30/09/2020
Recovery fund - Quante risorse per il Mezzogiorno?
Di seguito un ottimo esempio di denuncia che finisce per favorire gli elementi che vorrebbero denunciare...
Alcun conclusioni parziali, come quella che ipotizza una divisione dell'Italia sul modello della separazione della Cecoslovacchia sono imbarazzanti.
C'è un grosso bisogno di studio a sinistra, ma si continua a perseguire esclusivamente il movimentismo o poco di più.
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In questi ultimi mesi, complice il cambio di governo e l’avvento della pandemia, il tema del Mezzogiorno e dei diritti dei suoi cittadini sembra essere scivolato in fondo alle priorità dell’agenda politica del paese.
L’autonomia differenziata era stata uno dei principali temi di scontro all’interno dell’esecutivo “giallo-verde”, probabilmente una delle cause nodali della fine di quell’esperienza governativa, con l’avvento del governo Conte-Bis, nonostante le condizioni generali non siano mutate di una virgola, la questione meridionale è sparita di nuovo dal dibattito pubblico. Eppure mai come in questo momento le disuguaglianze territoriali e l’aumento della povertà, specialmente legata ai working poor, dovrebbero preoccupare non poco l’azione politica di chi è al governo.
L’ultimo accenno alla questione è stato la presentazione del Piano Sud 2030 dello scorso febbraio, annunciato con una conferenza stampa congiunta dal premier Conte, dal Ministro per il Mezzogiorno Provenzano e delle Scuola Azzolina a Gioia Tauro. Da allora le cose nel mondo e nel paese sono cambiate radicalmente con l’avvento del Covid-19, i meccanismi economici su cui si basavano le certezze di capi di governo e ministri delle finanze sono crollate nel giro di pochi mesi, mettendo probabilmente fine (almeno sul piano europeo) all’austerità cosi come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quindici anni.
Quello che però sembra non cambiare mai, anzi continua inesorabilmente a peggiorare, è lo squilibrio tra regioni del nord e del sud nel nostro paese, soprattutto come la questione meridionale venga affrontata o meglio non venga affrontata e ridotta a “lamentela” di chi vuole vivere di assistenzialismo nei confronti della parte sana e produttiva del Paese.
Tutto questo nonostante negli ultimi anni diversi studi autorevoli, dalla Svimez fino ai rapporti Eurispes, abbiano ampiamente dimostrato che questa narrazione non solo non corrisponde alla realtà ma anzi avvalli la tesi in base alla quale, in molti casi, la qualità dei servizi pubblici e la capacità produttiva delle regioni settentrionali sia stata garantita aumentando la pressione fiscale nel mezzogiorno e tagliando le risorse alle stesso. Tant’è che oggi è sempre più diffusa, anche nei circuiti più distanti dalle rivendicazioni identitarie e autonomiste, la consapevolezza che in Italia non ci sia una garanzia di eguali diritti di cittadinanza tra chi nasce nel sud e chi nasce nel nord del paese, con la bilancia che pende inesorabilmente in favore di questi ultimi.
Come era prevedibile anche nella crisi economica scatenata dalla Pandemia, questa tendenza è tutt’altro che invertita, andando a guardare la distribuzione degli aiuti economici messi in campo per sostenere imprese e famiglie durante questi ultimi sei mesi, si può notare come solo il 30% del totale sia arrivato al sud a fronte di una popolazione del 34%, un’economia già in recessione che non era ancora riuscita a recuperare i livelli di crescita pre-2008; mentre il centro-nord ha visto una variazione del PIL in positivo nell’ultimo anno dello +0,3%, e sostanzialmente il ritorno ai livelli occupazionali e di crescita di circa dieci anni fa.
In questo quadro la commissione UE ha deciso di assegnare circa 200 miliardi di euro all’Italia per far fronte all’emergenza sanitaria ed economica, risorse che sono assegnate sulla base delle caratteriste dei paesi dell’unione, dei loro squilibri interni e sul gap che molte regioni, specialmente nell’Europa meridionale, hanno rispetto alla media europea in termini di sanità, crescita, occupazione, digitalizzazione, politiche ambientali e diritti di cittadinanza più in generale.
Non è chiaro come saranno distribuite queste risorse a livello regionale, l’Italia presenterà il 15 ottobre a Bruxelles diversi progetti, per un finanziamento pari quasi al doppio della cifra che oggi è messa a disposizione, l’Unione Europea dovrà valutarne la finanziabilità e la coerenza con le linee guida, che si basano sulla coesione territoriale, l’aumento dell’occupazione con particolare attenzione a quella femminile, le politiche ambientali e la digitalizzazione dei diversi paesi.
Verrebbe naturale pensare che in paese che si dice unito, in una Repubblica che all’articolo 3 della sua Costituzione si promuove di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, queste risorse vadano investite nel ridurre le disuguaglianze che ancora invece esistono, sia dal punto di vista territoriale chesia da quello di classe. Cosa che sembrerebbe concordare a pieno con le linee guida espresse dalla stessa commissione europea.
Visti i grossi squilibri territoriali ancora esistenti, che mettono fortemente in discussione l’accesso alla cittadinanza per i cittadini meridionali, sarebbe logico che la maggior parte di queste risorse fosse investita nel sud del paese. Anche perché se sono stati accordati 200 miliardi di euro, non è certo per “meriti” o grazie alla presunta capacità produttiva delle regioni locomotiva, queste risorse sono state assegnate in base ai record negativi che molte regioni del sud esprimono in termini di occupazione, sviluppo ecc.
Basti pensare che la Campania e Calabria sono maglia nera in Europa per le percentuali di occupazione femminile, solo 1 donna su 3 è occupata nel Mezzogiorno mentre in Europa l’occupazione femminile supera il 60% e la media italiana è del 52%. O potrei portare ad esempio l’esposizione alla povertà di chi invece ha un lavoro, ancora una volta le regioni del sud sono ai primi posti, il 26% degli occupati nel mezzogiorno è a rischio povertà. (fonte rapporto Svimez 2019). Insomma un quadro critico aggravato dalla storica assenza di investimenti e di politiche per il Mezzogiorno nel nostro paese, trattato spesso come una colonia da cui attingere solo forza lavoro a basso costo e dover far confluire le merci che si producono nelle regioni settentrionali.
Invece come al solito parte l’assalto alla diligenza, con il Partito Unico del Nord che prova ad approfittare della situazione per ribaltare il tavolo a proprio favore, cosi iniziano gli attacchi al sud definito “rivendicazionista” da Micossi di Assonime che ritiene che il mezzogiorno abbia più risorse di quelle che riesce a spendere (!!) o l’uscita di Zingaretti qualche giorno fa sui quotidiani nazionali nella quale afferma che “al Mezzogiorno andrà il 34% del Recovery Plan”, manco ci stesse facendo un favore.
Forse il capo politico del PD confonde il livello di spesa ordinaria per il sud – che dovrebbe essere il 34% di ogni investimento pubblico essendo i meridionali il 34% della popolazione nazionale, che né il suo governo di oggi né quelli precedenti sono mai riusciti a garantire facendo perdere alle regioni del sud e ai loro cittadini circa 60 miliardi di euro l’anno – con l’attribuzione delle risorse del recovery plan, che invece devono essere allocate sulla base degli squilibri economici e di mancata coesione territoriale preesistente: ovviamente, se applicassimo questa logica, al Mezzogiorno dovrebbe andare più del 60% delle risorse messe a disposizione dall’UE.
