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07/01/2019

Succede in Turchia, Europa sud-orientale

Ayten Oztürk è una giornalista e rivoluzionaria turca che ha vissuto in Libano in esilio e che era ricercata in Turchia con una taglia di 600.000 sterline a causa della presunta adesione al DHKP-C*. Mentre stava per andare in Grecia, alla fine di marzo 2018, Ayten é stata fermata all’aeroporto di Beirut dalle autorità libanesi e, poco più tardi, senza il rispetto di alcuna procedura giuridica, è stata espulsa e consegnata ad unità speciali turche (una sorta di Gladio turca) che hanno condotto Ayten con gli occhi bendati in un luogo sconosciuto.

Per 6 mesi le hanno inferto scariche elettriche in vari punti del corpo, come ad esempio i capezzoli; l’hanno colpita con fruste e bastoni sulle gambe e sulle piante dei piedi; è stata sottoposta a waterboarding (forma di tortura che simula l’annegamento) e le hanno infilato delle lamette sotto le unghie. Ad intervalli regolari, Ayten è stata curata da un medico per poi poter continuare a sottoporla alle torture.

Oltre alla tortura fisica, Ayten è stata torturata anche psicologicamente quando le hanno detto che nessuno si preoccupava e domandava di lei e che tutti pensavano che fosse morta. Ayten Oztürk è stata tenuta ammanettata per settimane ed è stata anche molestata sessualmente e minacciata di stupro più volte. Per 6 mesi, Ayten è stata torturata in modo crudele. In prigione le hanno causato, torturandola, ben 868 ferite! Ma i torturatori fascisti, tutti uomini, non sono riusciti ad ottenere da parte di Ayten nessuna dichiarazione che tradisse i suoi compagni.

Ayten ha raccontato in una lettera i suoi 6 mesi nelle camere di tortura della Gladio Turca. Buona lettura.

*****

“LA LIBERTÀ NON SI RICHIEDE. SI VINCE RESISTENDO A TUTTI I COSTI”

Caro F.,

Ciao! Lo scorso mese ho ricevuto la tua cartolina e i tuoi cari saluti. Veramente tante grazie. Anche i saluti sono un balsamo per le mie ferite, una forza per il mio cuore. Spero la tua salute sia buona.

Io mi sento molto meglio. I miei trattamenti continuano. Ora faccio uso di alcuni medicinali; ma l’amore dei miei compagni, più delle medicine, mi stanno facendo guarire in fretta. Non ci sono novità per quanto riguarda gli sviluppi legali del mio processo. Sono in carcere senza motivo. Sono sicura che tu ti stia chiedendo che cosa mi sia accaduto fin dall’inizio. Lasciami spiegare da chi e come sono stata detenuta.

L’8 marzo 2018 la polizia libanese mi ha preso in custodia nell’aeroporto di Beirut e portata nel dipartimento di polizia. Qui, sono stata trattenuta per una settimana. Sebbene io abbia detto alla polizia libanese di essere una rivoluzionaria, e che stavo portando avanti una battaglia anti-imperialista, loro hanno riferito le informazioni al Consolato turco. Una persona dal Consolato turco è venuta e mi ha detto che avrebbe voluto incontrarmi. Hanno cercato di avere informazioni su di me dalla Polizia libanese.

Il 13 marzo i poliziotti libanesi mi hanno preso, ammanettato e bendato. Quando chiesi dove mi stavano portando, mi risposero: “In un posto migliore”. Poi fui fatta salire su un’automobile. Dopo circa mezz’ora di strada, mi hanno fatto scendere dalla macchina e mi hanno tolto le bende dagli occhi. Ho realizzato di essere in un lato tranquillo dell’aeroporto. Non c’erano persone civili. Persone che non potei vedere in volto, mi coprirono nuovamente gli occhi e mi misero un sacco in testa.

Mi ammanettarono le mani dietro la schiena. Mi abbassarono forzatamente la testa e mi spinsero dentro l’aereo, come se fossero in ritardo. Sull’aereo udii una voce che parlava in lingua turca. Non dissero chi erano o dove mi stavano portando. Ipotizzai di essere stata rapita e di star andando in Turchia e i miei sospetti si rivelarono corretti.

Arrivai in Turchia dal Libano dopo circa un’ora di viaggio. Quando fui fatta scendere dall’aereo, iniziai ad urlare “La dignità umana vincerà sulla tortura!”. A seguito di questo mi tapparono la bocca con le loro mani. Dato che i miei occhi erano chiusi non potei vedere che aspetto avesse il centro di tortura.

