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03/04/2016

Ancora a proposito di GAP e terrorismo nella Resistenza

A breve distanza dall’uscita del libro di Santo Peli Storie di Gap (Einaudi, Torino, 2014)1, un secondo testo, questa volta dedicato specificamente a quanto accadde a Milano, ha arricchito la conoscenza e la memoria dell’esperienza dei Gruppi di Azione Patriottica. Scrivo di Li chiamavano terroristi (Unicopli, Milano, 2015), ultima fatica di Luigi Borgomaneri, già autore di altre ricerche sulla Resistenza nel milanese.

Questo libro, utile se non persino necessario, per le ragioni che in seguito esporrò, si presenta come in parte complementare alla ricerca di Santo Peli, citata anche nella prefazione di Mimmo Franzinelli. In effetti, molti punti di vista e diverse analisi appaiono condivise dai due autori, preoccupati sia di difendere la storia dei GAP dalle criminalizzazioni a cui sono stati sottoposti a più riprese ma anche di offrire un’immagine reale, meno aulica di quella tramandata dalla letteratura post-resistenziale di ciò che essi furono. Emergono così sia le enormi difficoltà organizzative e militari in cui si svolse la storia dei GAP, sia le numerose trasgressioni a quelle regole della clandestinità che, affermate chiaramente dai comandi, non poterono essere applicate che raramente dai combattenti, a causa delle difficili condizioni materiali di tipo militare logistico, ed economico. Tutto ciò non con l’intenzione di sminuire l’importanza dell’esperienza gappista bensì, se possibile, di valorizzarne ancor più gli aspetti politici e umani che l’hanno caratterizzata, proprio perché vissuta in condizioni di estrema difficoltà e pericolo, che poterono essere superate solo grazie a doti di sacrificio, eroismo e coraggio. Qualità che fanno del gappismo milanese (passiamo al libro di Borgomaneri) una “storia tragica e grandiosa, dipanatasi lungo un intricato cammino più volte sanguinosamente interrotto dalla repressione poliziesca. Intessuta di ardimento, volontarismi e sacrifici, è una pagina della lotta partigiana scritta non solo da rivoluzionari di professione e, agli esordi, da maturi militanti comunisti, ma da un pugno di uomini e ragazzi qualunque, molti dei quali – usciti dalle fabbriche e dai quartieri popolari – mai avrebbero immaginato di doversi un giorno trasformare in spietati pistoleros2 e freddi dinamitardi” (Borgomaneri, pag. 23).

In questa frase abbiamo già una possibile traccia di lettura del libro Li chiamavano terroristi. Anche se sin dal marzo-aprile del 1943 si parlava all’interno della Direzione del PCI, della necessità di costituire gruppi armati per rovesciare il fascismo, tale processo non partì prima del mese di settembre e si avvalse in un primo momento del rientro in Italia di ex combattenti della guerra di Spagna passati in molti casi attraverso l’esperienza dei Francs-tireurs et Partisans che agivano nel sud della Francia, al cui modello fu ispirata, in buona parte la costituzione dei GAP. A questi militanti sperimentati nella lotta armata e nella clandestinità si aggiunsero vecchi militanti del PCI e giovani in genere di estrazione proletaria, impreparati alla lotta clandestina non solo dal punto di vista pratico ma anche da quello ideologico. Infatti, il passaggio alla lotta armata e ancor più specificamente a una lotta di carattere “terrorista” trovava i militanti non solo impreparati ma a volte perplessi sulle sue pratiche. Il passaggio alla costituzione dei GAP non fu quindi semplice e avvenne in una situazione di grande difficoltà organizzativa del PCI, stremato da vent’anni di clandestinità che significavano arresti, confino, emarginazione, difficoltà di comunicazione, esilio all’estero dei dirigenti e non da ultimo notevoli difficoltà economiche.

