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18/03/2020

Il virus della comunicazione


La battaglia della comunicazione ai tempi del Coronavirus l’hanno vinta sicuramente loro, per il momento: le cronache “leggere” (quelle cioè che oggi valgono una delle prima posizioni sui siti dei maggiori quotidiani) ci dicono che dieci giorni fa si sono ritrovati in 3.500, in Francia, per il raduno annuale dei Puffi che, tra l’altro, rappresentano notoriamente la metafora di una società comunista. Non sappiamo altrove (ci sarebbe bisogno di uno studio più approfondito), ma in Italia l’intera vicenda del Coronavirus è stata giocata dal ceto politico unicamente sul piano della comunicazione: qual è lo stile comunicativo migliore per ottenere il maggior ritorno possibile in termini di consenso? Non è cinismo, a ben vedere, ma la logica conseguenza di una distanza ormai incolmabile tra la cittadinanza e QUESTA classe politica, che cerca ogni appiglio a cui aggrapparsi, come il barone di Münchhausen al suo codino, soprattutto in uno dei Paesi in cui più forte era, in passato, l’incidenza delle ideologie e in cui più veloce – ma non indolore – è stato il loro accantonamento. In un contesto del genere, spiace dirlo, ogni imprevedibile catastrofe (e il virus in questo modo è stato descritto, a onta del buon senso) fornisce un grande appoggio al governo in carica, che ben felicemente può assumersi “l’onere” di salvatore della patria, da un lato richiedendo ai cittadini restrizioni alle proprie libertà, dall’altro imponendo una sorta di solidarietà nazionale alle opposizioni.

Entrambi difficilmente potranno rifiutare tali richieste, onde evitare di apparire menefreghisti rispetto all’interesse nazionale e, soprattutto, rispetto alle necessità di ciascun individuo. Nello specifico italiano, il premier Conte, infatti, guadagna consensi – almeno stando ai sondaggi – forte anche dell’aplomb serioso e preoccupato che riesce a mostrare nelle occasioni ufficiali. Passa quasi in secondo piano, ahinoi, la concreta risposta del governo alla diffusione del Coronavirus in Italia, tra ritardi, improbabili accelerazioni, incredibili contraddizioni e l’impressione di decidere giorno per giorno. Tutto, pur di non mettere in discussione quei tagli al Servizio Sanitario Nazionale che hanno reso ogni ospedale un posto ostile, distante e insicuro.

Allo stesso tempo, la libertà di spostamento conosce quelle limitazioni che servono a perimetrare la gravità del momento, ma il diritto di proprietà rimane inviolabile, quasi un tabù divino: a fronte delle oggettive carenze nei reparti di terapia intensiva e dell’indegna borsa nera delle mascherine, a governo e opposizione non viene in mente di requisire cliniche private oppure stabilimenti che producono materiale sanitario. Persino l’emergenza, in Italia, arretra quando rischia di intaccare gli interessi economici e di “fare giurisprudenza”, creando un precedente. L’opposizione, dicevamo, si trova in un bel guaio: prima il cancan delle sardine, adesso la risalita del governo, cioè del Pd. La retorica sui migranti non attecchisce, adesso, anzi: assegnerebbe un voto basso e il giudizio di essere “fuori tema” al compitino di Salvini, il quale cerca di reintrodurre forzatamente l’argomento nel dibattito nazionale (sottolineando la facilità quasi automatica con cui vengono chiuse le frontiere nazionali, in tempi di diffusione virale), ma si pone su un piano scivoloso, rischiando di scatenare “l’effetto immedesimazione”, nel momento in cui – per l’Europa e il mondo intero – lo Straniero, l’Untore e l’Indesiderato è italiano, non africano.

Ecco, allora, che la Lega si attesta su posizioni difensive, rispolverando l’anima settentrionale e separatista: esaltazione dei “governatori” (termine improprio, inesistente nel nostro ordinamento istituzionale) del Nord e criticando il Sud pigro e irresponsabile, refrattario alle limitazioni di contatto e spostamento. Quello leghista è il classico atteggiamento di chi sta sulla difensiva e si rinchiude nelle proprie roccaforti, che sono peraltro i territori che per primi hanno sofferto per l’incapacità degli amministratori locali e nazionali. Inizialmente, infatti, i vari Fontana e Zaia aveva sminuito il rischio del contagio e la mortalità del virus: il timore di un rallentamento delle economie regionali e di una limitazione dei profitti industriali aveva consigliato loro di non inimicarsi la classe sociale di riferimento. La svolta, però, è stata improvvisa e clamorosa, nel momento in cui i vari esperti di comunicazione hanno comunicato come l’atteggiamento “negazionista” non avrebbe pagato, nel momento in cui la popolazione veniva educata a dosi progressive di drammaticità. Urgeva, quindi, un cambio, per non fare la figura del grillino qualunque: ecco la scena, veramente grottesca, di Fontana che si auto-proclama in quarantena e si mette in diretta social la mascherina (quella inutile, tra l’altro), neanche si stesse immolando per il popolo. Una delle scene più tristi degli ultimi tempi (e la concorrenza è ampia).

