31/08/2024
Bertulazzi era in carcere nel 1978 ma per estradarlo lo accusano di aver partecipato alla logistica del sequestro Moro
Leonardo Bertulazzi ha avuto un ruolo nella «logistica del rapimento Moro» e una sua funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione». È quanto ha scritto il ministero della sicurezza argentino nel suo comunicato ufficiale seguito alla revoca dell’asilo politico e al suo nuovo arresto. I vertici della Direzione centrale della polizia di prevenzione e gli altri uffici di polizia che hanno coordinato questa nuova operazione di fine estate sono riusciti a confezionare una gigantesca bufala per impressionare l’opinione pubblica e la magistratura argentina e rafforzare l’inconsistenza giuridica della loro bravata, gonfiando a dismisura il ruolo e la biografia politica da lui avuta all’interno delle Brigate rosse di fine anni Settanta, diffondendo addirittura la notizia di un suo coinvolgimento nel sequestro Moro.
Il falso sillogismo
È noto che la base di via Montalcini 8, a Roma, nella quale fu custodito Moro durante i 55 giorni del sequestro, venne acquistata da Laura Braghetti (e per questo condannata all’ergastolo) con una parte della somma del sequestro Costa. Ergo, siccome Bertulazzi è stato condannato a 15 anni di carcere per complicità – del tutto marginali – nel sequestro dell’armatore genovese, se ne deve concludere che lo stesso ha acquistato per conto delle Brigate rosse quella base e quindi ha avuto un ruolo nel sequestro. Più o meno è stato questo il falso sillogismo abilmente insinuato nei comunicati ufficiali che hanno portato la stampa e i vari siti d’informazione, ormai in mano a persone professionalmente disinformate, a replicare una simile castroneria. È bastata una velina per cancellare evidenze processuali e storiche stratificate da decenni.
La compagnia di giro Mollicone, Calabrò, Fioroni
Fake ripresa da tutti i giornali oltre che da una comica dichiarazione del responsabile cultura (e che cultura!) di Fratelli d’Italia, il parlamentare Federico Mollicone che, citando un libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (ex presidente della seconda commissione Moro), ha affermato che l’arresto di Bertulazzi può portare a «nuove evidenze nell’indagare sull’esatta ubicazione di Moro durante il sequestro». Per farla breve, secondo il Mollicone-Calabrò-Fioroni pensiero, Moro sarebbe stato trattenuto «in un box di Corso Vittorio 42, che era nelle disponibilità della residenza diplomatica dell’allora Ambasciatore del Cile presso la Santa Sede», per intenderci un diplomatico del dittatore Pinochet.
Le evidenze storiche, oltre che le sentenze sulla base delle quali sono stati comminati decine di ergastoli e secoli di carcere, ci dicono che i soldi del sequestro dell’armatore Costa furono redistribuiti equamente tra le varie colonne brigatiste. La colonna romana, che agli inizi del 1977 era in fase di costruzione, approfittò della sua quota per acquistare tre appartamenti: uno in via Palombini, l’altro via Albornoz e l’ultimo in via Montalcini. L’abitazione di via Palombini cadde nel maggio 1978 dopo la cattura e le torture inferte a Enrico Triaca, che gestiva la tipografia di via Pio Foà; via Albornoz non venne mai utilizzata perché solo dopo l’acquisto si scoprì che nello stesso pianerottolo abitava un carabiniere, quindi fu rivenduta; via Montalcini fu ceduta dopo il sequestro Moro. Di questo intricato giro di acquisizioni e vendite immobiliari Bertulazzi era totalmente estraneo.
Nel 1978 Bertulazzi era in carcere
Nulla c’entrava per due ragioni: la prima perché faceva parte di un’altra colonna all’interno della quale, semplice irregolare, non ha mai rivestito ruoli di vertice o dirigenziali. Proveniente dal Lotta continua entrò nella colonna genovese nel 1976 per restarvi poco tempo perché – e qui veniamo ala seconda ragione – nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Dall’ospedale lo condussero direttamente in prigione dove restò per scontare una condanna di due anni. Durante il sequestro Moro, Bertulazzi era detenuto. Questa è la verità.
Duramente sanzionato nonostante il ruolo marginale
Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire mentre gli altri due furono arrestati. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese fondamentalmente perché era latitante. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola.
Raccontarla davvero grossa, dopo cinquant’anni, resta l’unica risorsa che il governo e le autorità di polizia hanno per riavere indietro questi esuli di un tempo che non c’è più.
Fonte
Il falso sillogismo
È noto che la base di via Montalcini 8, a Roma, nella quale fu custodito Moro durante i 55 giorni del sequestro, venne acquistata da Laura Braghetti (e per questo condannata all’ergastolo) con una parte della somma del sequestro Costa. Ergo, siccome Bertulazzi è stato condannato a 15 anni di carcere per complicità – del tutto marginali – nel sequestro dell’armatore genovese, se ne deve concludere che lo stesso ha acquistato per conto delle Brigate rosse quella base e quindi ha avuto un ruolo nel sequestro. Più o meno è stato questo il falso sillogismo abilmente insinuato nei comunicati ufficiali che hanno portato la stampa e i vari siti d’informazione, ormai in mano a persone professionalmente disinformate, a replicare una simile castroneria. È bastata una velina per cancellare evidenze processuali e storiche stratificate da decenni.
La compagnia di giro Mollicone, Calabrò, Fioroni
Fake ripresa da tutti i giornali oltre che da una comica dichiarazione del responsabile cultura (e che cultura!) di Fratelli d’Italia, il parlamentare Federico Mollicone che, citando un libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (ex presidente della seconda commissione Moro), ha affermato che l’arresto di Bertulazzi può portare a «nuove evidenze nell’indagare sull’esatta ubicazione di Moro durante il sequestro». Per farla breve, secondo il Mollicone-Calabrò-Fioroni pensiero, Moro sarebbe stato trattenuto «in un box di Corso Vittorio 42, che era nelle disponibilità della residenza diplomatica dell’allora Ambasciatore del Cile presso la Santa Sede», per intenderci un diplomatico del dittatore Pinochet.
Le evidenze storiche, oltre che le sentenze sulla base delle quali sono stati comminati decine di ergastoli e secoli di carcere, ci dicono che i soldi del sequestro dell’armatore Costa furono redistribuiti equamente tra le varie colonne brigatiste. La colonna romana, che agli inizi del 1977 era in fase di costruzione, approfittò della sua quota per acquistare tre appartamenti: uno in via Palombini, l’altro via Albornoz e l’ultimo in via Montalcini. L’abitazione di via Palombini cadde nel maggio 1978 dopo la cattura e le torture inferte a Enrico Triaca, che gestiva la tipografia di via Pio Foà; via Albornoz non venne mai utilizzata perché solo dopo l’acquisto si scoprì che nello stesso pianerottolo abitava un carabiniere, quindi fu rivenduta; via Montalcini fu ceduta dopo il sequestro Moro. Di questo intricato giro di acquisizioni e vendite immobiliari Bertulazzi era totalmente estraneo.
Nel 1978 Bertulazzi era in carcere
Nulla c’entrava per due ragioni: la prima perché faceva parte di un’altra colonna all’interno della quale, semplice irregolare, non ha mai rivestito ruoli di vertice o dirigenziali. Proveniente dal Lotta continua entrò nella colonna genovese nel 1976 per restarvi poco tempo perché – e qui veniamo ala seconda ragione – nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Dall’ospedale lo condussero direttamente in prigione dove restò per scontare una condanna di due anni. Durante il sequestro Moro, Bertulazzi era detenuto. Questa è la verità.
Duramente sanzionato nonostante il ruolo marginale
Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire mentre gli altri due furono arrestati. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese fondamentalmente perché era latitante. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola.
Raccontarla davvero grossa, dopo cinquant’anni, resta l’unica risorsa che il governo e le autorità di polizia hanno per riavere indietro questi esuli di un tempo che non c’è più.
Fonte
A un anno da Brandizzo: noi non dimentichiamo
Centinaia di persone, ferrovieri, lavoratori, familiari di operai morti sul lavoro, studenti, cittadini di Brandizzo. Tutti presenti all'iniziativa che stamattina davanti alla stazione di Brandizzo ha ricordato con rabbia la morte dei 5 lavoratori, uccisi sul lavoro da un treno che li ha travolti.
I treni, passando, oggi hanno suonato le sirene, mentre i lavoratori delle ferrovie hanno rappresentato la propria rabbia rispetto il progressivo smantellamento della regole contrattuali, poste anche a tutela della sicurezza.
USB rilancia la necessità di una legge per istituire il reato di omicidio sul lavoro: diamo appuntamento per il 6 settembre davanti al Ministero del Lavoro, in occasione dello sciopero dei lavoratori del trasporto ferroviario alle ore 10:30. Saremo lì per rivendicare un nuovo contratto degno di questi nome e regole democratiche sui posti di lavoro, in occasione dell'ennesimo sciopero in uno dei settori strategici della vita del Paese, ma che occupa anche un posto fondamentale nel movimento organizzato dei lavoratori.
Unione Sindacale di Base
Fonte
I treni, passando, oggi hanno suonato le sirene, mentre i lavoratori delle ferrovie hanno rappresentato la propria rabbia rispetto il progressivo smantellamento della regole contrattuali, poste anche a tutela della sicurezza.
USB rilancia la necessità di una legge per istituire il reato di omicidio sul lavoro: diamo appuntamento per il 6 settembre davanti al Ministero del Lavoro, in occasione dello sciopero dei lavoratori del trasporto ferroviario alle ore 10:30. Saremo lì per rivendicare un nuovo contratto degno di questi nome e regole democratiche sui posti di lavoro, in occasione dell'ennesimo sciopero in uno dei settori strategici della vita del Paese, ma che occupa anche un posto fondamentale nel movimento organizzato dei lavoratori.
Unione Sindacale di Base
Fonte
Via libera al recupero della petroliera attaccata dagli Houthi
È finita finalmente la vicenda riguardante la Sounion, la petroliera battente bandiera greca che è stata colpita dagli Houthi il 21 agosto scorso. La nave, bersagliata da droni e missili, è stata evacuata dal suo equipaggio, ma è rimasta ancorata in acque internazionali per una settimana.
L’agenzia britannica per la sicurezza marittima Ukmto, sotto la Royal Navy, aveva reso noto che erano identificabili almeno tre incendi sull’imbarcazione. La questione era diventata rapidamente critica a causa delle 150 mila tonnellate di greggio trasportate dalle Sounion.
La preoccupazione è che potesse avvenire qualche fuoriuscita del combustibile, causando una vera e propria tragedia ambientale. Dopo varie pressioni internazionali, dunque, gli Houthi hanno infine deciso di consentire le operazioni di recupero della nave (non una tregua, come hanno tenuto a specificare).
È stata la missione dell’Iran presso le Nazioni Unite a dare l’annuncio di questa decisione. “Date le preoccupazioni umanitarie e ambientali”, si legge in un suo comunicato, “Ansarallah (il nome di chi in Occidente è conosciuto come ribelli Houthi, anche se controllano quasi tutto lo Yemen, ndr) ha accettato questa richiesta”.
In precedenza, c’era già stato un tentativo di recuperare la petroliera. Patrick Ryder, portavoce del Pentagono, ha infatti dichiarato che già martedì due rimorchiatori inviati da una terza parte hanno dovuto poi rinunciare all’operazione, in seguito agli avvertimenti sul rischio di un attacco da parte degli Houthi.
Per gli iraniani però la “prevenzione di una fuoriuscita di petrolio nel Mar Rosso derivano dalla negligenza di alcuni paesi”, non dagli Houthi. Ryder ha invece condannato quelli che ha definito come “atti di terrorismo sconsiderati”, anche in relazione all’intero ecosistema del Mar Rosso e del Golfo di Aden.
Nessun commento del genere è stato fatto quando sono stati colpiti i depositi di carburante del porto di Hodeidah, non molto lontano da dove si trovava la Sounion, e prte del combustibile è finito in mare. Senza considerare che da quel porto passano la maggior parte degli aiuti alimentari e delle fonti di energia per gli ospedali del nord dello Yemen.
Ad ogni modo, le informazioni riguardo una possibile fuoriuscita di petrolio sono state contrastanti, fino a quando mercoledì la missione Aspides ha negato che ciò fosse accaduto fino ad allora (e quindi prima del tentativo di recupero ricordato dal Pentagono). Ma, come detto, ora Ansarallah ha garantito che non colpirà i rimorchiatori.
Proprio le navi di Aspides, a cui inizialmente non era stata richiesta alcuna scorta, sono state chiamata per il soccorso della nave colpita, poi effettuato da un’unità francese che ha portato l’equipaggio a Gibuti. Ricordiamo che è l’Italia a guidare la missione militare europea.
Proprio due giorni fa c’è stata una lunga telefonata tra il segretario di Stato statunitense Blinken e il ministro degli Esteri italiano Tajani, e tra i nodi centrali c’è stata proprio la situazione nel Mar Rosso. Le iniziative sia europea sia anglo-americana non stanno riuscendo a dissuadere gli Houthi dagli attacchi.
Le forze navali a-stelle-e-strisce sono guidate dal viceammiraglio George Wikoff. Il 7 agosto, in maniera critica rispetto ai risultati raggiunti, aveva dichiarato: “abbiamo certamente degradato la loro capacità. Non c’è dubbio su questo. Abbiamo degradato le loro capacità. Tuttavia, li abbiamo fermati? La risposta è no”.
Wikoff ha anche aggiunto una frase significativa: “si pensava che gli Houthi fossero un problema locale, micro-regionale, e non globale come sono diventati”. Un altro esempio di come i “gendarmi del mondo” occidentali non sono più tali, e di come la vicenda palestinese abbia acquisito un peso negli equilibri dell’intero pianeta.
Le parole di Wikoff e l’inefficacia di Aspides sono l’ennesimo segnale del fallimento della postura guerrafondaia euroatlantica. Postura che va peggiorando con la perdita di egemonia mondiale, a cui l’Occidente non vuole rinunciare, rischiando anche la conflagrazione di conflitti sempre più ampi e mortali.
Fonte
L’agenzia britannica per la sicurezza marittima Ukmto, sotto la Royal Navy, aveva reso noto che erano identificabili almeno tre incendi sull’imbarcazione. La questione era diventata rapidamente critica a causa delle 150 mila tonnellate di greggio trasportate dalle Sounion.
La preoccupazione è che potesse avvenire qualche fuoriuscita del combustibile, causando una vera e propria tragedia ambientale. Dopo varie pressioni internazionali, dunque, gli Houthi hanno infine deciso di consentire le operazioni di recupero della nave (non una tregua, come hanno tenuto a specificare).
È stata la missione dell’Iran presso le Nazioni Unite a dare l’annuncio di questa decisione. “Date le preoccupazioni umanitarie e ambientali”, si legge in un suo comunicato, “Ansarallah (il nome di chi in Occidente è conosciuto come ribelli Houthi, anche se controllano quasi tutto lo Yemen, ndr) ha accettato questa richiesta”.
In precedenza, c’era già stato un tentativo di recuperare la petroliera. Patrick Ryder, portavoce del Pentagono, ha infatti dichiarato che già martedì due rimorchiatori inviati da una terza parte hanno dovuto poi rinunciare all’operazione, in seguito agli avvertimenti sul rischio di un attacco da parte degli Houthi.
Per gli iraniani però la “prevenzione di una fuoriuscita di petrolio nel Mar Rosso derivano dalla negligenza di alcuni paesi”, non dagli Houthi. Ryder ha invece condannato quelli che ha definito come “atti di terrorismo sconsiderati”, anche in relazione all’intero ecosistema del Mar Rosso e del Golfo di Aden.
Nessun commento del genere è stato fatto quando sono stati colpiti i depositi di carburante del porto di Hodeidah, non molto lontano da dove si trovava la Sounion, e prte del combustibile è finito in mare. Senza considerare che da quel porto passano la maggior parte degli aiuti alimentari e delle fonti di energia per gli ospedali del nord dello Yemen.
Ad ogni modo, le informazioni riguardo una possibile fuoriuscita di petrolio sono state contrastanti, fino a quando mercoledì la missione Aspides ha negato che ciò fosse accaduto fino ad allora (e quindi prima del tentativo di recupero ricordato dal Pentagono). Ma, come detto, ora Ansarallah ha garantito che non colpirà i rimorchiatori.
Proprio le navi di Aspides, a cui inizialmente non era stata richiesta alcuna scorta, sono state chiamata per il soccorso della nave colpita, poi effettuato da un’unità francese che ha portato l’equipaggio a Gibuti. Ricordiamo che è l’Italia a guidare la missione militare europea.
Proprio due giorni fa c’è stata una lunga telefonata tra il segretario di Stato statunitense Blinken e il ministro degli Esteri italiano Tajani, e tra i nodi centrali c’è stata proprio la situazione nel Mar Rosso. Le iniziative sia europea sia anglo-americana non stanno riuscendo a dissuadere gli Houthi dagli attacchi.
Le forze navali a-stelle-e-strisce sono guidate dal viceammiraglio George Wikoff. Il 7 agosto, in maniera critica rispetto ai risultati raggiunti, aveva dichiarato: “abbiamo certamente degradato la loro capacità. Non c’è dubbio su questo. Abbiamo degradato le loro capacità. Tuttavia, li abbiamo fermati? La risposta è no”.
Wikoff ha anche aggiunto una frase significativa: “si pensava che gli Houthi fossero un problema locale, micro-regionale, e non globale come sono diventati”. Un altro esempio di come i “gendarmi del mondo” occidentali non sono più tali, e di come la vicenda palestinese abbia acquisito un peso negli equilibri dell’intero pianeta.
Le parole di Wikoff e l’inefficacia di Aspides sono l’ennesimo segnale del fallimento della postura guerrafondaia euroatlantica. Postura che va peggiorando con la perdita di egemonia mondiale, a cui l’Occidente non vuole rinunciare, rischiando anche la conflagrazione di conflitti sempre più ampi e mortali.
Fonte
Aumentare le spese militari e guerra ibrida contro i Brics. Crosetto evoca gli scenari del prossimo futuro
L’Ue deve decidere se escludere o meno le spese militari dai vincoli del Patto di Stabilità. A dichiararlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, al margine del Consiglio informale dei ministri della Difesa europei a Bruxelles.
“Ho appena finito il mio intervento chiedendo all’Europa di decidere. Se la difesa è fondamentale, in questa fase che stiamo vivendo, deve decidere se escludere le spese della Difesa dai vincoli del Patto di stabilità” ha dichiarato Crosetto mettendo sul piatto una proposta che ormai circola da tempo negli ambiti europei. “O si esclude la difesa da questi vincoli, che possono essere tenuti per altri argomenti (sic!!) o non riusciremo ad assumerci gli impegni che la stessa Europa vuole assumersi, come il sostegno all’Ucraina, l’autodifesa, o il fonte sud e la stabilità dell’Africa”, ha aggiunto il ministro della Difesa italiano che si è fatto forte dell’intervento del rappresentante della Nato, il quale ha dichiarato che, ovviamente, ha ragione il rappresentante italiano, perchè la Nato avrà bisogno di un investimento del 2,5-3% del Pil in materia di spese militari, dunque andiamo ben oltre quella soglia del 2% indicata negli anni precedenti.
Ma lo stesso Crosetto, intervenendo al Globsec Forum in corso a Praga, ha aggiunto parole e scenari inquietanti al capitolo dell’aumento delle spese militari, indicando nero su bianco il “fronte nemico”.
“Abbiamo realizzato che la guerra non è qualcosa che avevamo cancellato dall’Europa e che la difesa richiede investimenti e sacrifici”, afferma Crosetto, secondo cui i Paesi europei pensavano che “bastasse essere amici degli Usa per garantire la propria sicurezza”.
A suo avviso la guerra ibrida non è portata avanti solo dalla Russia, ma anche da Iran, Cina e Corea del Nord. Secondo il ministro della Difesa “Se la Russia fosse stata da sola, non avrebbe potuto reggere la sfida in Ucraina”, ma ha avuto il sostegno di altri Paesi. L’occidente deve fare attenzione alla sfida proveniente da chi cerca di “avvelenare le democrazie” – ha sottolineato Crosetto – “è quello che la Russia e la Cina stanno facendo in Africa, costruendo un clima anti-occidentale, ma anche con i Paesi Brics”.
A livello globale si combatte “una guerra quotidiana sulle materie prime”, in particolare rispetto alla Cina. L’interesse di Cina e Africa per la Russia è legato proprio ai metalli preziosi nei giacimenti del continente, così come avviene nei fondali marini è lo scenario indicato dal ministro della Difesa. Secondo Crosetto “Sono tantissimi gli scenari che abbiamo davanti, e nessuna nazione europea da sola può combattere queste sfide”, rilevando come una potenziale alleanza tra Cina e India potrebbe essere molto preoccupante per i Paesi europei.
