30/06/2024
Bolivia - Álvaro García Linera: “Le lotte interne ci fanno dimenticare i nemici più grandi”
L’ex vicepresidente della Bolivia dal 2006 al 2019, Álvaro García Linera, ha condannato il tentativo di colpo di Stato che c’è stato contro il Governo di Luis Arce e ha assicurato che i poteri di fatto sono sempre latenti e “tirano fuori la testa” quando i progetti progressisti si mostrano deboli. In un’intervista con Víctor Hugo Morales su 750, García Linera ha invitato a riflettere sul ruolo dei “poteri di fatto” che minacciano i governi della regione.
“In tutto il mondo, in tutte le democrazie, ci sono poteri di fatto che sfuggono al voto. Le oligarchie imprenditoriali, le forze armate e, nel caso dell’America Latina, le ambasciate nordamericane”, ha detto García Linera già poche ore dopo il tentativo di colpo di stato in Bolivia, dove il generale detenuto Juan José Zúñiga ha tentato di entrare nel Palacio del Quemado con i carri armati, scatenando l’allarme del governo boliviano e dei presidenti di tutta la regione, ad eccezione dell’argentino Javier Milei.
Linear ha sostenuto che “quei poteri di fatto sono sempre lì, ai margini della democrazia”. E che agiscano “quando vedono debolezza nei governi”. “Ieri è toccato di agire ad una fazione, un pezzo molto conservatore, all’interno delle Forze Armate”, ha detto, escludendo così la versione di un possibile “autogolpe”, come suggerito da un settore dello stesso Movimento per il Socialismo (MAS), il partito di Arce ed Evo Morales. Questo giovedì, il deputato Anyelo Céspedes Miranda ha detto a 750 che “tutto è stato pianificato” da Arce.
García Linera, lungi dal sottoscrivere l’idea che ci sia stato un auto-golpe, ha detto che si tratta “dei pericoli sempre latenti, che non scompaiono mai, ma che diventano più immediati quando i governi progressisti hanno difficoltà, sono deboli. E sono invece messi a tacere quando i governi sono forti”.
Infatti, ha sostenuto che le dichiarazioni dello stesso ex generale Zúñiga – che ha guidato l’insurrezione e poi, quando è stato arrestato, ha dichiarato che si trattava di un intero piano orchestrato da Arce – “devono essere prese col beneficio d’inventario, perché è un uomo detenuto che ormai non ha niente da perdere”.
“Quelle sono le fratture interne che ci mostrano deboli. E le lotte interne ci fanno dimenticare i nemici più grandi. Che, come ieri, tirano fuori la testa, sporgono le orecchie”, ha detto con forza in mezzo al tumultuoso governo di Luis Arce, mediato da un grande scontro con Evo Morales.
Per questo ha chiarito che “le forze progressiste hanno sempre delle contraddizioni. Ma quando diventano fondamentali, smettiamo di vedere il vero avversario che si nasconde”. Infine ha riferito: “In Bolivia si sta attuando dall’inizio dell’anno la corsa agli sportelli bancari. Ci sono imprenditori che non consegnano i dollari delle esportazioni e preferiscono lasciarli nei loro conti nordamericani. E ora questo tentativo di colpo di stato”.
Fonte
In Grecia si torna alla settimana lavorativa di 48 ore
La crisi del debito greca rese evidente come la gabbia dei vincoli europei poteva forzare la distruzione dello stato sociale e, a lungo termine, la ristrutturazione degli assetti proprietari, produttivi e di manodopera di un intero paese. Certo, la Grecia non contava come la Germania, ma si rese evidente che la trappola del debito serviva proprio a questo.
Come dicevo, a pochi mesi da questo nefasto anniversario, è il caso di cominciare a fare qualche considerazione sulla situazione ellenica. Anche perché dal miglioramento del rating del debito, concesso da Standard & Poor’s a maggio, all’annuncio che Atene avrebbe ripagato in anticipo oltre 8 miliardi di prestiti, sono apparsi vari articoli di glorificazione dei risultati greci.
L’occasione per mettere in fila alcune prime valutazioni arriva con il primo luglio: domani, infatti, entrerà in vigore una legge che permette di reintrodurre la settimana lavorativa di 48 ore, 8 al giorno per 6 giorni la settimana. Già basterebbe questo per capire che c’è poco da glorificare nella Grecia modellata dalla Troika.
Da lunedì, gli imprenditori del settore industriale, delle telecomunicazioni, del commercio al dettaglio e dei servizi garantiti 24 ore su 24 potranno richiedere questa estensione della settimana lavorativa. Ovviamente, il tutto viene millantato come un guadagno per i lavoratori.
La riforma viene presentata come uno strumento per combattere il lavoro nero. In Grecia, infatti, è già permesso alle aziende di richiedere due ore al giorno di straordinario non pagato, seppur solo per brevi periodi e su base volontaria.
In questo modo, si dice, finalmente queste ore verranno riconosciute al lavoratore, con una retribuzione maggiorata del 40% nel sesto turno di lavoro, addirittura del 115% se effettuato in giorno festivo.
Ci mancherebbe che il lavoro non venisse pagato, e che quindi, lavorando di più, non si guadagnasse di più... sorgono però un po’ di dubbi sulla logica della nuova legge.
Innanzitutto, non si capisce come l’istituzionalizzazione di una giornata in più di lavoro dovrebbe far emergere il lavoro nero o gli straordinari non pagati.
Soprattutto se queste ulteriori otto ore saranno persino più costose per il padrone, che le due forme di impiego sopra citate le usa proprio per aumentare il margine di profitto.
Ci sarà ovviamente chi usufruirà dell’opportunità, perché risulterà in linea di massima conveniente regolarizzare quel turno in più. E tuttavia significherà lasciare le cose così come stanno, continuando a favorire lo sfruttamento intensivo della manodopera, guadagnando sul “plusvalore assoluto“, si sarebbe detto una volta.
I greci, dati Eurostat 2023 alla mano, sono già coloro che lavorano più ore alla settimana (39,8 contro le 36,1 della media UE). Con la riforma che arriva a compimento domani e che è stata varata nel settembre scorso, è stato pure previsto che chi fa un lavoro a tempo pieno potrà farne anche uno part-time, per un massimo di 13 ore giornaliere.
Possiamo immaginare quanto, se i datori di lavoro decideranno di regolarizzare i propri dipendenti secondo le nuove norme, le registrazioni ufficiali segneranno semplicemente un innalzamento dell’orario lavorativo che è già un dato di fatto.
Un’elaborazione di Openpolis, sempre su dati Eurostat, ha mostrato che nel 2021 già il 12,6% dei greci lavorava più di 48 ore a settimana, anche in questo caso primi in UE.
E dico se decideranno di usare le nuove misure perché, come specificato, non saranno convenienti per i bilanci delle aziende, e i lavoratori non hanno di certo la forza contrattuale per imporle.
Il salario minimo è stato alzato fino a 830 euro mensili, ma non è minimamente sufficiente a far fronte all’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione.
Nel 2022 il salario mensile medio lordo era arrivato a 1.176 euro, in aumento del 5,2%, ma l’aumento dei prezzi è stato del 9,3%. E non si tratta di una dinamica legata solo al recente picco inflazionistico, perché già all’epoca i salari medi reali erano di circa il 25% più bassi rispetto al 2009.
C’è di più, perché lo spauracchio del default è stato usato anche come testa d’ariete contro le organizzazioni sindacali. Vari contratti collettivi sono stati sospesi, e così se nel 2010 quasi tutti i lavoratori rientravano in uno di essi, nel 2024 solo il 24% dei lavoratori del privato ha questo tipo di copertura.
Salari da fame e copertura dei contratti collettivi ridotta all’osso: è facile capire perché la ricerca di un doppio lavoro sia una necessità e perché il lavoratore si trovi in una condizione di debolezza nei confronti del padrone. E si capisce anche perché le due ore di straordinario erano tutto fuorché ‘volontarie‘.
Infine, è sempre attraverso uno sguardo d’insieme che si può smontare l’ultima motivazione con cui è stata giustificata la riforma, ovvero la mancanza di manodopera qualificata.
Sono solo alcuni piccoli segmenti di alcune filiere che avranno necessità di stabilizzare l’allungamento di orario di alcuni dipendenti, che oggi è difficile trovare in Grecia.
Il turismo, settore che attualmente sta trainando la crescita ed è risaputamente a basse competenze, sguazza nella disoccupazione a due cifre e nello sfruttamento intensivo. Il limite delle 40 ore settimanali, non a caso, era già stato tolto la scorsa estate per questo settore.
Ma esso non è di certo attrattivo per i giovani laureati di un paese che ha già largamente tagliato le sue spese in istruzione, su ordine di Bruxelles. Solo tra il 2012 e il 2017 mezzo milione di persone se ne sono andate dalla Grecia, per lo più giovani, e tra di essi intorno ai 180-200 mila erano laureati.
Secondo uno studio di quegli anni dell’organizzazione imprenditoriale Endeavor Greece, il 71% di loro si è diretto verso un altro paese europeo, e tendenzialmente quelli che offrivano più opportunità: Germania e Francia innanzitutto. Si chiude il cerchio cominciato coi memorandum della Troika.
Il caso greco rivela la funzione di fondo che hanno avuto i trattati europei e l’euro. La gabbia dei vincoli di Bruxelles ha favorito l’abbattimento dello stato sociale e delle tutele dei lavoratori, la riorganizzazione delle filiere continentali intorno a un centro forte, e il furto di cervelli di questo centro dalle periferie deindustrializzate.
Un progetto che doveva portare la UE a giocarsela con altri grandi attori globali come gli USA e la Cina. Un progetto che stanno pagando i popoli della periferia economica del continente e i settori popolari in generale di tutti gli stati membri della comunità europea.
Altro che miracolo greco. È sul sangue dei popoli che questa UE si appresta ad altri cinque anni di ipercompetizione e guerra.