Il problema, però, è alla base: come ogni “fatto sociale globale” il Coronavirus presenta una forte narrazione territoriale e mette in primo piano, inevitabilmente, gli amministratori locali, che devono dimostrarsi all’altezza delle odierne regole della politica-spettacolo. Zaia si difende (dopo tanti anni passati a studiare Berlusconi), ma Fontana è francamente impresentabile, a partire dall’aspetto estetico, che ricorda il vecchietto reduce da una bella chiacchierata al parco con i piccioni. Non resta, quindi, che iniziare la gara a chi la spara più grossa, secondo la linea comunicativa della catastrofe imminente e immaginando il format del film catastrofici, in cui l’aria esterna è infetta e letale al solo respiro. A questo punto, il governo deve allinearsi alla locomotiva lombardo-veneta e agire di conseguenza: quando ormai i buoi sono fuori dal recinto e il contagio è iniziato vengono chiuse le scuole (il che vuol dire, in un Paese che ha rinunciato al welfare, affidare i bambini, potenziali untori, ai nonni anziani, potenziali vittime), le attività non strettamente produttive, quindi i ristoranti (ma non il business imperante della ristorazione a domicilio, come se i riders fossero cyborg immuni a ogni contagio), i bar, i pub, i parchi. Gli spostamenti vengono primi inibiti da e verso il Nord, poi tra i diversi comuni italiani, poi anche dentro lo stesso comune, se non per motivi essenziali e “solitari”. Tra questi inizialmente è prevista la famosa “passeggiata”, coerente con la logica per cui l’ossigenazione in spazi aperti rinforza l’organismo, allontanandone il virus; successivamente viene riclassificata anche la “passeggiata”, ridotta a spostamento per raggiungere un negozio di prodotti alimentari. Il risultato, che dà la misura di come sia organizzata la società in Italia, è che tuttora, nonostante la condizione di emergenza e i provvedimenti eccezionali, non sia chiaro cosa è possibile e cosa è proibito fare.

Come sempre in questi casi (e non solo), enorme è il potere discrezionale della forze dell’ordine, tanto che i denunciati, alla fine, sono... gli stranieri (oltre a quelli a cui Burioni fa la spia su Twitter, con foto vecchie di trent’anni), secondo il facile automatismo: almeno due stranieri = bottiglia di Peroni = bivacco = denuncia. In pochi hanno notato, peraltro, come i diversi documenti di auto-certificazione (altro capolavoro della tecnicalità amministrativa italiana) siano previsti solo nella nostra lingua, così da poter inchiodare facilmente i non-italiani. In questa sorta di “emergenza sincopata” rimangono incredibilmente aperte e funzionanti non solo le filiere dell’industria alimentare (nelle quali, peraltro, i dipendenti lavorano nelle stesse identiche modalità dell’ante-virus), ma anche il manifatturiero: evidentemente fabbricare le Ferrari a Maranello è fondamentale per la quotidiana sopravvivenza! Proprio gli organi di stampa del centro-sinistra (Repubblica e L’Espresso) si distinguono per l’invocazione alle fabbriche aperte, “per non azzerare il mercato”. Ancora una volta – ma ci saremmo stupiti del contrario – la prospettiva dei lavoratori non trova sponde politiche.

Dal punto di vista della comunicazione al tempo del Coronavirus, l’exploit del centro-sinistra è stato molto blando, come sempre, tanto che “l’opportunità” di avere il segretario del Pd contagiato dalla malattia è stata lasciata cadere con eleganza: solo con raccapricciante fantasia possiamo immaginare cosa avrebbe fatto Salvini nelle sue stesse condizioni, con un live h24 della sua malattia e del modo eroico in cui la sconfiggeva. Poco da segnalare sulla destra radicale, che continua la sua scomparsa in dissolvenza. Casapound propone un risibile programma di rilancio nazionale (presunte “proposte shock” che sarebbero sottoscritte anche da Brunetta, da cui probabilmente le hanno copiate) e invita i connazionali a sintonizzarsi sulle frequenze di Radio Bandiera Nera, in una sorta di versione primaverile e depotenziata del Papeete. Mai una sorpresa neanche da Forza Nuova, che invoca il pugno duro contro i disordini sociali, che significa più esplicitamente implorare una repressione senza mezze misure delle proteste nelle carceri, a conferma dei timori della piccola borghesia rattrappita.

