.
Dopo di che è sempre possibile che dieci o venti esaltati,
assolutamente non in grado di sovvertire le istituzioni, però possa
benissimo essere capace di fare un omicidio ed è giusto prevenirli. Ma
di qui a parlare di una “pericolosa trama fascista” ne corre…
Vedremo che elementi ci sono e a che
stadio di preparazione erano questi supposti attentati; tuttavia la cosa
mi pare molto più piccola di quanto i titoli di giornale (piuttosto a
digiuno di notizie in giorni come questi) non facciano immaginare. Per
un momento ho drizzato anche io le orecchie, sentendo il nome di una
vecchia conoscenza come Rutilio Sermonti, ideologo e fra i massimi dirigenti di Ordine Nuovo.
Sermonti non è né un pagliaccio, né uno
che, per quanto novantenne, possa mischiarsi ad una sconclusionata banda
di paese, per cui sorgeva il dubbio che gli arrestati potessero essere
solo una scheggia di una cosa più complessa e numerosa. Ma è bastato
poco per capire che Sermonti non c’entra nulla con questa sconclusionata
riedizione dei fasti ordinovisti.
Il fatto è che, come dice il vecchio Marx, la storia talvolta si ripete, ma la seconda volta sotto forma di farsa.
Ho lavorato a lungo sulla strategia della tensione e questa me ne
sembra una cattiva imitazione con un fortissimo sentore di finto.
Ripeto: può darsi che anarco insurrezionalisti e neo ordinovisti si
credano davvero tali, ma manca tutto un contesto politico e culturale
che possa rendere plausibili le due cose e dargli peso. Al massimo
abbiamo davanti due sparutissimi gruppi di decerebrati. Nulla che possa giustificare il clamore mediatico che se ne sta facendo con titoloni in prima pagina.
Siamo seri, qui l’unica cosa che ricorda
davvero gli anni settanta è l’opportuna coincidenza di certi episodi
con il profilarsi delle scadenze politiche, sociali ed economiche:
elezione del Presidente, subito dopo elezioni regionali, approvazione
delle riforme istituzionali, probabile ripresa della crisi a breve
tempo, incombente protesta sindacale per la riforma dell’art. 18…
Insomma sono situazioni in cui il fantasma del terrorismo può far comodo.
Soprattutto alla vigilia di una elezione quirinalizia così incerta, che
può degenerare in un marasma senza precedenti ed occorre forzare un po’
la mano ai “grandi elettori”.
E’ un numero che abbiamo visto troppe
volte ed anche i particolari sono stucchevolmente simili: gli attentati
ai treni, l’armamentario fascista, il linguaggio delle rivendicazioni,
persino la trovata del nome del gruppo pescarese che è una bella sintesi
fra “Avanguardia Nazionale” ed “Ordine Nuovo”. Ci mancano le banche e
le Br. Su: almeno un po’ di fantasia…
Detto questo, ugualmente c’è di che
essere preoccupati: non vorremmo che questa mini serie televisiva “Il
ritorno del terrorismo” preludesse a qualche botto più serio, magari per
dare un bel giro di vite all’opposizione. Anche se annoiati, tocca
tenere gli occhi aperti.
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