Siamo di nuovo di fronte ad un tentativo di saccheggio di risorse che non piovono dal cielo, ma sono assegnate per scopi ben precisi; intanto nessun governatore del sud e nessuna forza politica ha promesso barricate in difesa della Costituzione e dell’uguaglianza tra cittadini e cittadine dello stesso Stato.
Viene allora da pensare che se il Mezzogiorno e le isole sono sempre considerati un territorio da depredare, un’inutile zavorra che blocca lo sviluppo del paese e delle regioni più produttive, oggi che siamo tutti in Europa non sarebbe più coerente prendere strade diverse? Nella storia dell’Unione Europea abbiamo diversi esempi di unificazione e divisione statale di alcuni territori, la Repubblica Ceca e quella Slovacca o la Germania Federale.
Nel primo caso la separazione non è stata una dramma, non ha portato alla fame nessuno dei due territori anzi ha permesso uno sviluppo separato e coerente di ognuno di loro, se non ci sono le condizioni per stare insieme possiamo benissimo dividere il debito pubblico su base regionale e fare in modo che siano i diversi territori a trattare con l’Unione Europea rispetto alla distruzione dei fondi e sul loro utilizzo: sarebbe una scelta più onesta e rispettosa delle diversità. Se però si sceglie di essere un paese unito allora la Carta Costituzionale deve valere per tutti, non si può accettare che una bambina che nasce a Catanzaro parta con meno 4000 euro pro-capite di investimenti pubblici rispetto a bambino che nasce a Modena.
Non possiamo continuare a vedere progetti per l’implementazione della Torino – Lione, per un valore di 1 miliardo di euro, mentre per muoversi all’interno della Campania i tempi di spostamento superano le 3 ore da un capoluogo di provincia a quello della provincia più vicina, l’alta velocità è ferma a Salerno, dove gli asili nido sono garantiti solo a 15 bambini ogni 100 e dove il reddito pro-capite è tre volte più basso rispetto a quello delle regioni del centro-nord.
La Germania negli anni ’90 ha messo in campo un vero processo di unificazione, nessuno si è scandalizzato quando enormi risorse state messe a disposizione delle regioni dell’est ex sovietico, per colmare i gap sociali ed economici, come succede invece in Italia ogni qual volta si spende un euro per il Mezzogiorno e le isole. Anche se oggi è possibile dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che non c’è nessuna innata attitudine all’assistenzialismo o che le regioni del sud sia destinate al sotto-sviluppo, che queste sono vere e proprie fake news; c’è stata negli anni una deliberata acquisizione indebita di risorse che costituzionalmente sarebbero dovute essere garantite al Mezzogiorno e alle isole.
Non si può continuare a vivere nell’ipocrisia, lasciatemelo dire, e nell’opportunismo di essere un solo paese quando si trattano le risorse del recovery plan o quando 200 mila laureati in 10 anni si spostano verso il nord garantendo forza lavoro qualificata a basso costo senza nessun investimento in formazione, mentre quando bisogna decidere di ridurre le disuguaglianze allora ognuno tiene la cassa per sé. Sarebbe molto più onesto farlo sempre e affrontare la questione dell’unità statale e territoriale senza ideologie e retorica.
Intanto agli abitanti del sud e delle isole toccherà lottare con le unghie e con i denti affinché queste risorse non siano scippate ancora una volta, consapevoli che non ci sono forze politiche o rappresentanti istituzionali che remeranno dalla nostra parte.
Come al solito ci toccherà rimboccare le maniche e lottare più forte di ogni pregiudizio.
Leggi l’articolo su ilsudconta.org
Alcuni dati sulle condizioni economiche e sociali in cui si trovano il Mezzogiorno e le isole oggi:
- La pandemia Covid 19 arriva in un momento di recessione del Mezzogiorno, nel 2019 il PIL aveva avuto una variazione del - 0,2% rispetto a al + 0,3% del centro- nord.
- Nel ventennio precedente nel Mezzogiorno c’è stato un calo degli investimenti dei settori: costruzione, macchine, attrezzature e mezzi di trasporto del - 33% a fronte del -15% del centro-nord. (Svimez)
- Stesso discorso vale per gli investimenti in conto capitali della P.A., che tra il 2000 e il 2017, sono stati cosi distribuiti: 71% al centro-nord contro il 29% al mezzogiorno e alle isole, di questa quota (circa 10 miliardi l’anno, almeno per gli ultimi 5 anni) solo il 21% proviene da risorse ordinarie dello stesso il resto è garantito con risorse aggiuntive per lo più provenienti dall’Unione Europea. (Svimez)
- Lo Svimez calcola deficit di circa 100 miliardi di mancati investimenti al sud solo negli ultimi 20 anni.
- Il mezzogiorno deve recuperare un gap d’investimenti da parte dello stato centrale che si riflette sulla qualità della vita e dei servizi degli abitanti del meridione, nel 2017 lo Stato Italiano ha speso 15.297 euro pro-capite per ogni cittadino del centro-nord e solo 11.929 euro ogni cittadino del sud, la forbice negli ultimi anni è andata sempre più divaricandosi. La spesa per il Mezzogiorno è stata tagliata dell’1% mentre per il centro Nord è aumentata dell’1,6%. (Eurispes 2020).
- Il reddito medio delle famiglie meridionali è il 60% in meno rispetto a quelle del centro-nord. Nel Nord Ovest il reddito medio per abitante è di 22 mila 300 euro contro i 14 mila del sud. Questo porta una diretta conseguenza sulla spesa per i consumi per abitante, che va dai 20 mila euro per abitante per chi vive in Veneto o in Liguria, ai 13 mila euro annui per chi invece vive in Campania o Calabria. (Istat)
- In termini occupazionali lo storico gap tra nord e sud si è aggravato negli anni attorno alla crisi finanziaria del 2008, specialmente in termini occupazionali. Oggi l’Istat stima che a causa della pandemia al sud si siano persi circa 300 mila posti di lavoro, lo stesso numero di posti persi tra il 2010 e 2014, che nel mezzogiorno non erano mai stati recuperati. Nel 2019 la disoccupazione nel Mezzogiorno (19,4%) continuava a essere 3 volte quella del Nord (6,9%).
- La situazione più drammatica resta quella del lavoro femminile a sud, dove solo 1 donna su 3 risulta occupata a fronte di una media nazionale che supera il 50%, di queste solo il 62 % ha una laurea mentre la media nazionale è del 75% e quella europea dell’81%. Le 5 regioni meridionali sono tra le 20 regioni europee con il tasso più basso di occupazione femminile.
- Il Mezzogiorno vede anche la maggiore concentrazione di working poor, il 26% degli occupati nel sud Italia è a rischio povertà.
- Il 70% dei comuni Italiani in dissesto o pre-dissesto sono collocati nel mezzogiorno e all’oggi la perequazione del 100% del Fondo di solidarietà comunale non è garantita a dispetto della Costituzione. Con un’evidente carenza sul piano dei servizi alla cittadinanza nei comuni del sud dell’Italia. A questo va aggiunta la mancata applicazione dei Lep e il superamento del criterio della spesa storica, che ha generato enormi squilibri, nella ripartizione dei fondi sulla sanità tra regioni.