A sinistra, di contro, sono state prodotte tante riflessioni pertinenti e interessanti (è rispuntato pure Agnoletto, finalmente in panni a lui congeniali), nonostante un’estrema frammentarietà e un’inevitabile tecnicità dell’argomento che, come già detto, consiglierebbe di astenersi dal proporre facili soluzioni. A tutte le strutture della sinistra anticapitalista proponiamo alcune linee di ragionamento, che scavino tra le contraddizioni più evidenti di un fatto sociale che, almeno nel mondo occidentale, non accade propriamente ogni anno: di certo non sarà alla pari di una guerra – come pure enfaticamente (e vergognosamente) viene detto dai collezionisti di souvenir cronologici – ma non è neanche la semplice mobilità limitata che si ebbe dopo lo shock petrolifero degli anni Settanta. I punti su cui riflettere, quindi, non mancano:

Il Coronavirus come setaccio tra lavoro produttivo e improduttivo in senso marxiano: quasi confortando il noto assunto di Lenin, il governo italiano blocca le libertà civili, ma non la produzione (privata). Si continua a lavorare nei campi, nei cantieri, nelle fabbriche, come pure in quei settori che di fatto sono “para-produttivi”, perché funzionali alla veicolazione delle merci prodotte (gli autotrasportatori, i driver, i commessi dei supermercati, gli impiegati delle Poste e degli istituti bancari).
L’epidemia/pandemia ha rimesso al centro del villaggio la normale graduatoria delle attività lavorative, in termini di interesse collettivo (e di profittabilità privata, nello specifico dei Paesi capitalistici): tutta la narrazione sull’economia delle piattaforme, della Smart Economy, delle start-up viene fortemente ridimensionata, alla luce di un’evidenza che è dura da accettare. Una percentuale molto elevata di lavoratori italiani (dipendenti o autonomi) può stare a casa – e “magari” anche perdere il lavoro – ma l’economia del Paese ne risentirà solo marginalmente. Di contro, chi lavora in determinati settori della Old Economy dovrà crepare in catena di montaggio o sui ponteggi: non c’è virus che tenga. Noi, come sinistra di classe, siamo preparati a questa “rivelazione” o dobbiamo rivedere qualcosa, nel nostro bagaglio teorico?

Il Coronavirus come elemento destrutturante dell’Unione europea: ma come, il palinsesto economico dell’Europa liberista non era rigido, immodificabile, tetragono, impietoso?! È “bastata” una pandemia – i cui costi umani sono ancora insondabili – per far aprire i cordoni delle borse e legittimare misure eccezionali, pari quasi a una Legge di bilancio ex novo! Dove è finita tutta le retorica sull’adeguamento obbligato alle direttive di Bruxelles, vista come una sorta di Dracula inarrestabile, un cerbero spietato, assetato del sangue dei cittadini?! Il virus ha improvvisamente fornito ardimento a quella stessa classe politica italiana reduce da un trentennale appecoronamento in favore del neoliberismo continentale? Persino gli euroburocrati, al netto di qualche gaffe iniziale (subito stigmatizzata da giornalisti ed editorialisti fino a ieri ugualmente proni a Bruxelles), si sono dimostrati disponibili, solidali, “complici” del prossimo sforacchiamento italiano! Allora la “gabbia europea” si poteva effettivamente scardinare, quella fortezza non era impenetrabile! Il problema – viene da dire, guardando alla nostra parte politica – non era lo sforzo inane contro un avversario imbattibile, ma la nostra incapacità di costruire una concreta opposizione di massa al progetto europeista. Non eravamo abbastanza. Ma si poteva fare. Si può ancora fare, evidentemente, questa volta senza scomodare alcuna pandemia.

Il Coronavirus come ennesima conferma del diritto alla casa come fondamentale e inalienabile, in un’epoca – peraltro – che associa l’espressione ‘diritti umani’ a variabili molto più frivole (la banda larga di internet, l’aperitivo del venerdì, la settimana bianca). I giorni di clausura forzata (non per tutti/e, ripetiamo) sono stati resi ancora più pesanti dai tanti articoli che magnificavano la “riscoperta obbligata” della propria famiglia, dello stare a casa, del godersi le quattro mura domestiche. “La casa è la nostra tana”, ci veniva detto: va bene, accettiamo anche questa regressione allo stato animale, ma vorremmo sapere come mai le istituzioni si siano accorti solo adesso dell’importanza di avere un tetto sotto cui ripararsi – non solo dai virus – e cosa stiano facendo in favore di chi la fortuna del suddetto tetto sopra la testa non ce l’ha. Gli sfratti, gli sgomberi, come pure le mancate sanzioni per chi specula, affitta in nero e sfrutta chi si trovi in condizione di bisogno come si pongono di fronte alla retorica della “tana”? Oppure il nuovo gioco della borghesia consiste nello “stanare” le volpi e i tassi dalle tane, neanche fossimo tra la nobiltà al galoppo nello Yorkshire?