Fonte
Francia al voto, spaventata dai fascisti e dal declino
Il grande favorito della competizione è il Rassemblement National di Marine Le Pen, che dopo aver vinto le votazioni per l’assemblea di Strasburgo potrebbe espugnare anche l’Assemblea Nazionale di Parigi.
In testa c’è l’estrema destra
I sondaggi, che pure vanno presi con le molle visto l’alto numero di indecisi e il macchinoso sistema elettorale maggioritario a due turni (il ballottaggio avrà luogo il 7 luglio tra i candidati che avranno ottenuto almeno il 12,5% dei voti), danno nettamente in testa la formazione di estrema destra guidata dal giovane Jordan Bardella.
Secondo l’ultima inchiesta realizzata dall’Istituto Francese dell’Opinione Pubblica (Ifop) la destra radicale dovrebbe ottenere complessivamente il 36% e tra i 220 e i 260 seggi. L’ex Front National che fu fondato e guidato del neofascista Jean-Marie Le Pen prenderebbe il 32%, al quale andrebbe sommato un 4% raggranellato dalla lista messa in piedi dall’ex leader dei Républicains, Éric Ciotti, dopo esser stato espulso dal partito di centro-destra in seguito al suo annuncio di voler sostenere Marine Le Pen.
In seconda posizione dovrebbero piazzarsi i diversi partiti della sinistra e del centrosinistra (socialisti compresi) riuniti nel Nuovo Fronte Popolare, dato al 28,5% e a 180/210 seggi.
L’attuale maggioranza di centro, che compete con la coalizione “Insieme per la Repubblica” (Ensemble), arriverebbe solo terza con il 21% e tra i 75 e i 110 eletti, divisi tra il partito di Macron “Renaissance” (19,5%) e altre forze minori come il Mouvement Democrate (MoDem) e Horizons, formazione guidata dall’ex primo ministro Edouard Philippe. Ai Républicains che non hanno accettato di convergere con l’estrema destra andrebbe un altro 8% e una manciata di seggi.
“Prima gli interessi francesi”
Il partito di Marine Le Pen vuole assolutamente evitare la coabitazione con Macron che obbligherebbe il Rassemblement National a rinunciare a molti dei suoi obiettivi, visto il potere di cui gode la presidenza della repubblica nel sistema francese. Bardella mira quindi a ottenere la maggioranza assoluta, cioè più di 289 seggi sui 577 totali, per tener testa agli eventuali condizionamenti dell’Eliseo. Emmanuel Macron infatti ha voluto ribadire, con un messaggio affidato al primo ministro uscente Gabriel Attal, che «qualunque sia il risultato, il presidente sarà sempre il presidente» fino al voto fissato nel 2027.
Da parte sua Bardella ha concentrato la campagna elettorale sui temi cari al suo partito, all’insegna del nazionalismo e della difesa degli «interessi della Francia». Sul piano economico, le proposte si concentrano sulla difesa del potere d’acquisto di salari e pensioni: il RN propone il taglio dell’Iva sulle bollette di gas ed elettricità, ma anche sul carburante, che passerebbero dal 20 al 5,5%.
La destra radicale batte anche sul contrasto all’immigrazione, puntando a sopprimere lo ius soli, ad abbassare a 10 mila il numero di ingressi legali nel paese, e a impedire ai cittadini con doppia nazionalità di occupare incarichi pubblici di natura “strategica”. «Non vogliamo rimettere in discussione la doppia nazionalità», ha garantito Bardella durante una conferenza stampa, spiegando però che i «posti strategici legati ai settori della sicurezza e della difesa» sono da «riservare esclusivamente ai francesi».
Rispetto al passato, il Rassemblement National sembra aver adottato una strategia di relativa moderazione, abbandonando la richiesta di un’uscita della Francia dall’Unione Europea – anche se Bardella ha citato il diritto di Parigi, in certe circostanze, di “disobbedire” a Bruxelles – e di un allontanamento dall’Alleanza Atlantica. Sul sostegno militare all’Ucraina, che il RN in questi due anni ha avversato, il partito è ambiguo.
Bardella si dice invece pronto, come del resto il Nuovo Fronte Popolare di sinistra, a cancellare la “riforma delle pensioni” che aumenta l’età pensionabile, duramente contestata da una lunga serie di scioperi, manifestazioni e occupazioni che hanno contribuito a minare la residua popolarità di Macron.
Il Nuovo Fronte Popolare
Sulla fine del macronismo insiste proprio il leader della France Insoumise, il principale partito della sinistra francese. In una recente intervista Jean-Luc Melenchon ha detto che Macron «è finito», spiegando ai francesi che per impedire la vittoria dei «fascisti» rimane solo il Nuovo Fronte Popolare. La coalizione di sinistra, dopo le prime difficoltà causate dalle rivalità tra i diversi partiti, sembra recuperare la consistenza elettorale che la Nupes (alleanza simile al NFP) aveva ottenuto alle scorse votazioni, anche se Melenchon ha dovuto farsi da parte per le critiche ricevute sia dai socialisti che da altre formazioni (oltre che da alcuni settori della stessa France Insoumise).
Dell’alleanza, oltre al partito di Melenchon, fanno parte decine di formazioni e gruppi, tra i quali spiccano il Partito Comunista, gli Ecologisti, il Partito Socialista, Place Publique (formazione socialdemocratica guidata dall’ex leader del PS Gluksmann) e il Nuovo Fronte Anticapitalista. Il programma della coalizione è ambizioso sul terreno economico – proponendo una riforma del sistema fiscale per aumentarne il carattere progressivo, l’aumento del salario minimo, l’abbassamento dell’età pensionabile, l’ampliamento del settore pubblico – ma ha rinunciato alla critica radicale al sostegno di Macron all’Ucraina e moderato i toni rispetto a Israele, modifiche imposte dalle componenti più moderate che annoverano anche alcuni pezzi dello schieramento macroniano entrati ad un certo punto in rotta di collisione con l’inquilino dell’Eliseo.
Macron “argine contro estremismi e guerra civile”
Nel tentativo di recuperare consensi – cosa che secondo i sondaggi gli starebbe riuscendo – il presidente della repubblica sta invece giocando la carta degli “estremismi”, descrivendo il suo Ensemble come l’unico argine all’affermazione del RN o del NFP e all’esplosione nel paese di una “guerra civile”. Macron spera di attirare così soprattutto i voti degli elettori di centro-destra delusi e spaventati dalla frattura interna ai Républicains e concentra i dardi contro le sinistre radicali piuttosto che contro Jordan Bardella e Marine Le Pen.
L’esito del voto è molto incerto. Tutto dipenderà dal funzionamento del cosiddetto “fronte repubblicano” al secondo turno. Se gli elettori avversi all’estrema destra, al di là dell’opzione scelta al primo turno, voteranno compattamente i candidati non lepenisti giunti in testa il 30 giugno, il successo del RN verrà ridimensionato com’è avvenuto già in passato. Se invece prevarranno le rivalità e i calcoli, allora le elezioni anticipate potrebbero segnare il trionfo, tante volte rimandato, dell’estrema destra francese.
Alcuni settori di centro e centro-destra stanno già avvisando che il 7 luglio non convergerebbero sui candidati del Nuovo Fronte Popolare. Gli ambienti finanziari, già entrati in fibrillazione dopo l’inatteso scioglimento dell’Assemblea Nazionale da parte di Macron, dichiarano che lo scenario peggiore sarebbe rappresentato da una vittoria delle sinistre che potrebbero aumentare la tassazione sulle medie e grandi imprese e sul segmento più ricco della popolazione.
Lo spettro dell’ingovernabilità e del déclassement
Lo scenario più probabile, secondo molti analisti, è che il voto non conceda la maggioranza assoluta a nessuno degli schieramenti in campo, aprendo così una pagina di estrema instabilità che molti francesi temono forse più della vittoria di Marine Le Pen.
Il timore per un’eventuale vittoria dell’estrema destra convive con la paura che l’instabilità possa infatti condurre ad un “déclassement”, cioè a un declino dell’influenza francese in Europa e nel resto del pianeta, del resto già ampiamente annunciato dalla recente fine della Françafrique, la storica area di influenza di Parigi in Africa.
Molti francesi potrebbero scegliere il Rassemblement National proprio per difendere la “grandeur” francese, il primato internazionale di Parigi, messo a rischio dall’incompetenza di Macron che nel frattempo ha peggiorato le condizioni di vita di milioni di lavoratori e lavoratrici e delle classi medie, alle prese con un déclassement economico e sociale causato dall’aumento del costo della vita e dal graduale degrado dei servizi pubblici e della macchina statale.
Fonte
Iran - Ballottaggio Pezeshkian vs. Jalili
Khamenei alla vigilia aveva detto: “Prego Dio Onnipotente per i giorni e gli anni migliori e per le più grandi benedizioni per la nostra amata nazione... la partecipazione del popolo è necessaria e obbligatoria per dimostrare la validità e l'onestà del sistema della Repubblica islamica”. Ma convincere l’ala intransigente dell’ultimo movimento di protesta Donna, vita, libertà (2022) è praticamente impossibile e dello stesso parere è la vecchia guardia della contestazione dell’Onda verde (2009) con un uomo simbolo come Mousavi che è rimasto a casa, non solo per il fermo domiciliare poliziesco. Una corposa maggioranza non va ai seggi per non legittimare un regime cui è ostile e non crede più neppure alle favole riformiste, come ai tempi di Rohani che pure aveva fatto il pieno dei voti dell’attivismo femminile e giovanile.
Ora l’incognita è quanto gli elettori del riformista morbido Pezeshkian vorranno fare per eleggerlo. Quanto lui potrà essere attrattivo per chi ha finora scelto di disertare l’urna, quanto potrà calamitare il suffragio del terzo candidato, il principalista Ghalibaf, il perdente bocciato per la terza volta nella corsa alla presidenza nonostante il sostegno dei Guardiani della Rivoluzione. Teoricamente i voti di chi l’ha sostenuto dovrebbero orientarsi su Jalili, ma già il fatto che i due conservatori si siano misurati nei preliminari senza trovare l’accordo per un’unica candidatura che poteva conseguire un successo al primo turno, dimostra la spaccatura fra le varie anime del principalismo iraniano. Come, e forse più, dell’epoca di Ahmadinejad.