- L’eredità dei divari del sistema scolastico è un’altra emergenza del Mezzogiorno. L’84% degli studenti meridionali non ha il tempo pieno nelle scuole primarie, altissime sono le quote di giovani che non possono accedere agli spazi mensa (81%) o a palestre nelle proprie scuole (61%).
- La quota per gli studenti del centro nord invece supera di poco il 50%. Più del 70% degli edifici scolastici dell’Italia meridionale non hanno la certificazione di agibilità, con enormi pericoli per la popolazione studentesca. Alle carenze strutturali vanno aggiunte delle vere e proprie assenze, nel mezzogiorno per ogni 100 bambini dagli 0–3 anni ci sono solo 11 posti di asilo nido, a fronte degli impegni presi dall’Italia nella conferenza di Barcellona del 1998 di portare questo numero a 33 posti per ogni 100 bambini.
- Il sistema d’infrastrutture per i servizi di mobilità pone il Sud mediamente a un livello pari al 50% del valore medio UE.
- Tutta questa situazione stimola inevitabilmente l’emigrazione, specialmente quella giovanile, tra il 2000 e il 2015 circa 2 milioni e mezzo di persone ha abbandonato le regioni del sud per cercare lavoro nel nord del paese o all’estero. Solo nei comuni con meno di 5 mila abitanti negli ultimi 15 anni sono scomparsi circa 250 mila abitanti, oltre al problema occupazionale, grava sulle aree interne il problema dell’assenza di servizi e d’infrastrutture (la rete internet adeguata), in Calabria la distanza dai presidi medici per alcuni comuni può superare anche i 50 km.
- Nella fase della pandemia gli aiuti economici messi in campo dal governo sono arrivati al mezzogiorno solo per il 30% del totale a fronte di una popolazione del 34%. L’unica forma di sostegno per i redditi e i consumi delle famiglie meridionali è stato appunto il reddito di cittadinanza, che con una media di 500 euro per percettore è arrivato a quasi 700 mila famiglie meridionali.
Fonte
Francia - “La Polizia è fuori controllo e potenzialmente golpista”
Questa polizia è maledetta, razzista nel profondo, fuori controllo, impazzita per la violenza, bloccata nella negazione collettiva e ha solo episodi di attacchi terroristici per rifarsi l’immagine”. Intervista a Frédéric Lordon
È da poco uscito nelle librerie “Police”, opera collettiva pubblicata dalla casa editrice La Fabrique, in cui viene analizzata, grazie ai contributi eterogenei dei diversi autori, la natura storica e sociale della polizia, il suo ruolo e le sue funzioni all’interno dell’attuale società capitalista, la “legittimità” della violenza, la “degenerazione” aggressiva e la fascistizzazione dei suoi agenti. Partendo dalle enormi mobilitazioni di piazza degli ultimi anni in Francia – da quelle contro la Loi Travail fino al movimento dei Gilets Jaunes – e sull’onda lunga delle manifestazioni contro le violenze brutali e spesso letali (Geroge Floyd, Jacob Blake, Breonna Taylor, Dijon Kizzee, Deon Kay...) della polizia statunitense, viene investigato a fondo lo stretto legame oggi vigente tra politiche neoliberiste, repressione del dissenso e controllo sociale.
Di seguito la traduzione della prima parte dell’intervista ad uno degli autori, Frédéric Lordon, realizzata da Selim Derkaoui e Nicolas Framont per la “rivista indipendente di critica sociale per il grande pubblico” Frustration.
È da poco uscito nelle librerie “Police”, opera collettiva pubblicata dalla casa editrice La Fabrique, in cui viene analizzata, grazie ai contributi eterogenei dei diversi autori, la natura storica e sociale della polizia, il suo ruolo e le sue funzioni all’interno dell’attuale società capitalista, la “legittimità” della violenza, la “degenerazione” aggressiva e la fascistizzazione dei suoi agenti. Partendo dalle enormi mobilitazioni di piazza degli ultimi anni in Francia – da quelle contro la Loi Travail fino al movimento dei Gilets Jaunes – e sull’onda lunga delle manifestazioni contro le violenze brutali e spesso letali (Geroge Floyd, Jacob Blake, Breonna Taylor, Dijon Kizzee, Deon Kay...) della polizia statunitense, viene investigato a fondo lo stretto legame oggi vigente tra politiche neoliberiste, repressione del dissenso e controllo sociale.
Di seguito la traduzione della prima parte dell’intervista ad uno degli autori, Frédéric Lordon, realizzata da Selim Derkaoui e Nicolas Framont per la “rivista indipendente di critica sociale per il grande pubblico” Frustration.
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Nel lavoro collettivo “Police” vi chiedete “Quale “violenza legittima”?”, espressione usata regolarmente dall’“alto” della gerarchia, che poi parla di “monopolio della violenza legittima” (come la prefettura, la DGSI, il governo, i politologi e gli esperti di televisione, ecc.). Tuttavia, tra le violenze della polizia nei quartieri popolari, che esistono già da diversi decenni, e la repressione dei Gilets Jaunes, i/le francesi sono sempre più diffidenti nei confronti della loro polizia [solo il 43% dei francesi si “fida” della polizia, secondo un sondaggio dell’Ifop pubblicato su L’Express, ndt]. Ma da dove viene questa “legittimità”, che oggi sembra essere contestata?
In effetti, dobbiamo cominciare a chiederci quale sia la legittimità – in generale – poiché, quando si tratta della polizia e della sua violenza, essa è diventata oggetto di dibattito. La legittimità non è una qualità occulta, come dicevano gli Scolastici, né una qualità sostanziale, acquisita una volta per tutte – per esempio attraverso la prova elettorale. La legittimità è il prodotto di una formazione immaginaria collettiva, come tale costantemente da produrre e riprodurre. In parole povere, un’istituzione è legittima se e fintanto che la gente la considera tale. Si potrebbe dire che questa è una perfetta circolarità. Questo è vero. Ma il mondo sociale funziona costantemente grazie a questo tipo di circolarità. Perché è la circolarità della convinzione, il mondo sociale è pieno di credenze, non è pieno di nient’altro. Riprodurre un ordine sociale, riprodurre le sue istituzioni, mantenerle in “legittimità”, suppone riprodurre e mantenere la convinzione – la convinzione che queste istituzioni sono buone, che la loro azione è giusta e giustificata, ecc. Per questo motivo ogni ordine sociale, per perseverare, deve mobilitare, oltre alle forze fisiche, anche forze simboliche dell’ordine; le prime hanno la vocazione di minimizzare il ricorso alle seconde e di rendere accettabile questo ricorso quando deve comunque avvenire. Così l’ordine sociale e il potere producono continuamente discorsi e immagini sulla polizia, il cui consolidamento simbolico è una questione vitale poiché la polizia è la soluzione di ultima istanza per la sopravvivenza – questo è ciò che la mobilitazione dei Gilets Jaunes ha dimostrato in maniera cruda: ora sappiamo come vanno le cose quando un potere è tenuto insieme solo dalla sua polizia.