Fonte
“Ho appena finito il mio intervento chiedendo all’Europa di decidere. Se la difesa è fondamentale, in questa fase che stiamo vivendo, deve decidere se escludere le spese della Difesa dai vincoli del Patto di stabilità” ha dichiarato Crosetto mettendo sul piatto una proposta che ormai circola da tempo negli ambiti europei. “O si esclude la difesa da questi vincoli, che possono essere tenuti per altri argomenti (sic!!) o non riusciremo ad assumerci gli impegni che la stessa Europa vuole assumersi, come il sostegno all’Ucraina, l’autodifesa, o il fonte sud e la stabilità dell’Africa”, ha aggiunto il ministro della Difesa italiano che si è fatto forte dell’intervento del rappresentante della Nato, il quale ha dichiarato che, ovviamente, ha ragione il rappresentante italiano, perchè la Nato avrà bisogno di un investimento del 2,5-3% del Pil in materia di spese militari, dunque andiamo ben oltre quella soglia del 2% indicata negli anni precedenti.
Ma lo stesso Crosetto, intervenendo al Globsec Forum in corso a Praga, ha aggiunto parole e scenari inquietanti al capitolo dell’aumento delle spese militari, indicando nero su bianco il “fronte nemico”.
“Abbiamo realizzato che la guerra non è qualcosa che avevamo cancellato dall’Europa e che la difesa richiede investimenti e sacrifici”, afferma Crosetto, secondo cui i Paesi europei pensavano che “bastasse essere amici degli Usa per garantire la propria sicurezza”.
A suo avviso la guerra ibrida non è portata avanti solo dalla Russia, ma anche da Iran, Cina e Corea del Nord. Secondo il ministro della Difesa “Se la Russia fosse stata da sola, non avrebbe potuto reggere la sfida in Ucraina”, ma ha avuto il sostegno di altri Paesi. L’occidente deve fare attenzione alla sfida proveniente da chi cerca di “avvelenare le democrazie” – ha sottolineato Crosetto – “è quello che la Russia e la Cina stanno facendo in Africa, costruendo un clima anti-occidentale, ma anche con i Paesi Brics”.
A livello globale si combatte “una guerra quotidiana sulle materie prime”, in particolare rispetto alla Cina. L’interesse di Cina e Africa per la Russia è legato proprio ai metalli preziosi nei giacimenti del continente, così come avviene nei fondali marini è lo scenario indicato dal ministro della Difesa. Secondo Crosetto “Sono tantissimi gli scenari che abbiamo davanti, e nessuna nazione europea da sola può combattere queste sfide”, rilevando come una potenziale alleanza tra Cina e India potrebbe essere molto preoccupante per i Paesi europei.
Fonte
Zuckerberg confessa: “la gestione di Facebook è condizionata dalla Casa Bianca”
L’arresto e il successivo rilascio su cauzione, a Parigi, del fondatore e patron di Telegram, Pavel Durov, ha messo in luce cosa significhi la parola “libertà di espressione” nell’Occidente imperialista. Andiamo un attimo con ordine, perché non ci interessa affatto fare paragoni frettolosi e impressionistici.
Come ben pochi hanno notato, il mandato di cattura contro Durov è stato emesso mentre l’aereo su cui viaggiava era in volo verso Parigi. In pratica tutti i media (pressoché tutti, in effetti) che hanno divagato per un paio di giorni sull’interrogativo “si è consegnato (per salvarsi da Putin, con cui aveva avuto pesanti screzi) oppure è stata una sua ingenuità?” hanno fatto consapevolmente disinformazione, perché la tempistica mandato/arresto era nota a chiunque volesse leggere la stampa internazionale.
Poi si è venuti a sapere, o ricordato con difficoltà, che Macron aveva proposto a Durov nel 2018 di spostare la sede operativa di Telegram in Francia, in cambio della cittadinanza (poi concessa comunque, come dono avvelenato) e della messa a disposizione della polizia/servizi segreti francesi dei codici criptati della piattaforma.
In pratica, “Mac Macron” ha provato ad avere politicamente in mano una piattaforma di messaggistica in grado di rivaleggiare con Facebook, Whatsapp, X e Instagram, senza dover investire in tecnologie, vista l’assenza di magnati francesi su questo fronte. Fare grandeur con l’inventiva altrui, insomma.
Anche da queste scarne notizie certe si indovina che il controllo dei dati raccolti da piattaforme “civili”, utilizzabili da chiunque, è un obiettivo politico e militare di primaria importanza.
Va comunque sgombrato il campo da un altra “giustificazione” dell’arresto adottata e addotta dai media europei: su Telegram operano anche pedofili, spacciatori, trafficanti d’armi, “terroristi” e combattenti di svariati eserciti (compresi quello russo e ucraino), ecc., quindi il rifiuto di Durov di consegnare i codici di decriptazione significherebbe di fatto complicità con quei crimini.
Sul piano del diritto è come incolpare Telecom di quello che si dicono e fanno due abbonati qualsiasi. E l’esercizio della “moderazione”, associato alla “profilazione” delle preferenze individuali degli utenti, rende qualsiasi piattaforma un campo di gioco “privatizzato” dai suoi ideatori-proprietari a disposizione di altri privati che devono vendere le proprie merci e di (pochi) governi che possono gestire un’autoschedatura immensa e pressoché totale. Il contrario della “libertà” promessa, per di più gratuitamente.
Sul piano pratico, quella “giustificazione” è una bufala pura e semplice. Ammesso senza problemi che (anche) su Telegram vengano commessi molti dei reati indicati, non serve essere degli specialisti in indagini di polizia per capire che non è affatto impossibile contrastare quei traffici.
Certo, bisognerebbe spendere un po’ di tempo e risorse (soldi e uomini) per seguire le tracce, “travestirsi” da utenti (una specialità che ogni servizio segreto pratica da sempre...), risalire ai protagonisti degli illeciti e arrestarli. Ma vuoi mettere la comodità di un codice di decriptazione che ti fornisce elenchi sconfinati di nomi e numeri di telefono senza dover muovere un muscolo e spendere un soldo? Basta chiedere al tycoon di turno, con le buone (soldi) o le cattive (minacce) ed il gioco è fatto.
Proprio il principale tenutario di piattaforme online, Mark Zuckerberg, ha nei giorni scorsi confessato che la gestione dei social da lui controllati è politicamente concertata con il governo degli Stati Uniti (e di Israele, come ben ha capito ogni utente un po’ sveglio...). Anzi, passa i dati e le profilazioni direttamente alle agenzie governative, che così possono decidere indagini o operazioni di ogni tipo senza troppo faticare.
Qui di seguito l’articolo con cui Marinella Mondaini ricostruisce “la confessione”.
Non tutti i bersagli della Casa Bianca hanno inoltre l’esposizione mediatico-politica di Hunter Biden (poi arrestato, anni dopo), che metterebbe in imbarazzo qualsiasi anchorman o giornalistucolo. Per tutti gli altri utenti, almeno quelli “politicamente rilevanti”, che non si limitano a postare foto di gattini e cuoricini, la disponibilità verso “l’amministrazione” è da sempre totale. Altrimenti non campi, direbbe Durov...
Fonte
Come ben pochi hanno notato, il mandato di cattura contro Durov è stato emesso mentre l’aereo su cui viaggiava era in volo verso Parigi. In pratica tutti i media (pressoché tutti, in effetti) che hanno divagato per un paio di giorni sull’interrogativo “si è consegnato (per salvarsi da Putin, con cui aveva avuto pesanti screzi) oppure è stata una sua ingenuità?” hanno fatto consapevolmente disinformazione, perché la tempistica mandato/arresto era nota a chiunque volesse leggere la stampa internazionale.
Poi si è venuti a sapere, o ricordato con difficoltà, che Macron aveva proposto a Durov nel 2018 di spostare la sede operativa di Telegram in Francia, in cambio della cittadinanza (poi concessa comunque, come dono avvelenato) e della messa a disposizione della polizia/servizi segreti francesi dei codici criptati della piattaforma.
In pratica, “Mac Macron” ha provato ad avere politicamente in mano una piattaforma di messaggistica in grado di rivaleggiare con Facebook, Whatsapp, X e Instagram, senza dover investire in tecnologie, vista l’assenza di magnati francesi su questo fronte. Fare grandeur con l’inventiva altrui, insomma.
Anche da queste scarne notizie certe si indovina che il controllo dei dati raccolti da piattaforme “civili”, utilizzabili da chiunque, è un obiettivo politico e militare di primaria importanza.
Va comunque sgombrato il campo da un altra “giustificazione” dell’arresto adottata e addotta dai media europei: su Telegram operano anche pedofili, spacciatori, trafficanti d’armi, “terroristi” e combattenti di svariati eserciti (compresi quello russo e ucraino), ecc., quindi il rifiuto di Durov di consegnare i codici di decriptazione significherebbe di fatto complicità con quei crimini.
Sul piano del diritto è come incolpare Telecom di quello che si dicono e fanno due abbonati qualsiasi. E l’esercizio della “moderazione”, associato alla “profilazione” delle preferenze individuali degli utenti, rende qualsiasi piattaforma un campo di gioco “privatizzato” dai suoi ideatori-proprietari a disposizione di altri privati che devono vendere le proprie merci e di (pochi) governi che possono gestire un’autoschedatura immensa e pressoché totale. Il contrario della “libertà” promessa, per di più gratuitamente.
Sul piano pratico, quella “giustificazione” è una bufala pura e semplice. Ammesso senza problemi che (anche) su Telegram vengano commessi molti dei reati indicati, non serve essere degli specialisti in indagini di polizia per capire che non è affatto impossibile contrastare quei traffici.
Certo, bisognerebbe spendere un po’ di tempo e risorse (soldi e uomini) per seguire le tracce, “travestirsi” da utenti (una specialità che ogni servizio segreto pratica da sempre...), risalire ai protagonisti degli illeciti e arrestarli. Ma vuoi mettere la comodità di un codice di decriptazione che ti fornisce elenchi sconfinati di nomi e numeri di telefono senza dover muovere un muscolo e spendere un soldo? Basta chiedere al tycoon di turno, con le buone (soldi) o le cattive (minacce) ed il gioco è fatto.
Proprio il principale tenutario di piattaforme online, Mark Zuckerberg, ha nei giorni scorsi confessato che la gestione dei social da lui controllati è politicamente concertata con il governo degli Stati Uniti (e di Israele, come ben ha capito ogni utente un po’ sveglio...). Anzi, passa i dati e le profilazioni direttamente alle agenzie governative, che così possono decidere indagini o operazioni di ogni tipo senza troppo faticare.
Qui di seguito l’articolo con cui Marinella Mondaini ricostruisce “la confessione”.
Il CEO di Meta Mark Zuckerberg ha ammesso che Facebook, su richiesta delle autorità statunitensi, ha censurato i contenuti relativi al COVID-19, ma non solo questo ha fatto.Diciamo pure che la “mordacchia” pretesa sulle notizie relative al Covid – il presidente era Trump, che ben poco stava facendo per contrastare l’epidemia e quindi pretendeva la “sordina” su quanto stava accadendo – è la parte meno interessante della confessione di Zuckerberg.
Mark Zuckerberg, ha scritto una lettera alla Commissione giudiziaria della Camera dei rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, dove afferma di rammaricarsi di alcune decisioni prese dalla sua azienda sotto la pressione del governo e di non voler più scendere a compromessi con l’amministrazione.
Nel contesto dell’arresto in Francia di Pavel Durov, a cui hanno cucito addosso un’infinità di crimini legati all’attività del suo Telegram – ben 12: pornografia infantile, droga, rifiuto di collaborare con i servizi di intelligence, ecc. – e nel contesto anche della fuga dall’Europa del fondatore del video hosting Rumble, Chris Pawlowski, minacciato dalle autorità francesi, il CEO di Meta (riconosciuta organizzazione estremista e la sua attività è vietata in Russia), Mark Zuckerberg, è dispiaciuto per non essersi espresso “più apertamente” sulla “pressione del governo” affinché rimuovesse i contenuti relativi al COVID-19.
Zuckerberg ha affermato che nel 2021, gli alti funzionari dell’amministrazione del presidente Joe Biden “per diversi mesi hanno fatto pressioni” su Meta (che possiede Facebook e Instagram) affinché “censurasse” i contenuti riguardo il Covid, “inclusi umorismo e satira”, inoltre esprimevano grande disappunto nei confronti del nostro team quando non eravamo d’accordo”, ha aggiunto.
E nonostante a prendere le decisioni fosse Meta, Zuckerberg ritiene che “la pressione del governo era sbagliata”. “Mi dispiace che non abbiamo parlato più apertamente prima”, ha scritto Zuckerberg al presidente della commissione giudiziaria repubblicana Jim Jordan.
Meta “ha preso alcune decisioni che, guardando indietro e con le nuove informazioni, non prenderemmo oggi”.
“Sono fermamente convinto che non dovremmo compromettere i nostri standard di contenuto a causa delle pressioni di qualsiasi amministrazione in qualsiasi direzione e siamo pronti a reagire se qualcosa del genere dovesse accadere di nuovo”.
Zuckerberg ha anche affermato che nel periodo precedente alle elezioni del 2020, Facebook non avrebbe dovuto, in attesa del controllo dei fatti, “abbassare di prestigio” un articolo del New York Post sulle accuse di corruzione relative alla famiglia del presidente Biden. Stiamo parlando del computer portatile del figlio Hunter Biden, nel quale sono state trovate numerose informazioni compromettenti legate a droga, prostituzione e possesso illegale di armi. Quattro anni fa l’FBI lanciò l’allarme di una potenziale “campagna di disinformazione russa” contro la famiglia Biden. Tuttavia, la storia di Hunter Biden, secondo Zuckerberg, non si è rivelata essere disinformazione russa.
Come volevasi dimostrare, la “disinformazione russa” è la grande vergognosa bufala inventata dalla CIA e ora smettete di diffondere questa fake-news, pennivendoli dei mass-media italiani!
– da Facebook
Non tutti i bersagli della Casa Bianca hanno inoltre l’esposizione mediatico-politica di Hunter Biden (poi arrestato, anni dopo), che metterebbe in imbarazzo qualsiasi anchorman o giornalistucolo. Per tutti gli altri utenti, almeno quelli “politicamente rilevanti”, che non si limitano a postare foto di gattini e cuoricini, la disponibilità verso “l’amministrazione” è da sempre totale. Altrimenti non campi, direbbe Durov...
Fonte
30/08/2024
Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi in Argentina
Nella serata del 29 agosto 2024 i siti d’informazione hanno diffuso la notizia del nuovo arresto a Buenos Aires (nel pomeriggio ora locale) di Leonardo Bertulazzi, un cittadino italiano oggi settantaduenne, ex appartenente alla colonna genovese delle Brigate rosse che nel 2004 aveva ottenuto lo statuto di rifugiato politico dalla Commissione nazionale per i rifugiati (Conare).
In un comunicato le autorità governative argentine hanno affermato che Bertulazzi è stato arrestato dopo che risoluzione del Conare era stata revocata dalle autorità del governo nazionale in presenza di una nuova richiesta di arresto formulata dal governo di Giorgia Meloni.
Nel 2002 un giudice federale respinge la domanda di estradizione
Nel novembre 2002 Bertulazzi era stato raggiunto da una richiesta di estradizione da parte del governo italiano per una condanna a 27 anni di reclusione, a seguito di un cumulo giudiziale che sommava la banda armata, l’associazione sovversiva e la complicità nel sequestro dell’armatore Pietro Costa, realizzato dalle Brigate rosse nel gennaio del 1977. Dopo sette mesi di detenzione il giudice federale Maria Romilda Servini de Cubria emise una sentenza di rigetto perché il processo e la condanna erano avvenuti in «contumacia», possibilità non prevista dalle leggi procedurali argentine.
Il magistrato, ritenendo che in questo modo l’esule italiano non avrebbe potuto esercitare il suo diritto costituzionale di difesa una volta estradato, ne ordinò la liberazione. Successivamente, come abbiamo visto, Berlulazzi avviò la procedura per il riconoscimento dello statuto di rifugiato politico.
L’estinzione prima riconosciuta poi annullata
Nel 2018, trascorsi 30 anni dalla momento in cui la sua condanna era diventata definitiva, il suo legale presentò davanti alla corte d’appello di Genova istanza per il riconoscimento della estinzione della pena, come previsto dall’articolo 172 del codice penale. La corte accolse la richiesta ma nel maggio dello stesso anno la cassazione annullò la decisione, facendo valere un cavillo tecnico-giuridico che imponeva il ricalcolo dei tempi di estinzione della pena a partire dal nuovo arresto del 2002: «Essendo perdurata la latitanza del Bertulazzi dopo la scarcerazione – hanno scritto i giudici nel loro provvedimento –, e rappresentando l’arresto eseguito (in forza di una procedura di estradizione sulla cui legittimità nulla è mai stato contestato dalla difesa del condannato) la manifestazione del concreto interesse dello Stato ad eseguire la pena, il decorso dei termini di prescrizione è iniziato ex novo». Nel frattempo da quel primo arresto sono trascorsi altri 22 anni e parte delle condanne inflittegli, quelle relative ai reati associativi, sono andate nuovamente prescritte.
Il comunicato del governo argentino
In un comunicato ufficiale emesso dal governo argentino si esplicitano le ragioni che hanno portato alla cancellazione dello status di rifugiato: «Questo arresto riflette l’impegno dell’Argentina a favore dei valori della democrazia e dello stato di diritto (sic!) ed espone al mondo la ferma decisione del presidente Javier Milei di non convivere con l’impunità della sinistra. Si tratta di un passo fondamentale affinché le istituzioni destinate a proteggere le persone in situazioni vulnerabili non vengano prese indebitamente dai terroristi che minacciano la pace e la democrazia».
Al di là delle affermazioni di Milei, l’estradizione di Bertulazzi non sarà una cosa scontata e semplice anche se la magistratura ha per ora confermato lo stato di arresto.
«Posizione giuridica mutata»
A pronunciare la convalida, secondo un’agenzia dell’Ansa, sarebbe stato lo stesso giudice che nel 2003 aveva respinto la richiesta di estradizione italiana perché a suo avviso la posizione giuridica di Bertulazzi sarebbe mutata rispetto al 2003. Stando a quanto riportato da alcune fonti giornalistiche argentine, secondo il magistrato le richiesta di estinzione della pena presentata nel 2018 avrebbe comportato un riconoscimento della sentenza di condanna. Sempre secondo l’Ansa, l’Italia ora avrebbe 45 giorni per formalizzare la richiesta di estradizione e Bertolazzi la possibilità di ricorrere contro la decisione che ha cancellato il suo status di rifugiato politico oltre che opporsi alla procedura di estradizione una volta avviata.
Conosceremo meglio nelle prossime settimane i contenuti giuridici di questa nuova richiesta e in che maniera l’Italia cercherà di aggirare la palese violazione del principio del ne bis in idem. Una procedura di estrazione c’è già stata ed è stata respinta: a che titolo se ne chiede una nuova? Il timore è che le autorità argentine vogliano fare strame delle procedure e delle leggi internazionali e magari espellere Bertulazzi in un paese vicino che poi lo consegnerebbe, come avvenuto in altri casi, alla polizia italiana. Sono anni ormai che l’Italia ogni qual volta affronta battaglie estradizionali riceve solo sonori schiaffi, ragion per cui si è specializzata nelle consegne speciali.
Governi gemelli e nostalgia del piano Condor
Offrendo la testa di Bertulazzi su un piatto d’argento alla sua amica e gemella politica Giorgia Meloni, il governo del fascista Milei sembra intenzionato a condurre una guerra ideologica contro i simboli della sinistra. All’epoca del suo primo arresto Bertulazzi aveva ottenuto il sostegno della madri della plaza de Mayo.
I toni da crociata impiegati nel comunicato ufficiale del ministero della sicurezza sono abbastanza espliciti: si afferma che Leonardo Bertulazzi «è uno dei terroristi latitanti più ricercati dalla giustizia europea […] Ex membro del gruppo terroristico marxista-leninista italiano Brigate Rosse, Bertulazzi è responsabile di crimini atroci che hanno minacciato i valori democratici e la vita di molteplici vittime. Questa organizzazione terroristica è stata responsabile di numerosi atti di violenza in Italia negli anni ’70 e ’80». Insomma le accuse si fanno generiche e ideologiche, la responsabilità penale è personale e non risultano crimini di sangue imputati a Bertulazzi, condannato per complicità nel sequestro Costa sulla base delle dichiarazioni di un pentito quando era già fuori dall’Italia.