Sostenere un ‘riformista’ per l’entourage dei Pasdaran sa di eresia, anche perché durante la campagna elettorale Pezeshkian ha espresso concetti simili: “Chi sono quelli che scalano le pareti dell'ambasciata britannica, spingendo la sua chiusura? Erano i riformisti? Chi sono stati quelli che hanno dato fuoco all'ambasciata saudita, le cui azioni sono state applaudite come un successo dai giornali della linea dura? E tutto ciò ha spinto così tanti altri Paesi a chiudere le loro ambasciate. Le stesse persone che hanno preso d'assalto le ambasciate e hanno scalato le mura sono ora state nominate a posti di governo". Frasi sferzanti verso chi tiene alta la tensione non solo contro ‘il Grande e il Piccolo Satana’.
Intanto il clima infuocato, non solo metaforicamente, d’uno scontro diretto con Israele non è mai stato così vicino, e non solo per volontà dell’ala dura del conservatorismo politico iraniano. Pertanto se venerdì prossimo il terzo uomo, ora diventato primo, dovesse spuntarla con voti di più varia provenienza – dai convinti dell’ultim’ora a rinunciare all’astensionismo ai fedeli di Ghalibaf infedeli però al basij Jaalili – il mare in cui dovrà nuotare l’Iran affidato a Pezeshkian sarà comunque burrascoso. L’alleato d’acciaio Hezbollah è già in guerra strisciante con Israele che non rinuncia all’apertura d’un fronte settentrionale.
Riuscire a smarcarsi da un conflitto che minaccia le radici nazionali non è facile, anche perché l’orgoglio patrio appartiene allo stesso riformista gentile e pure a molti dei suoi sostenitori. Disastroso presagio quello d’un coinvolgimento militare ancora più intenso, ma l’uomo che s’è affidato a Khamenei, pur avendo il sostegno dei Khatami e Zarif, degli ambienti politici più aperti al dialogo, alla distensione, dal nucleare alla questione dei diritti, dovrebbe rispondere da neo presidente della Repubblica Islamica ai princìpi su cui essa si basa.
La sfida del 5 luglio è apertissima e non sarà un momento di trasformazione ma di conservazione. Di quello che l’Iran è costretto a fare anche per volontà non sua: conflitti militari ed economici, chiusure anziché aperture. Lo zampino di quanto accade a Teheran e dintorni non è solo determinato dal clero militante e dal militarismo interno, che in ogni caso restano un potere non scalfito.
Fonte
Se non è più Joe Biden, chi guida gli Stati Uniti e la loro politica estera?
I lettori di questa rubrica sanno che la deriva del Presidente Joe Biden verso la vacuità è in corso da mesi, da quando lui e i suoi consiglieri di politica estera hanno richiesto un cessate il fuoco che non ci sarà a Gaza, continuando a fornire a Israele le armi che lo rendono poco probabile. C’è un paradosso simile in Ucraina, dove Biden ha finanziato una guerra che non può essere vinta e si è rifiutato di partecipare ai negoziati che potrebbero porre fine al massacro.
La realtà dietro a tutto questo, come mi è stato detto per mesi, è che il Presidente non è più in grado di comprendere le contraddizioni delle politiche che lui e i suoi consiglieri di politica estera stanno portando avanti. L’America non dovrebbe avere un Presidente che non sa cosa ha firmato. Chi detiene il potere deve essere responsabile di ciò che fa, e la notte scorsa ha dimostrato all’America e al mondo che abbiamo un Presidente che chiaramente non è in quella situazione.
La vera vergogna non è solo di Biden, ma anche degli uomini e delle donne che lo circondano e che lo hanno tenuto sempre più nascosto. È un prigioniero, e nel corso degli ultimi sei mesi è peggiorato rapidamente. Da mesi sento parlare del crescente isolamento del Presidente, da parte dei suoi amici di un tempo al Senato, che si sono accorti che non è in grado di rispondere alle loro chiamate. Un altro vecchio amico di famiglia, il cui aiuto è stato richiesto da Biden su questioni chiave fin dai tempi in cui era vicepresidente, mi ha raccontato di una telefonata disperata del Presidente molti mesi fa. Biden disse che la Casa Bianca era nel caos e che aveva bisogno dell’aiuto del suo amico. L’amico ha detto di aver supplicato per non andare e poi mi ha detto, con una risata: “Preferirei sottopormi ogni giorno a un intervento di canalizzazione piuttosto che andare a lavorare lì”. Un collega del Senato, da tempo in pensione, è stato invitato da Biden a unirsi a lui in un viaggio all’estero, e i due hanno giocato a carte e condiviso uno o due drink sull'Air Force One. Al senatore è stato impedito dallo staff di Biden di prendere parte al volo di ritorno.
Mi è stato detto che il crescente isolamento del Presidente sulle questioni di politica estera è stato in parte opera di Tom Donilon, il cui fratello minore, Michael, sondaggista e consigliere chiave nella campagna presidenziale di Biden del 2020 e in quella attuale per la rielezione, ha fatto parte del team che ha trascorso gran parte della settimana a preparare Biden per il dibattito di ieri sera. Tom Donilon, 69 anni, è stato consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Biden dal 2010 al 2013 e ha cercato senza successo di essere nominato direttore della Central Intelligence Agency da Biden. Rimane comunque un importante “insider”.
Dato l’evidente declino di Biden negli ultimi mesi, è impossibile per un estraneo capire perché la Casa Bianca abbia accettato un dibattito con Donald Trump prima delle elezioni, per non parlare di impegnarsi nel primo dibattito presidenziale che, per la prima volta nella storia moderna, prevede anche un secondo confronto. Mi è stato detto che se Biden si fosse comportato bene, come nel suo discorso sullo Stato dell’Unione a marzo, la questione della sua capacità mentale sarebbe stata messa da parte. Una prestazione mediocre avrebbe dato alla campagna di Biden il tempo di preparare meglio il secondo dibattito in programma.
C’è stata anche una pressione da parte dei principali finanziatori democratici, molti dei quali di New York, affinché la campagna facesse qualcosa per contrastare la percezione di un evidente e crescente deterioramento del Presidente, come riportato e filmato dai principali media. Mi è stato riferito che almeno un leader straniero, dopo un incontro a porte chiuse con Biden, ha detto ad altre persone che il declino del Presidente era così visibile che era difficile capire come, mi è stato detto, “potesse affrontare i rigori” di una campagna di rielezione. Questi avvertimenti sono stati ignorati.
E adesso? Un esperto di politica di Washington mi ha detto oggi che il Partito Democratico sta affrontando “una crisi di sicurezza nazionale”. La nazione sta sostenendo due guerre devastanti con un Presidente che chiaramente non è all’altezza, ha detto, e potrebbe essere il momento di iniziare a redigere un discorso di dimissioni che eguagli o superi quello pronunciato nel marzo del 1968 dal Presidente Lyndon Johnson dopo la sua risicata vittoria sul senatore Eugene McCarthy alle primarie del New Hampshire.
“Sono in trappola”, ha detto a proposito dei consiglieri senior della Casa Bianca che speravano che Biden potesse in qualche modo andare abbastanza bene nel dibattito di ieri sera per poter poi continuare, con il necessario appoggio dei sostenitori finanziari più scettici di New York.
Non tutti quelli con cui ho parlato oggi sono d’accordo sul fatto che sia giunto il momento di forzare le dimissioni di Biden e sperare in bene alla Convenzione Nazionale Democratica di Chicago, in agosto, per scaricarlo e cercare nuovi candidati. “La mia umile opinione”, mi ha detto un collaboratore di lunga data del Partito Democratico, “è di lasciare che la polvere si depositi. Bisogna esaminare le opzioni realistiche prima che una reazione rapida crei una spaccatura interna al Partito Democratico con conseguenze di vasta portata oltre il 2024. Bisogna accettare la realtà... Il 2024 è probabilmente irrecuperabile a questo punto. È una montagna troppo ripida da scalare. È necessario pianificate ed eseguire un progetto a lungo termine per contrastare Mr. Orange e costruire una piattaforma moderata per la riscossa... e lasciate che Biden se ne vada in giro per la pinete di Barrens nel Jersey”.
Un’opinione diversa è stata espressa da un altro guru della politica. “Questa è l’era dei social media, di TikTok, Facebook, Instagram e X, e una campagna politica può andare molto lontano, molto velocemente”.
Comunque vada, abbiamo un presidente – ora completamente smascherato – che potrebbe non essere responsabile di ciò che farà nella prossima campagna elettorale, per non parlare delle sue azioni in Medio Oriente e in Ucraina. Che fine ha fatto il 25° emendamento che autorizza il Vicepresidente e la maggioranza del Gabinetto a dichiarare l’impedimento permanente del Presidente? Cosa sta succedendo all’interno della Casa Bianca di Biden?
Fonte
L’Agenda Strategica della UE: cinque anni di guerra economica e guerra guerreggiata
Lì la situazione rimane in bilico: ricordiamo che nel 2019 la ‘maggioranza Ursula’ vide ben 75 franchi tiratori, e la politica tedesca divenne presidente solo grazie ai voti dei pentastellati. Quello che invece è già scritto nero su bianco è l’Agenda Strategica 2024-2029.
Si tratta di un documento adottato dal Consiglio Europeo, che ha il compito proprio di indicare gli indirizzi politici generali. In esso vengono dunque stabilite le priorità politiche per il quinquennio che aspetta i nuovi organi, dopo ogni elezione europea.
All’inizio del documento viene subito indicato il contesto a cui dovrà far fronte la prossima UE: “il panorama politico globale è stato rimodellato dalla competizione strategica, dalla crescente instabilità globale e dai tentativi di minare l’ordine internazionale basato su regole”.
