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19/06/2024

Via altri 600 soldati francesi dall’Africa

Le prime difficoltà in Africa per la Francia si sono presto tramutate in una vera e propria Caporetto. Non solo la “Françafrique” – l’insieme delle ex colonie di Parigi in Africa, sottoposte per decenni ad un rigido controllo politico ed economico – sta andando rapidamente in pezzi, ma anche la presenza militare francese nel continente, massiccia fino a solo un anno fa, è stata ampiamente ridimensionata.

Molti dei regimi africani affermatisi negli ultimi anni grazie a colpi di stato militari di stampo nazionalista, infatti, di Parigi e dei suoi militari non ne vogliono più sapere. La maggior parte di loro ha da tempo stretto crescenti relazioni commerciali e militari con la Russia mentre Pechino continua a consolidare la sua influenza economica nel continente. Che i nuovi partner siano migliori di quelli vecchi è tutto da vedere, ma intanto l’influenza occidentale in Africa perde rapidamente terreno.

La Francia, da partner preferenziale (e di fatto obbligato, in virtù dei rapporti di dipendenza imposti da Parigi alle sue ex colonie) è divenuto ormai indesiderabile. E il ritorno a casa di migliaia di soldati francesi è il segno più eclatante della crisi dell’egemonia dell’esagono nel continente africano.

Pechino e Mosca certamente festeggiano, così come la Turchia e alcune petromonarchie che continuano ad ampliare la propria penetrazione nei paesi liberati da Parigi. Gli Stati Uniti – storico competitore della Francia nell’area – oscillano tra la soddisfazione e la preoccupazione: difficilmente le posizioni liberate da Parigi verranno occupate da Washington.

Parigi riduce ulteriormente la sua presenza militare

Ieri alcuni media di Parigi – lo Stato Maggiore per ora non ha confermato le indiscrezioni – hanno fornito i particolari del “ridimensionamento” militare francese in Africa, annunciato all’inizio del 2023 ed in parte già realizzato sull’onda delle proteste popolari o dei diktat di alcuni regimi.

Secondo quanto reso noto dalla stampa, la riduzione delle truppe riguarderà in particolare il Senegal ed il Gabon – rientreranno in patria 100 uomini sui 350 attualmente stanziati in entrambi i Paesi – la Costa d’Avorio (100 militari in meno su 600) e il Ciad (300 unità sulle mille presenti). L’unico punto fermo di Parigi rimane Gibuti, nel Corno d’Africa, dove però oltre ai 1.500 soldati francesi sono presenti numerosi contingenti e basi di vari paesi, tra cui la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone, l’Arabia Saudita e l’Italia.

Per Parigi è una “Caporetto”

Per quanto le autorità francesi parlino di un ridispiegamento e di un cambiamento delle caratteristiche dello schieramento militare nel continente africano, al momento sembra proprio che l’uscita di scena di Parigi sia irreversibile. Fino a due anni fa, oltre alle 1.600 unità stanziate in Africa occidentale e in Gabon, la Francia disponeva di circa 5 mila uomini nella regione del Sahel, inquadrati nell’operazione Barkhane, giustificata dalla necessità di contrastare l’avanzata di milizie jihadiste.

L’ascesa al potere di numerose giunte militari vicine alla Russia – soprattutto in Mali, Niger e Burkina Faso – ha tuttavia portato alla progressiva quanto rapida estromissione delle forze francesi dal Sahel e alla loro sostituzione con mercenari di Mosca.

Parigi cerca di salvare il salvabile

Nel tentativo di tamponare l’evidenza perdita d’influenza, Macron ha considerato anche la possibilità di condividere alcune delle sue basi con le truppe statunitensi, che però sono in procinto di lasciare il Niger e il Ciad dopo la pressante richiesta dei governi locali. Un’altra opzione sarebbe quella di chiedere ospitalità alle basi di Washington per piccoli contingenti francesi, in attesa che eventuali cambi di governo nel Sahel permettano un ritorno di Parigi ai grandi numeri.

Come ha spiegato a marzo in commissione Difesa dell’Assemblea nazionale il capo di Stato maggiore francese, Thierry Burkhard, l’ipotesi è ritenuta «auspicabile se vogliamo ridurre la nostra visibilità mantenendo l’impronta minima necessaria per conservare un accesso» all’area.

Secondo Burkhard, la nuova struttura in via di elaborazione dovrebbe consentire di mantenere i rapporti con le autorità militari locali, di raccogliere informazioni e di perseguire partenariati operativi.

Evitando missioni di combattimento, i soldati francesi forniranno essenzialmente addestramento e capacità ai paesi partner, su loro richiesta, ha spiegato Burkhard il quale evidentemente spera che il ridimensionamento delle aspirazioni di Parigi convinca i paesi africani a evitare l’espulsione totale delle sue truppe.

Una presenza militare “meno visibile”

Conscio della gravità della situazione, all’inizio dell’anno Macron ha incaricato l’ex senatore ed ex ministro della Cooperazione, Jean-Marie Bockel, di discutere con i partner africani le nuove modalità da adottare per mantenere una qualche presenza militare francese in alcuni paesi. In un’audizione al Senato svolta a metà maggio, Bockel – nominato inviato personale speciale del presidente in Africa – ha spiegato che la Francia vuole oggi «una presenza meno visibile, ma mantenere l’accesso logistico, umano e materiale a questi Paesi».

Secondo la stampa d’oltralpe, nel corso dell’estate lo Stato Maggiore prevede di istituire un comando dedicato all’Africa, guidato da un generale già designato, di cui non si conosce però ancora l’identità.

Parigi starebbe cercando di evitare l’abbandono totale della Costa d’Avorio e del Senegal, considerati degli irrinunciabili “baluardi di stabilità” nella regione. Ma dopo la cacciata delle truppe francesi da Mali, Niger, Burkina Faso e Gabon, l’ondata di risentimento antifrancese ha coinvolto più recentemente anche Dakar, dove il nuovo primo ministro ed ex leader dell’opposizione Ousmane Sonko ha chiesto chiaramente al suo esecutivo di riconsiderare la presenza militare occidentale nel Paese. «A più di sessant’anni dalla nostra indipendenza, dobbiamo interrogarci sulle ragioni per cui l’esercito francese, ad esempio, beneficia ancora di numerose basi militari nei nostri Paesi, e sull’impatto di questa presenza sulla nostra sovranità nazionale e sulla nostra autonomia strategica», ha dichiarato il primo ministro il 17 maggio in occasione di una conferenza stampa congiunta con il leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon, in visita a Dakar.

Sonko ha ventilato la possibilità di chiudere le basi militari francesi nel Paese, ribadendo il desiderio del Senegal di ristabilire una piena sovranità, il che «è incompatibile con la presenza duratura di basi militari straniere in Senegal».

Contemporaneamente, il solido legame tra Macron e il presidente Alassane Ouattara potrebbe aver convinto Parigi ad anticipare in Costa d’Avorio l’impatto di un risentimento dilagante nella regione (il paese è circondato da paesi governati da giunte golpiste ostili alla Francia) alla vigilia delle elezioni presidenziali fissate per il 2025.

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18/06/2024

Dai bassi tassi di interesse all’alta spesa militare: crisi di egemonia e pulsioni belliche degli USA

I. Domanda effettiva e crescita dei consumi delle famiglie

La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati ​​è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.

II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito

Una prima relazione causale tra tassi di interesse e consumi che vale la pena considerare è quella stabilita dall’influenza diretta che il tasso di interesse esercita sulla distribuzione del reddito. Il tasso di interesse sulle attività finanziarie prive di rischio a lungo termine costituisce un determinante autonomo dei costi normali di produzione; a parità di condizioni, un abbassamento persistente del tasso di interesse a lungo termine come quello avvenuto negli ultimi quaranta anni provoca un abbassamento del livello dei prezzi in relazione al livello dei salari monetari, generando così una riduzione del tasso normale di profitto e un aumento del salario reale. Questa relazione tra tasso di interesse e salari reali è tuttavia offuscata dal fatto che il tasso di interesse a lungo termine non è che uno dei determinanti dei margini di profitto normali lordi. Gli altri sono, oltre ai profitti normali di impresa, gli ammortamenti e le remunerazioni degli alti dirigenti. Per ogni dato andamento del tasso di interesse a lungo termine, ciascuna di queste altre componenti del profitto normale lordo può subire nel tempo qualche cambiamento, tale da risultare in un movimento non inverso dei tassi di interesse e dei salari reali. È ampiamente riconosciuto che l’accorciamento della vita media delle attrezzature ha causato negli ultimi decenni un aumento delle quote di ammortamento per unità di prodotto. Ancora più importante, un indebolimento generale dell’incentivo a investire ha probabilmente comportato profitti aziendali significativamente più elevati in tutta l’economia. L’epocale allontanamento dall’obiettivo politico della piena occupazione avvenuto alla fine degli anni ’70 ha ridotto l’incentivo a investire in tutto il capitalismo avanzato, abbassando il tasso di crescita della formazione di capitale fisso a meno della metà di quello registrato nell’età d’oro del capitalismo avanzato, ovvero il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale. Il punto è che una riduzione dell’incentivo a investire equivale a un aumento del rischio di impiegare produttivamente il capitale, che deve dunque tradursi in un aumento della componente normale del profitto necessaria a remunerarlo. A causa di tutti questi cambiamenti, i margini di profitto sono aumentati nonostante la marcata tendenza al ribasso dei tassi di interesse a lungo termine. Ma senza la riduzione dei tassi di interesse, i margini di profitto lordi e il rapporto tra prezzi e salari monetari sarebbero stati ancora più elevati. In effetti, soprattutto nella seconda metà degli anni ’90, la diminuzione dei tassi di interesse sembra aver in una certa misura frenato l’impatto negativo sui salari reali dell’aumento delle altre tre componenti dei profitti normali.

III. Bassi tassi di interesse e prestiti al consumo

A prescindere dal loro impatto attraverso la distribuzione del reddito, i bassi tassi di interesse hanno sostenuto i consumi, soprattutto negli Stati Uniti, attraverso i loro effetti sul debito delle famiglie, sui prezzi dei titoli obbligazionari e azionari, nonché sul valore delle case. A partire dalla metà degli anni Novanta, la capacità di ampi settori della popolazione di acquistare beni e servizi è stata significativamente influenzata in modo positivo sia da un minore onere del debito che da un aumento dei prezzi dei titoli e delle case. Consideriamo questi fenomeni più nel dettaglio, partendo dall’indebitamento delle famiglie.

Come abbiamo sostenuto altrove (Barba e Pivetti, 2009), il calo dei tassi di interesse è riuscito a contenere per diversi anni la quota di reddito personale disponibile delle famiglie necessaria ad onorare il loro crescente indebitamento, prolungando così in modo significativo la sostenibilità macroeconomica di un massiccio processo di sostituzione dei salari con i prestiti. Dal 1982 in poi il credito al consumo ebbe una forte espansione, con una crescita media dell’8% nel periodo dal 1992 fino alla crisi finanziaria. Oltre ai debiti dovuti alle carte di credito e alle vendite rateali (per le automobili in particolar modo), anche una cospicua parte dell’aumento dei mutui ipotecari del periodo fu il riflesso della crescente tendenza delle famiglie a indebitarsi per finanziare i consumi, utilizzando il valore delle case come collaterale. Dal momento che, in proporzione al reddito, il credito al consumo a vario titolo erogato era fortemente concentrato nell’80% più basso della distribuzione del reddito, l’indebitamento delle famiglie di quegli anni può essere visto come la contropartita del cambiamento distributivo avvenuto negli USA a partire dall’inizio degli anni ‘80. In un contesto di deregolamentazione finanziaria e di allentamento dei vincoli di liquidità per le famiglie a basso e medio reddito, l’aumento del credito al consumo è stato la risposta alla stagnazione dei salari reali (anche ad aumenti dei salari che, tuttavia, persistentemente non tenevano il passo con la produttività), nonché alle crescenti divergenze tra le retribuzioni più alte e quelle più basse.

Attraverso l’indebitamento delle famiglie si assicurò in sostanza la coesistenza tra salari relativamente bassi e livelli elevati di domanda aggregata, senza che fosse per questo necessario ricorrere all’intervento statale e a maggiori spese pubbliche. Inoltre, con la sostituzione dei prestiti ai salari, la quota di reddito effettivo spettante ai capitalisti ed hoc genus omne (soprattutto a quest’ultimo, secondo Piketty e Saez 2006) venne alimentata anche dal fatto che l’onere del servizio del debito alla fine spinse i salariati a lavorare di più e per orari più lunghi, accrescendo la loro disponibilità ad “andare ovunque e fare qualsiasi cosa” e contribuendo così alla persistenza dei bassi salari.

Ma il processo di sostituzione dei prestiti ai salari non poteva andare avanti all’infinito. Oltre certi livelli, il servizio del debito da parte delle famiglie indebitate diventava insostenibile. Di fatto, la sostenibilità macroeconomica del processo venne significativamente prolungata in due modi: in primo luogo, coinvolgendo un numero crescente di lavoratori dipendenti nel processo di indebitamento (un’espansione considerevole nel corso di diversi anni dei cosiddetti mutui subprime fu l’aspetto principale di questo primo mezzo di protrazione del processo); in secondo luogo, proprio dalla politica di progressiva riduzione dei tassi di interesse perseguita dalla Federal Reserve a partire dal 1995. Infatti, a fronte di tassi di interesse che continuavano a scendere, l’onere del servizio del debito, misurato in percentuale del reddito personale disponibile, non aumentava nonostante il continuo aumento del debito delle famiglie in rapporto al PIL. Non c’è dubbio, insomma, che il ricorso ad una politica monetaria di denaro sempre più a buon mercato ritardò significativamente negli Stati Uniti il redde rationem del rapido aumento del debito delle famiglie, così come non c’è dubbio che la posizione del dollaro come indiscussa valuta di riserva internazionale fu ciò che permise agli Stati Uniti di mantenere il controllo dei tassi di interesse interni, nonostante la liberalizzazione finanziaria.