Milei, vuole forse far dimenticare gli anni in cui nel suo Paese trovavano ospitalità i peggiori criminali nazisti, si lanciavano in mare i corpi vivi degli oppositori di sinistra ed era in vigore il piano Condor, ovvero la liquidazione di tutti gli oppositori dei vari regimi militari fascisti Sud americani.
La bufala congeniata per favorire l’arresto
Sempre nella dichiarazione governativa si diffonde un falso storico clamoroso, ovvero un presunto ruolo di Berlulazzi nella «logistica del rapimento Moro» e una sua funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione». Evidentemente le autorità di polizia italiane non hanno correttamente informato i loro omologhi argentini: Bertulazzi era un irregolare che non ha mai avuto ruoli di vertice nella colonna genovese e ai tempi del sequestro Moro era detenuto a causa di un incidente incorso nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, dove rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Nulla c’entra o poteva sapere del sequestro Moro per altro realizzato dalla colonna romana. I soldi del sequestro Costa erano stati redistribuiti equamente tra tutte le colonne brigatiste: la colonna romana, ancora in fase di costituzione, approfittò della sua quota del sequestro per acquistare tre appartamenti situati in via Paolombini, via Albornoz e via Montalcini, dove fu tenuto nascosto Moro nei 55 giorni del sequestro.
Bertulazzi, che entrò nella colonna genovese nel 1976 dopo aver militato in Lotta continua, ha militato complessivamente per una anno nelle Brigate rosse prima di finire in carcere e scontare una condanna di due anni. Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco: Bertulazzi riuscì a fuggire e i due suoi due compagni furono arrestati. La direzione centrale della polizia di prevenzione per ottenere il favore del governo argentino deve aver giocato la carta di un suo coinvolgimento nella vicenda Moro, ormai impiegata come un passe-partout, res nullius che chiunque può evocare a sproposito come un qualunque Federico Mollicone di turno.
Fonte
In un comunicato le autorità governative argentine hanno affermato che Bertulazzi è stato arrestato dopo che risoluzione del Conare era stata revocata dalle autorità del governo nazionale in presenza di una nuova richiesta di arresto formulata dal governo di Giorgia Meloni.
Nel 2002 un giudice federale respinge la domanda di estradizione
Nel novembre 2002 Bertulazzi era stato raggiunto da una richiesta di estradizione da parte del governo italiano per una condanna a 27 anni di reclusione, a seguito di un cumulo giudiziale che sommava la banda armata, l’associazione sovversiva e la complicità nel sequestro dell’armatore Pietro Costa, realizzato dalle Brigate rosse nel gennaio del 1977. Dopo sette mesi di detenzione il giudice federale Maria Romilda Servini de Cubria emise una sentenza di rigetto perché il processo e la condanna erano avvenuti in «contumacia», possibilità non prevista dalle leggi procedurali argentine.
Il magistrato, ritenendo che in questo modo l’esule italiano non avrebbe potuto esercitare il suo diritto costituzionale di difesa una volta estradato, ne ordinò la liberazione. Successivamente, come abbiamo visto, Berlulazzi avviò la procedura per il riconoscimento dello statuto di rifugiato politico.
L’estinzione prima riconosciuta poi annullata
Nel 2018, trascorsi 30 anni dalla momento in cui la sua condanna era diventata definitiva, il suo legale presentò davanti alla corte d’appello di Genova istanza per il riconoscimento della estinzione della pena, come previsto dall’articolo 172 del codice penale. La corte accolse la richiesta ma nel maggio dello stesso anno la cassazione annullò la decisione, facendo valere un cavillo tecnico-giuridico che imponeva il ricalcolo dei tempi di estinzione della pena a partire dal nuovo arresto del 2002: «Essendo perdurata la latitanza del Bertulazzi dopo la scarcerazione – hanno scritto i giudici nel loro provvedimento –, e rappresentando l’arresto eseguito (in forza di una procedura di estradizione sulla cui legittimità nulla è mai stato contestato dalla difesa del condannato) la manifestazione del concreto interesse dello Stato ad eseguire la pena, il decorso dei termini di prescrizione è iniziato ex novo». Nel frattempo da quel primo arresto sono trascorsi altri 22 anni e parte delle condanne inflittegli, quelle relative ai reati associativi, sono andate nuovamente prescritte.
Il comunicato del governo argentino
In un comunicato ufficiale emesso dal governo argentino si esplicitano le ragioni che hanno portato alla cancellazione dello status di rifugiato: «Questo arresto riflette l’impegno dell’Argentina a favore dei valori della democrazia e dello stato di diritto (sic!) ed espone al mondo la ferma decisione del presidente Javier Milei di non convivere con l’impunità della sinistra. Si tratta di un passo fondamentale affinché le istituzioni destinate a proteggere le persone in situazioni vulnerabili non vengano prese indebitamente dai terroristi che minacciano la pace e la democrazia».
Al di là delle affermazioni di Milei, l’estradizione di Bertulazzi non sarà una cosa scontata e semplice anche se la magistratura ha per ora confermato lo stato di arresto.
«Posizione giuridica mutata»
A pronunciare la convalida, secondo un’agenzia dell’Ansa, sarebbe stato lo stesso giudice che nel 2003 aveva respinto la richiesta di estradizione italiana perché a suo avviso la posizione giuridica di Bertulazzi sarebbe mutata rispetto al 2003. Stando a quanto riportato da alcune fonti giornalistiche argentine, secondo il magistrato le richiesta di estinzione della pena presentata nel 2018 avrebbe comportato un riconoscimento della sentenza di condanna. Sempre secondo l’Ansa, l’Italia ora avrebbe 45 giorni per formalizzare la richiesta di estradizione e Bertolazzi la possibilità di ricorrere contro la decisione che ha cancellato il suo status di rifugiato politico oltre che opporsi alla procedura di estradizione una volta avviata.
Conosceremo meglio nelle prossime settimane i contenuti giuridici di questa nuova richiesta e in che maniera l’Italia cercherà di aggirare la palese violazione del principio del ne bis in idem. Una procedura di estrazione c’è già stata ed è stata respinta: a che titolo se ne chiede una nuova? Il timore è che le autorità argentine vogliano fare strame delle procedure e delle leggi internazionali e magari espellere Bertulazzi in un paese vicino che poi lo consegnerebbe, come avvenuto in altri casi, alla polizia italiana. Sono anni ormai che l’Italia ogni qual volta affronta battaglie estradizionali riceve solo sonori schiaffi, ragion per cui si è specializzata nelle consegne speciali.
Governi gemelli e nostalgia del piano Condor
Offrendo la testa di Bertulazzi su un piatto d’argento alla sua amica e gemella politica Giorgia Meloni, il governo del fascista Milei sembra intenzionato a condurre una guerra ideologica contro i simboli della sinistra. All’epoca del suo primo arresto Bertulazzi aveva ottenuto il sostegno della madri della plaza de Mayo.
I toni da crociata impiegati nel comunicato ufficiale del ministero della sicurezza sono abbastanza espliciti: si afferma che Leonardo Bertulazzi «è uno dei terroristi latitanti più ricercati dalla giustizia europea […] Ex membro del gruppo terroristico marxista-leninista italiano Brigate Rosse, Bertulazzi è responsabile di crimini atroci che hanno minacciato i valori democratici e la vita di molteplici vittime. Questa organizzazione terroristica è stata responsabile di numerosi atti di violenza in Italia negli anni ’70 e ’80». Insomma le accuse si fanno generiche e ideologiche, la responsabilità penale è personale e non risultano crimini di sangue imputati a Bertulazzi, condannato per complicità nel sequestro Costa sulla base delle dichiarazioni di un pentito quando era già fuori dall’Italia.
Milei, vuole forse far dimenticare gli anni in cui nel suo Paese trovavano ospitalità i peggiori criminali nazisti, si lanciavano in mare i corpi vivi degli oppositori di sinistra ed era in vigore il piano Condor, ovvero la liquidazione di tutti gli oppositori dei vari regimi militari fascisti Sud americani.
La bufala congeniata per favorire l’arresto
Sempre nella dichiarazione governativa si diffonde un falso storico clamoroso, ovvero un presunto ruolo di Berlulazzi nella «logistica del rapimento Moro» e una sua funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione». Evidentemente le autorità di polizia italiane non hanno correttamente informato i loro omologhi argentini: Bertulazzi era un irregolare che non ha mai avuto ruoli di vertice nella colonna genovese e ai tempi del sequestro Moro era detenuto a causa di un incidente incorso nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, dove rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Nulla c’entra o poteva sapere del sequestro Moro per altro realizzato dalla colonna romana. I soldi del sequestro Costa erano stati redistribuiti equamente tra tutte le colonne brigatiste: la colonna romana, ancora in fase di costituzione, approfittò della sua quota del sequestro per acquistare tre appartamenti situati in via Paolombini, via Albornoz e via Montalcini, dove fu tenuto nascosto Moro nei 55 giorni del sequestro.
Bertulazzi, che entrò nella colonna genovese nel 1976 dopo aver militato in Lotta continua, ha militato complessivamente per una anno nelle Brigate rosse prima di finire in carcere e scontare una condanna di due anni. Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco: Bertulazzi riuscì a fuggire e i due suoi due compagni furono arrestati. La direzione centrale della polizia di prevenzione per ottenere il favore del governo argentino deve aver giocato la carta di un suo coinvolgimento nella vicenda Moro, ormai impiegata come un passe-partout, res nullius che chiunque può evocare a sproposito come un qualunque Federico Mollicone di turno.
Fonte
Palestina. Scordatevi i due stati per due popoli, Israele punta all’annessione della Cisgiordania
Da mercoledì notte, l’esercito israeliano ha lanciato quella che è stata definita come la più grande operazione militare dall’invasione israeliana delle principali città palestinesi in Cisgiordania nel 2002.
L’assalto israeliano ha preso di mira le città palestinesi settentrionali, ma soprattutto i campi profughi e si è finora concentrata in gran parte sui campi che circondano Jenin e Tulkarm.
A partire da giovedì sera, 17 palestinesi risultano essere stati uccisi e decine feriti dai militari israeliani.
Israele continua ad ammassare soldati e a razziare più aree palestinesi della Cisgiordania, assediando come a Gaza i principali ospedali della zona, impedendo ai morti e ai feriti di essere trasportati nei centri medici.
La guerra genocida a Gaza ha incoraggiato le voci all’interno della coalizione di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che chiedono il ritorno all’occupazione militare di Gaza e l’accelerazione della costruzione di insediamenti illegali in tutte le parti della Cisgiordania, compresa la regione settentrionale. In pratica una annessione dei Territori Palestinesi che ipoteca definitivamente ogni possibilità di nascita di uno Stato palestinese indipendente su quegli stessi territori.
Si ritiene che l’operazione militare israeliana nel nord della Cisgiordania faccia parte degli sforzi del governo israeliano per consolidare la sua occupazione e per la pulizia etnica della maggior parte della popolazione palestinese in quell’area, come preludio necessario all’espansione degli insediamenti coloniali esistenti o alla costruzione di nuovi.
In questi mesi è emerso come Israele non possa sconfiggere militarmente il movimento libanese Hezbollah, né affrontare l’Iran senza il sostegno militare americano. Gli Usa, in periodo pre-elettorale, non vorrebbero trovarsi tra i piedi un conflitto regionale in Medio Oriente e agiscono per impedirlo sia tramite la deterrenza militare nell’area (vedi le portaerei inviate) sia prendendo tempo agitando la foglia di fico dei negoziati che lasciano comunque mano libera a Israele per attaccare a Gaza e Cisgiordania ma anche in Libano e Siria.
Ed è proprio perchè le prospettive di una guerra regionale – per la quale Netanyahu ha agito – rimangono deboli, Israele ha deciso di intensificare gli attacchi in quello che percepisce come il ventre molle della resistenza palestinese, la Cisgiordania.
La resistenza in Cisgiordania, anche se determinata, è in gran parte isolata a causa delle pressioni combinate imposte dall’esercito israeliano, dai coloni ebrei e dall’Autorità Nazionale Palestinese che rimane attaccata ad una funzione e ad una illusione diplomatica che non esistono più.
L’ipotesi dei due popoli per due stati è ormai uno specchietto per le allodole senza più alcuna possibilità politica né materiale di essere realizzata in questo scenario.
Il gabinetto di sicurezza israeliano ha intanto votato a larga maggioranza ieri sera per sostenere la posizione del primo ministro Benjamin Netanyahu a favore del mantenimento dell’esercito nel Corridoio Philadelphia a Gaza (senza dimenticare l’altro corridoio di Netzarim), nel quadro di un eventuale accordo sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi ancora in fase di negoziazione. Lo riferisce il quotidiano israeliano Times of Israel, citando un alto funzionario dell’ufficio del premier, secondo cui ai ministri è stato chiesto di approvare una serie di mappe che l’esercito ha elaborato, che mostrano come Israele intende mantenere la sua presenza di truppe nello stretto tratto di 9 miglia (circa 15 chilometri) lungo il confine tra Egitto e Gaza. Queste mappe sono già state adottate dagli Stati Uniti, afferma il funzionario.
A conferma che gli USA non sono un soggetto credibile per arbitrare un negoziato degno di questo nome sul futuro della Palestina, la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, Kamala Harris, ha ribadito il suo sostegno “incrollabile” alla difesa di Israele e al suo diritto a “proteggersi: e questo non cambierà”. Durante una intervista con l’emittente CNN, la candidata democratica ha come al solito recitato il refrain ipocrita della necessità di una soluzione a due Stati nel conflitto in corso nella Striscia di Gaza, mentre gli USA continuano a fornire armamenti e copertura militare a Israele e ad assecondare un negoziato del tutto effimero.
Chi oggi parla di due stati per due popoli senza agire concretamente contro i piani di annessione israeliani dei territori palestinesi sta mentendo, sapendo bene di mentire.
Fonte
L’assalto israeliano ha preso di mira le città palestinesi settentrionali, ma soprattutto i campi profughi e si è finora concentrata in gran parte sui campi che circondano Jenin e Tulkarm.
A partire da giovedì sera, 17 palestinesi risultano essere stati uccisi e decine feriti dai militari israeliani.
Israele continua ad ammassare soldati e a razziare più aree palestinesi della Cisgiordania, assediando come a Gaza i principali ospedali della zona, impedendo ai morti e ai feriti di essere trasportati nei centri medici.
La guerra genocida a Gaza ha incoraggiato le voci all’interno della coalizione di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che chiedono il ritorno all’occupazione militare di Gaza e l’accelerazione della costruzione di insediamenti illegali in tutte le parti della Cisgiordania, compresa la regione settentrionale. In pratica una annessione dei Territori Palestinesi che ipoteca definitivamente ogni possibilità di nascita di uno Stato palestinese indipendente su quegli stessi territori.
Si ritiene che l’operazione militare israeliana nel nord della Cisgiordania faccia parte degli sforzi del governo israeliano per consolidare la sua occupazione e per la pulizia etnica della maggior parte della popolazione palestinese in quell’area, come preludio necessario all’espansione degli insediamenti coloniali esistenti o alla costruzione di nuovi.
In questi mesi è emerso come Israele non possa sconfiggere militarmente il movimento libanese Hezbollah, né affrontare l’Iran senza il sostegno militare americano. Gli Usa, in periodo pre-elettorale, non vorrebbero trovarsi tra i piedi un conflitto regionale in Medio Oriente e agiscono per impedirlo sia tramite la deterrenza militare nell’area (vedi le portaerei inviate) sia prendendo tempo agitando la foglia di fico dei negoziati che lasciano comunque mano libera a Israele per attaccare a Gaza e Cisgiordania ma anche in Libano e Siria.
Ed è proprio perchè le prospettive di una guerra regionale – per la quale Netanyahu ha agito – rimangono deboli, Israele ha deciso di intensificare gli attacchi in quello che percepisce come il ventre molle della resistenza palestinese, la Cisgiordania.
La resistenza in Cisgiordania, anche se determinata, è in gran parte isolata a causa delle pressioni combinate imposte dall’esercito israeliano, dai coloni ebrei e dall’Autorità Nazionale Palestinese che rimane attaccata ad una funzione e ad una illusione diplomatica che non esistono più.
L’ipotesi dei due popoli per due stati è ormai uno specchietto per le allodole senza più alcuna possibilità politica né materiale di essere realizzata in questo scenario.
Il gabinetto di sicurezza israeliano ha intanto votato a larga maggioranza ieri sera per sostenere la posizione del primo ministro Benjamin Netanyahu a favore del mantenimento dell’esercito nel Corridoio Philadelphia a Gaza (senza dimenticare l’altro corridoio di Netzarim), nel quadro di un eventuale accordo sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi ancora in fase di negoziazione. Lo riferisce il quotidiano israeliano Times of Israel, citando un alto funzionario dell’ufficio del premier, secondo cui ai ministri è stato chiesto di approvare una serie di mappe che l’esercito ha elaborato, che mostrano come Israele intende mantenere la sua presenza di truppe nello stretto tratto di 9 miglia (circa 15 chilometri) lungo il confine tra Egitto e Gaza. Queste mappe sono già state adottate dagli Stati Uniti, afferma il funzionario.
A conferma che gli USA non sono un soggetto credibile per arbitrare un negoziato degno di questo nome sul futuro della Palestina, la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, Kamala Harris, ha ribadito il suo sostegno “incrollabile” alla difesa di Israele e al suo diritto a “proteggersi: e questo non cambierà”. Durante una intervista con l’emittente CNN, la candidata democratica ha come al solito recitato il refrain ipocrita della necessità di una soluzione a due Stati nel conflitto in corso nella Striscia di Gaza, mentre gli USA continuano a fornire armamenti e copertura militare a Israele e ad assecondare un negoziato del tutto effimero.
Chi oggi parla di due stati per due popoli senza agire concretamente contro i piani di annessione israeliani dei territori palestinesi sta mentendo, sapendo bene di mentire.
Fonte
Il Bangladesh seguirà la strada dell’Egitto, dove i militari sono al potere da un decennio?
Il giorno dopo che l’ex primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina ha lasciato Dacca, ero al telefono con un amico che aveva trascorso un po’ di tempo in strada quel giorno. Mi ha raccontato dell’atmosfera che si respirava in città, di come persone con poca esperienza politica si fossero unite alle grandi proteste accanto agli studenti, che sembravano guidare l’agitazione.
Gli ho chiesto dell’infrastruttura politica degli studenti e del loro orientamento politico. Mi ha risposto che le proteste sembravano ben organizzate e che gli studenti avevano intensificato le loro richieste, dall'abolizione di alcune quote per i posti di lavoro statali alla fine del governo di Sheikh Hasina. Anche poche ore prima che lasciasse il Paese, non sembrava che questo sarebbe stato il risultato. Tutti, mi ha detto, avevano previsto più violenza da parte del governo.
Le proteste di quest’anno in Bangladesh non sono le prime. Fanno parte di un ciclo di proteste iniziato almeno un decennio fa, i cui temi (fine delle quote, migliore trattamento degli studenti, minore repressione da parte del governo) sono simili. Non si tratta di semplici proteste con semplici richieste che possono essere facilmente affrontate.
Le richieste – come l'abolizione delle quote – riportano il Bangladesh a ciò che l’élite ha cercato disperatamente di reprimere: la brutta storia delle origini del Paese. Le quote sono destinate ai combattenti per la libertà che hanno rischiato la vita per combattere l’esercito pakistano nel 1971 e che hanno ottenuto l’indipendenza del Bangladesh.
Se è vero che tali quote non dovrebbero essere mantenute per generazioni, è anche vero che la questione delle quote è legata in parte ai problemi di occupazione dei giovani istruiti e in parte alla riaffermazione delle forze islamiste in Bangladesh, compromesse dalla loro associazione con la violenza pakistana durante la guerra di indipendenza.
Durante le mobilitazione del movimento anti-quote del 2018, il governo di Sheikh Hasina decise di cancellare il sistema. Tuttavia l’Alta Corte ha sostenuto che le quote dovevano essere ripristinate, ma la Corte Suprema – nel giugno 2024 – ha deciso che le quote non sarebbero state ripristinate completamente, ma solo in parte (il 7% per i figli dei combattenti per la libertà, e non il 30%). Questo è stato lo stimolo per un nuovo movimento di protesta. Il movimento ha preso di mira il governo di Sheikh Hasina piuttosto che i tribunali.
Piazza Shahbag
Un decennio fa, a Dacca si è svolta una protesta di massa in piazza Shahbag. La gente si è riunita per protestare contro la decisione dei tribunali - ritenuta insufficiente - di condannare all’ergastolo Abdul Quader Mollah, riconosciuto personalmente colpevole di aver ucciso 344 persone durante il genocidio del 1971 nel Pakistan orientale.