Appena entrai mi tolsero i vestiti molto velocemente e mi gettarono in una stanza insonorizzata.

Circa un mese dopo, iniziarono a togliermi le bende dagli occhi all’interno della cella. Prima i miei occhi erano sempre stati bendati e le mie mani ammanettate. Quando aprii gli occhi vidi il posto in cui ero. La cella era grande circa 1,5 x 2 m. Le pareti erano rivestite da un tappeto grigio. Il pavimento era un po’ soffice. Inseguito il pavimento sembrò più duro dato che vi ero seduta 24 ore al giorno. L’interno della cella era monitorato con una telecamera 24 ore al giorno. C’erano due pareti opposte con la ventilazione. Il buco per l’areazione della stanza era rotondo e largo come un piatto.

Qui per sei mesi sono stata soggetta a torture fisiche e psicologiche. Per lungo tempo nella cella sono rimasta con le mani legate dietro la schiena, un sacco sulla testa e una benda sugli occhi. Per questo non potevo respirare agilmente e avevo difficoltà a muovere le braccia. Iniziai lo sciopero della fame sin da quando fui fermata in Libano l’8 marzo. Cercarono di far rompere la mia resistenza dandomi pochissimi liquidi o affatto. Mi legarono le braccia e le gambe per iniettarmi del siero in modo forzato.

Dato che continuavo lo sciopero della fame oltre al siero che mi iniettavano, iniziarono a mettere nella mia cella del cibo succulento e profumato. Dopo il secondo mese di sciopero della fame mi portarono nella stanza delle torture con la benda sugli occhi e le mani legate. Dalla distanza della mia cella a quella delle torture, capii che questo posto era stato realizzato appositamente come centro per le torture fisiche e psicologiche. Durante le giornate di tortura psicologica continuavano a dirmi: “Qui non c’è onore, decenza, dignità. Queste cose rimangono fuori. Se non parli con noi, non potrai uscire. Questo Stato ha mandato un aeroplano per venirti a prendere...”. Ma poi hanno iniziato a torturarmi fisicamente affinché io riiniziassi a mangiare in modo forzato. Mi spalancarono le braccia da parte a parte e le ammanettarono a degli anelli di ferro sul muro.

Subito dopo, mentre qualcuno stava erogando elettricità con un dispositivo, un altro cercava di farmi mangiare con percosse e improperi, e di farmi bere liquidi nutrienti. Proseguirono con queste torture per giorni. Mentre praticavano queste sevizie, continuavano a ripetermi: “Questo posto non è come tutti gli altri. Questo è l’inferno profondo. Non uscirai più di qui”. Capii che mi trovavo al centro della contro-guerriglia. Il loro scopo era disonorarmi facendomi parlare, per farmi prendere le distanze dalla mia identità rivoluzionaria e dai miei valori.

Dissi che non importava cosa avessero fatto di me, io comunque non avrei mai parlato, e dopo un po’ iniziarono a torturarmi fisicamente. Spogliandomi e appendendomi mi dissero: “Parlerai?”, risposi “No” e iniziarono a darmi scariche elettriche in vari punti del corpo. Mi torturarono in questo modo per circa venti giorni consecutivi. Oltre alle scosse elettriche che mi davano facendo pressione su varie parti del mio corpo con un dispositivo, un nastro metallico elettrificato mi avvolgeva i mignoli e le dita dei piedi. Questo faceva sussultare tutto il mio corpo.

Mentre subivo queste torture, mi prendevano per i capelli e mi sbattevano la testa contro il muro. Erano soliti dire: “Rimuovi questi pensieri dalla tua testa. Caccia fuori tutto ciò che ti sta motivando! Per chi, per cosa stai opponendo resistenza? Morirai e te ne andrai da qui. Nessuno ti sentirà, nessuno si prenderà cura di te. Nessuno sa che sei qui. Qui abbiamo solo Dio e noi stessi. Qualunque cosa diciamo accade. L’unico modo per uscire di qui è non esserci mai entrato”.

Cercavano di tenermi in piedi per tutto il tempo, eccetto durante le sessioni delle torture fisiche. Mi tenevano in piedi in cella e in una bara per ore. Pertanto, si sono verificati gravi gonfiori ed edemi ai piedi e alle gambe. Le torture fisiche venivano fatte per lo più di notte. Posso ipotizzare dopo le 22.