Resta tuttavia il fatto che anche una politica di bassi tassi di interesse non poteva consentire al processo di continuare, come divenne chiaro non solo con la crisi finanziaria ma anche dopo, quando l’espansione del credito al consumo non riavviò il trend di crescita pre-crisi, nonostante i bassi tassi di interesse e la ripresa dei prezzi delle case.

IV. Bassi tassi di interesse e effetti ricchezza

Oltre a consentire un lungo processo di sostituzione dei salari con prestiti, c’è un altro canale attraverso il quale il denaro a basso costo potrebbe aver reso i consumi delle famiglie negli Stati Uniti la componente più dinamica della domanda effettiva. Ci riferiamo alla crescita del loro patrimonio netto. I dati sembrano suggerire una stabile relazione inversa tra il tasso di risparmio personale e il patrimonio netto delle famiglie. Durante l’età dell’oro del capitalismo avanzato, il tasso di risparmio personale aumentò leggermente, mentre il rapporto tra patrimonio netto e PIL diminuì leggermente. Questo rapporto cominciò a crescere costantemente all’inizio degli anni ‘80, quando il tasso di risparmio personale iniziò a ridursi, per poi acquistare slancio nei decenni successivi, in particolare durante la bolla delle dot-com 1995-2000, la bolla immobiliare e creditizia del 2003-2007 e l’emergenza sanitaria pubblica del COVID-19.

A partire dal 2007, tuttavia, il legame tra ricchezza e risparmio è venuto meno, e nonostante una crescita sostanziale del rapporto patrimonio netto/PIL, il tasso di risparmio personale è rimasto pressoché invariato dopo il 2010. Lo sganciamento del rapporto patrimonio netto/PIL dal tasso di risparmio personale suggerisce con forza che in realtà gli effetti della ricchezza sui consumi sono molto più tenui di quanto si creda. Il motivo è legato al modo in cui la crescita del patrimonio netto ha interessato i diversi percentili della distribuzione del reddito. Alla fine del 1989 il patrimonio netto delle famiglie americane era pari a circa 21 trilioni; nel terzo trimestre del 2023 ha raggiunto i 142,4 trilioni. Questa crescita è andata per 80 trilioni al 10% più ricco della popolazione; solo per 40 trilioni all’80% più povero. Mentre nel 1989 la quota di ricchezza netta detenuta dall’80% delle famiglie più povere era pari al 39,3% rispetto al 60,7% detenuta dal 20% più ricco, nel 2023 la quota delle prime è scesa al 29,6% mentre quella delle seconde è cresciuta al 70,4%. La riduzione ha interessato tutti i gruppi percentili più bassi della scala del reddito, ad eccezione del gruppo 0-20% la cui quota è rimasta pressoché invariata. La quota del gruppo 20-40% è scesa dal 7,5% al 4,6%; quello del gruppo 40-60% dal 12,4% all’8,4% e quello del gruppo 60-80% dal 16,5% al 13,5%. A beneficiarne è stata la fascia 80-99% con un aumento dal 43,9% al 47,2% e, soprattutto, l’1% più ricco della popolazione con la sua quota in aumento dal 16,8% al 23,3%.

È quindi possibile concludere che il fenomeno rilevante verificatosi nel 2010 fu la fine della crescita incontrollata dei consumi delle famiglie finanziati dal debito – non la perdita di forza dell’effetto ricchezza, dal momento che anche prima della crisi finanziaria il suo ruolo era stato di fatto limitato alla sola ricchezza immobiliare come strumento di finanziamento dei consumi a debito.

Proprio perché è difficile negare che gli effetti ricchezza, eccezion fatta per il canale mutui ipotecari-credito al consumo, riguardino soprattutto i ricchi, secondo alcuni autori (vedi ad esempio Maki e Palumbo, 2001) la caduta del tasso di risparmio statunitense sarebbe stata determinata dal comportamento di consumo del quintile più alto della distribuzione: gli effetti ricchezza avrebbero aumentato la propensione al consumo dei percettori dei redditi più alti a tal punto da rendere negativo il loro tasso di risparmio. In realtà, l’idea che gli effetti ricchezza possano aver portato i ricchi a ridurre il tasso di risparmio complessivo è piuttosto difficile da digerire, considerando che la coda finale del quintile più alto è composto da persone che sono semplicemente troppo ricche per poter spendere in consumi l’intero reddito. Quindi, anche se il calo dei tassi di interesse e i relativi effetti ricchezza possono aver stimolato per diversi anni dei consumi opulenti, può difficilmente stupire che l’idea che la concentrazione della ricchezza possa trasformarsi da “da vizio privato a pubblica virtù” abbia recentemente perso terreno. Da un lato, gli studi quantitativi dell’effetto ricchezza sui consumi personali stanno sempre di più evidenziando un ruolo molto limitato per il mercato azionario, mentre un’influenza molto più forte risulta essere esercitata dalla ricchezza non finanziaria. Questo esito dipende proprio dall’elevata concentrazione della ricchezza azionaria, rispetto a quella immobiliare, che è invece molto più equamente distribuita, e che, come sottolineato in precedenza, ha sostenuto i consumi fungendo da garanzia per il debito delle famiglie, funzione che soprattutto negli anni precedenti la crisi finanziaria ha interessato i livelli più bassi della distribuzione del reddito, composti in gran parte da famiglie con basso merito creditizio. Del resto, il riconoscimento che i ricchi risparmino di più e che il maggiore risparmio del 10%-20% più ricco della popolazione sia da mettere in relazione al minor risparmio del restante 90%-80% sta guadagnando terreno anche nella letteratura ortodossa, anche se con un ritardo significativo e in connessione con la tesi tradizionale secondo cui sarebbe stato proprio l’eccesso di risparmio dei ricchi ad aver spinto i tassi di interesse verso il basso (cfr. Mian et al., 2021).

V. Bassi tassi di interesse ed eutanasia del rentier

Nel 2021, la politica statunitense di lungo periodo di tassi di interesse bassi e calanti è giunta al termine, un cambiamento di indirizzo ufficialmente giustificato dalla necessità di combattere l’inflazione. Ma come strumento antinflazionistico, una politica monetaria più restrittiva è a dir poco problematica. Questo perché i tassi di interesse sono considerati dalle imprese come un costo, con il corollario che una politica di denaro a caro prezzo è inflazionistica, come confermato da tempo dagli studi empirici sulle politiche di prezzo delle imprese. Si potrebbe dire, usando le parole di un vecchio presidente del Joint Economic Committee americano, che “alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione è come buttare benzina sul fuoco”. Dati i salari monetari e la produttività del lavoro, l’aumento dei prezzi causato da un aumento duraturo dei tassi di interesse riflette semplicemente l’adattamento dei prezzi ai costi normali produzione causato dalla concorrenza. Tassi di interesse più elevati potrebbero riuscire a ridurre l’inflazione solo se il rapporto più elevato tra prezzi e salari monetari che essi determinano fosse più che controbilanciato da una riduzione o da un aumento più lento dei salari monetari, causato dall’impatto negativo sull’occupazione della contrazione della spesa per consumi provocata da tassi di interesse più elevati. Rispetto all’abbandono della politica di bassi tassi di interesse, più importante dei suoi effetti sull’inflazione è il semplice fatto che il capitalismo non può funzionare indefinitamente con tassi di interesse nulli o negativi – uno stato di “eutanasia del rentier” non può essere raggiunto semplicemente attraverso la politica monetaria, senza alcuna rivoluzione sociale. Nel sistema capitalistico la proprietà privata della ricchezza, distinta dalla proprietà del capitale produttivo, non può cessare permanentemente di produrre reddito, indipendentemente dalle forme del suo impiego; né la maggior parte di quel reddito può essere garantita in modo permanente dalla speculazione e dalle plusvalenze. Nel contesto di una politica permanente di tassi di interesse nulli, la mera proprietà privata della ricchezza cesserebbe di essere una sinecura, il sistema creditizio collasserebbe e i redditi da capitale potrebbero continuare ad esistere solo come profitti d’impresa.

VI. Domanda effettiva e spesa militare

Negli ultimi tre anni la politica statunitense di rincaro della moneta e rafforzamento del dollaro si è accompagnata a politiche di bilancio espansive, integrate da politiche industriali volte a ridurre la propensione all’importazione del Paese, soprattutto in alcuni settori chiave: il “Buy American Rules”, l’“Inflation Reduction Act” (in realtà una misura protezionistica intesa a stimolare la produzione manifatturiera nazionale) e il “CHIPS & Science Act” sono le più importanti tra esse. La fine nel 2021 di un lungo periodo durante il quale negli USA la crescita era stata sostenuta principalmente dalla spesa per consumi delle famiglie sembra aver trovato sbocco nel ritorno ad una politica di “grande governo”, non solo con l’obiettivo di sostenere la crescita nel nuovo contesto, ma anche di riconquistare egemonia internazionale. Su entrambi i fronti – crescita economica e ripristino dell’egemonia – un nuovo rafforzamento militare americano sembra essere l’esito più probabile.

Nella tradizione keynesiana, con il termine “grande governo” si è sempre fatto riferimento a tassi elevati e crescenti di spesa statale, locale e federale – in particolare di quest’ultima, poiché è principalmente il governo federale che può influenzare la domanda aggregata attraverso la politica fiscale per garantire il buon andamento dell’economia. Ma dall’inizio della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica nel 1947, fatta eccezione per la breve esperienza del presidente Johnson con i suoi programmi sociali della Great Society, un’ingente spesa federale non ha mai significato negli Stati Uniti creazione e sviluppo di un generoso sistema di Welfare State di tipo socialdemocratico europeo. Dall’enunciazione della Dottrina Truman nel marzo 1947 fino alla fine degli anni ’60 gli acquisti federali legati ai programmi militari e spaziali (DoD più NASA) furono la componente più dinamica della domanda effettiva, mentre la disoccupazione statunitense rimase su livelli ben al di sotto della media dell’intero dopoguerra. Dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 il tasso di disoccupazione mostrò un trend crescente, in coincidenza con la stagnazione della spesa militare e la sua tendenza al ribasso in percentuale del PIL; infine, dal suo picco assoluto nel 1982 (quasi l’11% alla fine di quell’anno), il tasso di disoccupazione statunitense continuò a scendere per il resto degli anni ’80, con il potenziamento militare di Reagan cui corrispose il più intenso processo di riarmo in tempo di pace della storia degli Stati Uniti (vedi Pivetti, 1992 e 1994). L’implosione dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda diedero inizio all’“era del dividendo della pace”. Un buon andamento a lungo termine del capitalismo americano difficilmente poteva continuare a essere ottenuto attraverso l’espansione della spesa militare e al suo posto, come abbiamo rilevato, subentrò un’espansione di lungo periodo dei consumi privati attraverso una politica di tassi di interesse bassi e decrescenti, che non poteva però durare indefinitamente senza causare il collasso del sistema creditizio.

VII. Trasferimenti pubblici e Keynesismo anticongiunturale

Con la Grande Recessione del 2008 e la recessione da Covid-19 si è verificato un massiccio ricorso ad un’ampia gamma di trasferimenti alle famiglie (indennità di disoccupazione, assistenza abitativa, assistenza alimentare, ecc.), principalmente in funzione anticiclica, che ha portato il disavanzo pubblico totale a livelli senza precedenti: -13,1% nel 2009, -11,8% nel 2010 e -11% nel 2011, poi -15,7% nel 2020 e -12% nel 2021. Le ragioni di questo uso diffuso dei trasferimenti pubblici derivavano non solo dal loro loro essere un potente veicolo di stabilità sociale – sia direttamente che indirettamente attraverso il moltiplicatore dell’occupazione – ma anche dalla loro facile reversibilità, cioè dal non implicare investimenti pubblici e un’espansione del ruolo dello Stato nell’economia (così già nel 2014 il deficit venne ridotto al 4,8% e nel 2022 al 6%). La sostituzione dei salari con prestiti, quindi, è stata in parte rimpiazzata dalla sostituzione di prestiti inesigibili con aumenti transitori dei trasferimenti pubblici – a buona conferma dell’idea secondo cui “ci si può aspettare che i leader aziendali e i loro esperti siano più favorevoli al sussidio del consumo di massa che agli investimenti pubblici, poiché sovvenzionando il consumo il governo non si imbarca in alcun tipo di impresa” (Kalecki, 1943, pp. 325-6). Si tratta tuttavia di un favore che non può che essere limitato poiché “i fondamenti dell’etica capitalista richiedono che ‘ci si guadagni il pane con il sudore’ – a meno che non si disponga di mezzi privati” (ibid.). Qui ovviamente la questione non è di carattere etico ma riguarda piuttosto la sottomissione del lavoro al capitale, che nel caso di un crescente debito privato è assicurata da una forza lavoro sempre più sottomessa, mentre nel caso di crescenti trasferimenti pubblici tende ad evolvere nella direzione opposta, con ovvie conseguenze sul potere contrattuale dei lavoratori dipendenti.