Quader Mollah era un leader del partito fondamentalista Jamaat-e-Islami, che aveva collaborato con l’esercito pakistano anche nei giorni peggiori della violenza in questa parte dell’allora Pakistan. Nonostante il verdetto, Quader Mollah fu condannato all’ergastolo e, uscendo dal tribunale, fece un segno di vittoria ai jamaati, i membri di Jamaat-e-Islami.
Milioni di persone sono state irritate dall’arroganza di Quader Mollah. Per una protesta nata intorno a una richiesta raccapricciante (la pena di morte), la gente sembrava ottimista nei confronti del proprio Paese. L’entusiasmo era contagioso. “Distruggiamo tutti i poteri malvagi. Continuiamo lo slancio del movimento di Shahbag. Svolgiamo i nostri ruoli. Costruiamo la nazione. Sappiamo come sconfiggere i nostri nemici”, ha detto Shohag Mostafij, un professionista dello sviluppo di Dacca.
A Shahbag ho chiesto alle persone se fossero state motivate dalla Primavera araba che si era svolta due anni prima. Aziza Ahmed, uno dei giovani che ha aiutato a costruire le proteste di Shahbag, ha detto che non è stato “un impulso a seguire le orme della Primavera araba o di Occupy Wall Street”.
Tuttavia, questi eventi hanno fornito l’ispirazione, anche se le proteste sono iniziate a causa dei post sui blog contro il verdetto (molti di questi blogger hanno affrontato l’ira dell’ala islamista due anni dopo, quando alcuni di loro sono stati uccisi). I giovani blogger e persone come Aziza Ahmed hanno permesso di interpretare le proteste come un movimento giovanile (infatti, Shahbag è stato spesso chiamato “piazza della generazione” o “Projonmo Chottor” in Bangla in riferimento ai giovani).
Ma, in realtà, Shahbag portava in sé un profondo odio contro la Jamaat-e-Islami fin dal 1971. Nella piazza è stato usato un linguaggio duro contro i jamaiti che avevano collaborato con l’esercito pakistano, compresi gli appelli alla loro morte.
Né le proteste di Shahbag del 2013 né quelle del 2018 per la sicurezza stradale sono giunte a una soluzione. La rabbia è rimasta in superficie, per poi riaffermarsi nel 2024 con il nuovo verdetto della Corte Suprema. Grandi proteste sono scese in piazza contro le quote, coinvolgendo forze sociali come gli studenti che dovevano affrontare la disoccupazione e coloro che non avevano legami ancestrali con i combattenti per la libertà (compresi i jamaiti).
Proteste di questo tipo sono prevedibili, anche se le loro conseguenze sono imprevedibili. Fino al pomeriggio precedente la fuga di Sheikh Hasina, non era chiaro se questa si sarebbe effettivamente verificata. Lo stato d’animo ha replicato la situazione del Cairo nel 2011, quando il presidente Hosni Mubarak ha prima dichiarato che non si sarebbe ricandidato (10 febbraio) e poi quando è stato annunciato che si era già dimesso e avrebbe lasciato il Paese per l’Arabia Saudita (11 febbraio).
Dal Cairo a Dacca
Dopo che Mubarak ha lasciato il Cairo, i militari hanno preso il comando dell’Egitto. La popolazione di Piazza Tahrir, il principale luogo di protesta, ha cercato protezione dietro una figura nota al mondo, Mohamed El Baradei, il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. I militari, tuttavia, sono stati costretti a convocare un’assemblea costituzionale e a indire le elezioni nel 2012. Queste elezioni hanno portato al potere i Fratelli Musulmani, che erano stati la forza più organizzata della politica egiziana.
Nel 2013, i militari hanno rovesciato il governo della Fratellanza e hanno messo in piedi quella che sembrava essere una leadership civile. In quell’occasione, hanno nominato El Baradei come vicepresidente, ma il suo mandato è durato solo dal luglio all’agosto 2013. I militari hanno sospeso la costituzione del 2012 e hanno messo alla presidenza uno dei loro, prima in uniforme e poi in giacca e cravatta. Quest’uomo – il generale, ora presidente Abdel Fattah el-Sisi – è al potere da un decennio. Molti dei leader di Tahrir languono in prigione, la loro generazione è demoralizzata.
L’El Baradei della situazione del Bangladesh è Muhammad Yunus, premio Nobel e fondatore della Grameen Bank (un programma di microcredito per le donne povere che utilizza le idee di vergogna come garanzia, che ha fatto guadagnare molto ai banchieri, in gran parte uomini). Yunus ha messo insieme un gabinetto composto da funzionari neoliberali provenienti dalla burocrazia del Bangladesh, dal mondo accademico e dal settore delle organizzazioni non governative.
Il ministero delle Finanze, ad esempio, è affidato a Salehuddin Ahmed, ex governatore della Banca del Bangladesh, che applicherà in modo affidabile la politica economica neoliberista. Sarà perfettamente a suo agio in una conversazione con il neo-ministro delle Finanze egiziano, Ahmed Kouchouk, che era un economista senior della Banca Mondiale. Nessun programma progressista può provenire da questo tipo di ministeri delle Finanze, tanto meno un programma che stabilisca l’integrità dell’economia nazionale.
Per ora, i militari del Bangladesh restano nelle caserme. Ma l’atteggiamento di repressione non si è attenuato, è cambiato solo l’indirizzo degli arresti. Il governo di Yunus ha perseguito i membri del governo di Sheikh Hasina con arresti con accuse che includono l’omicidio.
Ogni giorno i giornali del Bangladesh annunciano nuovi arresti, tutti con accuse diverse. La Lega Awami di Sheikh Hasina è stata sventrata e lei stessa ha perso il diritto di viaggiare con un passaporto diplomatico. Rashed Khan Menon, leader del Partito dei Lavoratori del Bangladesh, è stato arrestato con l’accusa di omicidio; Shakib Al Hasan, che attualmente si trova in Pakistan per giocare a cricket per il Bangladesh ed è un membro dell’Awami League, è accusato di omicidio per la morte di un manifestante il 5 agosto. Se questi casi siano fondati o meno è da vedere, ma la valanga di arresti di membri della Lega Awami di Sheikh Hasina e dei partiti associati appare come una marea di punizioni.
Nel frattempo, la Jamaat vede una resurrezione: una delle sue ali, l’Amar Bangladesh Party, è stata registrata come partito politico e molti dei suoi membri saranno probabilmente incaricati di dirigere diverse università. Per quanto si parli di un nuovo Bangladesh, il governo di Yunus ha chiuso due canali televisivi, Somoy TV e Green TV (che in precedenza erano stati boicottati dal Bangladesh National Party, il principale fronte di opposizione) e le sue autorità hanno arrestato Hashem Reza, l’editore di Amar Sangbad, e gli alti dipendenti di Ekattor TV, Shakil Ahmed e Farzana Rupa.
I settori liberali dell’élite del Bangladesh non sono turbati da questa ondata di repressione, il che suggerisce che il loro liberalismo è più politico che di principio. La primavera del Bangladesh sembra avviarsi rapidamente verso l’inverno.
Fonte
Gli ho chiesto dell’infrastruttura politica degli studenti e del loro orientamento politico. Mi ha risposto che le proteste sembravano ben organizzate e che gli studenti avevano intensificato le loro richieste, dall'abolizione di alcune quote per i posti di lavoro statali alla fine del governo di Sheikh Hasina. Anche poche ore prima che lasciasse il Paese, non sembrava che questo sarebbe stato il risultato. Tutti, mi ha detto, avevano previsto più violenza da parte del governo.
Le proteste di quest’anno in Bangladesh non sono le prime. Fanno parte di un ciclo di proteste iniziato almeno un decennio fa, i cui temi (fine delle quote, migliore trattamento degli studenti, minore repressione da parte del governo) sono simili. Non si tratta di semplici proteste con semplici richieste che possono essere facilmente affrontate.
Le richieste – come l'abolizione delle quote – riportano il Bangladesh a ciò che l’élite ha cercato disperatamente di reprimere: la brutta storia delle origini del Paese. Le quote sono destinate ai combattenti per la libertà che hanno rischiato la vita per combattere l’esercito pakistano nel 1971 e che hanno ottenuto l’indipendenza del Bangladesh.
Se è vero che tali quote non dovrebbero essere mantenute per generazioni, è anche vero che la questione delle quote è legata in parte ai problemi di occupazione dei giovani istruiti e in parte alla riaffermazione delle forze islamiste in Bangladesh, compromesse dalla loro associazione con la violenza pakistana durante la guerra di indipendenza.
Durante le mobilitazione del movimento anti-quote del 2018, il governo di Sheikh Hasina decise di cancellare il sistema. Tuttavia l’Alta Corte ha sostenuto che le quote dovevano essere ripristinate, ma la Corte Suprema – nel giugno 2024 – ha deciso che le quote non sarebbero state ripristinate completamente, ma solo in parte (il 7% per i figli dei combattenti per la libertà, e non il 30%). Questo è stato lo stimolo per un nuovo movimento di protesta. Il movimento ha preso di mira il governo di Sheikh Hasina piuttosto che i tribunali.
Piazza Shahbag
Un decennio fa, a Dacca si è svolta una protesta di massa in piazza Shahbag. La gente si è riunita per protestare contro la decisione dei tribunali - ritenuta insufficiente - di condannare all’ergastolo Abdul Quader Mollah, riconosciuto personalmente colpevole di aver ucciso 344 persone durante il genocidio del 1971 nel Pakistan orientale.
Quader Mollah era un leader del partito fondamentalista Jamaat-e-Islami, che aveva collaborato con l’esercito pakistano anche nei giorni peggiori della violenza in questa parte dell’allora Pakistan. Nonostante il verdetto, Quader Mollah fu condannato all’ergastolo e, uscendo dal tribunale, fece un segno di vittoria ai jamaati, i membri di Jamaat-e-Islami.
Milioni di persone sono state irritate dall’arroganza di Quader Mollah. Per una protesta nata intorno a una richiesta raccapricciante (la pena di morte), la gente sembrava ottimista nei confronti del proprio Paese. L’entusiasmo era contagioso. “Distruggiamo tutti i poteri malvagi. Continuiamo lo slancio del movimento di Shahbag. Svolgiamo i nostri ruoli. Costruiamo la nazione. Sappiamo come sconfiggere i nostri nemici”, ha detto Shohag Mostafij, un professionista dello sviluppo di Dacca.
A Shahbag ho chiesto alle persone se fossero state motivate dalla Primavera araba che si era svolta due anni prima. Aziza Ahmed, uno dei giovani che ha aiutato a costruire le proteste di Shahbag, ha detto che non è stato “un impulso a seguire le orme della Primavera araba o di Occupy Wall Street”.
Tuttavia, questi eventi hanno fornito l’ispirazione, anche se le proteste sono iniziate a causa dei post sui blog contro il verdetto (molti di questi blogger hanno affrontato l’ira dell’ala islamista due anni dopo, quando alcuni di loro sono stati uccisi). I giovani blogger e persone come Aziza Ahmed hanno permesso di interpretare le proteste come un movimento giovanile (infatti, Shahbag è stato spesso chiamato “piazza della generazione” o “Projonmo Chottor” in Bangla in riferimento ai giovani).
Ma, in realtà, Shahbag portava in sé un profondo odio contro la Jamaat-e-Islami fin dal 1971. Nella piazza è stato usato un linguaggio duro contro i jamaiti che avevano collaborato con l’esercito pakistano, compresi gli appelli alla loro morte.
Né le proteste di Shahbag del 2013 né quelle del 2018 per la sicurezza stradale sono giunte a una soluzione. La rabbia è rimasta in superficie, per poi riaffermarsi nel 2024 con il nuovo verdetto della Corte Suprema. Grandi proteste sono scese in piazza contro le quote, coinvolgendo forze sociali come gli studenti che dovevano affrontare la disoccupazione e coloro che non avevano legami ancestrali con i combattenti per la libertà (compresi i jamaiti).
Proteste di questo tipo sono prevedibili, anche se le loro conseguenze sono imprevedibili. Fino al pomeriggio precedente la fuga di Sheikh Hasina, non era chiaro se questa si sarebbe effettivamente verificata. Lo stato d’animo ha replicato la situazione del Cairo nel 2011, quando il presidente Hosni Mubarak ha prima dichiarato che non si sarebbe ricandidato (10 febbraio) e poi quando è stato annunciato che si era già dimesso e avrebbe lasciato il Paese per l’Arabia Saudita (11 febbraio).
Dal Cairo a Dacca
Dopo che Mubarak ha lasciato il Cairo, i militari hanno preso il comando dell’Egitto. La popolazione di Piazza Tahrir, il principale luogo di protesta, ha cercato protezione dietro una figura nota al mondo, Mohamed El Baradei, il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. I militari, tuttavia, sono stati costretti a convocare un’assemblea costituzionale e a indire le elezioni nel 2012. Queste elezioni hanno portato al potere i Fratelli Musulmani, che erano stati la forza più organizzata della politica egiziana.
Nel 2013, i militari hanno rovesciato il governo della Fratellanza e hanno messo in piedi quella che sembrava essere una leadership civile. In quell’occasione, hanno nominato El Baradei come vicepresidente, ma il suo mandato è durato solo dal luglio all’agosto 2013. I militari hanno sospeso la costituzione del 2012 e hanno messo alla presidenza uno dei loro, prima in uniforme e poi in giacca e cravatta. Quest’uomo – il generale, ora presidente Abdel Fattah el-Sisi – è al potere da un decennio. Molti dei leader di Tahrir languono in prigione, la loro generazione è demoralizzata.
L’El Baradei della situazione del Bangladesh è Muhammad Yunus, premio Nobel e fondatore della Grameen Bank (un programma di microcredito per le donne povere che utilizza le idee di vergogna come garanzia, che ha fatto guadagnare molto ai banchieri, in gran parte uomini). Yunus ha messo insieme un gabinetto composto da funzionari neoliberali provenienti dalla burocrazia del Bangladesh, dal mondo accademico e dal settore delle organizzazioni non governative.
Il ministero delle Finanze, ad esempio, è affidato a Salehuddin Ahmed, ex governatore della Banca del Bangladesh, che applicherà in modo affidabile la politica economica neoliberista. Sarà perfettamente a suo agio in una conversazione con il neo-ministro delle Finanze egiziano, Ahmed Kouchouk, che era un economista senior della Banca Mondiale. Nessun programma progressista può provenire da questo tipo di ministeri delle Finanze, tanto meno un programma che stabilisca l’integrità dell’economia nazionale.
Per ora, i militari del Bangladesh restano nelle caserme. Ma l’atteggiamento di repressione non si è attenuato, è cambiato solo l’indirizzo degli arresti. Il governo di Yunus ha perseguito i membri del governo di Sheikh Hasina con arresti con accuse che includono l’omicidio.
Ogni giorno i giornali del Bangladesh annunciano nuovi arresti, tutti con accuse diverse. La Lega Awami di Sheikh Hasina è stata sventrata e lei stessa ha perso il diritto di viaggiare con un passaporto diplomatico. Rashed Khan Menon, leader del Partito dei Lavoratori del Bangladesh, è stato arrestato con l’accusa di omicidio; Shakib Al Hasan, che attualmente si trova in Pakistan per giocare a cricket per il Bangladesh ed è un membro dell’Awami League, è accusato di omicidio per la morte di un manifestante il 5 agosto. Se questi casi siano fondati o meno è da vedere, ma la valanga di arresti di membri della Lega Awami di Sheikh Hasina e dei partiti associati appare come una marea di punizioni.
Nel frattempo, la Jamaat vede una resurrezione: una delle sue ali, l’Amar Bangladesh Party, è stata registrata come partito politico e molti dei suoi membri saranno probabilmente incaricati di dirigere diverse università. Per quanto si parli di un nuovo Bangladesh, il governo di Yunus ha chiuso due canali televisivi, Somoy TV e Green TV (che in precedenza erano stati boicottati dal Bangladesh National Party, il principale fronte di opposizione) e le sue autorità hanno arrestato Hashem Reza, l’editore di Amar Sangbad, e gli alti dipendenti di Ekattor TV, Shakil Ahmed e Farzana Rupa.
I settori liberali dell’élite del Bangladesh non sono turbati da questa ondata di repressione, il che suggerisce che il loro liberalismo è più politico che di principio. La primavera del Bangladesh sembra avviarsi rapidamente verso l’inverno.
Fonte
Lo stato comatoso della sanità italiana alla vigilia della prossima finanziaria
Oggi ci sarà il vertice di maggioranza che segnerà il primo passo verso l’approvazione della prossima finanziaria. Sono tanti i temi sul piatto, innanzitutto l’aggiustamento del debito richiesto dalla UE, dopo l’apertura della procedura di infrazione qualche mese fa: 10 miliardi di tagli l’anno, per sette anni.
I governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno tagliato ovunque e tutto il possibile, perciò ormai qualsiasi altra sforbiciata può significare il collasso dei servizi pubblici. È quello che può accadere alla sanità, che già verrà spacchettata con l’autonomia differenziata, lasciando definitivamente il campo ai profitti privati nel settore.
Il ministro della Salute Schillaci ha promesso nuove risorse per la valorizzazione del personale, anche se sembra difficile visti i vincoli che il governo dovrà rispettare. Soprattutto considerato il fatto che il famigerato decreto sulle liste d’attesa è da poco passato quasi a costo zero, con fondi irrisori o recuperati da soldi già stanziati.
Eppure, tale è la parola di Schillaci, e allora il presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, ha rilanciato sulla questione, chiedendo 10 miliardi per i professionisti della salute. Insomma, la stessa cifra che Bruxelles chiede invece di tagliare.
Questi soldi, sulla sanità, il governo non li metterà mai. E se troverà qualcosa da dare al settore probabilmente sarà più interessato a fare in modo che siano utili a fissare una volta per tutte i Livelli Essenziali di Prestazioni, finanziariamente impraticabili ora come ora, piuttosto che per assunzioni o altre misure del genere.
Questo anche Anelli lo sa, ma è normale che una categoria spinga sulla tutela dei propri interessi quando Palazzo Chigi dovrà definire le prossime previsioni di spesa di un triennio circa. Quello che è interessante è l’insieme di motivazioni e di dati che Anelli associa alle sue dichiarazioni, utili anche per farsi un’idea delle condizioni del Servizio Sanitario Nazionale.
In gioco, infatti, c’è la sua sopravvivenza, come da anni viene denunciato da più parti, e in particolare dai rapporti della Fondazione Gimbe. I numeri che Anelli riporta, ripresi dal rapporto congiunto tra la sua Federazione e il Censis pubblicato lo scorso mese, palesano una condizione critica e la coscienza che ne hanno i cittadini.
“Per l’87,2% dei cittadini”, dice Anelli, “è prioritario migliorare le condizioni di lavoro e le retribuzioni dei medici, proprio perché li considerano la risorsa più importante della sanità”.
“Per il 92,5% occorre assumere subito medici e infermieri nel Servizio sanitario, anche per dare un taglio rapido alle liste di attesa, mentre l’84,5% è convinto che avere troppi medici con contratti temporanei indebolisce la sanità”.
“Numeri, questi, che fanno il paio con un recente sondaggio condotto dall’Istituto Piepoli: per il 90% dei cittadini, la sanità deve essere una priorità del Governo nella Finanziaria. Per il 37%, merita addirittura il primo posto”.
Non mancano poi i dati su chi rinuncia a curarsi, perché ormai è diventato troppo costoso. Anelli ha ricordato che “sono 4 milioni e mezzo, secondo gli ultimi dati Istat, i cittadini che rinunciano alle cure: l’equivalente degli abitanti dell’Emilia-Romagna. Se non agiamo subito, a breve diventeranno oltre il doppio, tanti quanti i dieci milioni che popolano la Lombardia”.
Un messaggio allarmante, che anticipa la riflessione di Anelli sulla logica secondo la quale il nostro SSN dovrebbe funzionare: “quasi il 92% [dei cittadini] considera la sanità per tutti quale motivo di orgoglio per il Paese e distintività a livello internazionale”.
E infine, la conclusione sulle speranze disattese dopo la pandemia: “l’83,6% dichiara esplicitamente che, dopo l’esperienza traumatica del Covid, si aspettava molte più risorse e un impegno più intenso per potenziare la sanità”.
In poche parole, al di là delle richieste sul personale, non c’è più una voce nel paese che non sappia che la sanità pubblica è stata martoriata per anni, fino al collasso. I cittadini sono stufi, e voglio un cambio di rotta... che non potrà però venire di certo da uno dei governi più ligi di sempre ai diktat europei.