La competizione globale ha portato all’ondata di sanzioni contro la Cina, ad esempio, che però sono in discussione perché, innanzitutto, è contraria la Germania. Mentre l’ordine internazionale basato su regole è una farsa che serve a nascondere la proiezione egemonica occidentale.
Ma insomma, è chiaro che sarà la frammentazione del mercato mondiale, per quanto ancora limitata, a determinare l’indirizzo di tutta la comunità europea nei prossimi anni. “Nel mondo ipercompetitivo di oggi, dobbiamo liberare lo spirito europeo di imprenditorialità”, dicono a Bruxelles.
Così come lo farà lo scontro a tutto campo con la Russia, attraverso il sostegno a Kiev. È stata Mosca, secondo il Consiglio Europeo, a riportare la guerra nel Vecchio Continente, perché nascondono i bombardamenti su Belgrado e gli otto anni di guerra civile in Ucraina.
Il documento si struttura poi in tre parti, i pilastri per i prossimi cinque anni: “un’Europa libera e democratica”, “un’Europa forte e sicura”, “un’Europa prospera e competitiva”. Nella prima vi sono richiami retorici alla difesa della democrazia e delle minoranze, ma anche indicazioni più concrete.
La tutela del pluralismo passa anche dalla lotta alle interferenze straniere, alla disinformazione e ai discorsi di odio (con riferimento anche al compito dei Big Tech di far rispettare questi principi anche online). Ovviamente, tutto valido per chi è fuori dal ‘giardino europeo’.
Non sentiamo infatti i vertici UE stracciarsi le vesti sullo stato dei media in Ucraina, mentre tante accuse sono state portate a Tbilisi quando ha scelto di dotarsi di una legge proprio contro le influenze straniere.
Per quanto riguarda i social, anche qui nessuna parola quando i lavoratori che si opponevano al genocidio dei palestinesi hanno subito le più varie ritorsioni, fino a perdere il lavoro.
C’è poi un riferimento al dover rilanciare il ruolo delle Nazioni Unite (ignorate sistematicamente ogni volta che faceva comodo), e anche quello di istituti multilaterali, per renderli “più inclusivi e più efficaci”.
Ma tra il multilateralismo e il multipolarismo c’è un abisso. È pur sempre un multilateralismo dominato dalle potenze occidentali, in cui la UE vuole essere “attore strategico globale nel nuovo contesto geopolitico multipolare”.
Il sostegno all’Ucraina, nei suoi confini riconosciuti internazionalmente, è ripetuto anche nella seconda sezione, dove si parla di sicurezza. Per essa, si prevede di investire di più e con meno sprechi, per creare un mercato della difesa integrato.
Viene anche evidenziato il legame tra sicurezza e solida base economica, presagendo la deriva verso il keynesismo militare. Non a caso, viene anche affermato che si migliorerà l’accesso ai finanziamenti pubblici, e non solo quelli privati, anche attraverso la Banca Europea per gli Investimenti.
L’obiettivo è dunque quello che gli imperialisti europei hanno reso da tempo di pubblico dominio: “ridurremo le nostre dipendenze strategiche, aumenteremo le nostre capacità e rafforzeremo di conseguenza la base tecnologica e industriale della difesa europea”.
Non può di certo mancare un paragrafo sui migranti. La libera circolazione delle persone (ovvero, della manodopera) deve essere garantita all’interno dei confini UE, mentre al di fuori la gestione dei flussi abbiamo visto da anni cosa significa, con gli accordi con Erdogan e con i trafficanti del Nord Africa.
Infine, il tema centrale rimane quello della competitività. La UE vuole – e deve, se intende contare qualcosa – “chiudere il divario nella crescita, nella produttività e nell’innovazione” e “rafforzare la sovranità in settori strategici”, leggiamo nell’ultima delle tre parti del documento.
Per sbloccare gli investimenti necessari a questo salto di qualità, nel testo si legge che va approfondita l’integrazione del mercato dei capitali e bancario. E bisogna inoltre fare affidamento sui finanziamenti pubblici, per stimolare il privato, nella logica del “più stato per il mercato”.
È proprio nel mercato unico che si possono creare quelle economie di scala necessarie a costruire i famosi ‘campioni europei’, grandi multinazionali capaci di competere con i colossi statunitensi e cinesi.
Non è un caso che è proprio in questo capitolo dell’agenda che viene nominata la “sicurezza marittima”, con evidente riferimento alla missione Aspides nel Mar Rosso. Non c’è obiettivo che non legittimi l’interventismo e l’avventurismo militare, da Bruxelles lo dicono abbastanza chiaramente.
La transizione ecologica rimane ancora un elemento centrale nel rilancio del ruolo economico della UE. Sul terreno della neutralità climatica la UE vuole assumere una leadership produttiva globale.
È interessante notare come tale neutralità venga subito collegata a una minore dipendenza energetica, a dimostrazione di come il green venga inteso come uno strumento di competizione e insieme funzionale a una maggiore autonomia strategica.
Dunque, tecnologie verdi e digitalizzazione come fulcro dello sviluppo UE. Senza dimenticare l’importanza delle applicazioni dual use (civili-militari) delle innovazioni tecnologiche, come ricordato nella penultima pagina del testo.
Il documento si chiude con il riferimento ai diritti di tutti i cittadini europei di godere almeno di una parte dei benefici che dovrebbero scaturire da questa politica imperialista.
Ed è proprio questo che va combattuto: il sostegno che la classe dirigente continentale vorrebbe per questo progetto che, nei suoi cardini, rimane profondamente colonialista, suprematista, guerrafondaio e in cui i bisogni dei settori popolari vengono sempre dopo i profitti delle grandi aziende.
Fonte
29/06/2024
La BCE a grandi passi verso l’euro elettronico
Oggi, sembra che la fase di preparazione dell’euro digitale, varata nel 2021, stia procedendo a grandi passi, con il nuovo strumento che potrebbe vedere una prima implementazione già a partire dalla fine del 2025.
L’euro digitale sarà la “valuta digitale della banca centrale” emessa dalla BCE, affiancando ma non sostituendo la cartamoneta. Diversamente dalle criptovalute, che sono progettate e gestite da privati, sarà di proprietà della BCE, che garantirà la sicurezza, la stabilità del valore e la parità nominale con l’euro contante.
Nel rapporto, la BCE ha enfatizzato l’importanza della privacy nelle transazioni digitali, prevedendo un sistema offline che assicuri riservatezza al pagatore e al beneficiario, simile in tutto e per tutto a un pagamento in contanti.
Il progetto prevede una funzionalità offline che offrirebbe un livello di riservatezza paragonabile a quello dei contanti per i pagamenti in negozi fisici e tra individui, con i dettagli della transazione noti solo alle parti coinvolte e non condivisi con terzi.
Per i pagamenti offline, l’Eurosistema sta sviluppando una funzione che permetterà di pagare senza connessione internet, caricando il conto digitale in euro tramite Internet o bancomat, utilizzando dispositivi offline come telefoni o carte di credito.
La BCE sta anche lavorando per preservare la stabilità finanziaria e la trasmissione della politica monetaria, imponendo limiti di detenzione e non remunerando le disponibilità in euro digitali.
Quindi, almeno nelle prime fasi di utilizzo, la nuova moneta digitale dovrà affiancare, e non sostituire, i tradizionali mezzi di pagamento (cioè l’euro contante e gli strumenti bancari). Si prevede che la versione aggiornata del Regolamento dell’euro digitale sarà pronta entro la fine del 2024.
Piero Cipollone, membro del Comitato esecutivo della BCE, ha spiegato che l’euro digitale offrirebbe ai consumatori una scelta in più, combinando la comodità del contante con i sistemi digitali, semplificando alcuni pagamenti e aumentando la concorrenza, mantenendo però la circolazione del contante.
L’obiettivo di rendere i pagamenti digitali simili a quelli in contante, senza eliminare la cartamoneta e proteggendo la privacy, è fugare i timori di controllo insiti nei pagamenti elettronici, preservando il ruolo delle banche centrali nell’emissione e nel controllo della moneta e proteggendosi dall’ascesa delle criptovalute private.
Abbiamo già trattato la prospettiva della valuta digitale in un precedente articolo, delineandone le potenzialità. Almeno dal punto di vista teorico, le valute digitali offrono la possibilità di rimpiazzare integralmente il sistema di pagamenti digitali privati.
Stiamo parlando della complessa rete di banche e intermediari finanziari che è diventata essenziale al funzionamento di una moderna economia di mercato. Ciò porterebbe a enormi vantaggi dal punto di vista della stabilità finanziaria e capacità di azione della politica monetaria.
Tuttavia, come abbiamo visto, la BCE ha esplicitamente escluso che la finalità dell’euro digitale sia sostituire integralmente gli strumenti concorrenti.
L’euro digitale dovrà, piuttosto, affiancare gli strumenti tradizionali e porsi come alternativa alla grande fauna di criptovalute private emersa nell’ultimo decennio.
L’euro digitale potrebbe inoltre, secondo il report, rivelarsi uno strumento utile per aumentare la resilienza dell’Eurosistema a fronte di rischi geopolitici e crisi del credito internazionale.
Lo sviluppo di un sistema di pagamenti integralmente pubblico costituisce anche un ottimo modo di affrancare il proprio sistema finanziario dai vincoli dei circuiti di pagamento internazionali.
Questo è uno dei motivi per cui numerosi paesi emergenti (in testa Cina, Iran e Russia) si sono mostrate particolarmente interessate alla nuova tecnologia e stanno percorrendo le stesse vie di progettazione e implementazione di valute digitali.
La Cina ad oggi rappresenta l’avanguardia nello sviluppo di questo genere di sistemi. Nel Paese esistono già oltre 260 milioni di conti digitali, che operano soprattutto sul versante dei pagamenti transfrontalieri.
L’e-Yuan, infatti, permette alla moneta di Pechino di circolare liberamente nei movimenti internazionali e può ‘bucare’ agilmente le frontiere, a dispetto delle restrizioni alla circolazione dei capitali.