VIII. Cause interne ed esterne del militarismo USA

Queste considerazioni portano alla conclusione che nell’attuale confronto geopolitico ed economico tra gli USA e i loro satelliti europei, da un lato, la Russia e la Cina dall’altro, appare molto probabile che le spese militari e il riarmo riprenderanno il loro vecchio ruolo. Come abbiamo argomentato, importanti esigenze economiche interne si affiancano alla prospettiva di una vera e propria guerra fredda tra l’Occidente e la Cina, attualmente la nazione più insidiosa per l’egemonia internazionale americana. C’è poi l’obiettivo, difficilmente perseguibile senza un complesso militare-industriale sempre più potente e una forza militare travolgente, di frantumare la Federazione Russa allo scopo di saccheggiare le sue ingenti risorse naturali ed impedire una sempre più stretta integrazione tra la sua economia e quella europea, frustrando l’aspirazione di quest’ultima al ruolo di forza ‘neutrale’ nello scontro in atto.

L’intreccio tra circostanze interne ed esterne che alimentano la pulsione bellica del paese egemone non va sottovalutato. La necessità di garantire il sostegno alla domanda effettiva con spese militari è determinato dalle inevitabili conseguenze distributive che avrebbe un rilancio della domanda interna basato su programmi di spesa del tipo Great Society. Allo stesso modo, un serio piano di reindustrializzazione, non motivato soltanto dalla necessità di impedire lo sviluppo dei concorrenti internazionali in campi suscettibili di compromettere il primato tecnologico e militare degli USA, implicherebbe una svolta protezionistica di natura non meramente ‘strategica’, con ancor più marcate conseguenze sul piano distributivo. L’opzione bellica soddisfa dunque esigenze tanto interne che esterne, entrambe funzionali a preservare l’assetto distributivo che il capitalismo avanzato si è dato nell’ultimo quarantennio. La crisi a cui la globalizzazione è andata incontro negli ultimi anni non è motivata da una presa di consapevolezza dell’insostenibilità sociale degli effetti occupazionali e distributivi che essa ha generato nel capitalismo avanzato. Se la Cina non costituisse una minaccia reale, gli USA non avrebbero nessun problema a continuare ad approvvigionarsi dei beni prodotti dalla “grande fabbrica del mondo”. Di fatto è ciò che essi stanno ancora facendo, ostacolando determinate produzioni e non altre, determinati paesi e non altri, tutto in funzione di non compromettere ulteriormente la propria egemonia.

Per quanto riguarda l’Europa, il sabotaggio del Nord Stream 2 ha chiarito quanto velleitaria fosse l’idea di poter conquistare spazi di maggior autonomia in nome dei principi della concorrenza e del libero commercio internazionale. D’altro canto, vi è ancor meno consapevolezza che negli USA degli effetti socialmente deleteri della globalizzazione. L’Europa non riesce ad esprimere null’altro che grossolana subalternità delle sue élite politiche agli Stati Uniti. Settant’anni di intrighi internazionali, interventi militari e cambi di regime hanno portato la maggior parte della popolazione mondiale, compresa una parte sostanziale di quella europea, a diffidare profondamente dell’America e dei suoi valletti sparsi per il mondo. L’egemonia culturale degli Stati Uniti si è notevolmente attenuata dalla “fine della storia” nel dicembre 1991 e un numero crescente di cittadini europei percepisce oggi l’America come un faro di inciviltà. Ma per quanto forte sia il loro sentimento di ripulsa, resta vero che, come il rigetto nei confronti di un assetto di politica economica sempre più incapace di garantire ai lavoratori condizioni di esistenza dignitose, esso resta del tutto privo di un qualsivoglia sbocco politico socialmente progressivo.

Bibliografia

Barba, A. and Pivetti, M. (2009), “Rising household debt: its causes and macroeconomic implications – a long period analysis”. Cambridge Journal of Economics, 33, 113-37.

Kalecki, M. 1943. “Political Aspects of Full Employment”. Political Quarterly, 14 (4), 322–331.

Maki, D.M. and Palumbo, M.G. (2001), “Disentangling the wealth effect: a cohort analysis of household saving in the 1990s”. Board of Governors of the Federal Reserve System, Finance and Economics Discussion Series n. 2001-21.

Mian, A., Straub, L. and Sufi, A. (2021), “The Saving Glut of the Rich”. NBER Working Paper N.26942.

Piketty, T. and Saez, E. (2003), “Income inequality in the United States, 1913-1998”. Quarterly Journal of Economics, CVIII (1), 1-39.

Pivetti, M. (1992), “Military spending as a burden on growth: an ‘underconsumptionist critique’”. Cambridge Journal of Economics, 16 (4), 373-84. Pivetti, M. (1994), “Effective demand, ‘Marxo-marginalism’ and the economics of military spending: a rejoinder”. Cambridge Journal of Economics, 18 (5), 523-27.

Fonte

17/06/2024

Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton - Minirece

Aziende israeliane escluse dalla Fiera delle armi in Francia. Una prima vittoria della mobilitazione

Per ordine della magistratura francese e attraverso un’azione legale intentata da 50 organizzazioni per i diritti umani, è stato vietato a 74 aziende militari israeliane di partecipare alla fiera delle armi in Francia organizzata dal ministero della Difesa.

1) I giudici hanno ordinato il divieto di qualsiasi presenza delle società di armi israeliane o delle loro filiali, e di tutte le delegazioni o intermediari israeliani alla fiera delle armi “EUROSATORY” in programma a Parigi da oggi a venerdì prossimo.

2) Il caso è stato depositato il 6 giugno di quest’anno davanti al tribunale di Bobigny, alla periferia di Parigi, e il 13 giugno di quest’anno si è tenuta un’udienza per spiegare la posizione della coalizione.

3) La causa si è concentrata sulla necessità di impedire la partecipazione delle aziende produttrici di armi israeliane alla mostra “in un momento in cui l’esercito israeliano sta commettendo crimini a Gaza e la Corte internazionale di giustizia ha sottolineato la ragionevolezza del genocidio in corso”.

4) Ha chiesto inoltre che alle delegazioni israeliane non sia permesso di partecipare e di acquistare armi alla mostra, che si terrà dal 17 al 21 giugno a Villepinte, poiché ciò potrebbe contribuire ai crimini menzionati.

5) La vittoria è la prima, poiché “ci sono state diverse dichiarazioni di aziende israeliane secondo le quali eluderanno il divieto presentandosi negli stand di altre aziende alla fiera e attraverso filiali o altro”.

6) E non si fermerà qui, poiché “almeno 7 filiali partecipate a maggioranza da aziende israeliane sono ancora previste per partecipare alla fiera”. L’attività di follow-up continuerà, poiché “esiste ancora un rischio significativo di contribuire ai crimini se le aziende israeliane sono presenti indirettamente” e che questa questione “costituisce una violazione del diritto umanitario internazionale e del diritto penale francese in materia di crimini internazionali”, e la coalizione di associazioni chiede di scongiurare “questo pericolo”.

7) Non sorprende che gli avvocati della società organizzatrice della mostra abbiano difeso l’incompetenza del tribunale e la mancanza di interesse delle associazioni a prendere le misure necessarie, affermando che la più grande mostra di armi non consente transazioni commerciali e quindi non può contribuire ai crimini commessi in Palestina e che la magistratura non ha l’autorità per impedire agli acquirenti israeliani di entrare alla mostra.

8) I giudici non hanno accolto nessuna delle loro argomentazioni e si sono pronunciati a favore delle associazioni, ordinando l’interdizione alla fiera delle delegazioni israeliane e di tutti gli intermediari e ditte israeliane in qualsiasi forma, e hanno ordinato che la decisione fosse affissa a tutti gli ingressi della mostra.

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Conferenza di pace sull’Ucraina. Meno della metà dei paesi firmano la dichiarazione finale

Meno della metà dei paesi invitati ha firmato il documento finale di una conferenza sulla pace in Ucraina partita male e resa inutile dal mancato invito alla Russia, ossia uno dei due belligeranti. Anche in questa occasione si è palesata nuovamente la rottura a livello internazionale tra “Occidente collettivo” e “Sud globale”.

Ritorno delle centrali e degli impianti nucleari ucraini, inclusa la centrale nucleare di Zaporizhzhia, “sotto il pieno controllo sovrano” dell’Ucraina; ripristino dell’accesso sicuro ai porti marittimi nel Mar Nero e nel Mar d’Azov per favorire una navigazione commerciale libera, completa e sicura; scambio di prigionieri di guerra secondo la formula “tutti per tutti” e la restituzione in Ucraina di tutti i civili illegalmente deportati, compresi i bambini. Sono questi i punti fondamentali della dichiarazione finale del vertice di pace per l’Ucraina, i cui lavori si sono conclusi ieri in Svizzera.

Ma meno della metà dei paesi invitati alla Conferenza ha sottoscritto il documento finale. Se solo 90 paesi su 160 avevano accettato di partecipare, sono scesi a 78 quelli che hanno messo la loro firma sotto alla dichiarazione finale. Che questa fosse l’aria che tirava era già leggibile alla vigilia della conferenza stessa.

Il quotidiano tedesco Handesblatt questa mattina parla di fallimento del vertice di pace. “È una sconfitta per l’Ucraina e per gli organizzatori svizzeri: solo 80 dei 93 Stati hanno firmato le condizioni quadro per ulteriori colloqui di pace”.

Iraq e Giordania hanno infatti ritirato la loro firma sul comunicato congiunto dopo il vertice di pace in Svizzera. Il numero dei firmatari è sceso così da 80 a 78, mentre il numero dei paesi presenti ma non firmatari è salito a 15.

Oltre a Iraq e Giordania, i Paesi che si sono rifiutati di firmare il comunicato sono Armenia, Bahrein, Brasile, Colombia, Vaticano, India, Indonesia, Libia, Messico, Arabia Saudita, Sud Africa, Thailandia ed Emirati Arabi Uniti. Come si vede neanche il Vaticano ha sottoscritto il documento finale.

I firmatari sono: Albania, Andorra, Argentina, Australia, Austria, Belgio, Benin, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Capo Verde, Canada, Cile, Comore, Costa Rica, Costa d’Avorio, Consiglio d’Europa, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Repubblica Dominicana, Ecuador, Estonia, Commissione europea, Consiglio europeo, Parlamento europeo, Figi, Finlandia, Francia, Gambia, Georgia, Germania, Ghana, Grecia, Guatemala, Ungheria, Islanda, Iraq, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Kenya, Kosovo, Lettonia, Liberia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Moldavia, Monaco, Montenegro, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Macedonia del Nord, Norvegia, Palau, Perù, Filippine, Polonia, Portogallo, Qatar, Repubblica di Corea, Romania, Ruanda, San Marino, Sao Tomé e Principe, Serbia, Singapore, Repubblica Slovacca, Slovenia, Somalia, Spagna, Suriname, Svezia, Svizzera, Timor Est, Turchia, Ucraina, Regno Unito, Stati Uniti, Uruguay.

Fin qui i numeri, ma sui contenuti e le decisioni come è andata questa “conferenza di pace” a Lucerna? Sono stati compiuti seri passi avanti verso la pace oppure le parole restano solo parole a coprire una retorica che spinge invece verso la prosecuzione della guerra?

Le indiscrezioni diplomatiche raccolte dall’Ansa alla conferenza sono piuttosto divaricanti. Si va dal “per la prima volta l’argomento principale non è la consegna di armi ma la ricerca di un negoziato possibile” al “è inutile girarci attorno, l’Ucraina alla fine dovrà concedere qualcosa a Putin, sennò non se ne esce”, mentre le divaricazioni tra Occidente e Sud globale restano in alcuni casi profonde. “La guerra in Ucraina è tremenda ma lo è anche quella a Gaza, non ci possono esseri doppi standard”, afferma un delegato africano.

E poi c’è la realtà delle forze in campo. Zelensky ha ammesso che: “Le armi che i nostri alleati ci hanno dato sono sufficienti a vincere? No”.

Un’altra fonte diplomatica di un Paese occidentale arrischia una previsione: “Il pendolo ora è dalla parte di Mosca ma la Russia ha enormi problemi economici sotto traccia, se Kiev tiene l’aprile del 2025 è il mese in cui si potrà chiudere”.

Secondo il giornale statunitense Politico, Kiev non si impegnerà in negoziati diretti con la Russia, ma “sta lavorando per costruire una coalizione di intermediari per aiutare a porre fine alla guerra in Ucraina, hanno detto i funzionari ucraini al vertice di pace di questo fine settimana, a cui la Russia non è stata invitata”.

La presenza della Russia al tavolo dei negoziati è necessaria per porre fine al conflitto in Ucraina, ha dichiarato il ministro degli esteri Dmitry Kuleba ai giornalisti alla conferenza svizzera sull’Ucraina.

Secondo Kuleba, è ovvio che “entrambe le parti sono necessarie” per risolvere il conflitto. “Naturalmente, comprendiamo perfettamente che arriverà il momento in cui sarà necessario parlare con la Russia”, ha detto il ministro degli Esteri ucraino.

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I conti non tornano. Aumenta l’occupazione ma l’economia ristagna e cala la produzione

Con sistematica puntualità l’ISTAT continua a sfornare dati sull’andamento positivo dell’occupazione, registrando un aumento di 75mila occupati nel primo trimestre di quest’anno e di 394mila rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. Dati che ovviamente vengono colti dalla Ministra Calderone come una dimostrazione di buon governo.

Abbiamo già avuto modo di commentare come questi dati siano il frutto di una modalità di calcolo assai discutibile, con la quale si ricomprendono nella categoria di occupate persone che hanno svolto una qualsivoglia attività nella settimana precedente alla rilevazione, con o senza contratto, anche per una sola ora.

Una prima contraddizione sta nel fatto che l’ISTAT registri contemporaneamente un aumento del tasso di inattività per le persone tra i 15 e i 64 anni, che sarebbe salito al 33,1% nel primo trimestre del 2024. Per Eurostat il tasso degli inattivi in Italia è in realtà più alto e già nel 2023 superava il 34,5%, collocando il nostro Paese al primo posto nella UE per tasso di inattività.