A proposito, è qui che vediamo cosa sia l’egemonia nel senso di Gramsci: qualsiasi altra cosa che non sia l’azione propagandistica di un singolo polo come il potere dello Stato. L’egemonia è l’effetto diffuso ma penetrante di una moltitudine di istanze di produzione simbolica, le cui azioni sono apparentemente del tutto indipendenti l’una dall’altra, ma il cui coordinamento delle opinioni, dei messaggi, è oggettivo e oggettivamente adeguato all’ordine sociale. Per esempio, nessuno ha bisogno di riunire e coordinare formalmente Christophe Barbier, Jacques Attali, Emmanuel Lechypre, Philippe Aghion, Dominique Seux, Jean Tirole, Didier Migaud, Bruno Le Maire, Léa Salamé, Geoffroy Roux de Bézieux, per ottenere discorsi perfettamente e oggettivamente coordinati – che alla fine diventano uno solo: il discorso del neoliberalismo economico.
In sostanza, l’egemonia di Gramsci è l’equivalente politico dell’habitus di Bourdieu a livello sociologico: produce effetti di orchestrazione senza richiedere alcun direttore d’orchestra (Bourdieu). Lo stesso vale per la polizia. Il discorso legittimante della polizia è costituito dalla congiunzione di una moltitudine di discorsi, o produzioni simboliche, formalmente indipendenti, ma notevolmente allineate, in cui si trovano ovviamente i discorsi istituzionali del potere politico e dell’amministrazione della polizia, della giustizia anche nelle sue operazioni di copertura, ma anche del giornalismo di prefettura, che è caratteristico di quasi tutti i media audiovisivi, più tutto il lavoro di giustificazione degli “esperti” e degli editori, soprattutto i continui canali di informazione, e infine, e forse soprattutto, il lavoro a lungo termine, fittizio o “documentario”, per impregnare le menti di immagini positive della polizia. Il testo di Julien Coupat sulla serie Engrenages è esemplare di ciò di cui sto parlando. Anche in questo caso, Engrenages si occupa di esplorare il “lato oscuro” degli individui – senza conseguenze politiche, rassicuriamoci, come sempre, si tratta di “problemi personali”. Un misto di apologetica e asepsi perfetta – anche per i poliziotti, deve sembrare molto strano vedere l’immagine delle loro disgustose stazioni di polizia trasformate in locali di start-up o laboratori high-tech – il tutto sotto la guida di un principio costante: i poliziotti sono persone bellissime, interamente dedicate al bene pubblico.
Ma nell’ordine delle bastonate simboliche, c’è di peggio: ci sono tutti questi programmi di giornalismo embedded, il culmine del falso realismo, quindi sotto questo aspetto infinitamente più feroci della “finzione”, poiché questa è presumibilmente la “realtà”. La TNT, che è una fogna televisiva a cielo aperto, riversa ogni giorno questa marea di propaganda mascherata da obiettività giornalistica. Non c’è una serata della settimana senza che uno di questi canali, a volte diversi, trasmetta un “rapporto” con una telecamera di bordo sulla polizia municipale di Cap d’Agde o di Tolone (“Incidenti, furti con scasso e notti calde”), la gendarmeria autostradale, o la GIGN. Con un copione unico: nella società ci sono persone buone, ma il male si annida ovunque: persone irresponsabili più o meno pericolose, delinquenti incalliti, per fortuna c’è la polizia. Sono sempre perfettamente rispettosi della gente, vuoi arrestarli regolarmente, non ti arrabbiare mai e poi mai, non parlarne. La falsità di queste immagini può essere facilmente paragonata a quella di stazioni di polizia stellari fittizie. Questo è il fascino dell’egemonia nel capitalismo: abbiamo film che potrebbero essere stati commissionati direttamente dalla questura, ma che sono stati realizzati spontaneamente da una miriade di produttori formalmente indipendenti – il meglio dei due mondi.
Chomsky parlava della fabbrica del consenso, ci siamo proprio in mezzo. E, a proposito della polizia e della produzione della legittimità della polizia, quando apriamo il tetto della fabbrica, vediamo tutto questo: da Darmanin e Macron a “Enquête sous haute tension” (C8), “Enquête d’action” (W9), “Au coeur de l’enquête” (C star), “Urgences” (NRJ 12), passando per Yves Calvi, Alain Bauer e lo staff permanente di FranceInfo. È così che consolidiamo le basi simboliche di “un pays qui se tient sage”, come direbbe David Dufresne.
Per inciso, questo la dice lunga sui livelli che la violenza della polizia ha dovuto raggiungere negli ultimi anni per attestare una tale base di granito. Ma ecco, tanto di cappello, è fatta. Inoltre, si potrebbe pensare che l’intensificarsi del lavoro di propaganda delle forze dell’ordine su tutti i fronti, fino ad arrivare al massacro quotidiano, sia il segno di un ordine di dominio forzato sulla difensiva, di cui tutti i tentativi di legittimazione (economica, sociale) falliscono, cosicché lo sforzo di legittimazione si stringe attorno all’ultimo baluardo da proteggere: la polizia, uno sforzo di ultima istanza, poiché qui l’intervento delle forze dell’ordine simboliche funziona solo per sostenere l’intervento delle forze fisiche dell’ordine – cioè se si sente come se fosse al capolinea. La funzione della periferia come “laboratorio” di repressione, funzione che è stata individuata solo negli ambienti più consapevoli (oltre che, inutile dirlo, a quelli più interessati), si rivela costantemente a fasce sempre più ampie della popolazione proprio perché queste fasce vivono oggi, oltre che attraverso la televisione, l’incontro con la polizia. Tale è stato in definitiva lo shock simbolico dei Gilets Jaunes.
La repressione della polizia contro il movimento dei Gilets Jaunes è un passo importante in questa progressiva delegittimazione della polizia agli occhi della popolazione. Tuttavia, all’inizio del movimento, a causa della sociologia e della geografia relativamente vicina tra i manifestanti e la polizia, c’è stata una certa “intesa cordiale”, prima della tempesta, tra i due.
Se volete, parliamone con le categorie della stampa: i “francesi”, tutto ciò che c’è di più “normale”, inseriti nella forza lavoro stipendiata, a volte anche con una bandiera, insomma il tipico ritratto della “brava gente” secondo TF1 o un canale del gruppo Bolloré, hanno rivelato il loro stato di miseria, disordine, abbandono totale. Nella disperazione, contro il loro stesso habitus, scendono in strada. È allora che incontrano la polizia. Il punto importante è la disposizione in cui si trovano al momento di questo incontro. Pochissimi sono inclini a “odiare la polizia”, anzi, al contrario: da un lato, da anni escono dalla fogna di TNT e prendono quotidianamente in testa il flusso della propaganda incastrata; dall’altro, come voi sottolineate, c’è un principio di prossimità nello spazio sociale, da loro intuitivamente percepito e che li dispone spontaneamente all’affinità, forse anche alla simpatia, anche alle speranze di “fraternizzazione”. Solo che, subito, vengono picchiati, gasati, portati via, tutto quanto. Bisogna misurare la violenza dello shock della stupefazione, e il crollo simbolico che ne consegue. “La polizia, non è quello che ci è stato detto; la polizia, ecco cos’è”. In realtà, c’è una dinamica che non può che aumentare: man mano che il disastro neoliberista si diffonde, man mano che sempre più ampie fasce della popolazione vengono colpite, in quanto sperimentano l’assoluta inanità dei consueti canali (elettorali, sindacali) di protesta, sono destinate ad identificare la strada come l’ultima soluzione possibile, e quindi a confrontarsi con le forze dell’ordine nelle condizioni che la situazione generale determina oggi.