In Russia, il rublo digitale è attualmente in fase di sperimentazione, e dovrebbe cominciare a circolare fuori dai confini nazionali già dalla metà del 2025.
Specialmente per i Paesi esclusi dal sistema SWIFT o esposti al rischio di sanzioni, lo sviluppo di una valuta digitale potrebbe costituire uno degli strumenti per rendere il proprio sistema finanziario meno fragile ed accelerare la de-dollarizzazione.
Ovviamente è difficile pensare che questo tipo di sistemi possa imporsi alla ribalta in breve tempo. Anche una volta che le difficoltà tecniche e legali-regolatorie saranno superate.
I nuovi strumenti di pagamento avranno bisogno di tempo per superare la naturale diffidenza degli utenti e cominciare ad imporsi come vere alternative agli strumenti che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni.
In particolare, mentre i potenziali vantaggi dal punto di vista sistemico sono evidenti, non è chiaro perché dal punto di vista degli utenti sarebbe vantaggioso passare ai nuovi sistemi.
In prospettiva però l’introduzione delle valute digitali potrebbe avere implicazioni importanti per gli assetti finanziari globali e persino sul funzionamento stesso dei nostri sistemi economici.
Fonte
La salute non è più un diritto, con l’autonomia differenziata sarà persino peggio
A inizio 2024 la Fondazione Gimbe aveva evidenziato come, nel 2021, il valore della mobilità sanitaria regionale, ovvero della dinamica che porta i cittadini a spostarsi per ottenere delle cure, aveva visto un saldo nettamente positivo per il Nord Italia. 4,25 miliardi, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che raccoglievano il 93,3% di questa somma.
Con la fine dell’intervento pubblico e le forme di autonomia già garantite, il divario è tornato a riaumentare tra Meridione e Settentrione. E il Nord Italia ha continuato a drenare risorse dal Mezzogiorno, attraverso canali differenti come quello sanitario.
Il Presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, aveva parlato di “un gap diventato ormai una frattura strutturale destinata ad essere aggravata dall’autonomia differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud, amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute“.
Il fatto che anche questo principio della carta fondante la nostra Repubblica non sia già più rispettato è confermato dal CREA Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità). Nato nel 2013 per iniziativa dell’Università di Tor Vergata Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (F.I.M.M.G.), le sue analisi parlano di un’Italia spaccata a metà.
104 ricercatori hanno elaborato vari dati e quel che è emerso è che solo il 55% degli italiani vive in regioni con risultati soddisfacenti per la tutela della salute. 26 milioni di persone non ricevono cure adeguate, e ben 7,5 milioni di esse (tutte tra Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria) possono usufruire solo di prestazioni fortemente insufficienti.
La valutazione non si limita agli aspetti strettamente sanitari, ma riguarda anche quelli sociali, economici e di equità dell’assistenza. L’indice che ne è stato costruito va da 0 a 100, e in questo caso basterebbe arrivare a 45 per ottenere la sufficienza: fino alla Toscana e alle Marche quella soglia è raggiunta, dall’Umbria in giù no.
L’autonomia differenziata arriva dunque unicamente a sancire la divisione già esistente tra due Italie. Bisogna però ricordare che qualsiasi riflessione intorno all’autonomia differenziata che parli di uno scontro tra il Nord e il Mezzogiorno nasconde il fatto che il conflitto non è mai orizzontale (tra le regioni), ma verticale (tra classi privilegiate e classi subalterne).
Il Rapporto Ospedali & Salute dell’AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata), stilato in collaborazione con il CENSIS, ha calcolato che la percentuale dei pazienti che hanno rimandato o rinunciato alle cure sanitarie arriva al 42% per chi dichiara fino a 15 mila euro. Percentuale che diminuisce con l’aumentare dei redditi.
Lo stesso vale se si osserva in quanti hanno rinunciato a curarsi per sostenere altre spese: uno su due tra i redditi bassi, meno di uno su quattro per quelli alti. E anche al Nord si affrontano tempi biblici per poter accedere a determinate prestazioni.
Se a uno sguardo generale, sopra Roma sembrano passarsela meglio, la linea di faglia è sempre di classe. Sempre nel rapporto AIOP viene esplicitato che si determina “una divaricazione tra coloro che possono rivolgersi al mercato delle prestazioni sanitarie al di fuori del SSN e coloro che, per ragioni economico-sociali, non possono ricorrere alla sanità a pagamento“.
Infatti, la percentuale di coloro che si rivolgono a quest’ultima aumenta con l’aumentare dei redditi. Insomma, i ricchi hanno risolto il problema della fine della sanità pubblica pagando, gli altri che decidano se mangiare o curarsi.
Fonte
Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta
di Gioacchino Toni
Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00
La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.
Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield, città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.
L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).
Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito delle Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.
Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).
Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.
Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri – luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).
Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.
Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.
In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).
Note
1) Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021.
Purple Rain, i 40 anni della pioggia viola che stregò il mondo
L'anniversario
Una voce flebile sussurra "I
never meant to cause you any sorrow..." facendo ammutolire l'intero
club, in una notte afosa di Minneapolis. E' il 3 agosto del 1983. Il
cantante imbraccia una chitarra, ha un'acconciatura alla Little Richard e
indossa giacca viola e camicia bianca con le ruches. Il suo nome è
Rogers Nelson, per gli amici Prince.
Dopo La lunga introduzione strumentale di una chitarrista appena
diciottenne, Wendy Melvoin (la metà del leggendario duo Wendy &
Lisa), il Principe di Minneapolis inizia a cantare un brano che avrebbe
fatto la storia, dando il titolo all'album pubblicato poco più di un
anno dopo, il 25 giugno 1984. "Purple Rain", sesto Lp nato dalla fervida
fucina di Prince. Poco più di un mese dopo, il 27 luglio, uscirà
l'omonimo film a cui il disco faceva da colonna sonora. Una pellicola
bizzarra, diretta da Albert Magnoli, in cui il buon Rogers Nelson
vestiva i panni di The Kid, un giovane cantante da night-club in perenne
competizione con altre due band, destinato a sfogare sul palco tutte le
frustrazioni di una vita familiare deprimente, a causa dei suoi
genitori litigiosi e violenti. The Kid canta di una pioggia viola che
appartiene alla fine del mondo: "Blood and sky mixed (I know times are
changin’/ it’s time we all reach out/ for something new…)" e che ha a
che fare con il restare accanto alle persone care, fidandosi e
affidandosi. La pioggia è l’elemento purificatore, mentre il viola è
l’alba, un nuovo inizio.
Di lì a poco, l'album e il film proietteranno Prince nella stratosfera della pop culture. Il genio di Minneapolis inizierà a riempire le arene, al pari di Bruce Springsteen, Madonna e, soprattutto, quel Michael Jackson con il quale ingaggerà una perversa (e in parte fuorviante) competizione.
Magistrale sintesi di soul, funk e rock hendrixiano (ascoltare per credere l'assolo finale della title track),
"Purple Rain" venderà oltre 25 milioni di copie in tutto il mondo,
mentre il film incasserà al botteghino oltre 70 milioni di dollari
contro un budget di poco più di sette.
Il
resto è storia. Di un album, di un brano e di un genio, che avrebbe
continuato a dispensare perle di creatività per almeno altri tre
decenni, fino alla sua tragica - e Dio sa quanto prematura - scomparsa,
avvenuta il 21 aprile 2016. "Sometimes its snows, in April", cantava. E
in aprile se n'è andato, lasciando un vuoto incolmabile tra i suoi fan e
tra tutti gli appassionati di musica.
Ora, a quarant'anni esatti
dall'uscita di quel capolavoro, la sua Minneapolis non aspetta altro che
festeggiare il suo genio. Oltre a una serie di concerti che, tra gli
altri, si svolgeranno proprio nello storico locale in cui "Purple Rain"
debuttò nel 1983, ai fan sarà data la possibilità di vedere da vicino,
gratuitamente, il costume che Prince indossò nel film. L'abito sarà
infatti in mostra fino al 27 luglio nell'atrio della Gale Family Library
all'interno del Minnesota History Center. Il costume, disegnato da
Louis Wells, Vaughn Terry, e Marie France, è stato acquisito nel 1987
dall'istituzione storico culturale. Concerti e tavole rotonde si
terranno anche a Paisley Park, il quartier generale in cui Prince
visse fino a quel tragico giorno del 2016, quando - secondo i risultati
dell'autopsia - un'overdose accidentale da Fentanyl se lo portò via.
"Purple
Rain" sbarcherà anche sui palcoscenici. L'anteprima mondiale, prima del
debutto a Broadway, dell'adattamento teatrale si terrà allo State
Theater di Minneapolis. L'opera, diretta da Lileana Blain-Cruz, è basata
sulla sceneggiatura originale scritta da Albert Magnoli e William
Blinn.
Oggi, 25 giugno, inoltre, il film originale esce in versione
4K e su diverse piattaforme digitali, sotto l'egida di Warner Home
Video. La nuova versione in 4K Uhd della pellicola, che nel 1985 vinse
il premio Oscar per la miglior colonna sonora, comprende anche un bonus content con otto video musicali.
(Claudio Fabretti)
La recensione
È durante il giro di concerti lungo tutto il Nord America che Prince presenta a sorpresa alcune canzoni che andranno a comporre il sesto album. Tutto avviene una sera dell'agosto 1983, in Minnesota, quando il pubblico radunato al First Avenue per un concerto di beneficenza si trova ad applaudire tra le altre "I Would Die For You", "Baby I'm A Star" e "Purple Rain". Le cose sul palco funzionano talmente bene che Prince decide di usare le registrazioni per il suo nuovo progetto in studio. Ma c'è di più: durante il lungo tour il musicista ha seriamente pensato a una sceneggiatura cinematografica da concretizzare in un vero e proprio lungometraggio dal sapore autobiografico, dove si racconteranno le vicende di Kid, l'alter ego dello stesso Prince, combattuto tra una vita familiare non proprio idilliaca, con un padre dispotico e violento, e le sue aspirazioni artistiche, spesso frustrate. In mezzo, la storia d'amore tra il protagonista e la solita splendida ragazza, inevitabile in script di questo genere. Le riprese, iniziate a Minneapolis nel novembre dello stesso anno, avrebbero portato al rock movie "Purple Rain", affidato alla regia di un certo Albert Magnoli che si trovò a filmare una produzione tutt'altro che milionaria. La colonna sonora sarebbe stata affidata alle nuove tracce registrate questa volta da Prince in piena collaborazione con il suo gruppo denominato Revolution. Ensemble che aveva accolto tra le sue braccia la nuova chitarrista Wendy Melvoin, subentrata al dimissionario Dez Dickerson.