Fonte
I governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno tagliato ovunque e tutto il possibile, perciò ormai qualsiasi altra sforbiciata può significare il collasso dei servizi pubblici. È quello che può accadere alla sanità, che già verrà spacchettata con l’autonomia differenziata, lasciando definitivamente il campo ai profitti privati nel settore.
Il ministro della Salute Schillaci ha promesso nuove risorse per la valorizzazione del personale, anche se sembra difficile visti i vincoli che il governo dovrà rispettare. Soprattutto considerato il fatto che il famigerato decreto sulle liste d’attesa è da poco passato quasi a costo zero, con fondi irrisori o recuperati da soldi già stanziati.
Eppure, tale è la parola di Schillaci, e allora il presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, ha rilanciato sulla questione, chiedendo 10 miliardi per i professionisti della salute. Insomma, la stessa cifra che Bruxelles chiede invece di tagliare.
Questi soldi, sulla sanità, il governo non li metterà mai. E se troverà qualcosa da dare al settore probabilmente sarà più interessato a fare in modo che siano utili a fissare una volta per tutte i Livelli Essenziali di Prestazioni, finanziariamente impraticabili ora come ora, piuttosto che per assunzioni o altre misure del genere.
Questo anche Anelli lo sa, ma è normale che una categoria spinga sulla tutela dei propri interessi quando Palazzo Chigi dovrà definire le prossime previsioni di spesa di un triennio circa. Quello che è interessante è l’insieme di motivazioni e di dati che Anelli associa alle sue dichiarazioni, utili anche per farsi un’idea delle condizioni del Servizio Sanitario Nazionale.
In gioco, infatti, c’è la sua sopravvivenza, come da anni viene denunciato da più parti, e in particolare dai rapporti della Fondazione Gimbe. I numeri che Anelli riporta, ripresi dal rapporto congiunto tra la sua Federazione e il Censis pubblicato lo scorso mese, palesano una condizione critica e la coscienza che ne hanno i cittadini.
“Per l’87,2% dei cittadini”, dice Anelli, “è prioritario migliorare le condizioni di lavoro e le retribuzioni dei medici, proprio perché li considerano la risorsa più importante della sanità”.
“Per il 92,5% occorre assumere subito medici e infermieri nel Servizio sanitario, anche per dare un taglio rapido alle liste di attesa, mentre l’84,5% è convinto che avere troppi medici con contratti temporanei indebolisce la sanità”.
“Numeri, questi, che fanno il paio con un recente sondaggio condotto dall’Istituto Piepoli: per il 90% dei cittadini, la sanità deve essere una priorità del Governo nella Finanziaria. Per il 37%, merita addirittura il primo posto”.
Non mancano poi i dati su chi rinuncia a curarsi, perché ormai è diventato troppo costoso. Anelli ha ricordato che “sono 4 milioni e mezzo, secondo gli ultimi dati Istat, i cittadini che rinunciano alle cure: l’equivalente degli abitanti dell’Emilia-Romagna. Se non agiamo subito, a breve diventeranno oltre il doppio, tanti quanti i dieci milioni che popolano la Lombardia”.
Un messaggio allarmante, che anticipa la riflessione di Anelli sulla logica secondo la quale il nostro SSN dovrebbe funzionare: “quasi il 92% [dei cittadini] considera la sanità per tutti quale motivo di orgoglio per il Paese e distintività a livello internazionale”.
E infine, la conclusione sulle speranze disattese dopo la pandemia: “l’83,6% dichiara esplicitamente che, dopo l’esperienza traumatica del Covid, si aspettava molte più risorse e un impegno più intenso per potenziare la sanità”.
In poche parole, al di là delle richieste sul personale, non c’è più una voce nel paese che non sappia che la sanità pubblica è stata martoriata per anni, fino al collasso. I cittadini sono stufi, e voglio un cambio di rotta... che non potrà però venire di certo da uno dei governi più ligi di sempre ai diktat europei.
Fonte
La Namibia vieta l’attracco a una nave di armi per Israele
La Namibia ha respinto la richiesta di attracco di una nave che si sospettava trasportasse esplosivi diretti a Israele. La MV Kathrin (questo il nome dell’imbarcazione) non ha ottenuto il permesso di entrare a Walvis Bay, il più importante porto commerciale del paese africano.
Yvonne Dausab, ministra della Giustizia namibiana, ha confermato che la decisione è stata presa con lo scopo di rispettare gli obblighi internazionali della Namibia e in sostegno al popolo palestinese. Il suo paese è, infatti, tra i paesi che si sono associati alla causa sudafricana contro il genocidio perpetrato da Israele.
Non si sa perché la MV Kathrin, che era partita dal Vietnam, abbia chiesto di approdare a Walvis Bay, ma è tipico che sulle lunghe tratte si facciano varie fermate. Namport, l’autorità portuale della Namibia, ha fatto sapere che non aveva ricevuto la documentazione necessaria ad autorizzare l’attracco.
Quello che è chiaro è che la nave stava percorrendo la circumnavigazione dell’Africa, e aveva evitato il Mar Rosso, presidiato dalle forze Houthi. Vari gruppi per i diritti umani avevano sollevato dubbi sul carico dell’imbarcazione, e la Namibia ha deciso di non fare azioni che potrebbero implicare complicità con crimini di guerra.
Dausab ha poi commentato: “la Namibia rispetta l’obbligo di non supportare o essere complice dei crimini di guerra israeliani, dei crimini contro l’umanità, del genocidio, nonché della sua occupazione illegale della Palestina”.
Herbert Jauch dell’Economic and Social Justice Trust (ESJT) ha detto: “siamo lieti che il nostro governo abbia deciso di rispettare il diritto internazionale e di non essere complice del genocidio”.
L’importanza di questo atto è, infatti, soprattutto nel mostrare come il contrasto alla pulizia etnica portata avanti da Israele sia un dovere internazionale. Quello della Namibia è un messaggio molto chiaro rispetto al comportamento delle potenze occidentali, che si ricordano del diritto internazionale solo quando gli fa comodo.
Fonte
Yvonne Dausab, ministra della Giustizia namibiana, ha confermato che la decisione è stata presa con lo scopo di rispettare gli obblighi internazionali della Namibia e in sostegno al popolo palestinese. Il suo paese è, infatti, tra i paesi che si sono associati alla causa sudafricana contro il genocidio perpetrato da Israele.
Non si sa perché la MV Kathrin, che era partita dal Vietnam, abbia chiesto di approdare a Walvis Bay, ma è tipico che sulle lunghe tratte si facciano varie fermate. Namport, l’autorità portuale della Namibia, ha fatto sapere che non aveva ricevuto la documentazione necessaria ad autorizzare l’attracco.
Quello che è chiaro è che la nave stava percorrendo la circumnavigazione dell’Africa, e aveva evitato il Mar Rosso, presidiato dalle forze Houthi. Vari gruppi per i diritti umani avevano sollevato dubbi sul carico dell’imbarcazione, e la Namibia ha deciso di non fare azioni che potrebbero implicare complicità con crimini di guerra.
Dausab ha poi commentato: “la Namibia rispetta l’obbligo di non supportare o essere complice dei crimini di guerra israeliani, dei crimini contro l’umanità, del genocidio, nonché della sua occupazione illegale della Palestina”.
Herbert Jauch dell’Economic and Social Justice Trust (ESJT) ha detto: “siamo lieti che il nostro governo abbia deciso di rispettare il diritto internazionale e di non essere complice del genocidio”.
L’importanza di questo atto è, infatti, soprattutto nel mostrare come il contrasto alla pulizia etnica portata avanti da Israele sia un dovere internazionale. Quello della Namibia è un messaggio molto chiaro rispetto al comportamento delle potenze occidentali, che si ricordano del diritto internazionale solo quando gli fa comodo.
Fonte
29/08/2024
Palestina - Due popoli due stati addio. Netanyahu punta alla soluzione finale
L’escalation di violenza delle forze armate israeliane contro i palestinesi anche in Cisgiordania, con tanto di diktat di sfollamento della popolazione di alcune aree, indica che il governo Netanyahu sta spingendo sull’acceleratore della annessione di tutti i territori palestinesi. Non solo Gaza dunque. Con questa operazione Israele intende liquidare definitivamente ogni ipotesi di uno stato palestinese sui territori della Cisgiordania rendendo impraticabile – e dunque una scatola vuota – ogni discorso sui “due stati per due popoli”. Anni di ipocrisia, inerzia e complicità della comunità internazionale vengono così smascherati e ridotti a nulla.
Le forze di occupazione israeliane hanno infatti iniziato la più grande operazione militare in Cisgiordania degli ultimi due decenni, presumibilmente per distruggere le infrastrutture della resistenza, mentre il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz ha chiesto l’attuazione dello scenario della Striscia di Gaza anche in Cisgiordania. Gli analisti affermano che Israele ha avviato un processo finale di sfollamento dei residenti in Cisgiordania, approfittando della debolezza palestinese, della complicità occidentale e dell’inazione araba, sottolineando che ciò che sta accadendo attualmente si estenderà non solo ai palestinesi all’interno del paese, ma anche ai paesi della regione.
Attraverso l’operazione, commenta Hassan Ayoub, professore di scienze politiche all’Università Nazionale An-Najah, Israele mira a sradicare tutto ciò che riguarda i palestinesi in Cisgiordania ed eliminare tutto ciò che darebbe loro l’opportunità di unirsi per stabilire il loro stato indipendente, e attualmente sta stabilendo una fase completamente nuova in Cisgiordania che sarà diversa da quella che ha prevalso in passato.
Un altro analista politico, Oraib Rantawi, commenta su Al Jazeera che “Se non fosse per la debolezza palestinese, in particolare per la debole posizione dell’Autorità Palestinese, che sta aspettando di ereditare coloro che saranno eliminati a Gaza, e se non fosse per la posizione lassista degli arabi e la posizione internazionale complice, soprattutto da parte dell’America, Netanyahu non avrebbe fatto quello che sta facendo oggi in Cisgiordania”.
Rantawi ha sottolineato che la paura dell’espansione della guerra è stata il principale motore della diplomazia negli ultimi giorni, aggiungendo: “Ora questa preoccupazione è diminuita molto con la risposta di Hezbollah, che è finita e la riluttanza dell’Iran a rispondere, e quindi Netanyahu si sente rassicurato nel suo agire, soprattutto alla luce della debole posizione palestinese”.
Sul campo intanto la resistenza palestinese in Cisgiordania sta dando filo da torcere alle incursioni dei militari israeliani. Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa (Fatah) affermano che i loro combattenti hanno respinto l’incursione delle forze di occupazione nel campo profughi di Balata, a est di Nablus. Le Brigate Abu Alì Mustafa (FPLP) dichiarano che i propri combattenti hanno preso di mira le forze israeliane che penetravano a Jenin con ordigni del tipo IED.
Fonte
Le forze di occupazione israeliane hanno infatti iniziato la più grande operazione militare in Cisgiordania degli ultimi due decenni, presumibilmente per distruggere le infrastrutture della resistenza, mentre il ministro degli Esteri israeliano Yisrael Katz ha chiesto l’attuazione dello scenario della Striscia di Gaza anche in Cisgiordania. Gli analisti affermano che Israele ha avviato un processo finale di sfollamento dei residenti in Cisgiordania, approfittando della debolezza palestinese, della complicità occidentale e dell’inazione araba, sottolineando che ciò che sta accadendo attualmente si estenderà non solo ai palestinesi all’interno del paese, ma anche ai paesi della regione.
Attraverso l’operazione, commenta Hassan Ayoub, professore di scienze politiche all’Università Nazionale An-Najah, Israele mira a sradicare tutto ciò che riguarda i palestinesi in Cisgiordania ed eliminare tutto ciò che darebbe loro l’opportunità di unirsi per stabilire il loro stato indipendente, e attualmente sta stabilendo una fase completamente nuova in Cisgiordania che sarà diversa da quella che ha prevalso in passato.
Un altro analista politico, Oraib Rantawi, commenta su Al Jazeera che “Se non fosse per la debolezza palestinese, in particolare per la debole posizione dell’Autorità Palestinese, che sta aspettando di ereditare coloro che saranno eliminati a Gaza, e se non fosse per la posizione lassista degli arabi e la posizione internazionale complice, soprattutto da parte dell’America, Netanyahu non avrebbe fatto quello che sta facendo oggi in Cisgiordania”.
Rantawi ha sottolineato che la paura dell’espansione della guerra è stata il principale motore della diplomazia negli ultimi giorni, aggiungendo: “Ora questa preoccupazione è diminuita molto con la risposta di Hezbollah, che è finita e la riluttanza dell’Iran a rispondere, e quindi Netanyahu si sente rassicurato nel suo agire, soprattutto alla luce della debole posizione palestinese”.
Sul campo intanto la resistenza palestinese in Cisgiordania sta dando filo da torcere alle incursioni dei militari israeliani. Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa (Fatah) affermano che i loro combattenti hanno respinto l’incursione delle forze di occupazione nel campo profughi di Balata, a est di Nablus. Le Brigate Abu Alì Mustafa (FPLP) dichiarano che i propri combattenti hanno preso di mira le forze israeliane che penetravano a Jenin con ordigni del tipo IED.
Fonte
La Nato istiga Kyev a bombardare la Russia. I guerrafondai si fomentano tra loro
“Dobbiamo continuare a fornire all’Ucraina l’equipaggiamento e le munizioni di cui ha bisogno per difendersi dall’invasione russa. Ciò è vitale affinché l’Ucraina possa rimanere combattiva”, ha sottolineato in una nota il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, davanti agli ambasciatori dell’Alleanza ieri al termine del Consiglio Nato-Ucraina richiesto da Kiev. Secondo una fonte diplomatica citata dalla France Presse, alcuni Stati membri hanno anche chiesto la revoca delle limitazioni all’uso delle armi pesanti sul territorio russo, come richiesto dal presidente ucraino Zelensky.
Zelensky chiederà a entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti di rimuovere le limitazioni che impediscono a Kiev di usare le armi a lungo raggio in profondità in territorio russo, in particolare gli Atacms di fabbricazione statunitense e i missili Storm Shadow di fabbricazione britannica. Per questa ragione – rivela il giornale statunitense Politico – il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov e il consigliere di Zelensky, Andriy Yermak, presenteranno agli Stati Uniti una lista di obiettivi a lungo raggio da colpire in Russia.
Per avere una idea chiara dell’avventurismo dei vertici militari ucraini, sono emblematici alcuni passaggi di una intervista rilasciata al quotidiano La Stampa da Roman Kostenko detto “Cyborg”, capo di una divisione di forze speciali di Kyev.
Alla domanda se la centrale nucleare russa di Kurchatov sia un obiettivo risponde: “Certo, ma non ci siamo ancora arrivati. Se riuscissimo a tenere sotto controllo le centrali atomiche russe, come loro fanno con Zaporizhzhia, questo darebbe parità al percorso della guerra”. In altro passaggio afferma con una sorta di arrogante follia: “Intanto, segnate, siamo l’unico Paese al mondo ad aver attaccato uno Stato nucleare”. Affermazione tra l’altro non esatta, visto che anche Israele – uno stato nucleare – è stata attaccata dalla Resistenza palestinese.
Se si mettono armi potenti in mano a gente come questa, la terza guerra mondiale non diventa più uno scenario distopico ma una certezza.
Fonte
Zelensky chiederà a entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti di rimuovere le limitazioni che impediscono a Kiev di usare le armi a lungo raggio in profondità in territorio russo, in particolare gli Atacms di fabbricazione statunitense e i missili Storm Shadow di fabbricazione britannica. Per questa ragione – rivela il giornale statunitense Politico – il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov e il consigliere di Zelensky, Andriy Yermak, presenteranno agli Stati Uniti una lista di obiettivi a lungo raggio da colpire in Russia.
Per avere una idea chiara dell’avventurismo dei vertici militari ucraini, sono emblematici alcuni passaggi di una intervista rilasciata al quotidiano La Stampa da Roman Kostenko detto “Cyborg”, capo di una divisione di forze speciali di Kyev.
Alla domanda se la centrale nucleare russa di Kurchatov sia un obiettivo risponde: “Certo, ma non ci siamo ancora arrivati. Se riuscissimo a tenere sotto controllo le centrali atomiche russe, come loro fanno con Zaporizhzhia, questo darebbe parità al percorso della guerra”. In altro passaggio afferma con una sorta di arrogante follia: “Intanto, segnate, siamo l’unico Paese al mondo ad aver attaccato uno Stato nucleare”. Affermazione tra l’altro non esatta, visto che anche Israele – uno stato nucleare – è stata attaccata dalla Resistenza palestinese.
Se si mettono armi potenti in mano a gente come questa, la terza guerra mondiale non diventa più uno scenario distopico ma una certezza.
Fonte
Telegram. Incriminato e scarcerato Durov. La guerra per il controllo dei social
Gli amministratori delegati di Tim, Vodafone, Iliad, Fastweb sono stati arrestati poiché alcuni boss del crimine organizzato utilizzano le loro compagnie telefoniche per comunicare tra loro con i cellulari. Dovrebbe essere questo il titolo di apertura dei giornali dei prossimi giorni se la giustizia francese o italiana agissero in coerenza con le accuse che hanno portato all’arresto nei giorni scorsi del ceo di Telegram, Pavel Durov.
Sono infatti sei i capi d’imputazione di cui è stato ufficialmente accusato dalla procura di Parigi l’oligarca franco-russo Pavel Durov, fondatore e amministratore delegato di Telegram.
Durov è stato arrestato all’aeroporto Le Bourget di Parigi lo scorso 24 agosto. Secondo la Procura di Parigi è stato arrestato per la mancanza di attività di moderazione sulla sua app di messaggistica istantanea, così come per non aver collaborato nella lotta al traffico di droga e nella diffusione di contenuti pedopornografici. L’arresto è avvenuto “come parte di un’inchiesta giudiziaria aperta l’8 luglio”, ha spiegato la Procura.
Ieri pomeriggio Durov è stato interrogato da due magistrati che, secondo un comunicato stampa del procuratore di Parigi Laure Beccuau, lo hanno incriminato dopo diverse ore di interrogatorio per i reati di: “rifiuto di comunicare le informazioni necessarie alle intercettazioni autorizzate dalla legge”, complicità in vari crimini perpetrati attraverso l’utilizzo dell’app di messaggistica istantanea – traffico di stupefacenti; reati su minori; frode; e riciclaggio di denaro – e “fornitura di servizi di crittografia volti a garantire funzioni di riservatezza senza dichiarazione conforme”.
Durov è stato anche rilasciato in seguito al pagamento di una cauzione di 5 milioni di euro ma gli è proibito lasciare la Francia e dovrà effettuare una registrazione presso una stazione di polizia francese due volte a settimana.
Parlando alla stampa presso il tribunale di Parigi, il suo avvocato David-Olivier Kaminski ha stimato che “è del tutto assurdo pensare che il gestore di un social network possa essere coinvolto in atti criminali che non lo riguardano, né direttamente né indirettamente”.
Non può mancare, infine, una osservazione di carattere tutto politico: in questo mondo pare che gli unici social network da limitare e criminalizzare siano TikTok e Telegram, cioè quelli che non sono sotto il controllo dei Big Data statunitensi come Meta, Google etc.
Sia negli USA che nell’Unione Europea le classi dominanti sono ormai terrorizzate dall’idea che dei canali di comunicazione sfuggano al loro controllo e propaganda. Ma hanno il coraggio di invocare la libertà di stampa per giustificare il bavaglio che stanno stringendo sulla fonti di informazioni alternative o diverse da quelle ufficiali o ufficialmente controllate... da loro.
Fonte
Sono infatti sei i capi d’imputazione di cui è stato ufficialmente accusato dalla procura di Parigi l’oligarca franco-russo Pavel Durov, fondatore e amministratore delegato di Telegram.
Durov è stato arrestato all’aeroporto Le Bourget di Parigi lo scorso 24 agosto. Secondo la Procura di Parigi è stato arrestato per la mancanza di attività di moderazione sulla sua app di messaggistica istantanea, così come per non aver collaborato nella lotta al traffico di droga e nella diffusione di contenuti pedopornografici. L’arresto è avvenuto “come parte di un’inchiesta giudiziaria aperta l’8 luglio”, ha spiegato la Procura.
Ieri pomeriggio Durov è stato interrogato da due magistrati che, secondo un comunicato stampa del procuratore di Parigi Laure Beccuau, lo hanno incriminato dopo diverse ore di interrogatorio per i reati di: “rifiuto di comunicare le informazioni necessarie alle intercettazioni autorizzate dalla legge”, complicità in vari crimini perpetrati attraverso l’utilizzo dell’app di messaggistica istantanea – traffico di stupefacenti; reati su minori; frode; e riciclaggio di denaro – e “fornitura di servizi di crittografia volti a garantire funzioni di riservatezza senza dichiarazione conforme”.