Naturalmente, la domanda diventa così la seguente: possiamo fare a meno della polizia in Francia in modo permanente, o almeno, possiamo affrontarla, nella misura in cui la sua sociologia e la sua posizione sociale (al di fuori della gerarchia) la rende di fatto appartenente alla classe lavoratrice?
Se le situazioni non sono strettamente identiche, sono abbastanza vicine da far sì che la congiunzione Portland-Parigi abbia prodotto l’esplosione che abbiamo visto. E nella circolazione transatlantica di immagini e slogan, abbiamo visto apparire l’idea di “abolire la polizia”. Qui, vorrei dire una parola sull’eterogeneità delle posizioni dei vari autori del lavoro “Police” – eterogeneità che mi sembra un’ottima cosa. Per esempio, Eric Hazan, in linea con l’argomento della vicinanza sociologica che voi avete appena citato, al quale non manca di aggiungere un’analisi storica e strategica, è l’unico che detiene sfacciatamente una posizione di “polizia con noi”, contro il “tutti odiano la polizia” che è diventato un’evidenza primaria nei nostri circoli. Sull'“abolizione della polizia”, che sicuramente vincerà in questi stessi circoli perché può essere presentata come una sorta di conseguenza dedotta dalla premessa “tutti odiano la polizia”, penso che mi ritroverò in minoranza a non condividerla.
Ora, perché il dibattito possa sembrare tale, dobbiamo chiarire di cosa stiamo parlando, e in particolare cosa intendiamo per “polizia”. Se per “polizia” intendiamo l’istituzione di polizia così come l’abbiamo sotto gli occhi, simile a quella che vediamo in altri paesi, in particolare negli Stati Uniti, penso che non ci sia dubbio che questa istituzione è maledetta, razzista nel profondo, fuori controllo, impazzita per la violenza, bloccata nella negazione collettiva e sfrutta solo episodi di attacchi terroristici per rifarsi l’immagine, e va a briglia sciolta tutto il resto del tempo. Vive in un tale stato di separazione dal corpo sociale e di macerazione interna, che la sociologia del particolare prevale, di gran lunga, sulla sociologia generale.
Questo è quanto ha dimostrato l’episodio dei Gilets Jaunes, con un’argomentazione a fortiori: nelle condizioni di massima vicinanza sociologica a priori, GJ e la polizia hanno dato quello che sappiamo. Questa forza di polizia non è selvaggia. Oppure richiederebbe prima una trasformazione completa delle strutture più una trasfusione ex sanguigna... cioè prima una quasi distruzione. Segue la ricostruzione dal basso verso l’alto. Tuttavia, l’esercizio di un’architettura istituzionale astratta rischierebbe di incorrere in problemi se si dimenticasse delle pesanti predeterminazioni che la sua appartenenza al moderno Stato borghese – lo Stato del capitale – pone fin dall’inizio all’istituzione di polizia. È certo che, partendo da dove siamo partiti, c’è, anche in questo quadro, un margine di miglioramento, ma non per trasformare la zucca in una carrozza. È abbastanza chiaro che la posizione abolizionista ha (o deve avere) come presupposto implicito di essere situata in una formazione sociale post-capitalistica. In ogni caso, il dibattito inizia a questo punto: distruggere la polizia allora, ma non lasciare nulla al suo posto? Se questo è il significato di “abolire la polizia”, è da lì che non posso andare avanti.
Concettualmente, la polizia è l’insieme dei mezzi e (soprattutto) delle persone alle quali un collettivo consegna una delega di potere per assumere la funzione di interposizione in caso di controversia. Il termine “disputa” va inteso in tutta la sua generalità, non è vero che può andare da un disturbo notturno a un omicidio. In ogni caso, dobbiamo partire da una caratterizzazione così astratta per poter ri-immaginare l’immensa variabilità delle forme concrete che la polizia, così ridefinita, può assumere – ben oltre ciò che l’ordine capitalistico ci impone. Un comitato di quartiere con persone riconosciute come mediatori è una forza di polizia. È chiaro che non c’è paragone con ciò che abbiamo per le mani come forze di polizia – tranne, ma è importante, che entrambe le forme rientrano nella stessa definizione astratta. Mi ha molto interessato l’intervista a Kristian Williams, uno scrittore e attivista anarchico che vive a Portland ed è in prima linea nella lotta per “il definanziamento e l’abolizione della polizia”. Gli viene presentata la domanda-osservazione che di solito viene avanzata contro la posizione abolizionista: “Come rispondete a coloro che prevedono o temono che in un mondo senza polizia, il caos, la vendetta personale diventeranno la norma?”. La risposta di Williams differisce significativamente da quella che ci si aspetta spontaneamente: “Questa preoccupazione non è folle. Con questo intendo dire che dubito che vogliamo vivere in un mondo dove assolutamente nessuno proteggerebbe i deboli e pacifici dai forti e dai predatori... L’agenda abolizionista non può semplicemente rimuovere l’istituzione a cui ci opponiamo. Deve anche offrire alternative per risolvere le controversie, limitare i conflitti, assicurare la pace e rispondere al crimine”. Non c’è bisogno di cavillare sul fatto che questa è un’abolizione che non abolisce, almeno non tutto, e la firmo con entrambe le mani. Quello che io, per esempio, trovo folle è la negazione: la negazione della possibilità della violenza. Non della sua fatalità, perché chi vede Hobbes ovunque lo distorce: della sua possibilità. L’uomo non è essenzialmente né buono né cattivo (non c’è “essenza umana”), ma è capace di essere entrambi. In quali proporzioni? È la configurazione generale di una forma di vita che risponde essenzialmente a questa domanda, è la particolare configurazione della “polizia” che racconta come la comunità sta facendo il male di entrambi.
Probabilmente non ci si dovrebbe ossessionare con i problemi concettuali, ma non si dovrebbe nemmeno ignorarli completamente, se non per ritrovarsi a essere addestrati a dire qualcosa. Vivere senza le forze di polizia che abbiamo oggi, possiamo sicuramente farcela. Vivere del tutto senza polizia, cioè senza una qualche forma istituzionale che assuma la funzione di polizia, cioè la funzione di interposizione delegata dalla comunità, non si può. Quindi, nello stesso momento in cui ci prepariamo ad abolire “questa polizia che è nostra oggi”, dobbiamo pensare a cosa verrà al suo posto, perché non ci può essere nulla. Abbiamo ancor più motivo di pensarlo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che è un difetto molto generale delle istituzioni di qualsiasi tipo, cioè la loro tendenza a cominciare a vivere una vita propria, separata dall’ambiente che le ha create o che le ha richieste. Non c’è motivo di escludere la possibilità che una forma di polizia “ammissibile” all’inizio possa diventare odiosa a causa di abusi successivi. Ma riguardo all’imperativo di supervisionare i supervisori, o di sorvegliare i supervisori, le cose sono state dette da molto tempo.