L'esperienza cinematografica conferma l'espansione degli interessi del nostro ma anche l'intenzione di allargare quello che sta diventando un vero e proprio clan. E tra musicisti e artisti che si avvicendano accanto a Rogers Nelson non possono certo mancare le belle donne che, con la loro sensualità, vengono spesso celebrate dalle liriche spinte e provocatorie dell'artista. E se durante il tour seguito a "1999", l'accompagnatrice principale era stata Vanity (poi leader delle Vanity 6, prodotte dalle stesso Prince, attrice e sposa di altri musicisti), per il 1984 la protagonista assoluta è la sconosciuta Apollonia Kotero, portata addirittura di fronte ai microfoni durante le registrazioni dell'imminente sesto album. E quello che accade durante l'anno che celebra l'America e le Olimpiadi di Los Angeles ha dell'incredibile: in una stagione a stelle e strisce dominata in lungo e in largo dalla seconda British Invasion (con Duran Duran, Culture Club, Eurythmics, ma anche Def Leppard, sugli scudi), di fronte all'immenso successo di Michael Jackson e dei quasi dissolti Police, Prince frantuma quasi tutti i record, battendo in volata il contemporaneo ritorno di Bruce Springsteen nato in the Usa: "Purple Rain", nella sua versione a 33 giri, si issa in cima alle classifiche americane per ventuno settimane consecutive (solo "Thriller" aveva saputo fare meglio con 28!), produce due singoli al numero uno, "When Doves Cry" e l'omonima ballata, vende otto milioni di copie (cifra oggi salita a 15, sempre per quel che riguarda il mercato statunitense), e si estende in un tour estenuante e spettacolare. Ma le sorprese non sono certo finite: il film, costato non certo uno sproposito, diviene un successo enorme e supera i 100 milioni di dollari d'incasso, portando la colonna sonora addirittura al premio Oscar!
In questo tornado di eventi, Prince non perde certo di vista l'aspetto musicale. La prima novità riscontrabile è strumentale: se il precedente lavoro era di fatto dominato dall'impasto tastieristico, in "Purple Rain", Prince decide di mettere in primo piano la chitarra. E tra svisate, ricami ed espressioni facciali del titolare, tutto sembra ricondurre al mito di Jimi Hendrix. E i media non si tirano indietro, alimentando il paragone. Che Prince, giudicato spesso vanitoso e presuntuoso, soffre e giudica scomodo: "Sono più legato allo stile di Carlos Santana, al suo modo di suonare più delicato, femminile", sussurra, a più riprese, un principe ormai deciso a non rivelare più niente agli organi di stampa. Ma l'intro dell'album non ammette repliche: "Let's Go Crazy" è un irruento e agilissimo esempio di rock adrenalinico; un'apertura affidata alla voce di Prince in pose da predicatore, il suo invito a lasciare i pensieri dietro l'angolo, a scatenarsi in una catartica danza. I Revolution costruiscono un'impalcatura sempre sorretta dall'ormai classico Minn-Sound, e la chitarra del maestro a condurre le danze, fino all'estremo sacrificio, le ultime note tirate a grande velocità con l'evidente supporto hendrixiano del wah wah. Ma non c'è respiro: le rullate pirotecniche, l'ammaliante suono dei synth quasi in odore di psichedelia, un'andatura incalzante utile a descrivere la nuova love story tra Prince e Apollonia, chiamata anche a pertecipare ai cori in "Take Me With You". Una passione che non frena di fronte a nulla: "Beautiful Ones", una ballata spaziale, baciata da una produzione iper-moderna, con il drumming rallentato e un incessante uso di delay, l'invocazione di Prince che non cade mai nel mieloso, grazie anche a un interpretazione vocale ora disperata, ora viziosa, spesso isterica. Il ritorno all'irruenza viene accolto dalla chitarra insinuante di "Computer Blue", ma la produzione stellare con un lavoro di echi incredibile e la sovrapposizione delle voci cancella ogni idea di rozzezza senza per questo snaturare l'animo rock del brano, dove nel finale Prince rende anche i suoi omaggi alla scuola degli heavy-singer. La nuova vicenda dalle tinte erotiche, a tratti molto hardcore, vede protagonista una famelica femme fatale, quella "Darling Nikki" che il genietto incontra nella hall di un albergo a cinque stelle, sorprendendola nell'atto di masturbarsi con le pagine di un quotidiano. Sostenuta da un struttura armonica coraggiosa e da un andamento futuristico, la donna seduce Prince e gli fa vivere una notte di sesso estremo, lasciandolo solo e inerte nel letto disfatto.
Il mega-successo di "When Doves Cry" (oltre due milioni di copie vendute) viene inaugurato da una distorta sequenza pentatonica per confluire in un andamento sincopato e obliquo dove non c'è traccia di basso! Quasi la descrizione di una storia giunta al sua capolinea, la confessione estrema dell'autore di fronte alla solitudine di un amore spezzato. Il finale è affidato a un clamoroso e inatteso solo tastieristico, velocissimo eppure poetico, degno per un finale di stampo quasi cinematografico. Con "I Would Die For You" si entra nella dimensione live, con Prince che confessa, sul consueto ed eccitante passo tipico del Minneapolis-Sound, con spazzole, tastiere ed echi, di non essere né uomo né donna, ma solo un comprensivo amante. Il concerto prosegue con il brano forse più tradizionale nel suo andamento funky-soul, "Baby I'm A Star", contraddistinto da un ritmo potente, lucido e preciso. L'ormai mitico finale è affidato alla ballata "Purple Rain", eterno evergreen del Principe, manifesto anche estetico del suo periodo viola (o porpora): solenne, romantica, con un trasporto chitarristico lirico e hendrixiano e la conclusione orchestrale, dilatata, per nove minuti di estasi pop.
Grazie alle canzoni di "Purple Rain", Prince trova la quadratura appropriata per sfondare definitivamente anche a livello sociale. Il segreto è tutto in un songwriting asciugato, modellato verso una forma di canzone più classica, almeno a livello di minutaggio dei singoli brani, ma mai compromessa alle logiche di mercato, se non a quelle dello stesso Prince.
(Davide Sechi)La camicia di forza dell’austerity si può allentare. Ma il governo tace
Come temuto, la minaccia dell’austerity riaffiora all’orizzonte della politica economica comunitaria. Il cartellino giallo della Commissione europea è infatti giunto: assieme ad altri sei paesi, l’Italia sarà sottoposta a una procedura d’infrazione per deficit pubblico eccessivo.
L’ammonizione di Bruxelles è in parte mitigata da un giudizio sostanzialmente positivo sul quadro macroeconomico italiano. In particolare, la Commissione nota con soddisfazione che «le condizioni del mercato del lavoro sono migliorate negli ultimi anni e non si sono tradotte in pressioni salariali». Gentiloni e colleghi, in altre parole, si rallegrano che la crescita dell’occupazione non abbia favorito lo sviluppo delle lotte sindacali. Anche per questo motivo, quando a settembre si faranno tutti i conti la Commissione sarà un po’ più indulgente col governo. Meloni e Giorgetti ringraziano, e poco importa che nell’ultimo decennio il potere d’acquisto di lavoratrici e lavoratori sia caduto di oltre 3 punti percentuali e che l’inflazione abbia pure vanificato i bonus fiscali e le minori aliquote. Il minuetto tra autorità nazionali ed europee va dunque avanti sereno, sulle spalle della classe subalterna.
Ma c’è di più. Le prime stime indicano che l’avvio della procedura d’infrazione dovrebbe implicare una stretta di altri dieci miliardi sul bilancio pubblico. In realtà, se anche l’ammonizione non fosse giunta, le nuove regole europee avrebbero comunque imposto una manovra restrittiva per rispettare il sentiero di abbattimento del debito. Sia come sia, nel complesso bisognerà pescare una trentina di miliardi entro fine anno tra minori spese e maggiori entrate. In teoria, il boom dei profitti causato dall’inflazione aprirebbe sconfinate praterie per un cospicuo prelievo sui redditi da capitale. Ma la realtà è che il governo Meloni preferisce radere altri campi. Corre voce che alla fine deciderà di tagliare su investimenti al sud, sanità pubblica e contratti dei dipendenti statali. Sempre la stessa musica di classe.
È alquanto ironico che questi primi cenni di ritorno all’austerity europea avvengano nel silenzio delle sedicenti forze «sovraniste» oggi al governo, che fino a ieri facevano dell’uscita dall’euro la panacea di ogni male nazionale. Gli agitatori che all’epoca denunciavano ogni stortura della politica economica europea appaiono oggi appagati, come pasciuti dormienti sulle cadreghe conquistate.
La disattenzione è tale che alla maggioranza di governo sembrano sfuggire alcune crepe nella nuova camicia di forza europea che, se sfruttate, potrebbero almeno allentare le future strette di bilancio.
La crepa più interessante riguarda il fatto che l’attuale regolamento Ue apre finalmente a un «dibattito sul metodo scientifico» per il calcolo del cosiddetto «Pil potenziale», vale a dire il livello di «equilibrio» dell’economia. Ancora oggi la Commissione europea utilizza un metodo a dir poco folle, che in alcuni casi ha portato a giudicare livelli di disoccupazione elevatissimi – anche superiori al 10 percento – come situazioni di «equilibrio naturale» dell’economia. Il risultato di questa metodologia anti-scientifica è stata una continua sottostima del Pil potenziale, e quindi una continua esagerazione del rapporto tra deficit pubblico e Pil potenziale. Insomma, il metodo della Commissione ha reso ancor più gravosa la politica di austerity.