Durov è stato anche rilasciato in seguito al pagamento di una cauzione di 5 milioni di euro ma gli è proibito lasciare la Francia e dovrà effettuare una registrazione presso una stazione di polizia francese due volte a settimana.
Parlando alla stampa presso il tribunale di Parigi, il suo avvocato David-Olivier Kaminski ha stimato che “è del tutto assurdo pensare che il gestore di un social network possa essere coinvolto in atti criminali che non lo riguardano, né direttamente né indirettamente”.
Non può mancare, infine, una osservazione di carattere tutto politico: in questo mondo pare che gli unici social network da limitare e criminalizzare siano TikTok e Telegram, cioè quelli che non sono sotto il controllo dei Big Data statunitensi come Meta, Google etc.
Sia negli USA che nell’Unione Europea le classi dominanti sono ormai terrorizzate dall’idea che dei canali di comunicazione sfuggano al loro controllo e propaganda. Ma hanno il coraggio di invocare la libertà di stampa per giustificare il bavaglio che stanno stringendo sulla fonti di informazioni alternative o diverse da quelle ufficiali o ufficialmente controllate... da loro.
Fonte
Gaza - Negoziati inutili senza il “fantasma” Sinwar
Riproduciamo una interessante ricostruzione dei problemi e del contesto dei negoziati sulla tregua a Gaza curata dal giornale arabo edito in Gran Bretagna Al Rai Al Youm.
L’omicidio del negoziatore Hanyeh da parte di Israele ha complicato enormemente il processo decisionale di Hamas rendendo i negoziati una scatola sostanzialmente svuotata di un suo interlocutore decisivo. Senza Sinwar Hamas non può decidere i passaggi nei negoziati, ma Sinwar deve rimanere fantasma perché Israele lo ucciderebbe senza scrupolo alcuno. Un circolo vizioso che, esattamente come vuole Netanyahu, sta bloccando e facendo fallire i negoziati sul cessate il fuoco a Gaza.
L’omicidio del negoziatore Hanyeh da parte di Israele ha complicato enormemente il processo decisionale di Hamas rendendo i negoziati una scatola sostanzialmente svuotata di un suo interlocutore decisivo. Senza Sinwar Hamas non può decidere i passaggi nei negoziati, ma Sinwar deve rimanere fantasma perché Israele lo ucciderebbe senza scrupolo alcuno. Un circolo vizioso che, esattamente come vuole Netanyahu, sta bloccando e facendo fallire i negoziati sul cessate il fuoco a Gaza.
*****
I mediatori del Qatar e degli Stati Uniti hanno riferito di non aver ancora trovato un “modo efficace e produttivo” di alcun tipo per esercitare la pressione richiesta dall’amministrazione americana e da Israele sulla leadership del movimento Hamas, per ragioni “tecniche” e di altro tipo legate alla natura della comunicazione.
Gli americani hanno ripetutamente chiesto ai mediatori di fare pressione su Hamas affinché accetti la “proposta aggiornata” per colmare le lacune. Ma i circoli di mediazione in Qatar ed Egitto, invece, riferiscono che i rappresentanti di Hamas all’estero sono completamente “fuori dalla decisione” e che le pressioni su di loro non porteranno ad alcun risultato, sulla base del fatto che il Consiglio della Shura del movimento non ha ancora ricevuto le “raccomandazioni e autorizzazioni” del leader del movimento, Yahya Sinwar.
Sembra che da parte egiziana sia molto difficile comunicare con Sinwar o con i leader delle brigate a lui vicine nella Striscia di Gaza, mentre non esistono mandati diretti al Consiglio della Shura che consentano la presenza di “deputati a capo del movimento” all’estero che abbiano poteri decisionali in nome del leader del movimento o anche in nome del territorio della Striscia di Gaza.
Sinwar è completamente scomparso da quando si è svolto l’ultimo round di negoziati di Doha, al di fuori dei radar e dei consueti sistemi di comunicazione.
In pratica, i negoziati si svolgono senza la presenza di una “squadra che rappresenta la controparte”, il che li rende in pratica negoziati solo tra America, Israele e i mediatori arabi.
I leader dell’ufficio politico di Hamas presenti sia in Turchia che in Qatar informano i mediatori che ora non hanno più autorità di alcun tipo per condurre negoziati o rispondere in nome di Hamas, non solo perché Sinwar è “indisponibile” o “ fuori copertura”, ma poiché la leadership legittima non è stata delegata, non ha presentato raccomandazioni al Consiglio della Shura riguardo alla nomina di un “deputato di Sinwar” che potrebbe parlare nei negoziati.
I leader stranieri riferiscono inoltre che i “mandati e gli accordi” che consentono risposte negoziali non sono possibili secondo lo statuto del movimento se non dopo che “l’intero Consiglio della Shura sia convocato”.
Di conseguenza, Hamas invita i paesi mediatori a fornire strutture per riunire le risposte preventive al Consiglio della Shura.
Al-Sinwar non risponde né commenta in questa fase, e i leader stranieri informano i mediatori di Egitto e Qatar solo delle loro valutazioni e opinioni, e non hanno l’autorità di riferire alcuna decisione, soprattutto perché il più importante negoziatore di Hamas negli ultimi periodo, il dottor Khalil Al-Hayya, parla della sua disponibilità a “trasmettere solo osservazioni” e non a rappresentare la decisione della leadership del movimento a causa della mancanza di poteri diretti nelle sue mani.
Questo è il risultato del fatto che l'“autorità della leadership del movimento nella Striscia di Gaza” è stata costretta a nascondersi completamente alla vista a causa del ritorno degli omicidi israeliani e dell’intensità dei bombardamenti, e perché il comitato di sicurezza affiliato alla Joint Operations Room ha deciso che qualsiasi risposta dei comandanti sul campo agli “intermediari su telefoni cellulari”, in particolare dall’intelligence egiziana, sono stati ora banditi a causa dell’assassinio di diversi quadri tramite le telefonate egiziane.
Un funzionario diplomatico occidentale ha commentato al Cairo, dicendo che i negoziati si stanno svolgendo ora tra una delegazione israeliana e una delegazione americana, con mediatori e senza che un’altra parte stia effettivamente negoziando, e Sinwar si è trasformato in un “fantasma”. La proposta americana ha il dovere di cercare il fantasma.
Fonte
Francia - La sinistra si mobilita contro il disprezzo della volontà popolare di Macron
La decisione di Macron, questo lunedì, di scartare l’ipotesi di nominare un governo con a capo Lucie Castets scelta unitariamente dal Nuovo Fronte Popolare – ovvero la coalizione che ha ottenuto più deputati alle elezioni politiche anticipate francesi – ha inasprito la crisi politica apertasi con la decisione del Presidente della Repubblica di chiamare i francesi alle urne, comunicata la sera delle elezioni europee del 9 giugno.
La decisione di non nominare la Castets è stata giustificata con la motivazione piuttosto discutibile della “stabilità istituzionale”, perché un possibile governo del NFP sarebbe di minoranza, e potrebbe essere esposto ad una “mozione di sfiducia”. Una decisione politica, quella di Macron, che non ha nulla a che fare con il dettato costituzionale.
In primis, bisogna ricordare che gli esecutivi succedutisi dopo la rielezione di Macron – ottenuta grazie ai voti del “fronte repubblicano”, che non voleva vedere Marine Le Pen alla presidenza del paese – erano governi di “minoranza” che hanno preso decisioni importanti (come l’ampliamento dell’età pensionabile o una legge sull’immigrazione) appoggiandosi fondamentalmente ai voti dei gollisti di LR, ma anche quelli di RN della Le Pen.
Colui che voleva sbarrare la strada all’estrema destra, gli ha invece aperto un’autostrada, come dimostra l’exploit di RN.
Secondariamente, Macron non avrebbe infatti avuto alcun problema a conferire l’incarico alla coalizione di estrema destra imperniata sul Rassemblement Nationale, e che comprendeva la componente dei gollisti che aveva seguito il presidente di LR Eric Ciotti e l’ex transfuga del RN Maréchal, se la coalizione fosse stata la più votata dai francesi anche senza i 289 deputati necessari per avere la maggioranza in parlamento.
Terzo, ma non ultimo, è abbastanza surreale che un Presidente che ha minato la stabilità con una scelta presa senza consultazioni, neanche con il proprio campo, rispetto ad elezioni politiche anticipate, sacrifichi sul piano della governance la rappresentanza democratica.
Certo Macron “rompe” con il costume politico francese instaurato sull’architettura istituzionale della 5° Repubblica costruita nella seconda metà degli Anni Cinquanta, quando la Francia era in piena “guerra d’Algeria” in una situazione molto vicina alla guerra civile anche in territorio metropolitano.
Però è lo stesso Macron – che la sinistra per il suo comportamento ha cominciato ad etichettare “Mac-Macron” in riferimento a Mac Mahon – che alla fine si allinea al modus operandi della élite politica continentale con una verticale del potere che mette al primo posto la governabilità e l’immutabilità della cabina di comando, qualsiasi messaggio provenga delle urne.
È, mutatis mutandis, l’“output democracy” di Mario Draghi, e di fatto la continuazione dei consigli che la Trilateral dava già a metà Anni Settanta rispetto a quello che definiva essere un surplus di democrazia in Occidente in un momento di crisi di legittimità delle sue élite.
Oltre ad escludere un governo del NFP, nelle consultazioni, Macron ha deciso di escludere La France Insoumise dopo che era stata proprio questa – tramite il suo fondatore Jean-Luc Mélenchon – ad aprire ad un governo della Castets senza ministri o ministre insoumis/es: una strategia attuata illo tempore dal PCF, durante il Fronte Popolare della seconda metà degli Anni ’30.
Questo anche per bypassare i veti incrociati annunciati dai macronisti fino l’estrema destra passando per i gollisti, che avrebbero spinto ad una “mozione di sfiducia” rispetto ad un governo del NFP con ministri de La France Insoumise.
Ma è chiaro che il problema essenziale non è la presenza o meno di LFI nella compagine governativa, ma il programma economico del Nuovo Fronte Popolare che stabilirebbe una “rottura” con la politica liberista degli esecutivi precedenti, almeno degli ultimi sette anni, in un momento in cui il collare a strozzo della UE suggerisce il “congelamento” dei conti pubblici ed un mantenimento di una politica fiscale fortemente regressiva, nonostante un’economia che oscilla tra la stagnazione e la vera e propria recessione.
La France Insoumise aveva già minacciato di proporre una mozione di “destituzione” del presidente qualora non avesse nominato la Castets – una proposta non condivisa dai socialisti; ora la ripropone come uscita dalla crisi politica vista la chiara contrapposizione tra il potere rappresentativo dell’Assemblea e quello esecutivo presidenziale, insieme ad una prima mobilitazione il 7 settembre, sostenuta anche dal PCF e dagli ecologisti di EELV.
Bisogna ricordare che di fronte all’esclusione de LFI dalle consultazioni, gli altri componenti della coalizioni hanno risposto compatti, decidendo di non presentarsi alla convocazione, suscitando comunque il “malpancismo” della destra socialista da tempo sul piede di guerra contro la direzione di Olivier Faure, che accusano di essere subordinato a Jean-Luc Mélanchon.
La fronda socialista è sostenuta “dall’esterno” dall’euro-deputato Glucksman, che sogna una riconfigurazione di un polo politico socialista che rompa ogni rapporto con la LFI e “sostituisca” Macron.
E proprio dal regolamento di coni all’interno del PS, e dalla possibile nomina di Macron di una figura proveniente dalla destra socialista come Primo Ministro, con la composizione di un governo “tecnico” di coalizione benvoluto dalle élite politiche continentali e dal padronato europeo di origine francese, che potrebbe scaturire una exit strategy all’attuale impasse politica senza risolvere la grave crisi democratica che sta attraversando il paese.
Un paese che ha votato sia per non avere un governo d’estrema destra che per superare la macronie.
Il Piano B sarebbe “un patto legislativo” proposto dai gollisti che darebbero appoggio esterno ad un esecutivo di minoranza di Ensemble, e che traghetti il paese fino alla prossima estate, quando si potranno convocare nuove elezioni politiche, bypassando il voto dell’Assemblea su alcune questione strategiche come già fatto con la precedente legge finanziaria e la riforma pensionistica, appoggiandosi all’estrema-destra sui temi più reazionari.
Insomma, mutatis mutandis, sembra che si riapra uno scontro come quello che contrappose alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento Mac Mahon – che uscì con le ossa rotte dallo scontro con l’Assemblea Nazionale – e Gambetta.
“Quando la Francia avrà fatto intendere la sua voce sovrana, credetelo, bisognerà sottomettersi o dimettersi”, tuonò il 15 agosto del 1877 Gambetta contro Mac Mahon, che portava avanti una forzatura politica per avvantaggiare la destra monarchica, infischiandosene della volontà popolare.
È chiaro che la capacità di creare dei rapporti di forza favorevoli attraverso la mobilitazione di piazza, a cominciare dal 7 settembre, coinvolgendo quell’arco di forze che si sono mobilitate per sostenere il NFP alle recente elezioni politiche, sembra essere l’unica chance per sfuggire alla morsa che le élite continentali stanno stringendo attorno alla volontà di cambiamento – e non semplice alternanza – espressi con il voto delle politiche anticipate.
Nei giorni precedenti la segretaria della CGT – Sophie Binet – sindacato che aveva sostenuto il NFP, aveva già annunciato per fine settembre/inizio ottobre una “ripresa offensiva”, cui sta lavorando, su vari temi posti da tempo dall’organizzazione sindacale: dalla preparazione della finanziaria per il 2025 all’“abrogazione della riforma delle pensioni, i salari, i servizi pubblici, la re-industrializzazione, la parità tra i sessi, ecc.”, denunciando che “sulle nostre lotte, non abbiamo alcun interlocutore, solo lo scontro con i padroni”.
Insomma, dopo le urne, parleranno le piazze.
Fonte
La decisione di non nominare la Castets è stata giustificata con la motivazione piuttosto discutibile della “stabilità istituzionale”, perché un possibile governo del NFP sarebbe di minoranza, e potrebbe essere esposto ad una “mozione di sfiducia”. Una decisione politica, quella di Macron, che non ha nulla a che fare con il dettato costituzionale.
In primis, bisogna ricordare che gli esecutivi succedutisi dopo la rielezione di Macron – ottenuta grazie ai voti del “fronte repubblicano”, che non voleva vedere Marine Le Pen alla presidenza del paese – erano governi di “minoranza” che hanno preso decisioni importanti (come l’ampliamento dell’età pensionabile o una legge sull’immigrazione) appoggiandosi fondamentalmente ai voti dei gollisti di LR, ma anche quelli di RN della Le Pen.
Colui che voleva sbarrare la strada all’estrema destra, gli ha invece aperto un’autostrada, come dimostra l’exploit di RN.
Secondariamente, Macron non avrebbe infatti avuto alcun problema a conferire l’incarico alla coalizione di estrema destra imperniata sul Rassemblement Nationale, e che comprendeva la componente dei gollisti che aveva seguito il presidente di LR Eric Ciotti e l’ex transfuga del RN Maréchal, se la coalizione fosse stata la più votata dai francesi anche senza i 289 deputati necessari per avere la maggioranza in parlamento.
Terzo, ma non ultimo, è abbastanza surreale che un Presidente che ha minato la stabilità con una scelta presa senza consultazioni, neanche con il proprio campo, rispetto ad elezioni politiche anticipate, sacrifichi sul piano della governance la rappresentanza democratica.
Certo Macron “rompe” con il costume politico francese instaurato sull’architettura istituzionale della 5° Repubblica costruita nella seconda metà degli Anni Cinquanta, quando la Francia era in piena “guerra d’Algeria” in una situazione molto vicina alla guerra civile anche in territorio metropolitano.
Però è lo stesso Macron – che la sinistra per il suo comportamento ha cominciato ad etichettare “Mac-Macron” in riferimento a Mac Mahon – che alla fine si allinea al modus operandi della élite politica continentale con una verticale del potere che mette al primo posto la governabilità e l’immutabilità della cabina di comando, qualsiasi messaggio provenga delle urne.
È, mutatis mutandis, l’“output democracy” di Mario Draghi, e di fatto la continuazione dei consigli che la Trilateral dava già a metà Anni Settanta rispetto a quello che definiva essere un surplus di democrazia in Occidente in un momento di crisi di legittimità delle sue élite.
Oltre ad escludere un governo del NFP, nelle consultazioni, Macron ha deciso di escludere La France Insoumise dopo che era stata proprio questa – tramite il suo fondatore Jean-Luc Mélenchon – ad aprire ad un governo della Castets senza ministri o ministre insoumis/es: una strategia attuata illo tempore dal PCF, durante il Fronte Popolare della seconda metà degli Anni ’30.
Questo anche per bypassare i veti incrociati annunciati dai macronisti fino l’estrema destra passando per i gollisti, che avrebbero spinto ad una “mozione di sfiducia” rispetto ad un governo del NFP con ministri de La France Insoumise.
Ma è chiaro che il problema essenziale non è la presenza o meno di LFI nella compagine governativa, ma il programma economico del Nuovo Fronte Popolare che stabilirebbe una “rottura” con la politica liberista degli esecutivi precedenti, almeno degli ultimi sette anni, in un momento in cui il collare a strozzo della UE suggerisce il “congelamento” dei conti pubblici ed un mantenimento di una politica fiscale fortemente regressiva, nonostante un’economia che oscilla tra la stagnazione e la vera e propria recessione.
La France Insoumise aveva già minacciato di proporre una mozione di “destituzione” del presidente qualora non avesse nominato la Castets – una proposta non condivisa dai socialisti; ora la ripropone come uscita dalla crisi politica vista la chiara contrapposizione tra il potere rappresentativo dell’Assemblea e quello esecutivo presidenziale, insieme ad una prima mobilitazione il 7 settembre, sostenuta anche dal PCF e dagli ecologisti di EELV.
Bisogna ricordare che di fronte all’esclusione de LFI dalle consultazioni, gli altri componenti della coalizioni hanno risposto compatti, decidendo di non presentarsi alla convocazione, suscitando comunque il “malpancismo” della destra socialista da tempo sul piede di guerra contro la direzione di Olivier Faure, che accusano di essere subordinato a Jean-Luc Mélanchon.
La fronda socialista è sostenuta “dall’esterno” dall’euro-deputato Glucksman, che sogna una riconfigurazione di un polo politico socialista che rompa ogni rapporto con la LFI e “sostituisca” Macron.
E proprio dal regolamento di coni all’interno del PS, e dalla possibile nomina di Macron di una figura proveniente dalla destra socialista come Primo Ministro, con la composizione di un governo “tecnico” di coalizione benvoluto dalle élite politiche continentali e dal padronato europeo di origine francese, che potrebbe scaturire una exit strategy all’attuale impasse politica senza risolvere la grave crisi democratica che sta attraversando il paese.
Un paese che ha votato sia per non avere un governo d’estrema destra che per superare la macronie.
Il Piano B sarebbe “un patto legislativo” proposto dai gollisti che darebbero appoggio esterno ad un esecutivo di minoranza di Ensemble, e che traghetti il paese fino alla prossima estate, quando si potranno convocare nuove elezioni politiche, bypassando il voto dell’Assemblea su alcune questione strategiche come già fatto con la precedente legge finanziaria e la riforma pensionistica, appoggiandosi all’estrema-destra sui temi più reazionari.
Insomma, mutatis mutandis, sembra che si riapra uno scontro come quello che contrappose alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento Mac Mahon – che uscì con le ossa rotte dallo scontro con l’Assemblea Nazionale – e Gambetta.
“Quando la Francia avrà fatto intendere la sua voce sovrana, credetelo, bisognerà sottomettersi o dimettersi”, tuonò il 15 agosto del 1877 Gambetta contro Mac Mahon, che portava avanti una forzatura politica per avvantaggiare la destra monarchica, infischiandosene della volontà popolare.
È chiaro che la capacità di creare dei rapporti di forza favorevoli attraverso la mobilitazione di piazza, a cominciare dal 7 settembre, coinvolgendo quell’arco di forze che si sono mobilitate per sostenere il NFP alle recente elezioni politiche, sembra essere l’unica chance per sfuggire alla morsa che le élite continentali stanno stringendo attorno alla volontà di cambiamento – e non semplice alternanza – espressi con il voto delle politiche anticipate.
Nei giorni precedenti la segretaria della CGT – Sophie Binet – sindacato che aveva sostenuto il NFP, aveva già annunciato per fine settembre/inizio ottobre una “ripresa offensiva”, cui sta lavorando, su vari temi posti da tempo dall’organizzazione sindacale: dalla preparazione della finanziaria per il 2025 all’“abrogazione della riforma delle pensioni, i salari, i servizi pubblici, la re-industrializzazione, la parità tra i sessi, ecc.”, denunciando che “sulle nostre lotte, non abbiamo alcun interlocutore, solo lo scontro con i padroni”.