La questione di “questa polizia”, della sua abolizione e del chiedersi con cosa e come sostituirla, sta gradualmente diventando una riflessione inevitabile e necessaria a sinistra. Va bene, ma non finisce per prendere un posto troppo egemonico, soprattutto in diversi movimenti sociali o in alcuni media indipendenti, al punto da dimenticare i nostri obiettivi politici iniziali? Non cadiamo forse nella trappola di questo Stato repressivo, feticizzando la polizia come oggetto principale di protesta e di lotta (manifestazioni contro la violenza della polizia, comizi davanti a una determinata prefettura, ecc.), a scapito del razzismo sistemico in modo più globale, del furto di manodopera nell’impresa capitalista, o del controllo sociale permanente che grava sui poveri attraverso lo “Stato sociale”?
Non è illogico che la polizia diventi un punto di condensazione della congiuntura politica dal momento in cui il regime può resistere solo con la forza armata. Tuttavia, sono meno preoccupato di voi: non credo che i vari settori in lotta vengano inghiottiti, come voi suggerite, dal buco nero della “questione poliziesca” e perdano di vista le loro ragioni primarie per essere in lotta. Stando così le cose, sono sensibile alla vostra domanda perché mi sento molto preoccupato per il rischio di perdermi, tanto che il comportamento della polizia mi respinge. Il rischio di andare fuori strada, infatti, è quello di cominciare a pensare, come a volte faccio io, che la polizia sia “il problema numero uno” nella società francese. Ma io mi rimetto in sesto e vedo il disastro economico del neoliberismo, vedo, come il Comité Adama, che il problema è il razzismo istituzionale e la segregazione di cui sono vittime le popolazioni decoloniali, come i Gilets Jaunes, che il problema sono le abissali ingiustizie sociali, come gli attivisti per il clima che il problema è la devastazione capitalistica del pianeta, ecc. E non credo che nessuno di questi settori, essendosi tutti confrontati con la violenza della polizia, abbia dimenticato cosa li ha spinti a scendere in strada.
Ora c’è anche un senso nel fare della polizia la questione numero uno: il senso delle considerazioni tattiche. Perché la polizia è l’unico e solo blocco. Abbiamo vissuto abbastanza a lungo l’incapacità definitiva dei meccanismi istituzionali, sia politici sia sindacali, di ottenere qualcosa di significativo – e nella situazione attuale, è più che “significativo” quello che sarà necessario. La soluzione dell’ultima risorsa – la strada – rende fatale il confronto con la polizia. Quindi, in un certo senso, dato il suo ruolo di baluardo finale, sì, la questione della polizia, dello scontro della popolazione con la polizia, o della svolta della polizia, dal punto di vista di Eric Hazan, diventa centrale – ma a livello tattico. Non credo che ci siano molte persone inclini a confrontarsi con la polizia per il gusto di confrontarsi con la polizia. La gente si confronta con la polizia perché la polizia è l’ostacolo a qualcosa che è politicamente desiderato.
Aggiungo un’altra cosa: in una situazione di crisi organica sempre più profonda e nel processo di crollo della legittimità istituzionale, l’ipotesi di una “presa di potere” da parte delle forze armate – mettiamola così: un putsch – non sembra più del tutto fantasiosa. Non lo vedo dal punto di vista dell’esercito, ma dal punto di vista della polizia ho l’impressione che tutto sia diventato possibile a questo punto. O meglio, al punto in cui la polizia è arrivata: il punto di una milizia totalmente egocentrica, radicalmente tagliata fuori dalla società, rinchiusa nella fortezza della negazione e della destra, armata ovviamente, fascista al 50% se vogliamo credere agli studi sul suo comportamento elettorale.
Gli ultimi anni hanno dimostrato quanto possa essere tentato anche da comportamenti faziosi – dimostrazioni notturne in uniforme, con veicoli, ecc. Evoco questa ipotesi in modo un po’ distopico e fantascientifico, ma come uno scenario la cui probabilità, anche se probabilmente non molto elevata, non è più rigorosamente zero (a proposito, avete notato quanto la parola “distopia”, che era di uso molto ristretto, quasi accademico, abbia acquisito una diffusione notevolmente più ampia? Se questo non è un segno dei tempi...). O il potere politico designato sarà abbastanza affascinato da se stesso da far sentire la polizia perfettamente a suo agio, o si stabilirà un assordante equilibrio di potere nell’apparato statale, con il quale la polizia assumerà l’ascendente su un potere ritenuto un po’ troppo morbido (un ascendente che si basa sul fatto che la polizia tiene in mano il destino di qualsiasi potere, che lo conosce, e che anche il potere conosce), oppure il potere non si piegherà (siamo qui nell’ipotesi eroica di un governo di sinistra), tutto è possibile. In ogni caso, la polizia è un problema molto serio, non il problema centrale ma, direi, il problema del collo di bottiglia: il problema in cui vengono a confluire tutti gli altri problemi.
(prima parte dell’intervista a Frédéric Lordon)
traduzione di Andrea Mencarelli
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Nargorno-Karabach. Si infiamma il Caucaso, e la Turchia soffia sul fuoco
Da domenica nella regione autonoma del Nagorno Karabach, contesa da sempre da Armenia ed Azerbaijan, sono in corso violenti scontri tra l’esercito azero e le forze indipendentiste armene. Secondo alcune fonti dalla giornata di domenica hanno perso la vita almeno sedici combattenti separatisti e due elicotteri azeri sono stati abbattuti. A causa dei ripetuti bombardamenti, si contano morti e feriti anche fra i civili. Secondo il sito specializzato AnalisiDifesa.it la Turchia sta apertamente sostenendo militarmente l’Azerbaijan con cacciabombardieri e droni Bayraktar TB-2 che sarebbero guidati da consiglieri militari turchi. Oggi un F-16 turco ha abbattuto un aereo militare armeno, un Su-25, sul territorio armeno. Il pilota del velivolo è morto. A renderlo noto è il ministero della Difesa armeno.
Mentre il ministro degli Esteri dell’Armenia è volato a Mosca, in un colloquio con l’ambasciatore dell’Azerbaigian ad Ankara, il ministro degli esteri della Turchia Cavusoglu ha ribadito che “la Turchia sta sempre a fianco del fratello Azerbaigian come quest’ultimo è sempre stato a fianco della Turchia”.
Maurizio Vezzosi, esperto di geopolitica della regione ricorda come la questione del Nagorno-Karabakh sia una eredità irrisolta della dissoluzione dell’URSS. “Il Nagorno-Karabach è una piccola enclave armena che ha sempre rifiutato l’inclusione nell’Azerbaigian, da cui la separano lingua, tradizioni e religione.
Il 30 agosto 1991 l’Azerbaigian dichiarò la sua indipendenza da Mosca ma il Nagorno-Karabakh si proclamò repubblica autonoma. Fu l’inizio di una lunga e sanguinosa guerra tra l’Azerbaigian e l’Armenia, che appoggiava la repubblica indipendentista”.
Nel maggio del 1994 si arrivò al cessate il fuoco, ma non a una pace definitiva. Da allora l’indipendenza del Nagorno-Karabakh viene esercitata de facto, sebbene non sia stata riconosciuta a livello internazionale né accettata dall’Azerbaigian, che non ha mai rinunciato all’ambizione di riconquistare il territorio. Nel 2016 ci fu una breve ma violenta ripresa del conflitto armato e negli anni sono state numerose le violazioni della tregua e gli incidenti di frontiera.