A queste difficoltà si aggiunse la contrarietà degli altri partiti antifascisti a praticare la lotta armata sul terreno urbano (e anche, sostanzialmente, su quello non urbano, per quanto riguardava i liberali e una buona parte delle formazioni cattoliche). Tale contrarietà era motivata, per alcune di queste forze, dal timore di armare il popolo e in particolare la classe operaia ma anche, nello specifico dei GAP, dal pretesto delle rappresaglie che fascisti e nazisti avrebbero scatenato sulla popolazione inerme. Su questo tema, è bene ricordare che se le rappresaglie per le azioni gappiste nelle città realmente avvennero, esse colpirono soprattutto, con la fucilazione, detenuti politici già in carcere e non si esercitarono indiscriminatamente sulla popolazione civile. In ogni caso, se ci si fosse strettamente attenuti al voler evitare qualunque rappresaglia fascista e nazista, non si sarebbe fatta la Resistenza ma ancor più si sarebbe caduti nella trappola inizialmente ordita dai tedeschi.

Questa trappola era costituita dal voler creare un’apparenza di normalità della vita sotto la loro occupazione, tanto che in una prima fase essi arrivarono a far riaprire alcuni locali di spettacolo e a non infierire con orari di coprifuoco troppo stretti. E’ evidente che se si vuole sfruttare il potenziale produttivo di una paese occupato ai fini della produzione bellica non si deve usare un pugno troppo forte sulla popolazione civile. I GAP, con le loro azioni, fecero saltare questo disegno tedesco mettendo a nudo il vero carattere dell’occupazione militare e creando quel clima conflittuale che era necessario allo sviluppo della lotta contro l’occupazione e contro i fascisti. Anche per queste ragioni i GAP sono legati soprattutto alla prima fase della lotta partigiana, quando pochi uomini eroici agirono come detonatore per un’azione che in seguito assunse caratteri più di massa, sia con le brigate delle montagna, sia con le Squadre d’Azione Patriottica, con le quali in particolare i GAP finirono, in una fase più avanzata della Resistenza, a collaborare e a volte mischiarsi, anche se la natura di queste due forme d’organizzazione avrebbe dovuto tenerle separate.

Ho parlato di storie di abnegazione, di fedeltà alla causa antifascista e di difficoltà materiali. Borgomaneri ci offre uno spaccato vivace di questa realtà, narrando, per esempio, di Augusto Mori, eroico gappista che risparmiando sul suo salario di operaio dell’Innocenti acquistò in proprio una “macchina ricopiatrice” con cui sopperire alla scarsità delle copie dei materiali clandestini che riceveva, appendendo in seguito giornali e volantini davanti alle fabbriche durante “passeggiate” con la moglie. Purtroppo, in altri casi, le difficoltà organizzative non si risolsero in modo così brillante, come nel caso in cui l’aver troppo confidato sull’uso come base di un negozio di riparazioni di biciclette di un militante già ben noto alla polizia, diventato in breve un luogo troppo esposto, comportò l’arresto e lo smantellamento di buona parte della rete gappista milanese.

Peraltro, ho già detto che Borgomaneri ci avverte, nel suo libro, della difficoltà a rispettare scrupolosamente le regole della clandestinità. Essere strettamente clandestini comporta avere rifugi sicuri, è costoso, perché impone l’abbandono del lavoro ma parallelamente richiede anche di rompere i ponti con la famiglia, con l’ambiente sociale e amicale e tutto ciò è tutt’altro che facile. Se nel libro troviamo citato il caso dei Galasi, padre e figlio, che scoprirono solo per caso di essere entrambi gappisti (anche se comunque continuavano a vivere insieme), in molti altri casi la segretezza fu inficiata dal fatto che diversi membri dei GAP erano vecchi amici di quartiere, se non talvolta abitanti nella stessa via e nello stesso palazzo. Inoltre, le stesse case di alcuni gappisti divennero luogo di riunione e persino laboratori di preparazione di ordigni esplosivi, come nel caso dell’abitazione del già citato Augusto Mori, dove, a causa della cattiva qualità dei materiali usati per confezionare delle bombe avvennero esplosioni e incidenti che misero in pericolo la vita della figlia del gappista.