Un’onda di critiche proveniente da vari premi Nobel per l’economia, e persino dal Fondo Monetario Internazionale, ha costretto il legislatore europeo a contemplare l’apertura di una discussione sulla metodologia di calcolo del Pil potenziale.
Fino a questo momento, tuttavia, nel governo italiano nessuno ha aperto bocca. Per quel che sappiamo, alle trattative di settembre sui tagli di bilancio i tecnici del ministero dell’economia si presenteranno a Bruxelles più realisti del re: ossia, con un metodo di calcolo pressoché identico a quello della Commissione.
Anziché correggere misure del Pil insensate e foriere di ulteriore austerity, Giorgetti e soci preferiscono forse tosare ancora un po’ sanità e stipendi? Anche su questa mistificazione «di classe» della scienza macroeconomica europea sarebbe ora di battere un colpo.
Fonte
Iran - Urne aperte per il nuovo presidente. Si teme una bassa affluenza
Dopo la selezione delle candidature vagliate dal Consiglio dei Guardiani – composto da sei teologi nominati dalla guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e da sei giuristi approvati dal Parlamento – solo 6 tra gli 80 pretendenti sono stati ammessi. Qualche ora fa due candidati hanno annunciato il proprio ritiro; la competizione elettorale riguarderà quindi l’ultraconservatore e negoziatore sul nucleare Saeed Jalili, il riformista Massoud Pezeshkian e i conservatori “pragmatici” Mohammad Bagher Qalibaf, Mustafa Pourmohammadi.
I progressisti puntano su Pezeshkian che è stato vicepresidente del Parlamento ed ex ministro della Sanità dal 2001 al 2005 sotto la presidenza di Mohammad Khatami. Di etnia azera, come molti iraniani, Pezeshkian ha ricevuto il sostegno di Mohammad Javad Zarif, ex ministro degli Esteri ai tempi del presidente Hassan Rohani. Afferma di voler rinegoziare l’accordo sul nucleare sulla base di quello raggiunto nel 2015 (da cui gli Stati Uniti di Donald Trump si sono ritirati unilateralmente nel 2018). In politica interna Pezeshkian ha criticato la repressione delle proteste scoppiate nel settembre 2022 dopo la morte Mahsa Amini avvenuta in seguito all’arresto da parte della polizia morale. A suo sfavore c’è la disillusione che regna tra i sostenitori delle riforme e della riduzione del potere delle autorità religiose che potrebbero preferire l’astensione.
Gli altri tre candidati, pur considerando le differenze che hanno espresso in campagna elettorale e che hanno fatto parlare i media locali e internazionali di “frattura tra i conservatori”, non sono portatori di novità di rilievo. Tutti e quattro inoltre non appaiono in grado di introdurre i cambiamenti necessari per affrontare la crisi economica che è il problema centrale nella vita di gran parte degli iraniani.
È opinione diffusa tra gli analisti che Qalibaf, probabilmente, otterrà il maggior numero di voti, ma non la maggioranza necessaria per assicurarsi la vittoria al primo turno. Il 24 giugno gli istituti Ispa e Meta hanno pubblicato i risultati dei rilevamenti effettuati il 22 e 23 giugno. Pezeshkian ha battuto di un soffio Jalili nel sondaggio Ispa con il 24,4% contro il 24%. Qalibaf era al terzo posto, con il 14,7%. Anche il sondaggio di Meta vede Pezeshkian in testa con il 24,4%, appena sopra Qalibaf con il 23,4%. Al terzo posto c’è Jalili, con il 21,5%. Tuttavia questo sondaggio mostra anche che in uno scontro diretto, Qalibaf batterebbe Pezeshkian con il 50,3% dei voti contro il 37% del suo avversario riformista. Invece una potenziale battaglia tra conservatori, Qalibaf uscirebbe in vantaggio con il 40,5% contro il 38,5% di Jalili.
La guida suprema Khamenei non ha espresso una preferenza per uno dei candidati. Piuttosto ha sottolineato l’importanza di un’alta partecipazione elettorale, definendola “una delle ragioni per cui la Repubblica islamica ha avuto la meglio sui suoi nemici”. “La forza dell’Iran non sta nel possedere una serie di missili, ma nella partecipazione attiva dei suoi cittadini al processo elettorale”, ha detto in un discorso televisivo.
Si prevede che la partecipazione al voto sarà uguale o leggermente superiore al 48,8% delle elezioni del 2021. Molto dipenderà dall’affluenza della Generazione Z, in particolare a Teheran e nelle grandi città, i giovani sono più espliciti nell’esprimere la disillusione per l’immobilità sostanziale dell’Iran. E hanno svolto un ruolo fondamentale nel movimento di protesta “Donne, Vita, Libertà” del 2022-23. Le loro specifiche richieste li hanno spinti in prima linea nel dibattito politico iraniano. Pezeshkian è tra i pochi politici che hanno compiuto sforzi significativi per coinvolgere e ascoltare i giovani iraniani, riconoscendone l’impatto. In netto contrasto con gli altri tre candidati, che respingono l’idea di un reale divario generazionale in Iran.
Durante un incontro avuto da Pezeshkian con studenti universitari, un giovane ha espresso crudamente la disillusione dei suoi coetanei, dicendo: “Il 90% dei ragazzi iraniani cerca di convincere gli altri a non votare, piuttosto che per chi votare”. Lamentandosi della situazione, ha aggiunto “Sto studiando e frequentando l’università solo per fuggire da questo Paese... non ci interessa se l’Iran sarà stabile o no. Perché? Perché anche se diventi presidente per quattro o otto anni, questo Paese non è riparabile”. Infine, sottolineando la profondità del malcontento, ha concluso: “I ragazzi iraniani non dicono più che non vogliono questa persona come presidente o quel funzionario in quella posizione; dicono che non vogliono affatto questa struttura”.
Fonte
28/06/2024
Guerra in Ucraina - Mosca minaccia Washington dopo la strage di Sebastopoli
di Francesco Dall’Aglio
Nella mattinata di domenica 23 giugno un missile ATACMS con munizionamento a grappolo lanciato dall’Ucraina ha colpito una spiaggia molto frequentata della Crimea, Uchkuevka, tra la baia di Sebastopoli e l’aeroporto di Belbek.
Il missile faceva parte di una salva intercettata dall’antiaerea russa e non è chiaro dove fosse diretto, se il suo obiettivo fosse davvero la spiaggia o se sia stato deviato con contromisure elettroniche o colpito dalle difese russe. Il numero di vittime e di feriti è molto più basso di quello che ci si poteva aspettare perché, come si può vedere dai filmati di alcune telecamere di sicurezza poste sulla spiaggia, gran parte delle sfere di metallo che costituiscono il carico di quel tipo di munizioni sono finite in acqua. I successivi eventi del Dagestan, sempre domenica, hanno aggiunto ulteriore tensione e a peggiorare le cose ci si è messa una serie di commenti a dir poco improvvidi da parte delle autorità ucraine, dell’Unione Europea e degli USA che certamente non hanno rasserenato le autorità russe. Mychajlo Podoljak ha twittato che la Crimea, oltre ad essere territorio occupato, è una base militare e i civili russi che vi si trovano sono ‟occupanti civili”[1]; Peter Stano, portavoce dell’Unione Europea per gli affari esteri, in risposta alla richiesta di un commento da parte della TASS ha dichiarato che i rapporti russi ‟hanno credibilità prossima allo zero”[2], mentre il generale Pat Ryder, portavoce del Dipartimento della Difesa statunitense, in una conferenza stampa a dichiarato di non avere ‟alcuna informazione che indicasse se dei civili erano o non erano stati uccisi”, ma che ne avrebbero discusso con gli ucraini [3]. Il ciclo di dichiarazioni ufficiali è stato chiuso dal portavoce della Dipartimento di Stato, Matthew Miller, che pur rammaricandosi per la perdita di vite umane ha detto che le armi statunitensi servono all’Ucraina per difendere il proprio territorio di cui la Crimea fa parte, e che la Russia potrebbe chiudere il conflitto e le sofferenze che porta ritirandosi dal territorio ucraino [4]. Proprio questa, come vedremo, è la dichiarazione che ha maggiormente messo in allarme Mosca.
La reazione ufficiale russa è stata molto dura e si è diretta più che contro l’Ucraina contro gli Stati Uniti, accusati senza mezzi termini di essere i principali responsabili di un attacco terroristico perpetrato contro civili inermi poiché i lanci dei missili ATACMS sono programmati, secondo i russi, da specialisti statunitensi in base ai dati forniti dall’intelligence USA. L’ambasciatrice statunitense a Mosca, Lynne Tracy, è stata convocata al Ministero degli Esteri e sono state annunciate ‟misure di rappresaglia” non specificate[5]. Al di là delle vittime civili, la rabbiosa reazione russa deriva principalmente da due motivi: l’impiego nell’attacco di armi a lungo raggio fornite dagli USA e soprattutto il fatto che siano state adoperate in Crimea. La questione dell’autorizzazione statunitense a impiegare armi a lungo raggio sul territorio russo, e non solo nella zona di combattimento o nei territori occupati, ha tenuto banco per settimane raggiungendo a volte effetti ridicoli. Alla fine era stato trovato un compromesso che garantisse un vantaggio militare all’Ucraina ma allo stesso tempo non fosse considerato dalla Russia come una escalation troppo grave: le forze armate ucraine hanno ottenuto il permesso di colpire oltreconfine entro un raggio di 100 chilometri nel settore di Kharkiv e in generale contro bersagli, aerei o terrestri, che stessero preparandosi a colpire il territorio ucraino dalla Russia.[6] Dalla Crimea però, a parte il fatto che le vittime sono civili, non stava partendo nessun attacco e la distanza è ben superiore a 100 chilometri qualunque sia stato il punto di partenza dei missili. La cosa più inquietante per i russi, però, è stato l’elemento retorico del ‟territorio ucraino occupato” dal quale devono essere allontanati e il fatto che evidentemente questo territorio continui a includere la Crimea, cosa che per la Russia non è negoziabile e non lo era mai stata, nemmeno durante i colloqui del marzo-aprile 2022.
