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06/01/2019

L’incoerenza dei “populisti” di cento anni fa

Nel 1919, praticamente un secolo fa, Benito Mussolini fondava il movimento politico dei “Fasci di combattimento”. Emerso da un sentimento di insoddisfazione nei confronti della classe dirigente liberale, percepita e rappresentata come corrotta e insensibile alle esigenze popolari (specialmente quelle del ceto medio), quel movimento scaricava tutto il proprio risentimento sul più grande partito di massa dell’epoca, il partito socialista. La nascita e la forza d’attrazione dei Fasci costituiscono un fenomeno che va inteso all’interno di un processo di trasformazione epocale e internazionale, in pieno riassestamento post-bellico, ma che in Italia assunse un volto particolare: la fisionomia rigida e severa di Benito Mussolini, tanto solido nei muscoli del volto quanto incerto e oscillante sul piano ideologico-politico.

Nel 2018 lo storico Emilio Gentile ha pubblicato per Laterza il libro Mussolini contro Lenin, proponendosi di svolgere una narrazione parallela di due parziali biografie politiche, di due leader che su fronti opposti, ma negli stessi anni, furono protagonisti del superamento di sistemi politici consolidati fino alla prima guerra mondiale. In realtà, leggendo il lavoro di Gentile, si ha la sensazione che l’intenzione originaria fosse quella di lavorare a un saggio scientifico dedicato alla recezione e rappresentazione della rivoluzione russa negli articoli di Mussolini e i suoi collaboratori sul Popolo d’Italia. Prevale infatti questa componente descrittiva, che costituisce poi il contributo più interessante dal punto di vista storiografico. Le pagine dedicate alla dimensione più strettamente biografica si risolvono in due ritratti abbozzati. Più preciso quello di Mussolini, un po’ opaco il profilo di Lenin. Ma si capisce subito la differenza vistosa tra un rivoluzionario determinato come Lenin, armato di un apparato ideologico fin troppo coerente e rigoroso, e l’irrequieto Mussolini, capace di agitare gli animi dei propri seguaci, ma in fondo privo di una visione chiara e lineare della società, dell’economia, della politica internazionale.

L’autore prende le mosse dagli anni di Ginevra. Mussolini era un migrante economico, come diremmo oggi, che conobbe le difficoltà del sopravvivere, ma continuava a svolgere l’attività di agitatore politico socialista anche in Svizzera, tra gli esuli socialisti di altre nazioni, e frequentava assiduamente la Biblioteca universitaria, un luogo praticato negli stessi mesi da Lenin, in fuga dalla Russia perché individuato come pericoloso oppositore. L’incontro tra i due non è improbabile che ci sia stato, ma che si siano anche parlati non è un’ipotesi che trova riscontri.

Le fonti utilizzate da Gentile sono prevalentemente riconducibili a scritti di Mussolini o di personaggi a lui vicini, e ne emerge in modo chiaro un’emozione dominante: un forte risentimento personale nei confronti del Partito Socialista Italiano. Secondo Gentile, tale forma di revanscismo doveva essere ricondotta alla sua espulsione dal partito. Mussolini non avrebbe digerito la reazione dei compagni alla sua linea interventista. Tuttavia, se proviamo ad accogliere la nota ipotesi di Gaetano Salvemini, secondo la quale Mussolini avrebbe modificato il proprio approccio politico da neutralista (rispetto alla guerra di Libia), a interventista nella prima guerra mondiale, appena pochi anni dopo, in virtù di un finanziamento mirato da parte francese, con lo scopo di trascinare l’Italia nel conflitto a fianco dell’Intesa (si sarebbe trattato di risorse economiche destinate alla fondazione di un nuovo giornale, il Popolo d’Italia), saremmo costretti a rettificare la chiave di lettura.

Se fosse fondata l’ipotesi di Salvemini, Mussolini avrebbe dovuto aver già previsto la sua espulsione, e quindi il risentimento personale non sarebbe legato a quell’episodio specifico. Più probabile invece che il futuro duce fosse sinceramente animato da un’inquietudine attivistica irrazionalista, e che sperasse di acquisire un ruolo chiave all’interno del partito proprio in virtù di quella sua lettura della psicologia delle folle. La sua amarezza personale pare dunque essersi mutata in desiderio di vendetta dopo la maturata consapevolezza dell’incompatibilità tra la sua vocazione a una leadership movimentista e la più ossificata struttura organizzata del partito. Se il partito non lo inseguiva, era dunque il partito a sbagliare, e non lui a correre nella direzione errata. Forse questo tipo di sentimento gli fece prestare ascolto alle probabili proposte francesi. Forse questa dinamica emotiva lo trasformò in interventista. Forse fu questa, infine, la ragione del suo odio insuperato per quelli che iniziò a denominare i “leninisti d’Italia”.