Nel caso in cui si poté rispettare in modo più rigoroso le norme della clandestinità i gappisti subirono le angustie della solitudine, il pericolo dei delatori, i rischi di un terreno urbano che nascondeva insidie continue, come ha testimoniato il più noto e sicuramente il più attento, tra i gappisti, alle regole della clandestinità: il leggendario comandante Giovanni Pesce-Visone. Infine, la paura, per tutti, dell’arresto, destino peggiore della morte in combattimento, poiché si era certi, in tal caso di essere atrocemente torturati in una delle tante basi in cui fascisti ma anche i tedeschi praticavano tale barbarie. La pratica delle tortura contro i patrioti e le patriote fu onnipresente e in molti casi, purtroppo, ottenne il suo scopo di estorcere confessioni che misero in pericolo i compagni dell’arrestato, senza peraltro salvargli la vita.

Molti altri sono gli spunti di riflessione utili nel libro di Borgomaneri, che sarebbe qui troppo lungo citare, e per i quali rimando alla lettura diretta del testo. Preferisco invece, per concludere, sviluppare tre osservazioni sul lavoro di cui discutiamo.

L’uso del termine “terroristi” è fatto da Borgomaneri a ragion veduta. Non si tratta di un termine preso dalla stampa o dai rapporti nazifascisti. Piuttosto i termini di lotta, pratica, azione terrorista si trovano in più documenti del PCI, del CNL, e in lettere di dirigenti comunisti e in particolare di Pietro Secchia. Su questo punto troviamo un’ulteriore convergenza con il già citato libro di Santo Peli che porta, come sottotitolo, proprio “Terrorismo urbano e Resistenza”. E’ noto che, oggi, l’uso della parola terrorista evoca scenari tragici, ma a questa constatazione credo sia bene aggiungere che le ragioni e le forme dell’uso del terrorismo sono state, nella storia, molto diverse tra loro. Così, l’azione dei GAP non ha nulla a che vedere con il terrorismo fascista e di stato che provocò centinaia di morti dalla fine degli anni sessanta in poi, né tantomeno con quello di Daesh.

Praticamente tutti i movimenti di liberazione nazionale e dei paesi occupati hanno utilizzato forme di lotta di tipo terroristico; ciò che fa la differenza non è l’uso di una pistola, di un mitra o di una bomba in un caffè, quanto il contesto di lotta, la situazione storica, i rapporti tra le forze in campo. Proprio questo ci fa riandare alla politica del PCI durante i cosiddetti “anni di piombo”, quando nel timore, in gran parte ingiustificato, di essere in qualche modo assimilato alle Brigate Rosse o a Prima Linea, i dirigenti del partito affermarono più volte che il terrorismo non aveva mai fatto parte delle forme di lotta dei comunisti italiani e che era sempre stato ripudiato. Come abbiamo modo di constatare, ciò non era vero. Sarebbe stato invece più corretto e probabilmente più efficace dal punto di vista politico mettere in luce la totale diversità tra il contesto politico e storico dell’occupazione nazista e della Resistenza e quello degli anni settanta, che rendeva sbagliata quella che decenni prima era stata una strada necessaria. Questo è senz’altro un punto che in sede di valutazione storica andrebbe approfondito, per ripercorrere una vicenda storica che ancora pesa sulla politica italiana.

Altre due considerazioni toccano invece l’aspetto della memoria che questo libro rende ai gappisti milanesi. Si tratta infatti di un libro di storia, ma anche di memoria poiché intreccia i fatti e le azioni con i nomi e le vicende umane dei loro protagonisti quasi a significare la loro complementarità, sia, appunto, umana che politica. Borgomaneri ha lavorato a dare non solo un nome, ma anche dimensioni umane ai protagonisti, importanti o meno, della storia dei GAP milanesi.