L’Azerbaijan da sempre rientra in quella che Ankara ritiene l’area turcofona che si estende ad altre repubbliche asiatiche ex sovietiche. Quelle che negli anni ’90 erano solo aspirazioni, oggi sono apertamente ambizioni di espansione da parte della Turchia. Mentre l’Armenia rimane un nemico storico per Ankara anche a causa dei massacri contro la popolazione armena seguiti alla fine dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. Una ferita che molti considerano aperta.
“Il conflitto in questa delicata area del Caucaso coinvolge, per ora indirettamente, le potenze regionali, in particolare la Turchia e la Russia” afferma Vezzosi, “storicamente la Turchia appoggia l’Azerbaigian, sia per la vicinanza religiosa sia per la secolare ostilità fra armeni e turchi, mentre la Russia, pur cercando di avere buoni rapporti con tutti i Paesi dell’area, ha sviluppato negli anni un legame privilegiato con l’Armenia”.
Si fanno intanto più insistenti le voci sull’invio di mercenari al servizio della Turchia in Azerbaijan per partecipare al conflitto nel Nagorno-Karabak così come avvenuto in Libia.
AnalisiDifesa.it riporta che secondo fonti dell’opposizione armata siriana contattate da AsiaNews, la Turchia ha inviato 4mila mercenari siriani appartenenti a diverse milizie jihadiste e reduci dell’Isis da Afrin per combattere contro gli armeni del Nagorno-Karabakh. Alcuni giorni fa convogli via terra hanno raggiunto la Turchia e poi via aerea l’Azerbaijan. L’ingaggio è per 1800 dollari Usa al mese, per la durata di tre mesi.
Il presidente della Repubblica del Nagorno-Karabakh, Arayik Arutyunian ha parlato di 4mila mercenari integralisti arrivati dalla Siria e da altri Paesi nei giorni scorsi. “Questa non è una guerra fra Karabakh e Azerbaijan, o Armenia contro Azerbaijan. È una guerra diretta della Turchia, dei mercenari a fianco ai 10 milioni di azeri, contro i 3 milioni di armeni”.
Al contrario, il ministero degli Esteri azero, nonostante immagini e video diffusi sui social dai gruppi integralisti armati – ha negato che ci siano mercenari siriani in Azerbaijan. In questo scontro che rischia di insanguinare tutto l’area-cerniera del Caucaso, anche il Pakistan ha affermato essere a fianco dell’Azerbaijan contro l’Armenia ed il Karabakh.
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Mentre il ministro degli Esteri dell’Armenia è volato a Mosca, in un colloquio con l’ambasciatore dell’Azerbaigian ad Ankara, il ministro degli esteri della Turchia Cavusoglu ha ribadito che “la Turchia sta sempre a fianco del fratello Azerbaigian come quest’ultimo è sempre stato a fianco della Turchia”.
Maurizio Vezzosi, esperto di geopolitica della regione ricorda come la questione del Nagorno-Karabakh sia una eredità irrisolta della dissoluzione dell’URSS. “Il Nagorno-Karabach è una piccola enclave armena che ha sempre rifiutato l’inclusione nell’Azerbaigian, da cui la separano lingua, tradizioni e religione.
Il 30 agosto 1991 l’Azerbaigian dichiarò la sua indipendenza da Mosca ma il Nagorno-Karabakh si proclamò repubblica autonoma. Fu l’inizio di una lunga e sanguinosa guerra tra l’Azerbaigian e l’Armenia, che appoggiava la repubblica indipendentista”.
Nel maggio del 1994 si arrivò al cessate il fuoco, ma non a una pace definitiva. Da allora l’indipendenza del Nagorno-Karabakh viene esercitata de facto, sebbene non sia stata riconosciuta a livello internazionale né accettata dall’Azerbaigian, che non ha mai rinunciato all’ambizione di riconquistare il territorio. Nel 2016 ci fu una breve ma violenta ripresa del conflitto armato e negli anni sono state numerose le violazioni della tregua e gli incidenti di frontiera.
L’Azerbaijan da sempre rientra in quella che Ankara ritiene l’area turcofona che si estende ad altre repubbliche asiatiche ex sovietiche. Quelle che negli anni ’90 erano solo aspirazioni, oggi sono apertamente ambizioni di espansione da parte della Turchia. Mentre l’Armenia rimane un nemico storico per Ankara anche a causa dei massacri contro la popolazione armena seguiti alla fine dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. Una ferita che molti considerano aperta.
“Il conflitto in questa delicata area del Caucaso coinvolge, per ora indirettamente, le potenze regionali, in particolare la Turchia e la Russia” afferma Vezzosi, “storicamente la Turchia appoggia l’Azerbaigian, sia per la vicinanza religiosa sia per la secolare ostilità fra armeni e turchi, mentre la Russia, pur cercando di avere buoni rapporti con tutti i Paesi dell’area, ha sviluppato negli anni un legame privilegiato con l’Armenia”.
Si fanno intanto più insistenti le voci sull’invio di mercenari al servizio della Turchia in Azerbaijan per partecipare al conflitto nel Nagorno-Karabak così come avvenuto in Libia.
AnalisiDifesa.it riporta che secondo fonti dell’opposizione armata siriana contattate da AsiaNews, la Turchia ha inviato 4mila mercenari siriani appartenenti a diverse milizie jihadiste e reduci dell’Isis da Afrin per combattere contro gli armeni del Nagorno-Karabakh. Alcuni giorni fa convogli via terra hanno raggiunto la Turchia e poi via aerea l’Azerbaijan. L’ingaggio è per 1800 dollari Usa al mese, per la durata di tre mesi.
Il presidente della Repubblica del Nagorno-Karabakh, Arayik Arutyunian ha parlato di 4mila mercenari integralisti arrivati dalla Siria e da altri Paesi nei giorni scorsi. “Questa non è una guerra fra Karabakh e Azerbaijan, o Armenia contro Azerbaijan. È una guerra diretta della Turchia, dei mercenari a fianco ai 10 milioni di azeri, contro i 3 milioni di armeni”.
Al contrario, il ministero degli Esteri azero, nonostante immagini e video diffusi sui social dai gruppi integralisti armati – ha negato che ci siano mercenari siriani in Azerbaijan. In questo scontro che rischia di insanguinare tutto l’area-cerniera del Caucaso, anche il Pakistan ha affermato essere a fianco dell’Azerbaijan contro l’Armenia ed il Karabakh.
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La guerra dei Porti. Trieste ai tedeschi, Taranto a chi?
Oggi Il Messaggero pubblica un’editoriale a firma di Alessandro Campi in cui svela lo scontro Usa-Cina in Italia, non solo per la vicenda del 5G – la tecnologia Huawei è più avanzata e meno costosa dei potenziali concorrenti Usa e Ue – ma anche per i porti italiani.
In particolare sembra che la Cina sia interessata ai porti del Mezzogiorno. La notizia non stupisce. Già nel 1997 i cinesi volevano rilevare la piattaforma logistica di Taranto, ma furono fermati. Non si arresero fino a quando, dato l’ostracismo italiano a guida statunitense (una parte del porto di Taranto è base militare Nato), non ripiegarono sul Pireo, che in pochi anni è diventato uno dei principali porti europei.
Ora tornano alla carica e la visita di Mike Pompeo serve ancora a bloccarli. Oggi la piattaforma logistica di Trieste passerà, in maggioranza assoluta, al Porto di Amburgo.