Chi sono gli inattivi per l’ISTAT? Sono quelli che non hanno un impiego né lo stanno cercando e pertanto vengono collocati fuori dal calcolo della forza lavoro (occupati + disoccupati). Tra questi sicuramente c’è una larga fetta impiegata stabilmente in attività sommerse, lavoro nero, e che pertanto non risulta dalle rilevazioni.

Ma la contraddizione più evidente, rispetto ai dati apparentemente positivi sull’occupazione, è la situazione della nostra economia. È sempre l’ISTAT a stimare una crescita dell’1% nel 2024 (la Commissione europea si attesta più in basso a 0,9%) e dell’1,1% per il 2025. La produzione industriale è invece addirittura in calo del 2,9%, sempre su base annua (ultimo dato ISTAT del 10 giugno).

Questi dati certificano una stagnazione sostanziale del nostro sistema economico. Difficile dare credito, in queste condizioni, alla notizia che in Italia gli occupati siano in aumento: con una economia in stato depressivo, l’unico lavoro che rimane è quello sottopagato e decontrattualizzato. Questo sì in vertiginoso aumento, il resto è solo fumo negli occhi.

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L’accordo USA-Arabia Saudita sui petrodollari non è stato rinnovato

Lo scorso 8 giugno è scaduto l’accordo cinquantennale che nel 1974 determinò la vendita esclusiva del petrolio saudita in dollari statunitensi. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods e la crisi petrolifera del 1973, con quella intesa si era stabilita una cornice insieme politica ed economica durata fino a oggi.

Gli Stati Uniti hanno fondato il loro predominio mondiale nell’ultimo mezzo secolo su due pilastri: le 800 basi militari in giro per il mondo, che nutrono un modello produttivo fondato sul keynesismo militare; il dollaro quale valuta cardine degli scambi internazionali e riserva monetaria sicura perchè strumento di pagamento obbligatorio nelle transazioni petrolifere.

Anche se l’Arabia non era l’unico produttore di petrolio al mondo, ne era certamente uno dei fondamentali. In cambio dell’uso esclusivo del dollaro, Washington si impegnò a garantire la sicurezza del regno saudita.

L’elemento economico e quello militare si sono nutriti a vicenda. Ma il peso del dollaro si deve largamente anche al fatto che “l’oro nero”, abbandonato l’oro vero e proprio come punto di riferimento, è divenuto il principale bene su cui si fondano tuttora le principali economie del mondo.

Poter contare sulla sua commercializzazione solo attraverso il “biglietto verde” significava poter decidere sull’opportunità di sviluppo di interi paesi. Alcuni studi hanno mostrato come le due guerre del Golfo furono legate in maniera sostanziale alle politiche petrolifere di Saddam Hussein.

Sono passati però vent’anni dall’ultima invasione dell’Iraq, e la situazione internazionale è nettamente cambiata. I BRICS rappresentano un’intesa tra potenze emergenti che ormai conta più dell’Occidente sotto tanti aspetti, e la fuga dall’Afghanistan ha sancito la crisi anche della proiezione militare euroatlantica.

L’accordo firmato poco più di un anno fa tra Ryad e Teheran ha segnato un primo punto di svolta nelle relazioni mediorientali, soprattutto perché sotto il patrocinio di Pechino. Il ripristino delle relazioni diplomatiche si era allora accompagnato al perseguimento di interessi comuni all’interno dell’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio.

Sia l’Iran sia l’Arabia Saudita sono poi entrati nei BRICS stessi, a inizio di quest’anno. Ma nel frattempo si è rinfocolato il genocidio dei palestinesi da parte di Israele, dopo l’operazione di Hamas del 7 ottobre, e la situazione è tornata a farsi più ingarbugliata.

In questo quadro si inserisce la scelta saudita di non rinnovare l’accordo sui petrodollari. Già sul finire del 2022 il dialogo tra i regnanti di Ryad e Xi Jinping aveva fatto parlare dell’ipotesi di “petroyuan”, e poco prima dell’8 giugno è avvenuto un importante passo in questa direzione.

L’Arabia ha deciso di aderire al Progetto mBridge, in cui la Cina ha un ruolo centrale. Si tratta di una piattaforma per lo sviluppo di una multi-Central Bank Digital Currency (CBDC), ovvero una forma elettronica di moneta per accumulare valore ed effettuare pagamenti.

Insomma, un tassello non di poco conto nel processo di de-dollarizzazione dell’economia mondiale. Ma come alla nascita dell’accordo sui petrodollari, c’è una controparte militare che va considerata per ragionare sui possibili scenari futuri.

Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno provato a riprendere il percorso di normalizzazione delle relazioni tra i paesi arabi e Israele. L’escalation tra Tel Aviv e Teheran ha riaperto uno spazio importante di intervento per la Casa Bianca, che sta tentando di definire un accordo di difesa con i sauditi.

L’impegno di tutela che gli USA assumerebbero nei confronti di Ryad è assimilabile a quello preso con altri paesi esterni alla NATO (il Giappone, ad esempio). Ad esso si accompagnerebbe anche il sostegno statunitense allo sviluppo nucleare per scopi civili.

Come sappiamo, questo è il primo passo per divenire una potenza nucleare a tutti gli effetti, strada su cui l’Iran sta accelerando e che ha provocato una crescente preoccupazione tra i regnanti sauditi. Dall’altra parte, dunque, gli USA ne otterrebbero il rinsaldarsi di una cortina anti-iraniana in Medio Oriente.

Tuttavia, perché si arrivi a un esito positivo di queste mosse diplomatiche, serve che Israele ponga fine al massacro in Palestina, che è largamente condannato tra la popolazione araba. È un punto imprescindibile affinché si possa far passare l’idea di una normalizzazione dei rapporti, ma Washington ha perso la presa sui vertici sionisti.

La scelta dell’Arabia Saudita di porre fine all’accordo sui petrodollari (che non esclude l’ipotesi di una futura ridefinizione) potrebbe essere un ulteriore strumento di pressione di Ryad in questa riorganizzazione degli equilibri mediorientali.

Ma se per i sauditi può essere un’opzione tattica, essa dà una spinta significativa alla de-dollarizzazione, con o senza di loro. E soprattutto, sul piano strategico dello scontro tra blocchi, significa la progressione dell’erosione del predominio occidentale e un passo ulteriore verso il mondo multipolare.

Se in esso il dollaro non sarà più al centro del mondo, non è detto che la capacità militare statunitense, che ha mostrato tutti i suoi limiti in Afghanistan, sia in grado di garantire alla Casa Bianca le redini del mondo. E inoltre, che sia considerata un’assicurazione sufficiente da Ryad nei confronti dell’Iran.

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Oxfam: meno del 3% della spesa militare del G7 per eliminare la fame nel mondo

Mentre il G7 ha trovato l’accordo politico per fornire ulteriori 50 miliardi allo sforzo bellico dell’Ucraina, Oxfam ha diffuso, alla vigilia del vertice appena concluso, una nuova analisi. In essa si afferma che basterebbe appena il 2,9% delle spese militari dei sette paesi per combattere la fame nel mondo.

Verrebbero infatti liberati appena 35,7 miliardi sui 1.200 spesi annualmente (meno di ciò che a Bari si è deciso di dare a Kiev). La maggior parte di essi sarebbero sufficienti a contribuire in maniera sostanziale a eliminare la fame nel mondo, in tutte le sue forme.

Nel mondo vi sono oltre 280 milioni di persone che soffrono di malnutrizione acuta, molto spesso perché vivono in paesi vittime di gravi crisi, anche militari. Oxfam ha chiesto al G7 di “non rendersi complice” della situazione nella Striscia di Gaza, “stretta tra una carestia imminente e il rischio di genocidio“.

Dei 35,7 miliardi, 4 aiuterebbero a ridurre considerevolmente i debiti del Sud del mondo, che dalle potenze occidentali e dagli istituti multilaterali che esse comandano (FMI e Banca Mondiale) sono legati a politiche neoliberiste. I paesi del G7 ricevono 291 milioni di dollari al giorno in rimborsi del debito e interessi.

I paesi a basso e medio reddito spendono circa un terzo dei loro bilanci per ripagare i debiti. Si tratta di un ammontare pari a tutto quello che investono in istruzione, sanità e protezione sociale.

Con quei 4 miliardi si potrebbero dunque rendere disponibili ingenti risorse che i paesi più in difficoltà potrebbero usare per le spese sociali. È stato calcolato che almeno 20 Paesi in via di sviluppo versano più interessi sul debito di quanto non spendano in istruzione, e 45 più di quello che spendono in sanità.

Sempre da Oxfam fanno sapere che un segnale positivo è “che i ministri delle Finanze del G7 abbiano concordato meno di un mese fa di lavorare in maniera costruttiva con la presidenza brasiliana del G20 [...] verso una tassazione progressiva ed equa“. L’organizzazione sostiene l’ipotesi di una tassa sui super-ricchi, che potrebbero generare oltre 1.000 miliari l’anno.

Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia, ha affermato: “se si tratta di aumentare gli stanziamenti che alimentano le guerre, i Governi del G7 trovano sempre le risorse necessarie, ma quando si tratta di reperire risorse per contribuire ad azzerare la fame nel mondo improvvisamente sono al verde“.

Da una distribuzione più equa della ricchezza si potrebbero trovare i fondi necessari, anche se il G7 non si è mosso in questa direzione. Gli interessi degli speculatori e delle imprese delle armi pesano ancora troppo negli indirizzi politici, almeno finché non ci sarà una reale opposizione in grado di combatterli.

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Lo spazio della Cina nell’Unione Europea “sovranista”

Apparentemente non è successo nulla: Ursula von der Leyen ha buone probabilità di essere riconfermata alla presidenza della Commissione, perfino con la stessa maggioranza (popolari, socialisti, liberali), che questa volta però conterebbe su 403 seggi, invece dei 461 (su 720) di cinque anni fa. In realtà, in attesa della formazione del nuovo esecutivo, possiamo prevedere che i risultati delle elezioni europee del 6-9 giugno produrranno comunque alcuni cambiamenti nei rapporti con la Cina, che nel 2023 (con un interscambio pari a 739 miliardi di euro) si è confermata il primo partner commerciale dell’Unione Europea.

Il fattore in grado di alterare le politiche fin qui seguite dall’Ue è l’avanzata dei partiti di destra, estrema destra e sovranisti: i conservatori di Ecr (passati da 69 a 73 seggi), le destre di Identità e Democrazia (da 49 a 58) e le formazioni del gruppo dei “Non iscritti” e quelle senza gruppo, come i neonazisti di Alternative für Deutschland (15 seggi) e gli ultra conservatori ungheresi di Fidesz (11 seggi). In totale oltre 150 scanni, circa un quarto del nuovo europarlamento.

Questi partiti hanno in comune l’obiettivo di indebolire le politiche comunitarie – politica estera e commerciale incluse – elaborate a Bruxelles, per rafforzare l’azione degli stati nazionali. A tutto svantaggio del processo di integrazione europea e del potere contrattuale dell’Ue vis à vis con la Cina.

Dunque in un’Ue con leadership deboli e sottoposta alla forza centrifuga dei sovranisti, Pechino – più che in passato – tratterà con i governi nazionali, prediligendo le relazioni “bilaterali” con i singoli stati a quelle con Bruxelles. L’Ue viene considerata da Pechino sempre meno influente, tanto che i media hanno riservato rari commenti e analisi alle elezioni europee.

Secondo il Global Times:
“I partiti di estrema destra hanno ottenuto risultati significativi nelle elezioni del Parlamento europeo, mettendo in luce la crescente insoddisfazione del pubblico europeo nei confronti delle “élite lontane” di Bruxelles e dei loro governi nazionali negli ultimi anni. […] Il risultato elettorale non solo ha mostrato che l’Europa è impantanata in una profonda crisi politica, ma ha anche prefigurato un continente più conservatore e incline all’estrema destra. Questa tendenza probabilmente ribalterà le politiche europee in materia di immigrazione, transizione verde e sostegno all’Ucraina. […] La traiettoria dei legami Cina-Ue dipende in gran parte dal fatto se gli attuali ostacoli saranno ulteriormente esacerbati o adeguatamente affrontati. Chi diventerà il prossimo presidente degli Stati Uniti avrà un impatto più diretto e influente sui legami dell’Ue con la Cina rispetto alle elezioni parlamentari dell’Ue”.
Il voto dello scorso fine settimana ha ulteriormente incrinato le già fragili leadership del cancelliere Olaf Scholz (la cui Spd è stata scavalcata come secondo partito da AfD) e del presidente Emmanuel Macron (cui il tracollo di Renaissance lo ha indotto a convocare nuove elezioni), della Germania e della Francia, i due paesi con cui Pechino ha sempre discusso a livello bilaterale le questioni più importanti, prima di passare per Bruxelles.

Rebus sic stantibus la Cina non rischia di rimanere senza interlocutori nell’Ue? Secondo Jing Men «i leader politici vanno e vengono. Nel bene o nel male, le relazioni Ue-Cina continueranno ad evolversi. Gli interlocutori tra Ue e Cina sono certamente necessari, ma ciò che è più importante sono gli interessi comuni tra le due parti. Se Bruxelles e Pechino concordano sull’esistenza di interessi comuni, non esiteranno a lavorare assieme. Se invece Bruxelles percepirà Pechino più come un concorrente, gli interlocutori non riusciranno a invertire l’attuale tendenza».