Il Coronavirus come sbugiardamento tanto del decentramento amministrativo, quanto della privatizzazione dei servizi essenziali: fiumi di parole su quanto fosse dinamica l’Italia della modifica del Titolo V della Costituzione, di quanto fosse moderno il Paese con la sanità privata a lucrare sulla crisi di quella pubblica ed eccoci a una situazione in stile Ebola, con le più ricche e performanti regioni italiane incapaci di gestire un virus “senza kalashnikov” (come definito dalla virologa Ilaria Capua) e più forte delle altre. Eccoci all’appello alla carità pelosa e interessata di qualche Vip, eccoci all’emergenza ingestibile della provincia di Bergamo, distretto di Nairobi (e qui ci chiediamo come mai pari commozione non sia dedicata alle migliaia di bambini che in Africa muoiono di diarrea), eccoci al puttaniere Bertolaso tornato in ballo, agli ospedali costruiti con i Lego (mattoncini dorati, però, dati i costi) e resi operativi quando non serviranno più. Eccoci – e questa è una vera ferita aperta – ai lavoratori della sanità usati come carne da macello, senza le minime precauzioni necessarie, mentre i primari dei rispettivi reparti ormai vivono in televisione, tipo Elettra Lamborghini.

Il Coronavirus come richiesta di “sacrifici nazionali”. Va bene: diamo l’oro alla patria, mandiamo avanti la baracca, non usciamo quando non si deve uscire, usciamo quando si deve andare a lavorare, “abbozziamo” quando perdiamo il lavoro oppure quando questo mese non ci pagano e il prossimo ci licenziano, quando paghiamo servizi (mense scolastiche, trasporto pubblico, il cosiddetto “welfare aziendale”) di cui non potremo usufruire per mesi, soprassedendo sul fatto che la decisione sul ripristino della “normalità” sarà politica e non medico-sanitaria, con il rischio che l’attuale corsa, da parte della classe politica, a chi la spara più grossa (“il virus si trasmette anche con lo sguardo”), per mostrarsi “friendly” con i cittadini, possa tenerci dentro casa fino a Ferragosto. Ma poi? I cittadini cosa otterranno in cambio? Dopo i sacrifici delle guerre mondiali (si parva licet, non vogliamo fare nessun paragone improprio) una popolazione arrabbiata e battagliera (ma pure organizzata) ottenne il suffragio veramente universale e lo Stato sociale. Adesso? Otterremo solo il mantenimento di dispositivi di controllo ulteriormente potenziati, di cui verrà “dimenticata” la disattivazione? L’abitudine alla delazione di massa (“Ho visto uno che fa pisciare il cane troppo distante da casa sua, adesso lo dico a Burioni”)? L’ufficializzazione istituzionale del lavoro a chiamata (“Questo mese ci saranno pochi turisti, non venite a lavorare”)? Oppure otterremo una ri-statalizzazione dei servizi pubblici essenziali, ospedali tornati a essere dignitosi, lavoratori al centro dell’attenzione mediatica e dell’apprezzamento collettivo, anche se non vanno al Grande Fratello Vip, magari persino un sistema di relazioni internazionali basato sulla cooperazione tra popoli liberi, non sulla condizione pre-hobbesiana, per cui le sfortune dei cinesi sono le nostre fortune (almeno fin quando il motivo scatenante non si sposta qui), “il virus in Francia speriamo faccia più morti che in Italia”, “il turismo in Spagna deve andare male così quello italiano si risolleva”... Otterremo tutto questo? Soprattutto: lo otterremo semplicemente chiedendolo??

Il Coronavirus come produttore di un mondo nuovo. Da più parti gli eventi di questi mesi sembrano (e spesso oggettivamente sono) talmente eccezionali da immaginare una prossima palingenesi: l’Italia che uscirà dalla quarantena di massa (per quanto selettiva) non potrà che essere migliore. Il mondo nuovo – quello che non riusciamo a costruire, nonostante una militanza quotidiana e pluriennale – dovrebbe sorgere grazie a un contagio e a una paura di contagio, che farebbero rinsavire – non si sa bene perché e come – classe politica, imprenditoria e padroncini vari. Non ci facciamo fregare: non sarà così. Come ogni “calamità naturale” (anche quelle che non lo sono, tecnicamente, come non lo è nessuna emergenza sanitaria), il riassetto del “post” non potrà che essere peggiore del “pre”, perché il riallineamento produttivo e politico avverrà verso il basso, non certo verso l’alto. Ci vorremmo sbagliare, e siamo pronti a inserire il “Compagno Coronavirus” nel pantheon del socialismo, ma le tante lezioni che il movimento comunista ha preso dalla storia non lasciano spazio all’ottimismo. La gestione politica del dopo-crisi ci dovrà trovare con gli occhi ben aperti.

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