Sono riuscita a fare una stima delle ore e dei giorni seguendo i ritmi dal mio arrivo in quel centro di detenzione. La porta della cella era aperta solo in certi orari: tre volte al giorno per andare in bagno. Ecco come ho potuto stimare gli orari. Inoltre potevo immaginarlo dai rumori provenienti dal soffitto che ero sicura erano durante le ore di ufficio. Stavano usando molti metodi differenti di tortura per evitare di farmi pensare correttamente, per demoralizzarmi, per creare un senso di nulla e di solitudine.

Per esempio: erano soliti erogare nella cella aria molto fredda o molto calda per ore. Durante la notte cercavano di farmi dormire di meno, cercavano di farmi stancare. “Non sei stanca? Dicci che sei stanca, dicci che vuoi tornare nella tua cella e ti porteremo in cella”. A volte mi torturavano per sentirmi pronunciare il mio nome o per sentirmi dire che ero stanca. Mi frustavano, battevano e martellavano le gambe gonfie, le colpivano con manganelli. Mi frustavano anche le piante dei piedi. Mi sospendevano nell’aria tenendo saldamente i miei capezzoli.

Mi tormentavano con un manganello, un bastone e le loro dita per diversi minuti. Mi minacciarono anche di stupro.

Mi minacciavano di togliermi le unghie con un taglierino a forma di ago. Per questo motivo, tre delle mie unghie hanno sviluppato ecchimosi e putrefazione. Hanno usato delle pinze sulle dita dei piedi, minacciandomi: “Vuoi che ti tagliamo le dita dei piedi o hai intenzione di parlare?” Stavano cercando di annegarmi spruzzando acqua pressurizzata sulla mia testa coperta da un sacco. Tenevano un riflettore puntato sui miei occhi per diversi minuti.

Di tanto in tanto aprivano i miei occhi cercando di convincermi a collaborare. Alcuni di loro avevano vestiti neri e passamontagna. Potevo solo vedere i loro occhi. Durante le torture erano da due a cinque persone. Ma avrebbero potuto essere di più. Erano divisi n due gruppi differenti, quelli che prendevano parte alle torture psicologiche e quelli che mi imponevano torture fisiche. Durante le torture verbali, ovvero quelle psicologiche, chiamavano “fratelli” coloro che erano “i miei responsabili” (coloro che si occupavano delle mie torture). Quelli che chiamavano “fratelli” stavano giocando un “buon” ruolo. Cercavano di obbligarmi a collaborare dicendomi che se avessero fatto venire le persone che chiamavano “fratelli”, le torture sarebbero finite. Quando continuavo a dire “Non parlerò mai” loro rispondevano “Allora le torture continueranno”. Mi mettevano a testa in giù per un po’. Cercavano di drogarmi. Mi iniettavano delle sostanze, ma non avevano nessun effetto su di me.

Mi schiaffeggiavano per diversi minuti, causandomi gonfiori al viso e il sanguinamento del naso. A seguito di queste percosse e schiaffi avevo problemi di equilibrio per giorni. Soffrivo di vertigini e avevo dolori in tutto il corpo. Mi dicevano: “Non vorrai fare la fine della tua famiglia. Loro non appenderanno mai la tua foto tra quelle dei martiri”. Continuavano dicendo: “La tua resistenza non ha senso” e poi “Nessuno ti sta cercando, i tuoi amici hanno smesso di farlo perché tu non sei più in circolazione da troppo tempo. Abbiamo poteri illimitati qui. Non ci sono limiti di tempo qui. Ti terremo fino a quando vogliamo. Non puoi uscire da qui. Non ti uccideremo; ma faremo in modo che la morte si ripeta ogni giorno. Ti tortureremo per un po’, poi smetteremo, poi ti metteremo sotto trattamento, poi ricominceremo con la tortura. Passo dopo passo, con metodi differenti e aumentando le sofferenze. Continueremo le torture. Se necessario abbiamo anche gli strumenti per fare il trapianto di organi...”.