Per la direttrice del Centre for European Studies della School of Politics and International Relations della East China Normal University di Shanghai, il motivo per cui dallo scambio di sanzioni nel 2021, le relazioni tra Cina e Ue si sono tanto raffreddate «è che l’Unione Europea ha ridefinito il suo rapporto con la Cina, da “partner” a “rivale sistemico”. Per questo motivo l’Ue è cauta riguardo alla sua cooperazione con la Cina. Al contrario, l’Unione Europea pone l’accento sulla sicurezza economica e tende a seguire una politica di “de-risking”».

Il successo dei partiti sovranisti implica però che nei prossimi anni per la Commissione sarà più difficile coordinare politiche come il “de-risking”. I governi nazionali spingeranno più che in passato per affrontare in ambito bilaterale le relazioni con la Cina. Il prevalere di un quadro politico generalmente più conservatore farà sì tuttavia che i rapporti bilaterali si svilupperanno nello stesso contesto di diffidenza e rivalità con la Cina che ha caratterizzato gli ultimi anni.

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16/06/2024

Shakespeare a colazione (1987) di Bruce Robinson - Minirece

Quando Livorno scomparve in un giorno

Le elezioni amministrative sono scadenze elettorali che sul territorio funzionano come un censimento: fanno quindi capire molto più dei dati che forniscono e ci danno una visione complessa di quello che sta accadendo in città.

Quello che è accaduto a Livorno va letto attraverso una serie di criteri: il progressivo invecchiamento della popolazione (nel 2008 i pensionati rappresentavano il 29% degli abitanti del territorio oggi oltre il 42%); il calo del potere di acquisto dei livornesi (dai dati acquisiti in campagna elettorale superiore a quello delle grandi città); l’elevata propensione all’indebitamento per il credito al consumo per compensare il calo del potere d'acquisto (Livorno è il capoluogo di provincia top in Italia per questo fenomeno); la prevalenza dei contratti precari (72%) nelle nuove assunzioni.

Questi criteri rendicontano l’esistenza di tre fenomeni che attraversano Livorno determinandone il presente e il futuro: rendita, debito, precarietà. Il debito è la zona che mette a contatto rendita e precarietà determinando significative differenze di classe visto che la rendita è in grado di usare il debito, mentre la precarietà solo di subirlo. È chiaro che la rendita sta cambiando, non solo per il degrado del sistema pensionistico, ma sia per i patrimoni ereditari che passano ai più giovani che per le mutazioni di un mercato immobiliare maggiormente legato al turismo. Ma sta cambiando anche il precariato sempre più legato a servizi di bassa qualità vista anche la presenza molto ridotta a Livorno di imprese innovative.

In questo contesto la vittoria al primo turno del centrosinistra alle amministrative 2024 è molto diversa da quelle dell’epoca del PCI o dello stesso centrosinistra negli anni della finanziarizzazione e del boom immobiliare e dei servizi dopo la fine del modello industriale in città.

Prima di tutto perché si tratta di una presa del potere ottenuta grazie a un apporto molto minore della popolazione rispetto al passato (in sostanza ha votato un cittadino su due con un -8% rispetto alla già bassa percentuale di voto nazionale). Poi perché a differenza del PCI, che esprimeva la classe dirigente dell’epoca industriale, e del centrosinistra del passato, che rappresentava comunque fenomeni emergenti, questa vittoria si spiega con l’intreccio tra poteri esistenti, rendita, debito e precarietà.

Come si direbbe in un altro linguaggio si tratta di una vittoria che interpreta pienamente il presente.

La vittoria del centrosinistra di oggi è quella della capacità di mettere assieme interessi molto diversi nei “mondi” attraversati da questi tre fenomeni che sono “abitati” in modo molto differenziato. Si tratta di una capacità ottenuta in modo tradizionale, con la classica mediazione face-to-face, con l’intervento dei cartelli elettorali e con un marketing anni ‘10 che risulta efficace specie quando egemone.

Il risultato, in termini di potere, è andato ben oltre il campo del centrosinistra visto che hanno votato Salvetti spezzoni corposi di centrodestra, in nome della capacità di salvaguardia della rendita, e in caso di secondo turno era già pronto un soccorso a sinistra. Insomma, il centrosinistra ha composto una long tail molto estesa fatta di portatori di interesse – alcuni grandi, altri piccoli – che si è riconosciuto nella proposta Salvetti. Questo fenomeno, assieme a una astensione inedita, ha fatto la differenza.

Rendita, debito precariato, assieme, hanno caratteristiche antropologico-politiche ben precise: sono fenomeni legati prevalentemente alla dimensione del presente – dominato o subito, non importa – e, oltre a interessi immediati, sono sensibili alla dimensione onirica del marketing che è il piano simbolico-comunicativo che li tiene assieme oltre a esse una industria che cresce proprio grazie a loro. Si può anche sorridere vista la gracilità degli interessi immediati garantiti dal centrosinistra e il trash dell’onirico tipico del marketing del primo cittadino durante tutto il mandato. Ma una volta smesso di sorridere si nota che tutto questo funziona e intercetta gli intrecci di potere che passano tra rendita, città indebitata e precariato.

Così a Livorno, alla restrizione seria della platea elettorale ha corrisposto, da parte del centrosinistra, l’occupazione maggioritaria della platea dei portatori di interesse. Questo in uno scenario nel quale il concetto di futuro appartiene al marketing politico elettorale, e poi a quello della vita di tutti i giorni, ma non, o almeno non al momento, alla pratica dei portatori di interesse.

Se c’è un altro fenomeno nel quale un livello di astensione mai visto a Livorno si rispecchia è quello della perdita di controllo economico, e politico, del territorio a causa del ritrarsi, dalla città, dell’economia e della politica formali (ne abbiamo parlato qui). Di per sé il fenomeno è facilmente spiegabile: meno stato ed economia sono presenti minore è la partecipazione ai fenomeni elettorali. Che tutto questo porti al rischio azzeramento della vita municipale è nei fatti.

Siamo quindi in una zona ai confini della realtà, quella concepita come tale negli ultimi due-tre decenni, ovvero nella norma delle società distopiche come le nostre. La nostra distopia è che la parte di città che si sottrae al voto semplicemente, sul piano politico e sociale, scompare. Non ricompare altrove, o in attesa di tempi migliori, semplicemente svanisce.

Se dare suggerimenti, in un contesto del genere, è da maestrini risulta invece etico avvertire che di fronte a fenomeni di questo tipo niente, o poco, delle certezze acquisite serve veramente a qualcosa se si vuol dare un futuro a questa città.

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Guerra alla guerra. Da Remarque a Echenoz

di Marco Sommariva

Un paio d’anni fa, durante un’inchiesta sulle forniture di armi all’Ucraina da parte dei paesi occidentali, condotta dall’emittente statunitense CBS ed esposta nel documentario Arming Ukrain (8 agosto 2022) emergeva che solo il 30% delle forniture d’armi arrivava effettivamente in Donbass, lungo la linea del fronte, mentre il restante 70% era fermo – nella migliore delle ipotesi – nei centri di smistamento allestiti in Europa o – nella peggiore – addirittura sparito, con la possibilità di ricomparire sul mercato nero ucraino che già prosperava “grazie all’intensificarsi della corruzione”, come riportato su L’Indipendente (9 agosto 2022). In termini di onestà, pare che da quelle parti la situazione non sia un granché cambiata, visto che nei giorni scorsi mi è capitato di leggere che “soldi destinati alla costruzione delle trincee ucraine sarebbero stati rubati tramite schemi di società fittizie” e che questa truffa “avrebbe impedito la creazione di fortificazioni nella regione di Kharkiv, nel nord-est dell’Ucraina, proprio lì dove l’esercito russo sta avanzando con maggiore determinazione”. Questa denuncia è stata pubblicata sulla testata Ukrainska Pravda (13 marzo 2024), all’interno di un articolo dove si spiega come i contratti per la costruzione di fortificazioni – per cui sono stati spesi il corrispettivo di 163 milioni di euro – sarebbero stati trasferiti dall’amministrazione militare regionale di Kharkiv, appunto, a società che non avrebbero poi eseguito i lavori. Leggo anche che l’indagine è stata svolta da un’esperta di anti-corruzione, la quale specifica che i proprietari di queste aziende non sarebbe neppure esperti imprenditori e che sarebbero coinvolti in “dozzine di casi giudiziari, dal furto di whisky alla violenza domestica e hanno procedimenti esecutivi per prestiti bancari”.

Tranquilli, non sono qui a maledire l’inesperienza di questi imprenditori perché “ci stanno” impedendo di frenare l’avanzata russa o, magari perché filorusso, di esultare per questo: la penso esattamente come il compianto Valerio Evangelisti, sono personalmente antimilitarista – anche se per nulla pacifista – e mi fanno sicuramente schifo le guerre di potere, non le guerre civili che a volte sono sacrosante, e questo perché il nemico non è di fianco a noi, ma sopra di noi, e tutto quello che va a colpire le classi subalterne è un atto di guerra contro il proletariato mondiale; dove, al giorno d’oggi, per classi subalterne intendo, sì, quella operaia ma anche disoccupati, precari, lavoratori in nero, operatori di call center, piccoli imprenditori (falliti e non), dipendenti di multinazionali e mi fermo qui, anche se l’elenco di certo non è completo, facendo però una doverosa precisazione: nessuna importanza ha quale sia la scelta sessuale di ognuno di questi nuovi proletari, se sono uomini o donne, se hanno diverso colore della pelle, se credono in un qualche dio o no – sono caratteristiche che nulla c’entrano con l’appartenenza di classe.

Quando si leggono articoli come quello pubblicato dalla Ukrainska Pravda, sono molti coloro che provano a consolarsi raccontandosi che, la nostra, è un’epoca del magna-magna dove non si ha più rispetto neppure per i soldati mandati a difendere la patria – la “p” resti pure minuscola. All’eventuale domanda perché minuscola, rispondo con un passaggio estratto da La via del ritorno del tedesco Erich Maria Remarque, opera pubblicata nel 1931, messa al bando dai nazisti e simbolo di un’intera generazione che ha creduto di tornare a casa e dimenticare l’inferno delle trincee mentre, invece, ne è rimasta sopraffatta:

“ci hanno ingannati, ingannati come forse non sospettiamo nemmeno. Perché si è orribilmente abusato di noi! Ci dissero patria e intendevano i progetti di occupazione di un’industria famelica; ci dissero onore e intendevano i litigi e i desideri di potenza di un pugno di diplomatici ambiziosi e di principi; ci dissero nazione e intendevano il bisogno di attività di alcuni generali disoccupati! […] Nella parola patriottismo hanno pigiato tutte le loro frasi, la loro ambizione, la loro avidità di potenza, il loro romanticismo bugiardo, la loro stupidità, il loro affarismo, e ce l’hanno presentato poi come un ideale radioso.
O ancora, sempre dallo stesso titolo:
[...] laggiù abbiamo perso tutte le misure e nessuno ci è venuto in aiuto! Patriottismo, dovere, patria: tutto ciò ce lo siamo ripetuto anche noi continuamente per resistere e giustificarci. Ma erano soltanto concetti, c’era troppo sangue laggiù e questo li spazzò via!”

In realtà, il rispetto per i soldati mandati a difendere la patria non è mai esistito perché le ragioni del capitalismo non necessitano di un declino della violenza ma di uno sviluppo di questa, hanno bisogno di più conflitti sanguinosi, di armi sempre più distruttive, di un numero sempre maggiore di vittime, e in uno scenario del genere la parola “rispetto”, va da sé, non può essere contemplata. E sul fatto che il rispetto per il soldato non sia mai esistito lo scrive ancora il buon Remarque, questa volta in Niente di nuovo sul fronte occidentale, pubblicato nel 1929:

“siamo magri e spossati dalla fame. Il nostro vitto è tanto cattivo e in tanta parte composto di surrogati, che ne siamo malati. I fabbricanti in Germania si sono fatti ricchi signori; ma a noi la dissenteria brucia le budella. Le latrine da campo sono sempre piene zeppe: bisognerebbe mostrare a quelli di casa queste facce grigie, gialle, miserabili, rassegnate, queste figure curve a cui la colica spreme il sangue dal corpo, e che si contentano di ghignarsi l’un l’altro in faccia, con le labbra ancora tremanti dal dolore: «Non vale neppure la pena di tirar su le brache...»”.

Ricordo che Remarque – nel 1916, in piena Grande Guerra – fu spinto ad arruolarsi volontariamente, che nel 1917 fu spedito sul fronte occidentale dove rimase gravemente ferito e che, nel 1933, i nazisti bruciarono e misero al bando le sue opere. Insomma, nessuno è immune alla propaganda militaresca che si nutre, in primis, della disinformazione generalizzata: anche lo scrittore finì col farsi convincere che era giusto rischiare la pelle per andare a uccidere uomini che avevano il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore. Ma, a guerra terminata, aveva cambiato idea e, nel 1936, scriverà ne I tre camerati che lui e i suoi compagni d’armi, erano tornati dalla guerra “senza fede, quasi dei minatori usciti da una galleria crollata perché avevano voluto marciare contro la menzogna, l’egoismo” tutte giustificazioni a ciò che si erano lasciati alle spalle, domandandosi “cosa ne era sortito visto che tutto era andato in pezzi, falsato e dimenticato e che a chi non riusciva a dimenticare non rimaneva altro che lo stordimento, l’incredulità, l’indifferenza e l’alcol perché il tempo dei grandi sogni umani e virili era finito per sempre”.

Che la guerra faccia bene agli affari lo dicono gli stessi addetti ai lavori: “La guerra fa bene agli affari. [...] faccio un esempio: la Russia fa saltare i depositi di grano ucraini. Il prezzo del grano aumenterà. L’economia ucraina è legata in gran parte al mercato globale del grano. Il prezzo del pane e tutto il resto va su e giù. Questo è fantastico se fai trading. La volatilità crea opportunità per fare profitti. La guerra fa fottutamente bene agli affari. Noi non vogliamo che la guerra finisca”. Dove il “noi”, in questo caso, sta per la grande società d’investimento con sede a New York, BlackRock – le parole sono del responsabile delle risorse umane di questa Azienda.