Così, a fianco di coloro che erano già politicamente e militarmente formati, cioè i vecchi combattenti di Spagna o i quadri comunisti sperimentati, magari già segnati dal confino e dalla prigione, troviamo molti giovani che si formarono politicamente proprio nella lotta partigiana. Quei giovani che, per dirla con Borgomaneri, non divennero garibaldini perché erano comunisti, ma comunisti perché garibaldini. Giovani che partivano dall’idea di essere, anche se istintivamente e con scarse cognizioni di politica, antifascisti e che nel fuoco della lotta acquisivano coscienza e si politicizzavano riconoscendo nel Partito Comunista la forza più organizzata e coerente con gli interessi dei lavoratori. Esiste una generazione, in Italia, che è cresciuta nella doverosa ammirazione di queste persone. Parlo di quella generazione che si è formata politicamente nelle lotte immediatamente post-1968 che conobbero, in molti casi, le imprese partigiane da dirette memorie familiari.

A volte i racconti di tali gesta venivano invece direttamente dai loro protagonisti, anche se molti di loro esitavano a ricordarle non solo per modestia e riservatezza, o perché ancora memori dei criteri di “vigilanza” ma anche a causa delle persecuzioni e discriminazioni a cui erano stati sottoposti nei primi anni del dopoguerra. In ogni caso, per quella generazione, i partigiani, e dunque anche i pochi gappisti sopravvissuti erano persone non poi tanto anziane, di poco più in là negli anni o anche della stessa età dei genitori, che partecipavano a riunioni, manifestazioni, incontri di vario tipo. In queste condizioni era facile serbare memoria degli avvenimenti resistenziali, poiché con essi ancora, quasi, si conviveva come si conviveva appunto fisicamente con chi li aveva vissuti in prima persona.

Oggi le cose non stanno più così, i partigiani non ci sono più e soprattutto dagli anni ottanta in poi si è assistito a una aggressiva e crescente denigrazione della Resistenza, dei suoi combattenti e segnatamente dei GAP. La scuola non esita a seguire questa ondata di falsificazione storica, che mette sullo stesso piano i “totalitarismi del novecento” in una disgustosa melassa in cui comunismo, nazismo e fascismo sono messi sullo stesso piano e i torturatori si confondono con i patrioti in nome di una discutibile “riconciliazione” nazionale3.

In queste condizioni è più difficile per le giovani generazioni comprendere i valori resistenziali, serbarne memoria e soprattutto coglierne l’attualità, mentre anche la generazione post-1968, ormai sessantenne, appare in un pericoloso ripiegamento dai valori d’un tempo. Anche per queste ragioni ho scritto che il libro di Borgomaneri è necessario, per favorire un recupero non solo storico, ma anche di memoria dei volti e dell’umanità che furono dei gappisti.

Pochi dei gappisti videro la fine della guerra, stroncati dalle torture, fucilati o uccisi in combattimento. I nomi di questi combattenti erano un tempo da noi conosciti anche attraverso i nomi delle sezioni del PCI; che spesso erano a loro intestate. A partire dai primi anni di questo secolo, in accordo con la svolta centrista del Partito Democratico, molti nomi di questi partigiani sono stati cancellati dalle insegne “dimenticati insieme ai loro sogni, ai loro errori e alla fede che li animò quand’anche talora confusamente”. Un’altra ragione che mi rafforza nello scrivere che Li chiamavano terroristi è un libro che era necessario scrivere.

Note:

1 Vedi in proposito qui

2 Il termine, riferisce Borgomaneri, è usato in una lettera della Direzione del PCI nel 1944, evidentemente mutuata dal linguaggio della guerra di Spagna.

3 Molti libri di testo occultano il contributo comunista alla liberazione dell’Italia, riducono l’azione partigiana a un puro supporto alle truppe alleate, tacciono delle diversità e dei conflitti interni al movimento antifascista. Negli ultimi venticinque anni la storia del Novecento studiata a scuola è stata completamente riscritta in chiave anticomunista.


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