Da quando ho iniziato a capire che il soggiorno lì dentro sarebbe stato abbastanza lungo, iniziai a organizzarmi mentalmente con una scaletta giornaliera e dandomi delle regole. Ho impostato le mie scadenze giornaliere in base all’apertura e alla chiusura della porta. Programmavo cosa pensare e cosa fare. Ho cercato di rompere l’isolamento nel quale mi avevano messo. I martiri, i prigionieri e tutti i miei amori erano con me. Ho tratto la mia forza da loro. In ogni momento i miei martiri Ahmet (mio fratello), Hamide (mia sorella) e Gülseren (mia cognata) erano con me. Erano nella mia testa e nel mio cuore.

Sebbene mi minacciassero di tenere la bocca chiusa, io urlavo slogan e cantavo marce da dentro la cella. I miei slogan erano “La dignità umana prenderà il sopravvento contro la tortura”, “Morirò piuttosto di parlare”, “Fino alla fine, fino al mio ultimo respiro”, “Benvenuta morte, lunga vita alla vittoria”, “Vincerò!”

Urlavo questi slogan tutti i giorni nelle ore che avevo stabilito, e cantavo tutte le canzoni di Grup Yorum che conoscevo. A volte cantavo canzoni popolari.

Cercavo di tenere la mia memoria viva con dei giochi di parole. Cercavo di ricordare i titoli dei libri che avevo letto, i contenuti, e i film che avevo visto. Ognuno di loro mi dava la forza. Ogni giorno commemoravo tre martiri. Iniziai con quelli che conoscevo personalmente e poi continuai con coloro dei quali conoscevo il nome. Avevo una pietra angolare delle menzogne e delle minacce che i torturatori dicevano: “Pensa e fa l’opposto di ciò che i nemici dicono”, “Conosci te stesso, identifica i nemici e diventa invincibile”, “La libertà non si richiede, si vince resistendo a tutti i costi”.

Volevano che io chiedessi loro qualcosa. Quando dicevo che non avevo nessuna richiesta, loro mi dicevano: “Non vuoi neppure richiedere la tua libertà?” Lo sapevo che in questo modo avrebbero chiesto qualcosa in cambio da me se avessi esposto le mie necessità. Volevano denigrarmi, disumanizzarmi. “Preferisco morire con la mia dignità piuttosto che vivere senza di essa”. Non stavo abbandonando il pensiero scientifico, l’idea materialista dialettica 4 + 3. Non conoscevo la paura: era una sensazione che cresceva dalle tenebre. Ma per me, coloro che praticavano la tortura non erano noti. Storicamente, tutti i poteri ingiusti e deboli, tutti i persecutori, torturatori vogliono distruggere ciò che non è loro. E coloro che resistono alle persecuzioni sono sempre vincitori.

In un angolo della mia mente mi dicevo: “La paura è sconfitta dalla conoscenza e dal coraggio, il valore superiore morale e politico è potere ideologico”. E stavo applicando questo potere non parlando. Avrebbero potuto fare qualsiasi cosa al mio corpo, ma non avrebbero mai scalfito la mia anima e il mio cervello. Niente può sopraffare un’ideologia che ha vinto la morte. Stavo sperando di morire lì dentro.

Se fossi morta lì dentro avrei certamente vinto la mia guerra. Perché non avrei dato nessuna risposta alle loro domande. Penso di essere stata torturata per venti giorni di seguito dalla fine di luglio fino a metà agosto. Un giorno mi aprirono gli occhi nel centro di tortura, “Ti daremo uno specchio, guarda il tuo viso, ma non spaventarti” mi dissero. Tutti i lati della mia faccia, intorno agli occhi, sulla fronte, erano neri di lividi, io non mi sono spaventata! Loro erano spaventati. Loro erano troppo spaventati per mostrarsi a volto scoperto.

In quell’occasione vidi che c’erano ferite e contusioni su tutto il mio corpo. Cercarono di curarmi quando iniziarono a vedere che le cose andavano sempre peggio. Mi spalmarono dei sieri e delle creme per tutto il corpo. Immagino che il trattamento durò per circa venti, venticinque giorni. Ma persino durante le torture continuarono ad applicare creme sui lividi.

Il torturatore che chiamavano “Dottore” era anche lui a volto coperto. Mi hanno torturato in un posto come una “Baia Malata”. Mi hanno detto che avrebbero iniziato la seconda sessione di torture dopo il trattamento medico e che sarebbe stato più duro. E ogni giorno avevano la stessa risposta da me: “Non parlerò!”