Non saprei cosa suggerire per invertire la rotta sempre più guerrafondaia intrapresa in quest’ultimi anni, ma ho un consiglio su come non partecipare a questo lercio teatrino: evolversi, ergo, disertare. Su questo, sempre Remarque s’è espresso molto chiaramente in Niente di nuovo sul fronte occidentale: “La vita qui sui confini della morte ha una linea straordinariamente semplice, si limita all’indispensabile: tutto il resto è addormentato e sordo: in ciò sta la nostra primitività, e in pari tempo la nostra salvezza. Se fossimo più evoluti, da un pezzo saremmo pazzi, o disertori, o morti”. Diserzione che mise in pratica il mio conterraneo don Andrea Gallo: “la mia classe di nascita, 1928, mi faceva rientrare fra i richiamati dal famoso manifesto del 1944, che era appeso un po’ dappertutto, a Genova. Mi ricordo come fosse oggi quando mi ci imbattei, un pomeriggio. Era appiccicato sul muro di un palazzo del centro e diceva: TUTTI I MILITARI DEVONO PRESENTARSI. CHI NON SI PRESENTERÀ ENTRO LA TAL DATA SARÀ PASSATO PER LE ARMI. Quella stessa notte disertai”. Così scrive in Angelicamente anarchico.

Io stesso fui processato per diserzione nel 1984 quando – durante il servizio di leva che non ero riuscito a evitare perché, all’epoca, non venivano accettate richieste da obiettori di coscienza che avessero un parente di primo grado col porto d’armi, e io avevo mio padre – dicevo... fui processato per diserzione perché non rientrai da una licenza in quanto preferii andarmene al mare con gli amici essendo, proprio quel giorno, ferragosto; non voglio mancare di rispetto a nessuno, quindi preciso che l’unica guerra che combattei all’epoca, si sa, fu contro il tempo che non passava mai e l’ignoranza e la prepotenza del nonnismo, ma è quest’idea della diserzione che spero accompagni e animi tutti i ragazzi del mondo nel momento in cui verrà sventolata loro in faccia una qualsiasi bandiera da difendere o un pezzo di terra da conquistare: un disertore è senza dubbio più utile di un cadavere.

E che la diserzione sia un’ottima arma che abbiamo in pugno, lo dimostra il fatto che ultimamente si siano allertati gli Stati: Lettonia e Polonia si sono dette disponibili a individuare le condizioni di rientro dei disertori ucraini fuggiti entro i loro confini, come forma di sostegno a Kiev; lo dimostra anche l’opera capillare che sta svolgendo il TCC, acronimo sulla bocca di tutti gli ucraini che sta per “Centro di reclutamento territoriale”, con agenti in mimetica – né poliziotti né militari, spesso ex soldati – che girano chiedendo i documenti ai giovani e arrivano anche a trascinarli a forza fuori da un autobus se il ragazzo è “buono” per il fronte. Chissà per quanto andranno avanti così, molto probabilmente sino a raggiungere quella situazione raccontataci da Jean Echenoz in ’14, romanzo che decide di scrivere dopo aver trovato il diario di un suo lontano parente che aveva partecipato a tutta la Prima guerra mondiale, annotando giorno per giorno quello che stava vivendo:

“Dopo quasi due anni di conflitto, con il reclutamento che salassava senza tregua il Paese, nelle strade c’era ancora meno gente, fosse o non fosse domenica. Anche donne e bambini ormai erano pochi, perché la vita era cara e si stentava a fare la spesa: le donne, che al massimo percepivano il sussidio di guerra, in assenza di mariti e fratelli si erano dovute trovare un lavoro: manifesti da affiggere, posta da distribuire, biglietti da obliterare o locomotive da guidare sempre che non finissero in fabbrica, in particolare in quelle di armi. E i bambini, che non andavano più a scuola, avevano a loro volta un bel daffare: ricercatissimi sin dagli undici anni, sostituivano i fratelli maggiori nelle aziende e, tutt’intorno alla città, nei campi – condurre i cavalli, battere i cereali o sorvegliare il bestiame”.

Chiudo con un altro estratto dell’interessantissimo libro di Echenoz citato prima che, oltre a riprendere il discorso iniziale, ritengo spieghi a meraviglia a chi giova questa enorme quantità di soldati che da sempre viene “consumata” sui campi di battaglia; ossia, a tutti coloro che guadagnano su qualsiasi genere di fornitura agli eserciti, senza mai dimenticare che non si sta parlando solo di armi e munizioni:

“Nel corso del quarto anno di guerra, le offensive di primavera hanno consumato in due mesi una enorme quantità di soldati. Poiché la dottrina dell’esercito di massa imponeva che venissero continuamente ricostituiti grossi battaglioni e che il reclutamento garantisse un rendimento sempre più elevato, le chiamate delle classi di leva si sono susseguite senza tregua, il che implicava non solo un cospicuo rinnovamento del materiale e delle uniformi – dunque anche moltissime scarpe – ma anche importanti ordinazioni alle fabbriche che assicuravano l’approvvigionamento […]. Il ritmo e l’urgenza di queste ordinazioni, associati agli scarsi scrupoli dei responsabili della produzione, hanno rapidamente condotto alla fabbricazione di scarponi mediocri. Le aziende hanno cominciato a chiudere un occhio su un cuoio andante, optando spesso per un montone a concia rapida, meno caro ma anche meno spesso e duraturo – quasi del cartone, per dirla tutta. Hanno sistematizzato la produzione di stringhe a sezione quadrata, più facili da fabbricare ma più fragili di quelle a sezione circolare, tirando via sulla rifinitura dei puntali. Allo stesso modo hanno lesinato sul filo per cucire e hanno rimpiazzato il rame degli occhielli con un ferro più ossidabile e il più possibile economico, e lo stesso hanno fatto con i rivetti, le brocche, i chiodi. Insomma, hanno ridotto all’osso il costo dei materiali, a detrimento della robustezza e dell’impermeabilità. Ben presto l’intendenza militare ha deprecato il troppo frequente rinnovo di questi scarponi che, lasciando passare l’acqua e sformandosi rapidamente, non reggevano due settimane nel fango del fronte: troppo spesso le cuciture della suola cedevano nel giro di tre giorni. E siccome alla fine lo Stato maggiore aveva protestato, è stata promossa una scrupolosa inchiesta: esaminando i conti dei fornitori dell’esercito [...] hanno subito rivelato uno scarto abissale fra l’importo delle ordinazioni e il prezzo di costo di quelle ciabatte.”

E se letta quest’ultima frase, con tutti i richiami a quello che oggi i manager chiamano “saving”, vi fosse venuto in mente il crollo del ponte Morandi di Genova o l’incidente ferroviario di Viareggio o i due/tre morti al giorno sul lavoro in Italia o... sappiate che non siete i soli.

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Gaza - Esercito israeliano sotto i colpi della resistenza palestinese. Uccisi nove soldati. Netanyahu si arrabbia

È stato un fine settimana decisamente pesante per le forze armate israeliane che stanno occupando la Striscia di Gaza.

Il portavoce dell’IDF domenica ha permesso la pubblicazione dei nomi degli ufficiali e sottufficiali israeliani uccisi quando il veicolo corazzato Namer su cui viaggiavano è stato attaccato da un missile anticarro a Rafah, dopo aver già annunciato sabato la morte nell’incidente del capitano Wassem Mahmoud, 23 anni.

Oltre a loro, sono stati uccisi un altro capitano, Eitan Koplovich, e il sergente maggiore Elon Waiss, nella battaglia nel nord della Striscia di Gaza. Mentre un altro soldato, il sergente maggiore Tzur Abraham, è stato ucciso oggi a Rafah. Nello stesso attacco, un ufficiale riservista che prestava servizio come specialista degli interrogatori sul campo con l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence è stato gravemente ferito e altri due soldati sono stati feriti più lievemente.

La morte del sergente maggiore Abraham porta a 312 il bilancio dei militari israeliani solo nell’offensiva di terra a Gaza. È il numero più alto di militari israeliani in guerra.

Quanto sta accadendo sul campo, potrebbe non essere affatto estraneo alla decisione delle forze armate israeliane di rallentare le operazioni militari su Gaza, decisione che ha scatenato l’ira di Netanyahu, il quale ha dichiarato di essersi opposto a una pausa umanitaria tattica quotidiana nel sud di Gaza annunciata dall’IDF, soffermandosi su apparenti disaccordi con la sua leadership militare durante una riunione di gabinetto. Lo riferisce l'emittente israeliana Channel 13.

“Abbiamo un paese con un esercito, non un esercito con un paese”, avrebbe detto Netanyahu durante l’incontro. “Al fine di ottenere l’eliminazione di Hamas, ho preso decisioni che non sempre vengono accettate dai vertici militari”.

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Sudafrica - L’Anc governerà con i conservatori di Alleanza Democratica

Cyril Ramaphosa dell’African National Congress (Anc) ieri è stato rieletto presidente del Sudafrica. Ha ricevuto 283 voti sui 400 dell’Assemblea nazionale. La sua riconferma è avvenuta sulla base di un accordo politico raggiunto dall’Anc con i tradizionali avversari di Alleanza Democratica (DA, conservatori) per la formazione di un governo di coalizione.

L’intesa è stata contestata da non pochi sostenitori del partito di maggioranza relativa poiché DA è considerato l’erede di formazioni politiche legate al periodo dell’Apartheid abbattuto proprio dall’Anc.

Due settimane fa, l’Anc, per la prima volta dalla fine dell’Apartheid, aveva perso la maggioranza assoluta ed è stato costretto a cercare alleati per formare il nuovo governo e assicurare la riconferma di Ramaphosa a capo dello Stato. John Steenhuisen, leader di DA, ha definito l’accordo un momento “storico”. Il segretario generale dell’Anc, Fikile Mbalula, si è detto certo che la partnership con DA “creerà stabilità”.

L’accordo prevede anche l’inclusione del Inkatha Freedom Party (Ifp), dominato dagli Zulu, e della piccola Alleanza Patriottica. Esclude invece l’Economic Freedom Fighters (Eff, sinistra radicale) e l’Umkhonto weSizwe (Mk) dell’ex presidente Jacob Zuma. Julius Malema, leader di Eff da tempo accusa l’Anc di aver smarrito buona parte della sua linea progressista e di non aver migliorato le condizioni di vita della maggioranza nera del Paese. Insiste inoltre per la confisca delle terre ai grandi proprietari a beneficio dei più poveri.

In queste ore si considerano anche i riflessi dell’accordo di governo sul ruolo del Sudafrica sulla scena globale, in particolare in Medio Oriente. A inizio anno Pretoria ha chiesto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia di avviare un procedimento per genocidio contro Israele per la sua devastante offensiva militare contro Gaza e in questi mesi ha continuato a chiedere misure internazionali a protezione della popolazione palestinese.

Il nuovo Sudafrica emerso dalla fine dell’Apartheid si identifica con la causa palestinese e vede nella politica israeliana nei confronti di Gaza e della Cisgiordania dei paralleli con i Bantustan per i neri realizzati dal governo bianco dell’Apartheid.

Il caso alla Corte dell’Aia potrebbe andare avanti per anni, il che significa che il nuovo esecutivo di coalizione sudafricano lo erediterà. Alleanza Democratica non è d’accordo con l’accusa di genocidio contro Tel Aviv e preferirebbe vedere il Sudafrica impegnato a sostegno di soluzione negoziata tra israeliani e palestinesi. Il nuovo governo, perciò, potrebbe adottare una linea più morbida nei confronti di Israele.

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Armenia - Il fronte di guerra USA-NATO si allarga al Caucaso

Scontri tra polizia e manifestanti di fronte al parlamento a Erevan. Ci sarebbero decine di feriti e di fermati. Le proteste sono rivolte direttamente contro il primo ministro Nikol Pašinjan, di cui si chiedono le dimissioni, accusato di svendere gli interessi territoriali armeni, con l’aver sguarnito le frontiere, lasciando così via libera all’Azerbajdžan nel tentativo di annettere alcuni villaggi nella regione di Tavuš.

La situazione all’esterno del parlamento, dove da inizio settimana erano accampati i manifestanti, si sarebbe ulteriormente inasprita dopo che, in aula, sarebbero avvenuti tafferugli tra deputati filogovernativi e opposizione, per le parole dello stesso Pašinjan, che avrebbe accusato di tradimento alcuni generali.

Gli osservatori parlano di malcontento anche per il corso filo-occidentale del governo e per gli ammiccamenti alla NATO: in particolare, per l’ipotesi ventilata da Pašinjan di una prossima uscita dell’Armenia dal ODKB (Organizatsija Dogovora o Kollektivnoj Bezopasnosti-Organizzazione dell’accordo sulla sicurezza collettiva: Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakhstan, Kirgizija, Tadžikistan): «quando il governo lo riterrà opportuno», avrebbe detto Pašinjan, accusando nemmeno tanto implicitamente l’Organizzazione di non adempiere ai propri obblighi, in combutta con l’Azerbajdžan.

Peraltro, dal febbraio scorso, Erevan ha già “congelato” l’associazione al ODKB e ora arrivano le parole del primo ministro: «È possibile che noi usciremo dal ODKB. E saremo noi a decidere quando. La colpa è di coloro che hanno dato vita a un’alleanza unificata, i cui membri, invece di adempiere ai loro obblighi, hanno pianificato una guerra contro di noi d’accordo con l’Azerbajdžan. Sono loro i colpevoli». Parole non prive di ipocrisia, dal momento che i manifestanti accusano proprio il governo di aver svenduto il territorio armeno a Baku.