Già da socialista, o “anarco-socialista”, Mussolini fu sempre antibolscevico. Quella formazione russa gli appariva un evidente fattore di rischio nel quadro internazionale. I bolscevichi ponevano al primo posto del proprio programma il ritiro della Russia dal conflitto mondiale, e questo avrebbe favorito gli imperi centrali, a danno dell’Italia. Ma al tempo stesso il direttore del Popolo d’Italia non poteva simpatizzare in alcun modo per l’autarchia zarista. Pertanto, il suo sostegno propagandistico era tutto per Kerenskij, e la democratizzazione della Russia. La rivoluzione d’ottobre viene descritta e percepita nel quotidiano mussoliniano come un colpo di mano voluto dal governo tedesco, che avrebbe posto abilmente Lenin su un treno per spedirlo nelle piazze russe ad agitare la seducente bandiera della pace. Il momento rivoluzionario viene ridicolizzato. Le conseguenze dell’Ottobre russo liquidate come dittatura morta sul nascere.

Mussolini e i suoi giornalisti descrivono a più riprese le rivolte e le manifestazioni contro il governo sovietico. Tuttavia pare sfuggirgli un dato intuitivo per qualunque osservatore: i bolscevichi erano inizialmente uno sparuto gruppo di intellettuali, operai e soldati. Se non avessero avuto il sostegno delle masse russe sarebbero stati rovesciati in pochi giorni. Forse in poche ore. E invece resistettero alla controrivoluzione bianca, appoggiata dalle potenze occidentali, e anche alle rivolte interne. Evidentemente ciò sarebbe stato impossibile, soprattutto in un territorio come la Russia, senza un consenso importante.

Lenin pare invece ignorare quasi completamente la figura di Mussolini, o almeno Gentile non riesce a trovare tracce significative della considerazione sovietica per il progressivo affermarsi del movimento fascista in Italia. Poche battute, qui e là, senza troppa attenzione.

L’aspetto più istruttivo di questo libro consiste nella documentazione dell’assoluta mancanza di un impianto ideologico-politico coerente in Benito Mussolini. Quell’uomo animato da una profonda irrequietezza, appare disponibile a repentini cambi di opinione, anche radicali, sulla base del mutare delle circostanze. Anche il suo odio anti-bolscevico, un sicuro punto fermo nel suo schema mentale, è rapidamente controbilanciato dal precoce riconoscimento dello Stato Sovietico nelle relazioni diplomatiche ed economiche con l’Italia (1924). Ma gli indizi più clamorosi in questo senso sono legati alla questione dell’antisemitismo.

Mussolini non coltivava una visione biologistica delle differenze umane, ma certamente serbava in sé un sentimento antisemita di tipo complottista, basato sull’idea di una trama occulta delle organizzazioni ebraiche internazionali per il controllo degli affari e della politica mondiale. Nel 1919 Mussolini nei suoi articoli deduceva una connessione tra bolscevismo ed ebraismo attraverso l’analisi di alcuni cognomi, fino ad arrivare a esplicitare il proprio pensiero il 4 giugno del 1919, scrivendo sul Popolo d’Italia: “grandi banchieri ebraici di Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca come a Budapest, si prendono una rivincita contro la razza ariana, che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli”, per poi aggiungere uno strano sillogismo: “il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare”.

Ne emerge evidentemente una fragilità strutturale della capacità di ragionamento politico di Mussolini, che si accompagna in modo interessante a un’assoluta volubilità teorica. Come infatti emerge dalla ricostruzione di Gentile, Donato Bachi, un ebreo che aveva collaborato con il Popolo d’Italia, protestò garbatamente contro le uscite del direttore, il quale, resosi conto del malcontento per il suo manifesto antisemitismo (per ragioni articolate, che qui non è possibile approfondire, occorre ricordare che ci fu inoltre un’importante adesione di cittadini ebrei al movimento fascista), soltanto un anno dopo scrisse un nuovo articolo, precisando: “1. che il bolscevismo non è un fenomeno ebraico, perché anche in Russia moltissimi sono gli ebrei antibolscevichi; 2. che in ogni caso la notevole partecipazione degli ebrei al bolscevismo russo si spiega con ragioni storiche locali; 3. che il bolscevismo, avendo esasperato le correnti antisemitiche in tutti i paesi, arreca grave danno agli ebrei”, per poi concludere, parlando dell’Italia: “non conosce l’antisemitismo e crediamo che non lo conoscerà mai”. Sappiamo tutti come è andata a finire.

Si dice spesso che le persone troppo affezionate alle proprie idee e troppo fiduciose nei propri schemi mentali siano pericolose perché illiberali. Forse è vero. Ma spesso, lo si potrebbe apprendere dalla storia, assai più pericolose appaiono le inquiete forme di flessibilità culturale, ideologica e morale.

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