Insomma, dopo le urne, parleranno le piazze.
Fonte
Hezbollah alza il livello delle regole di ingaggio
Dopo quasi un mese dall’assassinio di colui che è stato descritto come il comandante dello Stato Maggiore di Hezbollah, Sayyid Fouad Shukr (Mohsen), e dopo il continuo scambio di bombardamenti tra Israele e Hezbollah, avvenuto quotidianamente, Hezbollah ha intrapreso un’operazione militare considerata la prima fase della risposta all’assassinio del suo comandante militare.
Questo omicidio era stato pianificato da Israele con un obiettivo chiaro per Benjamin Netanyahu, contemporaneamente all’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran. Ma perché la risposta di Hezbollah è stata considerata sia una risposta che non una risposta?
Lo ha spiegato Hassan Nasrallah, nel suo discorso di domenica sera, quando ha denominato l’operazione “Il Giorno dei Quaranta”, poiché è avvenuta verso le cinque del mattino del 25 agosto, in occasione dell’anniversario di Husain ibn Ali, il martire della famiglia del Profeta Muhammad, probabilmente per incitare lo spirito della resistenza libanese.
In ogni caso, è importante notare che finalmente “la decisione è stata presa”, e Hezbollah ha risposto all’assassinio del suo comandante militare Mohsen, lasciando all'Iran la decisione di rispondere o meno all’assassinio di Haniyeh.
Nel commentare il ritardo di quasi un mese di Hezbollah nel rispondere a Israele, Nasrallah ha spiegato che il ritardo era dovuto al fatto che Hezbollah voleva dare spazio ai negoziati tra Cairo e Doha per fermare la guerra a Gaza. Questo obiettivo è condiviso non solo da Hezbollah e Hamas, ma anche da tutto l’asse della resistenza, comprese le alleanze con l’Iran.
Tuttavia, come spesso accade, gli americani, insieme agli israeliani, hanno temporeggiato e usato questo tempo non per negoziati sostanziali, ma per rafforzare la loro presenza militare nella regione. Netanyahu vuole prolungare la guerra per rimanere al potere, sperando nell’elezione del suo amico di destra Donald Trump, ed è lui che pensa solo all’espansione del territorio di Israele.
Esattamente come pensano i fascisti ministri israeliani, come Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich e lo stesso Netanyahu, e la maggior parte della cricca del Likud. Inoltre, hanno preso il tempo necessario per rafforzare la loro presenza militare nella regione con l’aggiunta di aerei stealth e altro ancora.
Successivamente, hanno iniziato a dire che la loro presenza militare aveva svolto la funzione di dissuadere l’Iran ed Hezbollah dal rispondere. Nel frattempo, l’Iran ed Hezbollah hanno utilizzato il loro tempo per arrivare a una soluzione ottimale che permettesse di rispondere senza trascinare gli americani in una guerra regionale con l’Iran.
Tra le numerose opzioni esaminate dai gruppi dell’asse della resistenza, tutte concordavano sul fatto, che raggiungere l’obiettivo di fermare la guerra avrebbe evitato all’Iran, a Hezbollah e allo Yemen di dover rispondere singolarmente agli attacchi diretti subiti a Teheran, Beirut e Hodeida.
C’era anche l’opzione di una risposta collettiva, che avrebbe significato aprire le porte dell’inferno su Israele con migliaia, o addirittura decine di migliaia, di missili e droni provenienti da tutte le direzioni, accendendo così la guerra regionale totale.
Tuttavia, l’opzione preferita era che ciascun membro rispondesse individualmente, mantenendo le attuali regole, senza permettere a Israele o agli Stati Uniti, di affermare di aver raggiunto la deterrenza, ovvero il silenziamento dei fronti di supporto, specialmente quelli yemeniti e libanesi.
L’annuncio di Hezbollah, di aver risposto all’assassinio di Fouad Shukr, ha chiarito la natura delle risposte dell’asse della resistenza: non ci sarà una risposta collettiva.
Così, i gruppi dell’asse della resistenza dimostrano di non volere una guerra regionale totale, preferendo invece fermare la guerra o farla continuare su un piano di logoramento, con la possibilità che il fulcro della guerra si sposti, rendendo il conflitto con Hezbollah il fronte principale.
Per quanto riguarda le notizie secondo cui un altro paese potrebbe rispondere dopo Hezbollah, probabilmente si tratta dello Yemen, che è noto per la sua capacità di interrompere il traffico marittimo da e verso Israele attraverso il Mar Arabico e il Mar Rosso. Tuttavia, le capacità dei missili e dei droni yemeniti di raggiungere Israele sono limitate, a causa della distanza geografica, stimata a oltre 1.800 chilometri.
La risposta di Hezbollah allevia la pressione sull’Iran, che ha dichiarato, tramite il suo ministro degli Esteri, di preparare una risposta ufficiale e legale, che prevede la presentazione di una denuncia contro Israele presso la Corte Internazionale.
Una risposta militare arriverà dopo una preparazione adeguata. Hezbollah e l’Iran hanno osservato l’allerta e il panico all’interno di Israele, in previsione di una risposta e hanno “esagerato” nel prendersi il tempo necessario per infliggere il massimo danno possibile a Israele, sia economicamente che moralmente.
Tuttavia, la risposta di Hezbollah, che è ancora in sospeso, come abbiamo detto, è stata spiegata da Hassan Nasrallah come una prima fase della risposta all’assassinio di Shukr, lasciando intendere che ci potrebbero essere fasi successive, che potrebbero avvenire nei prossimi giorni o settimane.
La seconda fase è stata l’invio di droni verso la base di Glilot e il quartier generale della divisione 8200 vicino a Tel Aviv, completando così la risposta all’assassinio di Shukr, anche se potrebbe essere necessaria un’ulteriore risposta. Come si può interpretare questo enigma?
Nasrallah ha risposto confutando la falsa narrazione israeliana di un attacco preventivo che avrebbe sventato la risposta di Hezbollah, affermando che tutto dipende dal fatto che i droni abbiano raggiunto i loro obiettivi.
L’attacco di Hezbollah era composto da due fasi: la prima consisteva nel lanciare 340 razzi Katyusha su 11 siti nel Golan e in Galilea, con l’obiettivo di distrarre il sistema di difesa aerea IronDome per facilitare la seconda fase, ovvero l’invio di droni verso i loro obiettivi vicino a Tel Aviv.
Israele ha affermato di aver impedito il raggiungimento degli obiettivi, ma Nasrallah ritiene che i droni abbiano raggiunto i loro bersagli e che l’operazione abbia ottenuto il suo scopo. Se dovesse emergere che i droni non hanno colpito le due basi israeliane, Hezbollah potrebbe dover rispondere nuovamente. L’importante è che la situazione di conflitto sul campo è ancora in corso.
A Gaza, la resistenza continua nonostante le perdite, soprattutto tra i combattenti, e la rabbia popolare contro i crimini israeliani ha permesso a Hamas di reclutare un numero di combattenti molto superiore rispetto a quelli caduti. In questo modo, Hamas non è scomparsa da Gaza, e il discorso sul “giorno dopo” si è dissolto.
I negoziati di Biden sono in una fase di stallo, in attesa che Hamas si arrenda, accettando le condizioni imposte da Netanyahu, che includono il mantenimento dei valichi di Philadelphia e Netzarim, e non la fine della guerra, ma una semplice tregua temporanea, riducendo il numero e la tipologia dei prigionieri palestinesi inclusi nell’accordo.
La risposta di Hezbollah implica, innanzitutto, che la risposta dell’Iran non sarà più intensa di quella di Hezbollah, ma sarà naturalmente più forte rispetto a quella di aprile scorso, cioè non sarà solo una risposta simbolica.
In secondo luogo, la risposta non ha aperto la strada a una guerra regionale, poiché gli Stati Uniti stessi hanno dichiarato che affrontare Hezbollah è responsabilità primaria di Israele, mentre il compito dell’America è affrontare l’Iran solo nel caso in cui scoppiasse una guerra totale.
Tuttavia, ciò che Hezbollah e Israele sono abituati a definire “regole d’ingaggio” ora significa che queste regole sono cambiate, con il cessare della pressione globale su Israele e la continuazione dei suoi crimini di guerra quotidiani.
La possibilità che i droni raggiungano Tel Aviv e l’interruzione del funzionamento dell’aeroporto di Lod indicano che Hezbollah potrebbe aumentare la pressione reale su Israele nei prossimi giorni, senza necessariamente trascinare gli Stati Uniti in una guerra contro l’Iran.
In realtà, l’asse della resistenza ha ancora molte sorprese per Israele in questa guerra di logoramento, a condizione che gli Stati Uniti vengano neutralizzati e il loro intervento limitato al sostegno militare con munizioni e supporto politico, mantenendo un coinvolgimento a distanza nel Mar Rosso in uno scontro con lo Yemen.
Tra le tattiche che hanno innalzato il livello delle regole d’ingaggio vi è l’invio di attentatori suicidi da parte di Hamas e della Jihad a Tel Aviv, Netanya e Gerusalemme Ovest, una possibilità prevista fin dall’inizio della guerra.
Fonte
Questo omicidio era stato pianificato da Israele con un obiettivo chiaro per Benjamin Netanyahu, contemporaneamente all’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran. Ma perché la risposta di Hezbollah è stata considerata sia una risposta che non una risposta?
Lo ha spiegato Hassan Nasrallah, nel suo discorso di domenica sera, quando ha denominato l’operazione “Il Giorno dei Quaranta”, poiché è avvenuta verso le cinque del mattino del 25 agosto, in occasione dell’anniversario di Husain ibn Ali, il martire della famiglia del Profeta Muhammad, probabilmente per incitare lo spirito della resistenza libanese.
In ogni caso, è importante notare che finalmente “la decisione è stata presa”, e Hezbollah ha risposto all’assassinio del suo comandante militare Mohsen, lasciando all'Iran la decisione di rispondere o meno all’assassinio di Haniyeh.
Nel commentare il ritardo di quasi un mese di Hezbollah nel rispondere a Israele, Nasrallah ha spiegato che il ritardo era dovuto al fatto che Hezbollah voleva dare spazio ai negoziati tra Cairo e Doha per fermare la guerra a Gaza. Questo obiettivo è condiviso non solo da Hezbollah e Hamas, ma anche da tutto l’asse della resistenza, comprese le alleanze con l’Iran.
Tuttavia, come spesso accade, gli americani, insieme agli israeliani, hanno temporeggiato e usato questo tempo non per negoziati sostanziali, ma per rafforzare la loro presenza militare nella regione. Netanyahu vuole prolungare la guerra per rimanere al potere, sperando nell’elezione del suo amico di destra Donald Trump, ed è lui che pensa solo all’espansione del territorio di Israele.
Esattamente come pensano i fascisti ministri israeliani, come Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich e lo stesso Netanyahu, e la maggior parte della cricca del Likud. Inoltre, hanno preso il tempo necessario per rafforzare la loro presenza militare nella regione con l’aggiunta di aerei stealth e altro ancora.
Successivamente, hanno iniziato a dire che la loro presenza militare aveva svolto la funzione di dissuadere l’Iran ed Hezbollah dal rispondere. Nel frattempo, l’Iran ed Hezbollah hanno utilizzato il loro tempo per arrivare a una soluzione ottimale che permettesse di rispondere senza trascinare gli americani in una guerra regionale con l’Iran.
Tra le numerose opzioni esaminate dai gruppi dell’asse della resistenza, tutte concordavano sul fatto, che raggiungere l’obiettivo di fermare la guerra avrebbe evitato all’Iran, a Hezbollah e allo Yemen di dover rispondere singolarmente agli attacchi diretti subiti a Teheran, Beirut e Hodeida.
C’era anche l’opzione di una risposta collettiva, che avrebbe significato aprire le porte dell’inferno su Israele con migliaia, o addirittura decine di migliaia, di missili e droni provenienti da tutte le direzioni, accendendo così la guerra regionale totale.
Tuttavia, l’opzione preferita era che ciascun membro rispondesse individualmente, mantenendo le attuali regole, senza permettere a Israele o agli Stati Uniti, di affermare di aver raggiunto la deterrenza, ovvero il silenziamento dei fronti di supporto, specialmente quelli yemeniti e libanesi.
L’annuncio di Hezbollah, di aver risposto all’assassinio di Fouad Shukr, ha chiarito la natura delle risposte dell’asse della resistenza: non ci sarà una risposta collettiva.
Così, i gruppi dell’asse della resistenza dimostrano di non volere una guerra regionale totale, preferendo invece fermare la guerra o farla continuare su un piano di logoramento, con la possibilità che il fulcro della guerra si sposti, rendendo il conflitto con Hezbollah il fronte principale.
Per quanto riguarda le notizie secondo cui un altro paese potrebbe rispondere dopo Hezbollah, probabilmente si tratta dello Yemen, che è noto per la sua capacità di interrompere il traffico marittimo da e verso Israele attraverso il Mar Arabico e il Mar Rosso. Tuttavia, le capacità dei missili e dei droni yemeniti di raggiungere Israele sono limitate, a causa della distanza geografica, stimata a oltre 1.800 chilometri.
La risposta di Hezbollah allevia la pressione sull’Iran, che ha dichiarato, tramite il suo ministro degli Esteri, di preparare una risposta ufficiale e legale, che prevede la presentazione di una denuncia contro Israele presso la Corte Internazionale.
Una risposta militare arriverà dopo una preparazione adeguata. Hezbollah e l’Iran hanno osservato l’allerta e il panico all’interno di Israele, in previsione di una risposta e hanno “esagerato” nel prendersi il tempo necessario per infliggere il massimo danno possibile a Israele, sia economicamente che moralmente.
Tuttavia, la risposta di Hezbollah, che è ancora in sospeso, come abbiamo detto, è stata spiegata da Hassan Nasrallah come una prima fase della risposta all’assassinio di Shukr, lasciando intendere che ci potrebbero essere fasi successive, che potrebbero avvenire nei prossimi giorni o settimane.
La seconda fase è stata l’invio di droni verso la base di Glilot e il quartier generale della divisione 8200 vicino a Tel Aviv, completando così la risposta all’assassinio di Shukr, anche se potrebbe essere necessaria un’ulteriore risposta. Come si può interpretare questo enigma?
Nasrallah ha risposto confutando la falsa narrazione israeliana di un attacco preventivo che avrebbe sventato la risposta di Hezbollah, affermando che tutto dipende dal fatto che i droni abbiano raggiunto i loro obiettivi.
L’attacco di Hezbollah era composto da due fasi: la prima consisteva nel lanciare 340 razzi Katyusha su 11 siti nel Golan e in Galilea, con l’obiettivo di distrarre il sistema di difesa aerea IronDome per facilitare la seconda fase, ovvero l’invio di droni verso i loro obiettivi vicino a Tel Aviv.
Israele ha affermato di aver impedito il raggiungimento degli obiettivi, ma Nasrallah ritiene che i droni abbiano raggiunto i loro bersagli e che l’operazione abbia ottenuto il suo scopo. Se dovesse emergere che i droni non hanno colpito le due basi israeliane, Hezbollah potrebbe dover rispondere nuovamente. L’importante è che la situazione di conflitto sul campo è ancora in corso.
A Gaza, la resistenza continua nonostante le perdite, soprattutto tra i combattenti, e la rabbia popolare contro i crimini israeliani ha permesso a Hamas di reclutare un numero di combattenti molto superiore rispetto a quelli caduti. In questo modo, Hamas non è scomparsa da Gaza, e il discorso sul “giorno dopo” si è dissolto.
I negoziati di Biden sono in una fase di stallo, in attesa che Hamas si arrenda, accettando le condizioni imposte da Netanyahu, che includono il mantenimento dei valichi di Philadelphia e Netzarim, e non la fine della guerra, ma una semplice tregua temporanea, riducendo il numero e la tipologia dei prigionieri palestinesi inclusi nell’accordo.
La risposta di Hezbollah implica, innanzitutto, che la risposta dell’Iran non sarà più intensa di quella di Hezbollah, ma sarà naturalmente più forte rispetto a quella di aprile scorso, cioè non sarà solo una risposta simbolica.
In secondo luogo, la risposta non ha aperto la strada a una guerra regionale, poiché gli Stati Uniti stessi hanno dichiarato che affrontare Hezbollah è responsabilità primaria di Israele, mentre il compito dell’America è affrontare l’Iran solo nel caso in cui scoppiasse una guerra totale.
Tuttavia, ciò che Hezbollah e Israele sono abituati a definire “regole d’ingaggio” ora significa che queste regole sono cambiate, con il cessare della pressione globale su Israele e la continuazione dei suoi crimini di guerra quotidiani.
La possibilità che i droni raggiungano Tel Aviv e l’interruzione del funzionamento dell’aeroporto di Lod indicano che Hezbollah potrebbe aumentare la pressione reale su Israele nei prossimi giorni, senza necessariamente trascinare gli Stati Uniti in una guerra contro l’Iran.
In realtà, l’asse della resistenza ha ancora molte sorprese per Israele in questa guerra di logoramento, a condizione che gli Stati Uniti vengano neutralizzati e il loro intervento limitato al sostegno militare con munizioni e supporto politico, mantenendo un coinvolgimento a distanza nel Mar Rosso in uno scontro con lo Yemen.
Tra le tattiche che hanno innalzato il livello delle regole d’ingaggio vi è l’invio di attentatori suicidi da parte di Hamas e della Jihad a Tel Aviv, Netanya e Gerusalemme Ovest, una possibilità prevista fin dall’inizio della guerra.
Fonte
Sudzha, Kursk, Enorgodar. La guerra contro l’Europa prosegue
Nei giorni scorsi alcune migliaia di uomini delle forze ucraine sono penetrate nelle aree della regione di Kursk (Federazione russa) a ridosso del confine russo-ucraino. Secondo il comandante delle forze speciali russe “Akhmat” Apti Alaudinov i militari ucraini coinvolti inizialmente nelle manovre sarebbero stati circa 12mila, di cui un certo numero di mercenari stranieri.
Con questo sforzo, costato già un non trascurabile numero di perdite, Kiev ha ottenuto il controllo di un fazzoletto di territorio russo ed alcuni villaggi, alcuni dei quali già tornati sotto il controllo di Mosca.
Per avere la misura della questione, si può considerare che il principale centro dell’area attualmente sotto controllo ucraino è Sudzha, centro in cui all’inizio del 2024 sono stati censiti meno di cinquemila abitanti: come misura preventiva le autorità russe hanno imposto misure di sicurezza in una zona ben più ampia di quella occupata dalle forze ucraine ed interessata dai combattimenti, evacuando complessivamente, secondo il governatore della regione Alexey Smirov, oltre 120mila civili.
Quello di Kursk rappresenta il maggiore attacco condotto dalle forze ucraine in territorio russo dopo due anni e mezzo di operazioni militari su larga scala: la principale ragione di queste manovre è quella relativa all’ultima stazione di misurazione e filtraggio in territorio russo – a Sudzha – del gasdotto “Fratellanza” (conosciuto anche come gasdotto della Siberia occidentale) che percorre il tracciato Urengoy – Pomary – Uzgorod distribuendo poi il gas in Europa centrale ed occidentale attraverso Slovacchia, Repubblica Ceca ed Austria.
È opportuno ricordare come la fornitura di gas tramite questa condotta, pur riducendosi, non si sia mai interrotta nonostante la fase apertasi con l’attacco all’Ucraina del 24 febbraio 2024.
È evidente come le forze ucraine possano aver avviato una manovra del genere soltanto con il consenso di Washington, dal momento che i rifornimenti di Kiev e tutte le decisioni fondamentali dipendono in modo determinante da quest’ultima.
Del resto non è un segreto il fatto che i principali beneficiari della campagna contro l’energia russa in Europa occidentale siano proprio gli Stati Uniti. È opportuno sottolineare anche come le forze ucraine non abbiano incontrato una resistenza rilevante nella direzione di Sudzha: del resto il cospicuo afflusso di rinforzi russi dopo l’occupazione del piccolo centro sembra aver neutralizzato il tentativo di penetrazione ucraina in direzione nord-ovest.
Considerando le migliaia di chilometri di condotte che attraversano l’Ucraina il governo di Kiev non avrebbe avuto nessuna difficoltà tecnica a interrompere il transito di gas russo sul proprio territorio all’indomani del 24 febbraio 2022, ma facendolo avrebbe danneggiato soprattutto i propri interessi. L’Ucraina infatti continua a percepire cospicui onorari per i diritti di transito relativi all’attraversamento del gas sul proprio territorio.