Mi dicevano: “Vediamo quanto una rivoluzionaria come te riuscirà a tenere duro”. Poi mi offrivano apertamente di cooperare: “Tutto il denaro che vuoi, il diritto a vivere con chi vuoi, una nuova identità...”. Dopo la tortura mi chiedevano di aprire un dialogo. Quando realizzarono che non avrebbero ottenuto nessun risultato, una delle persone che chiamavano “fratello” disse che il mio tempo era scaduto e che mi avrebbero mandato in prigione. Questo fu esattamente ciò che disse: “Non pensare qualcosa di diverso. Ti stiamo dando in mano alla giustizia. Marcirai in prigione.” Poi mi bendarono e mi legarono le mani dietro la schiena con uno spago di plastica e fui messa in macchina.

Dopo circa un ora di strada, mi lasciarono in un campo, aprii i miei occhi e mi sciolsero i polsi molto velocemente, poi scapparono con la macchina in fretta. Dopo 2-3 secondi la polizia TEM di Ankara mi prese dicendo: “C’è un avviso di cattura su di te”. Dopo quattro giorni di fermo, fui incarcerata e portata nella prigione femminile di Sincan.

Quando abbiamo ragionato sul perché il governo libanese mi ha consegnato e perché sono stata torturata per sei mesi in un luogo “non ufficiale”, anche conosciuto come centro di contro-guerriglia, siamo arrivati alle seguenti conclusioni:

Il Libano è un servo dell’imperialismo e dell’AKP. Uno Stato che è sottomesso alla polizia del medio-oriente dell’AKP. Penso che non sappiano molto della storia rivoluzionaria e dei rivoluzionari turchi. Non è ancora chiaro il motivo per il quale mi abbiano consegnato al governo turco e cosa abbiano ottenuto in cambio. Ma il governo libanese ha commesso un crimine storico molto serio cedendomi al fascismo turco e lasciandomi torturare per sei mesi. Il governo libanese deve immediatamente confessare i suoi crimini e abbandonare la cooperazione!

Sono stata torturata per sei mesi dal centro di contro-guerriglia e l’obbiettivo era di creare paura tra il popolo e tra l’opposizione di rivoluzionari-democratici. Volevano testare la forza dei rivoluzionari, lanciando il messaggio “Noi possiamo prendere i rivoluzionari ovunque nel mondo” e mostrare il proprio potere.

In ogni caso, niente può distruggere la comunità rivoluzionaria in patria e neppure l’amore tra compagni. È un dovere la rivoluzione in un paese come il nostro. È anche un dovere naturale resistere alle torture del fascismo, che costantemente attaccano il popolo e i rivoluzionari, perché non sono capaci di gestirci. Chiunque decida di resistere finirà per trovare le proprie motivazioni sotto tortura. I codardi sono torturatori impotenti e indifesi. Coloro che volevano creare disperazione nell’opinione pubblica e nei rivoluzionari sono stati accolti dal desiderio di odio e giustizia. Non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi!

Poiché noi traiamo la nostra forza da una base ideologica solida e dalla nostra storica rettitudine. Sei mesi dopo, quando fui imprigionata e riunita ai miei amici, è come se fossi nata a nuova vita. Dissi: “Abbiamo vinto ancora!”. Mentre stavo vivendo l’onore di essere degna di appartenere alla mia grande famiglia e ai miei compagni, pensavo che tutto il dolore si sarebbe alleviato una volta che la giustizia avesse fatto il suo decorso.

Il fatto che io sia in prigione senza nessuna ragione concreta e razionale dopo la tortura, è solo un esempio dell’imponenza dell’ingiustizia e del fascismo nel nostro paese. I miei compagni di cella hanno contato le cicatrici sul mio corpo e hanno detto che ho 868 (ottocentosessantotto) segni di tortura. Ho almeno 868 ragioni per aumentare i miei anni di lotta. Anche se i torturatori si nascondessero sette volte sotto terra, non saranno in grado di scappare dal popolo che chiede giustizia.

Caro F, ti ho riportato in sintesi le esperienze che ho vissuto. Ti mando i saluti dei miei amici accanto a me: Elif, Gonul e Buket. Abbi cura di te.

Cordiali saluti,

Ayten”

Indirizzo:
Ayten Öztürk
Sincan Kapalı Kadın Hapishanesi
Sincan / ANKARA

*il DHKP-C è Il Fronte Rivoluzionario della liberazione popolare, partito Marxista-leninista fondato nel 1978 da Dursun Karataş

Fonte

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