A quanto riportato dalle agenzie, immediata sarebbe stata la reazione di Mosca alle parole del primo ministro armeno: «proprio con tali idee e parole d’ordine di uscita dal ODKB e dalle strutture euroasiatiche, Pašinjan aveva dato vita alla rivoluzione coi soldi di Soros, infrangendo il sistema di diritto armeno e violando ogni ammissibile procedura democratica» nel 2018, avrebbe detto un alto funzionario del Ministero degli esteri russo.

Il politologo armeno Arman Gukasjan osserva che nelle proteste si sarebbero inseriti circoli facenti capo all’arcivescovo Bagrat Galstanjan e rappresentanti del precedente governo, non esattamente “stimati” dalla popolazione armena, il che renderebbe abbastanza fragili le prospettive della attuali proteste.

D’altra parte, i più recenti passi di Erevan sono stati in direzione di un allontanamento da Mosca, nonostante la Russia sia la principale importatrice delle produzioni armene e, d’altro canto, abbia sinora ricevuto da USA e UE solo vaghe promesse in campo economico. Per quanto riguarda, ad esempio, i prodotti energetici e nonostante l’embargo introdotto in Russia sull’esportazione di benzina, le quote dirette ai paesi della Unione economica euroasiatica (Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirgizija: in vigore dal 2015) sono rimaste invariate.

Un altro osservatore armeno, l’ex deputato Arman Abovjan, afferma che «Per quanto riguarda l’ODKB, Pašinjan stesso dichiara di voler forzare gli eventi. La sua popolarità sta rapidamente diminuendo ed è già in caduta. Sta perdendo di legittimità. Così, L’Occidente gli mette fretta, l’Europa lo incalza».

Ma, sul prossimo periodo, ciò che più impensierisce Mosca è proprio l’ipotesi dell’uscita di Erevan dal ODKB. Appena sei mesi fa era stato completato il sistema di difesa aerea dell’Organizzazione e, per l’appunto, le stazioni di radiolocalizzazione della base militare russa in Armenia coprono l’intero settore meridionale del territorio russo.

Di più: proprio nei giorni scorsi Pašinjan si è incontrato con l’assistente del Segretario di stato USA per gli Affari europei ed eurasiatici, James O’Brien, con cui ha convenuto di rafforzare i rapporti Armenia-USA, portandoli al livello di “partnership strategica”. Concretamente, ciò è esplicitato dalle parole del segretario NATO Jens Stoltenberg: «Metterete le vostre forze armate sotto controllo democratico. E parteciperete attivamente ai programmi di partnership NATO. Noi rafforzeremo la nostra partnership e lavoreremo insieme». Cosa ci può essere di più chiaro del «controllo democratico» NATO?

Ancora più chiaro: la più forte ambasciata in tutto lo spazio della CSI è quella americana a Erevan ed è diretta dall’ex Chargé d’Affaires yankee in Ucraina, Kristina Kvien, di stanza a Kiev fino al 2022 e ora riposizionata nel Caucaso.

Nel 2020, osserva REN-TV, a Erevan c’era tutt’altra retorica: si era grati alla Russia per aver fermato la guerra armeno-azera e introdotto forze di pace in Nagornyj-Karabakh. Ora che la regione è persa, Pašinjan afferma che sia stata l’ODKB a non reagire, anche se Erevan non si è mai rivolta ufficialmente per chiedere aiuto all’Organizzazione.

In generale, le cose USA-UE-NATO sul fronte ucraino vanno effettivamente male. È tempo di provvedere ad allargare le prospettive di guerra. E il Caucaso è stato, sin dal 1918, (insieme all'estremo nord russo, Ucraina e Siberia orientale) una delle aeree di intervento delle potenze occidentali: allora contro la giovane Russia sovietica; oggi contro l’avversario geopolitico dell’unipolarismo euro-atlantico.

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Norvegia - Scoperto giacimento di "terre rare"

Nel sud-est della Norvegia è stato scoperto un nuovo giacimento di terre rare. A Fensfeltet il gruppo minerario norvegese Rare Earths Norway (Ren), in collaborazione con la società di consulenza canadese Wsp, ha reso noto di aver stimato la presenza di 8,8 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare.

Questo è il primo risultato di tre anni di trivellazioni e analisi, con valutazioni fino a 468 metri sotto il livello del mare. Ma altre perforazioni suggeriscono che si potrebbero individuare ulteriori quantità di questi materiali, arrivando fino al doppio di questa profondità.

Nei prossimi mesi verranno condotti ulteriori studi ed entro l’anno si daranno notizie più precise sulla fattibilità economica dell’estrazione. Tema che sta molto a cuore a tutta la filiera euroatlantica, e alla UE in particolare.

Almeno 1,5 milioni di tonnellate sarebbero di neodimio e praseodimio, usati nella produzione di veicoli elettrici e turbine eoliche. Minerali fondamentali per la transizione ecologica (o per lo meno per competere in questo mercato, dato che la conversione produttiva è passata nettamente in secondo piano rispetto al riarmo).

È dalla stessa Ren che fanno sapere che “l’Unione europea considera questi metalli come le materie prime più critiche quando si considera il rischio di approvvigionamento“. Viene sottolineato che questo nuovo giacimento è utile per “sostenere una catena del valore sicura delle terre rare per l’Europa“.

Ma è davvero così? A inizio 2023 la scoperta di un giacimento di ossidi di terre rare in Svezia, a Kiruna, era rimbalzata sulle testate di tutta Italia. L’importanza di queste materie prime nello sviluppo delle più avanzate tecnologie, e dunque nella competizione globale, aveva subito acceso le penne dei sostenitori del ritorno a una logica internazionale a blocchi.

Quello che era passato in sordina era la quantità trovata e i tempi necessari allo sfruttamento. A Kiruna era stata stimata la presenza di circa una o due milioni di tonnellate di ossidi di terre rare, una parte infinitesimale rispetto alle 120 milioni di tonnellate che lo United States Geological Survey stima a livello mondiale.

La maggior parte di esse sono in paesi considerati nemici o avversari strategici, o comunque con cui i rapporti non sono segnati da una subalternità senza appello (vedi l’India). Inoltre, i tempi per lo sfruttamento del giacimento svedese erano stati calcolati in una quindicina d’anni: non un affare a breve termine.

Per quanto riguarda il giacimento di Fensfeltet, di sicuro la quantità è molto più sostanziosa. La Ren ha già accennato che vuole provare a soddisfare il 10% del fabbisogno UE di queste materie, rispondendo dunque all’obiettivo di autosufficienza per almeno il 10% dei materiali critici stabilito dal Critical Raw Materials Act.

Ma anche in questo caso i tempi non sono corti: la Ren non potrà probabilmente prendere una decisione finale di investimento prima del 2030. È vero che, se parliamo di soggetti come la UE, non possiamo che ragionare su tempi storici, ma è anche vero che la NATO sta accelerando sempre più la precipitazione dei punti di tensione internazionale.

La possibilità di fare a meno della Cina (e di tanti paesi del Sud Globale che guardano a Pechino), dopo che si è fatto a meno della Russia, non è all’ordine del giorno. Sarebbe il caso che nelle cancellerie occidentali si mettano in testa di rilanciare la cooperazione pacifica, invece che le sanzioni, l’invio di armi e le condanne moralistiche.

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15/06/2024

La cuccagna (1962) di Luciano Salce - Minirece

“Conferenza di pace” sull’Ucraina. Mezzo mondo la diserta

Sono ancora in molti a domandarsi quale sia il senso di una conferenza di pace senza tutti i contendenti. Per questo motivo le defezioni cominciano a essere tante e significative.

I Paesi invitati dalla Svizzera alla Conferenza di pace sull’Ucraina che si apre oggi a Obbuergen sono stati circa 160, ma solo una novantina, secondo il governo svizzero, hanno accettato di parteciparvi.

La lista precisa dei Paesi presenti, incluso il livello a cui saranno rappresentati, sarà comunicata questa sera dal governo federale.

Pochi giorni fa il governo svizzero aveva detto che la metà sarebbe stata rappresentata a livello di capi di Stato e di governo, l’altra metà a livello di ministri; ora scrive che la “maggior parte” dovrebbe essere rappresentata a livello di capi di Stato e di governo ma con significative defezioni.

Secondo l’analista Cenk Tamer, dell’Ankara Center for Crisis and Policy Studies, “il vertice in Svizzera si sta trasformando in una piattaforma di solidarietà politica per rafforzare il sostegno dell’Occidente all’Ucraina, piuttosto che essere semplicemente una parte degli sforzi di pace. Se la Russia sarà assente dalla conferenza, la partecipazione globale sarà probabilmente limitata o simbolica, indebolendo le speranze di una soluzione”.

La ‘conferenza di pace’ in Svizzera sull’Ucraina partiva già azzoppata dal decisivo mancato invito alla Russia, cioè uno dei due belligeranti, e soprattutto dall’assenza della Cina, che è un partner fondamentale per Mosca.

Un’altra defezione pesante è arrivata oggi ed è quella del presidente brasiliano Inacio Lula da Silva.

Anche il premier indiano Narendra Modi è stato invitato, ma è quasi certo che non verrà alla conferenza ma manderà un funzionario del ministero degli Esteri. L’Indonesia manda solo un diplomatico, così come il Sudafrica. La Turchia ha inviato il ministro degli Esteri, Hakan Fidan.

Paradossalmente anche gli Usa manderanno la vicepresidente Kamala Harris, malgrado Zelensky avesse insistito, anche pubblicamente, perché il presidente Joe Biden partecipasse. Probabilmente dopo il vertice del G7, Sleeping Joe ha bisogno di “fare un riposino”.

L’Ue sarà invece rappresentata in grande spolvero, con Charles Michel, Ursula von der Leyen e Roberta Metsola. Ci saranno Olaf Scholz ed Emmanuel Macron, come pure il polacco Andrzej Duda, presidente della Repubblica. Per l’Italia sarà presente il ministro degli Esteri Antonio Tajani.

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Francia - Poche luci e molte ombre nel programma del Nuovo Fronte Popolare

Nel giro di quattro giorni, Partito Socialista, La France Insoumise, Verdi e Partito Comunista Francese hanno concordato un programma e una ripartizione dei collegi elettorali, lasciandosi alle spalle la campagna “fratricida” delle elezioni europee e rimandando, per ora, la scelta del leader.

I negoziati si sono svolti a ritmo serrato, condizionati dalla scadenza del termine per la presentazione delle liste, domenica 16 giugno, e dalla gravità delle circostanze di fronte al trionfo dell’estrema destra alle elezioni europee.

“Ci siamo riusciti. È stata scritta una pagina di storia francese”, ha esultato giovedì il primo segretario del Partito socialista (PS), Olivier Faure, mentre, Jean-Luc Mélenchon, ha salutato sul suo blog “un grande evento politico in Francia”.

I partiti di sinistra (PS, LFI, EELV, PCF) hanno annunciato nella serata di giovedì 13 giugno di aver formalizzato la creazione di un “Nuovo Fronte Popolare”, che prevede un “programma di rottura con le politiche di Emmanuel Macron”.

Il programma, frutto di un compromesso tra le varie anime politiche che compongono il Fronte, stabilisce una rottura complessiva con la politica economica di Macron e con la torsione autoritaria in atto nel paese, accogliendo alcune istanze emerse dai variegati movimenti politici, sindacali e sociali in Francia.

Rivede l’impostazione fin qui data rispetto ai Territori di Oltremare ed in particolare nei confronti della Nuova Caledonia.

Allo stesso tempo non si può assolutamente parlare di rottura rispetto alla politica estera francese, se non – parzialmente – in confronto alla questione palestinese, ma di assoluta continuità invece rispetto all’aggressione NATO alla Federazione Russa.

E le proposte di modifica rispetto alle politiche imposte dall’Unione Europea sono ben poca cosa.

In sintesi, potremmo dire che il programma del Nuovo Fronte Popolare affronta la natura neo-liberista della presidenza Macron, ma non il suo profilo guerrafondaio, dunque non mettendolo in difficoltà su questo terreno qualora ci fosse una coabitazione.

In questo contesto, il numero inferiore di circoscrizioni in cui la La Frances Insoumise potrà presentare propri candidati appoggiati dal NFP in confronto a quelle presentate con la NUPES, penalizzerà la composizione di coloro che possono portare istanze più avanzate nella futura Assemblea Nazionale.

Senza una effettiva costante pressione popolare su alcuni temi, è chiaro che dal punto di vista politico, il NFP risulta debole in alcune questioni strategiche sul piano delle compatibilità con le politiche del polo imperialista europeo e dell’Alleanza Atlantica.

Di seguito una sintesi del programma che si è dato il Nuovo Fronte Popolare

Politica Estera
Ucraina. Il programma prevede la necessità di “difendere l’Ucraina e la pace nel continente europeo”. Si legge: “Difenderemo incrollabilmente la sovranità e la libertà del popolo ucraino e l’integrità dei suoi confini”, anche “fornendo le armi necessarie”.

Israele-Palestina. I partiti di sinistra hanno concordato di “agire per il rilascio degli ostaggi detenuti dopo i massacri terroristici da parte di Hamas, di cui rifiutano il progetto teocratico”. Chiedono inoltre “il rilascio dei prigionieri politici palestinesi”.

L’alleanza di sinistra chiede anche “l’immediato riconoscimento dello Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele” e “la rottura con il colpevole sostegno del governo francese al governo suprematista di estrema destra di Netanyahu per imporre un immediato cessate il fuoco a Gaza e garantire il rispetto dell’ordinanza della Corte internazionale di giustizia, che fa riferimento inequivocabilmente al rischio di genocidio”.