La scadenza dei contratti di transito, ormai prossima, offre certamente dei buoni spunti per comprendere le ragioni profonde delle manovre nella regione di Kursk e del perché Mosca non stesse presidiando massicciamente la zona in termini miliari.
Se l’incursione nella regione di Kursk rappresenta un problema in più per le forze russe questa sottrae risorse allo schieramento ucraino su tutta la linea del fronte, schieramento già inferiore per mezzi, risorse e uomini a disposizione. A conferma di questo ci sono i piccoli ma costanti avanzamenti delle forze russe sul fronte del Donbass.
A meno di cento chilometri da Sudzha si trova peraltro la centrale nucleare di Kursk, altro obiettivo strategico in direzione del quale le forze ucraine avrebbero già condotto attacchi con dei droni.
Quasi in contemporanea all’inizio delle manovre nella regione di Kursk si è verificato il più grave attacco compiuto dalle forze ucraine ai danni della centrale nucleare di Energodar (regione di Zaporozhe), sotto controllo russo da oltre due anni: l’attacco, condotto con dei droni, ha incendiato una delle torri di raffreddamento della centrale, rischiando seriamente di causare un incidente nucleare.
Questo ultimo attacco verso la centrale di Energodar rappresenta il culmine di una larga serie di pericolosi atti compiuti da Kiev. Contribuendo a compromettere le future capacità di ripresa economica dell’Ucraina e a devastare la struttura demografica del paese, atti come quelli di Kursk, pur costando all’Ucraina mezzi, risorse e soprattutto vite umane, non aggiungono complessivamente alcun potere negoziale a quello detenuto da Kiev.
La loro prosecuzione è piuttosto destinata ad indebolire ulteriormente la posizione ucraina negli inevitabili compromessi che presto o tardi saranno raggiunti. Il loro principale obiettivo è invece quello di persuadere le opinioni pubbliche ma soprattutto i governi e le rappresentanze politiche occidentali della necessità di continuare ad inviare armi e alimentare così la maggiore guerra che si sta combattendo in Europa dopo il 1945.
Fonte
Con questo sforzo, costato già un non trascurabile numero di perdite, Kiev ha ottenuto il controllo di un fazzoletto di territorio russo ed alcuni villaggi, alcuni dei quali già tornati sotto il controllo di Mosca.
Per avere la misura della questione, si può considerare che il principale centro dell’area attualmente sotto controllo ucraino è Sudzha, centro in cui all’inizio del 2024 sono stati censiti meno di cinquemila abitanti: come misura preventiva le autorità russe hanno imposto misure di sicurezza in una zona ben più ampia di quella occupata dalle forze ucraine ed interessata dai combattimenti, evacuando complessivamente, secondo il governatore della regione Alexey Smirov, oltre 120mila civili.
Quello di Kursk rappresenta il maggiore attacco condotto dalle forze ucraine in territorio russo dopo due anni e mezzo di operazioni militari su larga scala: la principale ragione di queste manovre è quella relativa all’ultima stazione di misurazione e filtraggio in territorio russo – a Sudzha – del gasdotto “Fratellanza” (conosciuto anche come gasdotto della Siberia occidentale) che percorre il tracciato Urengoy – Pomary – Uzgorod distribuendo poi il gas in Europa centrale ed occidentale attraverso Slovacchia, Repubblica Ceca ed Austria.
È opportuno ricordare come la fornitura di gas tramite questa condotta, pur riducendosi, non si sia mai interrotta nonostante la fase apertasi con l’attacco all’Ucraina del 24 febbraio 2024.
È evidente come le forze ucraine possano aver avviato una manovra del genere soltanto con il consenso di Washington, dal momento che i rifornimenti di Kiev e tutte le decisioni fondamentali dipendono in modo determinante da quest’ultima.
Del resto non è un segreto il fatto che i principali beneficiari della campagna contro l’energia russa in Europa occidentale siano proprio gli Stati Uniti. È opportuno sottolineare anche come le forze ucraine non abbiano incontrato una resistenza rilevante nella direzione di Sudzha: del resto il cospicuo afflusso di rinforzi russi dopo l’occupazione del piccolo centro sembra aver neutralizzato il tentativo di penetrazione ucraina in direzione nord-ovest.
Considerando le migliaia di chilometri di condotte che attraversano l’Ucraina il governo di Kiev non avrebbe avuto nessuna difficoltà tecnica a interrompere il transito di gas russo sul proprio territorio all’indomani del 24 febbraio 2022, ma facendolo avrebbe danneggiato soprattutto i propri interessi. L’Ucraina infatti continua a percepire cospicui onorari per i diritti di transito relativi all’attraversamento del gas sul proprio territorio.
La scadenza dei contratti di transito, ormai prossima, offre certamente dei buoni spunti per comprendere le ragioni profonde delle manovre nella regione di Kursk e del perché Mosca non stesse presidiando massicciamente la zona in termini miliari.
Se l’incursione nella regione di Kursk rappresenta un problema in più per le forze russe questa sottrae risorse allo schieramento ucraino su tutta la linea del fronte, schieramento già inferiore per mezzi, risorse e uomini a disposizione. A conferma di questo ci sono i piccoli ma costanti avanzamenti delle forze russe sul fronte del Donbass.
A meno di cento chilometri da Sudzha si trova peraltro la centrale nucleare di Kursk, altro obiettivo strategico in direzione del quale le forze ucraine avrebbero già condotto attacchi con dei droni.
Quasi in contemporanea all’inizio delle manovre nella regione di Kursk si è verificato il più grave attacco compiuto dalle forze ucraine ai danni della centrale nucleare di Energodar (regione di Zaporozhe), sotto controllo russo da oltre due anni: l’attacco, condotto con dei droni, ha incendiato una delle torri di raffreddamento della centrale, rischiando seriamente di causare un incidente nucleare.
Questo ultimo attacco verso la centrale di Energodar rappresenta il culmine di una larga serie di pericolosi atti compiuti da Kiev. Contribuendo a compromettere le future capacità di ripresa economica dell’Ucraina e a devastare la struttura demografica del paese, atti come quelli di Kursk, pur costando all’Ucraina mezzi, risorse e soprattutto vite umane, non aggiungono complessivamente alcun potere negoziale a quello detenuto da Kiev.
La loro prosecuzione è piuttosto destinata ad indebolire ulteriormente la posizione ucraina negli inevitabili compromessi che presto o tardi saranno raggiunti. Il loro principale obiettivo è invece quello di persuadere le opinioni pubbliche ma soprattutto i governi e le rappresentanze politiche occidentali della necessità di continuare ad inviare armi e alimentare così la maggiore guerra che si sta combattendo in Europa dopo il 1945.
Fonte
28/08/2024
Battiato, un alieno tra noi
È recentemente uscito per le edizioni di Mimesis Battiato, l'alieno di Maurizio Di Bona e Alessio Cantarella, libro che si pone l'obiettivo di «riportare Battiato sulla Terra e ricomporre il quadro d’insieme dell’artista, dell’uomo e del Maestro una miriade di ricordi scritti da chi lo ha conosciuto, ha collaborato con lui e gli ha voluto bene».
Riceviamo e condividiamo una riflessione di Ettore Zanca sul testo.
Riceviamo e condividiamo una riflessione di Ettore Zanca sul testo.
*****
Quando Battiato balzò agli onori della cronaca impetuoso come il suo cinghiale bianco, noi eravamo in gran parte ragazzini. E proprio in quel periodo rimanevamo incantati da un altro alieno che divenne talmente di moda che tutti separavamo a metà la mano dicendo «nano nano». Era Mork, interpretato da Robin Williams.
Fino quando non ho letto questo libro non avevo mai notato l’analogia che accomuna gli «alieni».
Franco Battiato per certi versi era proprio un alieno tanto quanto lo fosse quell’istrione di Williams. Un avulso dal pianeta che noi chiamiamo Terra, preso dalle sue creatività, con un occhio in parte indulgente e in parte sprezzante verso i vizi umani figli di una civiltà alla deriva. I capelli quasi sempre scombinati – ché i pensieri non si disciplinano pettinandoli – e quello sguardo di chi sapeva di essere talmente autorevole da poter fare battute travestite da profondità come Nevski e Stravinskij.
In questo libro c’è proprio un trattato sugli alieni, anzi sull’alieno canoro. Ci sono le sue evoluzioni di vita che sembravano complicatissime e invece erano solo prive di filtri e remore. E di rimpianti. Le sue note erano quelle di chi aveva deciso che la sua vita sarebbe stata anomala che è il sinonimo di «fantastica». Fondatore praticamente di una scuola creativa catanese, nessuno arrivato dopo di lui può prescindere dall’avere avuto da lui ispirazione, due nomi su tutti, Mario Venuti e Carmen Consoli.
I disegni sono pregevoli, ma non solo per la manifattura. Piace pensare che per ritrarre un alieno vero e in maniera degna ci voglia la stessa pazienza di un fotografo naturalista nel ritrarre un leopardo delle nevi. Maurizio Di Bona ha fatto proprio così. Da una genesi lontana con la sua china ancora da mettere su carta fino a quest’opera che forse è quella che più di tutte prova a mettere se non un confine, una pausa contornata di un mosaico al grande Franco. I contributi scritti, raccolti da Alessio Cantarella, sono una immersione nel pozzo della memoria, ricordi accompagnati e mai disturbati dalle cicale che friniscono di caldo. Dal succitato Venuti a Enzo Avitabile, disposti a restituire un po’ di ciò che Battiato ha dato loro. E a rivelare la sua simpatia travestita da comportamento da plantigrado.
Ogni vignetta ti «costringe» a rimanere lì, leggerla, rileggerla, ridere e riflettere. Un’ironia che anche Battiato avrebbe apprezzato tanto e magari avrebbe voluto Maurizio come ritrattista ufficiale dei suoi concerti chiedendogli di disegnare e di far vedere il cantante con gli occhi color inchiostro di una vignetta.
L’epoca dove siamo stati bambini ci ha visti felici forse, di sicuro ricchi. Perfino la nazionale campione del mondo del 1982, la più bella e commovente, aveva Battiato nel Dna.
I calciatori cantavano «cuccurucucu» per caricarsi. E Bruno Conti nel ricordarlo recentemente si è commosso.
Forse c’è davvero vita sugli altri pianeti e Franco ha provato a spiegarcelo. Ma il messaggio non è arrivato a tutti. Maurizio è stato un «eletto» che ha colto la sua Alienità e ha saputo disegnarla.
E con questo libro per il tempo di lettura ci sembra di risentire cicale, estati spensierate, caldo e voglia di avere qualcosa da inseguire, però dopo il cinghiale bianco e Mork in Tv.
Qualcosa che somiglia alla vita, ma un po’ più musicale. E meno distonica.
Fonte
I molteplici volti della transizione enrgetica italiana
Nei media sentiamo parlare in continuazione i politici di ogni schieramento della necessità del passaggio a un’economia verde, di abbandonare i combustibili fossili ed espandere il ruolo delle rinnovabili. Allo stesso tempo, Eni ha avviato la produzione di gas da uno dei quattro pozzi perforati nel Canale di Sicilia negli ultimi mesi.
Lo sfruttamento di Argo Cassiopea (questo è il nome del giacimento) è collegato all’installazione di una quantità di pannelli solari che garantirà la neutralità carbonica per le attività svolte. Ma si tratta pur sempre dell’estrazione di – si prospetta – 10 miliardi di metri cubi di gas naturale, per bruciarlo e consumarlo.
Per quanto nelle strategie governative e di Bruxelles il gas venga considerato una fonte meno inquinante e uno strumento di transizione verso energie più pulite, questa iniziativa continua a guardare evidentemente ai combustibili fossili. Così come è stato fatto nell’ultimo paio d’anni con tanti accordi siglati per slegarsi dal gas russo.
Se diamo uno sguardo al fotovoltaico e all’eolico italiano, i segnali sono altrettanto contrastanti. Il rapporto di luglio di Terna, l’azienda che gestisce la rete nazionale di trasmissione elettrica, segnalava che da gennaio a luglio 2024 la capacità installata in Italia è aumentata di quasi 4,3 GW: +39% rispetto allo stesso periodo del 2023.
I nove decimi di questa quantità proviene dal fotovoltaico, anche se bisogna ricordare che a farla da padrone tra le fonti rinnovabili italiane è, ovviamente, l’idroelettrico. Con oltre 32 mila GWh prodotte nel 2024, in aumento rispetto allo scorso anno, è ancora al primo posto della classifica delle energie pulite.
Sempre nel luglio 2024 era stata diffusa in maniera trionfale la notizia di Terna che, per la prima volta nel nostro paese, la produzione di energia da rinnovabili aveva superato quella da fossili nel primo semestre dell’anno, proprio grazie agli ottimi risultati dell’idroelettrico. Ma qui cominciano i guai.
Innanzitutto, basterebbe poco per investire in maniera intelligente sull’idroelettrico e migliorare nettamente le sue prestazioni, ma ogni progetto futuro è lasciato in mano al mercato. Per di più, in uno scenario di incertezza delle concessioni, dettato da un vero e proprio pasticcio condiviso tra governo Draghi e governo Meloni.
Quest’ultimo sembra essere anche all’origine della frenata delle installazioni che il fotovoltaico ha avuto a luglio, rispetto ai mesi precedenti. Il decreto Aree idonee, approvato a giugno ed entrato in vigore il 2 luglio, ha stabilito criteri e linee guida per identificare i luoghi più adatti in cui posizionare pale eoliche e pannelli fotovoltaici.
Con questo decreto, dai caratteri insieme generici e fumosi, scaricando la decisione finale sulle regioni, il governo è riuscito a far incontrare le critiche delle industrie di settore con quelle degli attivisti ambientali. Per Chiara Campione, responsabile dell’unità Clima per Greenpeace Italia, il provvedimento “di fatto crea più ostacoli burocratici”.
“Manca una strategia coordinata a livello nazionale”, ha aggiunto Campione. “Questo decreto rischia di essere un piccolo banco di prova di ciò che il governo vuole fare con l’autonomia differenziata”, evocando il grande assente di tutta questa storia: una direzione pubblica centralizzata, una politica industriale seria.
Anche quando Palazzo Chigi fa qualcosa di intelligente, ovvero affidarsi a imprese cinesi, la competizione prende il sopravvento. Meloni e compagnia lo fanno perché hanno bisogno degli investimenti di Pechino per rallentare la deindustrializzazione del Paese e la crisi del modello europeo, ma ciò segna anche il riconoscimento per la Cina del ruolo di avanguardia nel settore.
Da qui arriva la richiesta dell’associazione Wind Europe che la Commissione Europea intervenga sul memorandum che Urso ha firmato con MingYang per aprire una fabbrica di turbine eoliche in Italia.
E Bruxelles sta dunque raccogliendo i dati per accusare Pechino di dumping sui prezzi, in un altro versante del braccio di ferro commerciale che procede coi dazi.
MingYang e l’italiana Renexia (qualche multinazionale italiana doveva pur trovarci un guadagno) vogliono aprire un nuovo sito nel centro-sud entro un paio d’anni.
Il portavoce di Wind Europe, Christoph Zipf, ha detto che il memorandum non è in linea “con l’obiettivo dell’UE di mantenere la leadership tecnologica nel settore dell’energia eolica e rafforzare la filiera europea”.
Secondo l’associazione che rappresenta gli operatori eolici europei, Bruxelles dovrebbe studiare il dossier con particolare attenzione alle regole UE sui sussidi esteri.
In sostanza, la necessità della competizione strategica europea stavolta mette in pericolo possibili posti di lavoro e lotta alla crisi climatica, tutto in un colpo solo.
I segnali che arrivano dalle rinnovabili italiane sono dunque contrastanti. Di certo, la strada per la transizione verde è ancora lunga, e difficilmente verrà percorsa dalle forze di mercato, interessate soprattutto alla competitività e ai profitti... e a criticare/contrapporsi alla Cina.
Fonte
Lo sfruttamento di Argo Cassiopea (questo è il nome del giacimento) è collegato all’installazione di una quantità di pannelli solari che garantirà la neutralità carbonica per le attività svolte. Ma si tratta pur sempre dell’estrazione di – si prospetta – 10 miliardi di metri cubi di gas naturale, per bruciarlo e consumarlo.
Per quanto nelle strategie governative e di Bruxelles il gas venga considerato una fonte meno inquinante e uno strumento di transizione verso energie più pulite, questa iniziativa continua a guardare evidentemente ai combustibili fossili. Così come è stato fatto nell’ultimo paio d’anni con tanti accordi siglati per slegarsi dal gas russo.
Se diamo uno sguardo al fotovoltaico e all’eolico italiano, i segnali sono altrettanto contrastanti. Il rapporto di luglio di Terna, l’azienda che gestisce la rete nazionale di trasmissione elettrica, segnalava che da gennaio a luglio 2024 la capacità installata in Italia è aumentata di quasi 4,3 GW: +39% rispetto allo stesso periodo del 2023.
I nove decimi di questa quantità proviene dal fotovoltaico, anche se bisogna ricordare che a farla da padrone tra le fonti rinnovabili italiane è, ovviamente, l’idroelettrico. Con oltre 32 mila GWh prodotte nel 2024, in aumento rispetto allo scorso anno, è ancora al primo posto della classifica delle energie pulite.
Sempre nel luglio 2024 era stata diffusa in maniera trionfale la notizia di Terna che, per la prima volta nel nostro paese, la produzione di energia da rinnovabili aveva superato quella da fossili nel primo semestre dell’anno, proprio grazie agli ottimi risultati dell’idroelettrico. Ma qui cominciano i guai.
Innanzitutto, basterebbe poco per investire in maniera intelligente sull’idroelettrico e migliorare nettamente le sue prestazioni, ma ogni progetto futuro è lasciato in mano al mercato. Per di più, in uno scenario di incertezza delle concessioni, dettato da un vero e proprio pasticcio condiviso tra governo Draghi e governo Meloni.
Quest’ultimo sembra essere anche all’origine della frenata delle installazioni che il fotovoltaico ha avuto a luglio, rispetto ai mesi precedenti. Il decreto Aree idonee, approvato a giugno ed entrato in vigore il 2 luglio, ha stabilito criteri e linee guida per identificare i luoghi più adatti in cui posizionare pale eoliche e pannelli fotovoltaici.
Con questo decreto, dai caratteri insieme generici e fumosi, scaricando la decisione finale sulle regioni, il governo è riuscito a far incontrare le critiche delle industrie di settore con quelle degli attivisti ambientali. Per Chiara Campione, responsabile dell’unità Clima per Greenpeace Italia, il provvedimento “di fatto crea più ostacoli burocratici”.
“Manca una strategia coordinata a livello nazionale”, ha aggiunto Campione. “Questo decreto rischia di essere un piccolo banco di prova di ciò che il governo vuole fare con l’autonomia differenziata”, evocando il grande assente di tutta questa storia: una direzione pubblica centralizzata, una politica industriale seria.
Anche quando Palazzo Chigi fa qualcosa di intelligente, ovvero affidarsi a imprese cinesi, la competizione prende il sopravvento. Meloni e compagnia lo fanno perché hanno bisogno degli investimenti di Pechino per rallentare la deindustrializzazione del Paese e la crisi del modello europeo, ma ciò segna anche il riconoscimento per la Cina del ruolo di avanguardia nel settore.
Da qui arriva la richiesta dell’associazione Wind Europe che la Commissione Europea intervenga sul memorandum che Urso ha firmato con MingYang per aprire una fabbrica di turbine eoliche in Italia.
E Bruxelles sta dunque raccogliendo i dati per accusare Pechino di dumping sui prezzi, in un altro versante del braccio di ferro commerciale che procede coi dazi.
MingYang e l’italiana Renexia (qualche multinazionale italiana doveva pur trovarci un guadagno) vogliono aprire un nuovo sito nel centro-sud entro un paio d’anni.
Il portavoce di Wind Europe, Christoph Zipf, ha detto che il memorandum non è in linea “con l’obiettivo dell’UE di mantenere la leadership tecnologica nel settore dell’energia eolica e rafforzare la filiera europea”.
Secondo l’associazione che rappresenta gli operatori eolici europei, Bruxelles dovrebbe studiare il dossier con particolare attenzione alle regole UE sui sussidi esteri.
In sostanza, la necessità della competizione strategica europea stavolta mette in pericolo possibili posti di lavoro e lotta alla crisi climatica, tutto in un colpo solo.
I segnali che arrivano dalle rinnovabili italiane sono dunque contrastanti. Di certo, la strada per la transizione verde è ancora lunga, e difficilmente verrà percorsa dalle forze di mercato, interessate soprattutto alla competitività e ai profitti... e a criticare/contrapporsi alla Cina.
Fonte
Iscriviti a:
Post (Atom)