La rappresaglia minacciata dalla Russia va dunque intesa come diretta
contro gli Stati Uniti, non contro l’Ucraina. E secondo le regole della
proporzionalità, verosimilmente contro i sistemi di intelligence,
ovvero i droni di osservazione General Atomics MQ-9 Reaper o i ben più
grandi e costosi Northrop Grumman RQ-4B Global Hawk che stazionano quasi
in permanenza sul Mar Nero. Sebbene non dirigano il tiro delle
artiglierie ucraine, come spesso erroneamente si dice, forniscono però
intelligence fondamentale prima e dopo gli attacchi, tenendo sotto
osservazione i bersagli e quantificando i danni. È proprio
l’intelligence il contributo più importante che la NATO sta dando
all’Ucraina, al di là delle forniture di armi e munizioni, ed è la cosa
che i russi soffrono di più. Sono note già due azioni ostili contro
questi sistemi di sorveglianza, ufficialmente fatte passare come
malintesi o, appunto ‟azioni non professionali”: il 29 settembre 2022 un
Su-27 aveva lanciato un missile ‟nelle vicinanze” di un Boeing RC-135
Rivet Joint della RAF,[7]
ma l’incidente più spettacolare, anche perché ripreso dalle camere di
bordo, era avvenuto il 14 marzo 2023 quando un altro Su-27 aveva prima
irrorato di carburante un MQ-9 Reaper statunitense e poi ne aveva
intenzionalmente speronato l’elica di coda, facendolo precipitare nel
Mar Nero.[8]
In molti dunque si aspettavano una ripetizione di queste situazioni o
un magari atto dimostrativamente ancora più esplicito.
Nella tarda
serata del 24 giugno un canale telegram russo piuttosto noto e molto
bene informato sulle vicende dell’aviazione russa, Fighterbomber, che
gode di un certo credito anche perché non si fa problemi nel riportare
le perdite russe quando si verificano, ha pubblicato un post abbastanza
criptico congratulandosi ‟con tutti quelli coinvolti”, citando ‟azioni
non professionali” e ‟una turbolenza sul Mar Nero”, e chiedendosi se la
cosa sarebbe continuata o si sarebbe trattato invece di un singolo
evento[9]. Lo stile di Fighterbomber è sempre criptico, dato che spesso rivela
dati non di pubblico dominio e non sempre può riferirli esplicitamente,
ma ‟azione non professionale” è la frase con cui i bollettini ufficiali
descrivono le azioni di disturbo o le provocazioni effettuate da aerei
ostili: tutto lasciava dunque pensare che un drone statunitense fosse
stato abbattuto o danneggiato. Il candidato principale era l’RQ-4B
Global Hawk ‟FORTE10”, in volo da tempo sul Mar Nero e che aveva fatto
precipitosamente ritorno alla base di Sigonella proprio quando
Fighterbomber pubblicava il suo messaggio. Il giorno dopo sempre
Fighterbomber pubblicava un video di sei minuti, nel quale spiegava la
dinamica dell’azione: un Mig-31 aveva raggiunto ‟assolutamente per caso”
FORTE10 ad altissima velocità alla sua altitudine operativa di 20.000
metri, generando una turbolenza che lo aveva mandato fuori rotta e
costretto ad abbandonare la missione e fare ritorno alla base[10]. Fighterbomber non ha fornito prove fotografiche o video dell’incidente,
ma alcuni eventi contribuiscono a farci credere che è probabile che si
sia verificato davvero. In primo luogo, nessun drone da osservazione
statunitense ha più volato sul Mar Nero dalla notte del 24; solo nel
primo pomeriggio del 27 giugno è comparso in zona un RC-135W britannico
(come quello protagonista suo malgrado dell’incidente del 29 settembre
2022) decollato dalla Gran Bretagna, accompagnato da due caccia Typhoon
partiti invece dalla Romania.
Come mostra il tracciato del volo, l’aereo si è però tenuto lontano
dalla Crimea e poco dopo ha invertito la rotta tornando nello spazio
aereo NATO, dove ha continuato a volare per un paio d’ore prima di fare
rotta verso la base di partenza, mentre i due caccia lo hanno lasciato e
sono tornati alla base romena dove sono dislocati. Non ci è dato sapere
se la missione consisteva in questo o se sono stati dissuasi dal
completarla da qualcosa incontrato lungo la strada, né se, come
affermano alcune fonti, ci fosse un’altra coppia di caccia inglesi
che volavano con il transponder spento. Un altro dettaglio interessante:
il giorno dopo il presunto incidente, il 25 giugno, il Segretario della
Difesa statunitense Lloyd Austin ha telefonato al Ministro della Difesa
russo Andrej Belousov. L’ultima volta che Austin aveva parlato con il
suo omologo russo, che all’epoca era ancora Shoigu, era stato il 15
marzo 2023 in occasione dell’abbattimento dell’MQ-9 Reaper, che secondo
la trascrizione ufficiale della telefonata era stato l’unico argomento
di discussione tra i due [11]. Questa volta da parte statunitense non sono stati rivelati dettagli
sulla telefonata, solo che Austin ‟ha enfatizzato l’importanza di
mantenere aperti i canali di comunicazione”, canali che si erano appunto
chiusi il 15 marzo dell’anno scorso, e nient’altro [12]. Anche il comunicato del Ministero della Difesa russo è piuttosto
laconico, anche se aggiunge qualche dettaglio in più: si è discusso
della situazione in Ucraina, del pericolo di escalation causato dalle
forniture militari statunitensi, e ‟di altre cose” [13].
Pare anche che gli statunitensi si siano innervositi e abbiano provato a
restituire il favore ai russi in Siria. Secondo il generale Yury
Popopv, il 27 giugno un MQ-9 Reaper è passato pericolosamente vicino a
un Su-35 russo nella regione di Homs, a un’altezza compresa tra i 7 e
gli 8000 metri [14], mentre in due occasioni aerei statunitensi avrebbero ‟illuminato”
caccia russi. Va però detto che in Siria queste provocazioni reciproche
non sono rare e nemmeno troppo mal viste, al di là delle proteste
ufficiali, perché consentono alle rispettive areonautiche di testare i
limiti dei propri apparecchi in competizione con gli omologhi avversari,
escludendo naturalmente di entrare in combattimento.
Per concludere, il
canale telegram ufficiale del Ministero della Difesa russo ha
pubblicato come prima notizia del 28 giugno un post nel quale si
comunica che Belousov ha incaricato lo Stato Maggiore russo di
‟presentare proposte di misure” per rispondere alle ‟provocazioni” dei
droni-spia sul Mar Nero, che oltre a designare i bersagli per le armi
fornite dalla NATO all’Ucraina costituiscono un pericolo per gli aerei
russi. Questo, scrive sempre il Mistero, aumenta il rischio di uno
scontro diretto tra NATO e Federazione Russa, e se ciò dovesse accadere i
paesi NATO ne saranno ritenuti responsabili [15]. Nessun accenno, ovviamente, a ‟incidenti” già avvenuti o a ‟misure” già
prese, ma la dichiarazione abbastanza esplicita che da parte russa ci
si riserva la possibilità di agire in futuro.
Insomma, di ciò che sarebbe successo nella notte del 24 giugno
abbiamo solo prove indiziarie. Fighterbomber, nel suo stile criptico,
promette foto e filmati ma chissà se ne vedremo. Ufficialmente nessuna
delle due parti ha riconosciuto che qualcosa di strano sia successo sul
Mar Nero ma qualcosa, nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, pare si
stia muovendo davvero e la telefonata di Austin a Belousov ne è il
segnale più evidente. Intanto a New York è arrivato, il 26, anche il
Ministro degli Interni russo Vladimir Kolokolt’cev. L’occasione della
visita non annunciata è la riunione dei capi della polizia dei paesi
dell’ONU, cosa che gli dà il diritto di muoversi sul territorio
statunitense nonostante le sanzioni che lo hanno colpito ma che non gli
impediscono di recarsi ai meeting delle Nazioni Unite che però non
frequentava dal 2018: anche lui, si direbbe, è stato colpito
all’improvviso da una irrefrenabile volontà di comunicare.
C’è
sicuramente grande confusione sotto il cielo, ma la cosa una volta tanto
potrebbe avere risvolti positivi.
Note
[1] https://x.com/Podolyak_M/status/1805171253755412849.
[2] https://tass.com/world/1807635.
[3] https://www.defense.gov/News/Transcripts/Transcript/Article/3815559/major-general-pat-ryder-pentagon-press-secretary-holds-an-off-camera-press-brie/
[4] https://www.state.gov/briefings/department-press-briefing-june-24-2024/
[5] https://www.reuters.com/world/europe/kremlin-blames-us-barbaric-atacms-missile-attack-crimea-2024-06-24/
[6] https://www.washingtonpost.com/world/2024/06/21/ukraine-firing-range-us-weapons-russia/
[7] https://www.bbc.com/news/uk-63327999
[8] https://www.theguardian.com/us-news/2023/mar/16/us-releases-footage-russian-jet-crashing-into-american-drone-over-black-sea
[9] https://t.me/fighter_bomber/17145
[10] https://t.me/fighter_bomber/17156
[11] https://www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3330335/readout-of-secretary-of-defense-lloyd-j-austin-iiis-phone-call-with-russian-min/
[12] https://www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3817099/readout-of-secretary-of-defense-lloyd-j-austin-iiis-phone-call-with-russian-min/
[13] https://eng.mil.ru/en/news_page/country/more.htm?id=12517991@egNews (allego il link in inglese, la versione in russo, che comunque non riporta altri dettagli, è più difficilmente accessibile dall’Italia).
[14] https://tass.com/defense/1809669
[15] https://t.me/mod_russia/40386.