Unione Europea. Il Nuovo Fronte Popolare chiede la “fine dei trattati di libero scambio” e una “riforma della PAC”. Propone inoltre di “tassare i più ricchi a livello europeo per aumentare le risorse proprie del bilancio” dell’UE e di generalizzare “la tassazione dei superprofitti a livello europeo”.

Economia e affari sociali
Pensioni. I partiti di sinistra propongono “di abrogare immediatamente i decreti di attuazione della riforma di Emmanuel Macron che innalza l’età pensionabile a 64 anni”. A lungo termine, vogliono “riaffermare l’obiettivo comune del diritto di andare in pensione a 60 anni”, “ripristinare i fattori di lavoro gravoso aboliti da Emmanuel Macron” e “tenere conto dell’RSA per convalidare i trimestri verso la pensione”.

Assicurazione contro la disoccupazione. Il Nuovo Fronte Popolare intende ribaltare le riforme approvate sotto la presidenza di Emmanuel Macron.

Potere d’acquisto. Il Nuovo Fronte Popolare propone un “congelamento dei prezzi dei beni di prima necessità come cibo, energia e carburante”. Intende inoltre “annullare l’aumento del prezzo del gas previsto per il 1° luglio”. Infine, chiede di “abolire i tagli all’elettricità, al calore e al gas” al di fuori delle tregue invernali, nonché di “rendere gratuito il primo chilowattora”.

Il programma prevede anche una misura per “limitare le spese bancarie”.

Lavoro. Il Nuovo Fronte Popolare vuole “una garanzia di autonomia per integrare il reddito delle famiglie sotto la soglia di povertà“.

Il programma dell’Alleanza di Sinistra prevede “l’aumento dei salari attraverso l’innalzamento del salario minimo a 1.600 euro netti, l’indicizzazione dei salari all’inflazione e l’aumento del 10% del punto di indicizzazione per i dipendenti pubblici”.

Propone inoltre la creazione di un congedo mestruale in tutte le aziende e amministrazioni.

Infine, i partiti di sinistra auspicano l’organizzazione di una “conferenza nazionale sul lavoro e sulle condizioni di lavoro gravose”, con l’obiettivo di passare a una settimana lavorativa di 32 ore nei “lavori gravosi o notturni”.

Cambiamento climatico e ambiente
Il Nouveau Front Populaire vuole una moratoria sui grandi progetti di infrastrutture autostradali e sui megabacini e chiede “regole precise per la condivisione dell’acqua tra tutte le attività”.

Propone inoltre l’introduzione di un piano climatico volto a raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2050.

I partiti di sinistra vogliono garantire “il completo efficientamento energetico delle abitazioni, aumentando il sostegno a tutte le famiglie e garantendo la copertura totale delle famiglie a basso reddito”. Vogliono accelerare la ristrutturazione degli edifici pubblici.

Vogliono fare della Francia “il leader europeo delle energie marine con l’eolico offshore e lo sviluppo dell’energia mareomotrice”.

Il Nuovo Fronte Popolare vuole annullare la fusione tra l’Agenzia per la sicurezza nucleare (ASN) e l’Istituto di ricerca sulla sicurezza nucleare (IRSN) e rifiuta la privatizzazione delle centrali idroelettriche. Intende inoltre “ripristinare le migliaia di posti di lavoro tagliati nel servizio pubblico di monitoraggio e protezione della natura: presso l’Office national des forêts, l’Office français de la biodiversité, Météo France e Cerema”.

L’alleanza dei partiti di sinistra propone di “passare a una gestione pubblica al 100% dell’acqua attraverso le autorità locali”, di “raggiungere, durante il mandato, un ottimo stato ecologico e chimico per tutti i corsi d’acqua (fiumi, torrenti) e le riserve sotterranee, e di far sì che l’industria contribuisca alla decontaminazione delle acque sotterranee e del suolo”, e di “coprire l’intero Paese con fontane, docce e bagni pubblici gratuiti”.

Servizi pubblici
Occupazione. Il Nuovo Fronte Popolare vuole “compensare la carenza di dipendenti pubblici negli ospedali pubblici, nei servizi di assistenza e medico-sociali, nelle scuole pubbliche, nel sistema giudiziario, nei dipartimenti e nelle agenzie governative, migliorando i posti di lavoro e gli stipendi”.

Territori. Vuole anche “garantire a tutti l’accesso ai servizi pubblici in tutto il Paese attraverso un piano di investimenti”, in modo che “nessuno (possa) vivere a meno di trenta minuti da un servizio pubblico”.

Prima infanzia. I partiti di sinistra intendono “garantire a ogni famiglia l’accesso a un’assistenza all’infanzia pubblica, che offra 500.000 posti in asili nido o altre soluzioni”.

Istruzione
Scuole. I partiti di sinistra vogliono “abolire” lo “scontro sui saperi” promosso da Gabriel Attal, preservare la libertà di insegnamento dei docenti e ridurre le dimensioni delle classi “per fare meglio della media europea di 19 alunni”. Intendono fare i “primi passi per rendere la scuola completamente gratuita: mensa, forniture, trasporti, attività extrascolastiche”.

Propongono “un servizio pubblico a sostegno degli alunni con disabilità”, oltre ad “aumentare le tabelle salariali” e rafforzare i servizi medici scolastici.

Istruzione secondaria. L’Alleanza di sinistra propone di “modulare il finanziamento delle scuole – comprese quelle private – in base alla loro conformità agli obiettivi di diversità sociale”.

Istruzione superiore. Il Nuovo Fronte Popolare vuole porre fine al Parcoursup e alla “selezione nelle università pubbliche”. Intende “introdurre i pasti a un euro a Crous”.

Sanità
Ospedali. I partiti di sinistra vogliono organizzare rapidamente una “conferenza per salvare la sanità pubblica” e “proporre il potenziamento del lavoro notturno e nei fine settimana per il personale”. Vogliono che l’apertura di cliniche private sia subordinata alla “partecipazione alla continuità delle cure e alla garanzia di zero spese vive”.

Sanità privata. Sono favorevoli a “regolamentare l’insediamento dei medici privati” e a ripristinare l’assistenza su chiamata da parte di medici indipendenti nei centri sanitari.

Farmaci. Sono favorevoli a un “centro pubblico per i farmaci con requisiti più severi per le scorte”.

Inquinanti. Auspicano il divieto di “tutti i PFAS per tutti gli usi, in particolare per gli utensili da cucina”.

Lotta al razzismo, all’antisemitismo e all’islamofobia
Il Nouveau Front Populaire afferma che “non c’è spazio per la tolleranza” in un momento in cui “i discorsi e gli atti razzisti, antisemiti e islamofobici si stanno diffondendo in tutta la società e stanno vivendo un’esplosione preoccupante”.

“L’antisemitismo ha una storia tragica nel nostro Paese che non deve ripetersi. Tutti coloro che propagano l’odio verso gli ebrei devono essere combattuti”, si legge nel programma. I partiti di sinistra propongono un piano interministeriale per analizzare, prevenire e combattere l’antisemitismo e un altro sul tema dell’islamofobia.

Fiscalità
Il Nouveau Front populaire spinge per “una legge finanziaria che rettifichi i provvedimenti del 4 agosto” per “adottare una politica fiscale equa”. Propone di “aumentare la progressività dell’imposta sul reddito a 14 scaglioni”, “rendere progressiva la CSG”, “ristabilire un’imposta patrimoniale più forte con una componente climatica”, “abolire la flat tax e ristabilire l’exit tax”, “abolire le scappatoie fiscali inefficienti, ingiuste e inquinanti”, “riformare l’imposta di successione per renderla più progressiva”, “introdurre una successione massima”. Ha inoltre suggerito di “introdurre una tassa chilometrica sui prodotti importati”.

Territori d'oltremare
Il Nuovo Fronte Popolare propone di “rafforzare rapidamente lo scudo qualità-prezzo”. Vuole inoltre “regolamentare le tariffe aeree” e introdurre un “contenuto massimo di zucchero negli alimenti trasformati”.

L’alleanza di sinistra vuole organizzare “la distribuzione di acqua in bottiglia e limitare il prezzo dell’acqua laddove il servizio di acqua potabile non funziona”.

Inoltre, chiede la creazione di un fondo di compensazione per la prevenzione dell’inquinamento per “risarcire e fornire assistenza medica alle vittime del clordecone e del sargassum” e per investire nella decontaminazione del suolo e delle acque.

Nuova Caledonia
Il Nouveau Front populaire (Nuovo Fronte Popolare) chiede di abbandonare il processo di riforma costituzionale volto a sbloccare immediatamente l’elettorato.

Economia francese
Industria. Il Nouveau Front populaire vuole “lanciare un piano di ricostruzione industriale per porre fine alla dipendenza della Francia e dell’Europa in settori strategici (semiconduttori, farmaci, tecnologie di punta, auto elettriche, pannelli solari, ecc.)

Il documento auspica una “diagnosi preventiva delle risorse naturali prima dell’insediamento dell’industria” e una “supervisione dei subappalti”. Propone inoltre l’introduzione di “quote di subappaltatori provenienti dal tessuto delle piccole e medie imprese e dell’artigianato locale”.

Imprese. L’Alleanza di sinistra intende “subordinare gli aiuti alle imprese al rispetto di criteri ambientali, sociali e antidiscriminatori all’interno dell’azienda” ed “esigere la restituzione degli aiuti in caso di mancato rispetto di tali condizioni”.

Infine, l’alleanza vuole “rendere i lavoratori veri protagonisti della vita economica, riservando loro almeno un terzo dei posti nei consigli di amministrazione ed estendendo il loro diritto di intervento nell’azienda”.

Banche. Il Nouveau Front populaire auspica “una maggiore tassazione delle transazioni finanziarie” e “zero finanziamenti bancari per i combustibili fossili”.

Agricoltura
Fissazione dei prezzi. Il Nuovo Fronte Popolare vuole “garantire un prezzo minimo che paghi agli agricoltori un salario equo” e tassare i “superprofitti degli agroindustriali e dei supermercati”. Chiede la cancellazione del CETA e il divieto di “importare qualsiasi produzione agricola che non rispetti i nostri standard sociali e ambientali”.

Allevamento. L’alleanza dei partiti di sinistra vuole sbarazzarsi degli “allevamenti in fabbrica”, migliorare il benessere degli animali e “vietare l’allevamento in gabbia entro la fine del mandato”.

Pesticidi. I partiti di sinistra vogliono ripristinare il “piano Ecophyto, vietare il glifosato e i neonicotinoidi” e sostenere il settore biologico e l’agroecologia, in particolare per “garantire uno sbocco ai prodotti biologici nel settore della ristorazione”.

Alloggi
Il Nouveau Front populaire propone la costruzione di 200.000 alloggi pubblici all’anno per cinque anni. Auspica l’adozione di una legge per “garantire il diritto a un alloggio effettivo”, che preveda il controllo obbligatorio degli affitti nelle aree a rischio e una garanzia universale degli affitti. Le APL verrebbero aumentate del 10%.

I partiti di sinistra vogliono anche “rilanciare la costruzione di alloggi sociali, invertendo i tagli annuali di Macron di 1,4 miliardi di euro per le organizzazioni HLM”.

Media
Il Nuovo Fronte Popolare vuole “limitare rigorosamente la concentrazione dell’industria culturale e dei media nelle mani di pochi proprietari” ed “escludere dalle sovvenzioni pubbliche i media condannati per incitamento all’odio o offesa alla dignità delle persone”. Intende “garantire la continuità di un servizio pubblico di radiodiffusione stabilendo un finanziamento a lungo termine”.

Lo sport
Il Nuovo Fronte Popolare chiede quattro ore di educazione fisica “in tutta la scuola”. Vuole aumentare l’importo del Pass’sport a 150 euro ed estenderne l’uso allo sport scolastico. Intende sviluppare “centri sportivi-sanitari” e rimborsare il costo delle prescrizioni sportive.

I giovani
I partiti di sinistra vogliono “porre fine alla SNU e dare nuovo sostegno alle associazioni giovanili e di educazione popolare”.

Per quanto riguarda i trasporti, vorrebbero la creazione di un “sistema di biglietto unico” aperto ai giovani, che dia loro accesso a tutti i treni, i trasporti pubblici, le biciclette e le auto self-service della regione.

Immigrazione
Il Nouveau Front populaire intende abrogare le leggi sull’asilo e sull’immigrazione approvate sotto Emmanuel Macron, regolarizzare lo status di lavoratori, studenti e genitori di bambini in età scolare e introdurre un permesso di soggiorno decennale come documento di residenza standard. Il partito sostiene la creazione di uno “status di sfollato climatico”.

I partiti di sinistra vogliono creare un “canale di immigrazione legale e sicuro” e istituire “un’agenzia di salvataggio marittimo e terrestre”. Vogliono “garantire l’accesso all’assistenza medica statale”.

Polizia e giustizia
Il Nouveau Front Populaire vuole ripristinare la polizia locale, mantenere tutte le gendarmerie, invertire la riforma della polizia giudiziaria e aumentare il numero di poliziotti. Vuole vietare l’uso di LBD e granate mutilanti, smantellare il BRAV-M e introdurre un nuovo codice etico.

I partiti di sinistra propongono di abolire l’IGPN e l’IGGN e di sostituirli con un nuovo organismo indipendente collegato all’Ombudsman per i diritti umani. Auspicano l’introduzione di ricevute per i controlli d’identità.

Il programma chiede una revisione della dottrina sull’apertura del fuoco “per porre fine alle morti dovute al rifiuto di conformarsi”. Si chiede inoltre di vietare il riconoscimento facciale.

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