Come si può vedere, insomma, l’Italia è da decenni mira di conquiste estere (occidentali) all’unico scopo di frenare l’avanzata cinese nel Mediterraneo, che dovrebbe diventare, dopo 5 secoli, il nuovo fulcro dei commerci marittimi mondiali.
Negli anni '90, il mega hub di Gioia Tauro passò ai tedeschi per una sola ragione: non farlo decollare e favorire così il “Northern Range” (i porti di Rotterdam, Amburgo e Brema), che hanno fatto per secoli la fortuna dei paesi del nord Europa con la rotta atlantica.
Lo sviluppo travolgente dell’Asia, unito al raddoppio del Canale di Suez, sposta però l’epicentro del commercio mondiale nel Mediterraneo, con l’Italia al centro.
L’acquisizione di Trieste da parte dei tedeschi ha dunque la stessa finalità di Gioia Tauro, non farlo decollare. Va ricordato che il porto calabrese, dopo decenni di diatribe, è passato alla MSC di D‘Aponte, macroniano, ultras Usa e ferocemente anticinese. Con questo gli americani hanno provato a bloccare l’avanzata della Cina nel Tirreno. Rimangono Palermo, Augusta e Taranto, oltre che Napoli.
È una guerra. L’interesse cinese, che viene fatto passare per militare con la paranoia del 5G, ha uno scopo soprattutto economico. È notorio che i cinesi, prima ancora della firma del Memorandum con l’Italia, vogliano sviluppare il Mezzogiorno, vera piattaforma protesa verso l’Asia, assieme al Maghreb, Israele, Turchia, Grecia ed Egitto.
Non negano che hanno intenzione di spostare il 15% del loro apparato manifatturiero in Asia e nel Mediterraneo. Altresì è noto che nei prossimi decenni la rotta Europa-Asia esploderà e il Mezzogiorno ne è il centro.
Da qui le battaglie, volte chi a depotenziare i porti italiani, come i tedeschi, chi, come gli americani, allo scopo di mettere caselle per frenare i cinesi, entrambi senza una benché minima idea di sviluppo (non gli importa). E i cinesi, che hanno uno scenario globale di commercio internazionale.
I giornali e le tv sparano paranoie sui cinesi con i porti italiani, ma questi ultimi, intanto, sono acquisiti da altri, intenzionati però a bloccarne il decollo.
Media tafazziani.
Fonte
In particolare sembra che la Cina sia interessata ai porti del Mezzogiorno. La notizia non stupisce. Già nel 1997 i cinesi volevano rilevare la piattaforma logistica di Taranto, ma furono fermati. Non si arresero fino a quando, dato l’ostracismo italiano a guida statunitense (una parte del porto di Taranto è base militare Nato), non ripiegarono sul Pireo, che in pochi anni è diventato uno dei principali porti europei.
Ora tornano alla carica e la visita di Mike Pompeo serve ancora a bloccarli. Oggi la piattaforma logistica di Trieste passerà, in maggioranza assoluta, al Porto di Amburgo.
Come si può vedere, insomma, l’Italia è da decenni mira di conquiste estere (occidentali) all’unico scopo di frenare l’avanzata cinese nel Mediterraneo, che dovrebbe diventare, dopo 5 secoli, il nuovo fulcro dei commerci marittimi mondiali.
Negli anni '90, il mega hub di Gioia Tauro passò ai tedeschi per una sola ragione: non farlo decollare e favorire così il “Northern Range” (i porti di Rotterdam, Amburgo e Brema), che hanno fatto per secoli la fortuna dei paesi del nord Europa con la rotta atlantica.
Lo sviluppo travolgente dell’Asia, unito al raddoppio del Canale di Suez, sposta però l’epicentro del commercio mondiale nel Mediterraneo, con l’Italia al centro.
L’acquisizione di Trieste da parte dei tedeschi ha dunque la stessa finalità di Gioia Tauro, non farlo decollare. Va ricordato che il porto calabrese, dopo decenni di diatribe, è passato alla MSC di D‘Aponte, macroniano, ultras Usa e ferocemente anticinese. Con questo gli americani hanno provato a bloccare l’avanzata della Cina nel Tirreno. Rimangono Palermo, Augusta e Taranto, oltre che Napoli.
È una guerra. L’interesse cinese, che viene fatto passare per militare con la paranoia del 5G, ha uno scopo soprattutto economico. È notorio che i cinesi, prima ancora della firma del Memorandum con l’Italia, vogliano sviluppare il Mezzogiorno, vera piattaforma protesa verso l’Asia, assieme al Maghreb, Israele, Turchia, Grecia ed Egitto.
Non negano che hanno intenzione di spostare il 15% del loro apparato manifatturiero in Asia e nel Mediterraneo. Altresì è noto che nei prossimi decenni la rotta Europa-Asia esploderà e il Mezzogiorno ne è il centro.
Da qui le battaglie, volte chi a depotenziare i porti italiani, come i tedeschi, chi, come gli americani, allo scopo di mettere caselle per frenare i cinesi, entrambi senza una benché minima idea di sviluppo (non gli importa). E i cinesi, che hanno uno scenario globale di commercio internazionale.
I giornali e le tv sparano paranoie sui cinesi con i porti italiani, ma questi ultimi, intanto, sono acquisiti da altri, intenzionati però a bloccarne il decollo.
Media tafazziani.
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29/09/2020
Cina - Gelo tra Vaticano e USA
È stata una decisione logica quella di Papa Francesco di non incontrare Mike Pompeo, il Segretario di Stato voluto da Trump. Pompeo aveva farneticato sul fatto che il Vaticano avrebbe perso la sua “autorità morale” se avesse deciso di confermare l’accordo tra la Santa Sede e la Cina sulle modalità di nomina dei vescovi. Si tratta di più di un’ingerenza, del tentativo di arruolare la Chiesa nel fronte della guerra. Durante il suo Pontificato, Francesco ha difeso con grande vigore il multilateralismo e il dialogo. L’approccio di Trump nei confronti della Cina va, al contrario, verso una nuova guerra fredda di cui il mondo, soprattutto oggi, alle prese della pandemia, non ha alcun bisogno.
Il Papa ha dimostrato fortemente la propria autorità morale, che certo non può essere messa in discussione da chi fa parte di un’amministrazione che dice di voler separare le madri dai propri figli al confine degli Stati Uniti o impiega continuamente una retorica razzista e suprematista nei confronti degli afroamericani e di qualsiasi minoranza, arrivando a giustificare le violenze della polizia nei loro confronti.
La politica di Pompeo e Trump è contraria all’etica cristiana. Abbiamo visto l’utilizzo indiscriminato di bombe o droni, contro chi non si può difendere. Abbiamo assistito, in questi anni, all’imposizione di sanzioni e blocchi criminali, che hanno privato uomini, donne e bambini di cibo, medicinali e cure di base.
La domanda che retoricamente sarebbe da porre a Pompeo è piuttosto un’altra: quale autorità morale avrebbe avuto il Papa se avesse deciso al contrario di incontrarlo? Papa Francesco ha caratterizzato il suo magistero denunciando la società dello scarto. Pompeo è il numero due di un’amministrazione che impone le più spietate forme di darwinismo sociale. Francesco ha più volte avvertito contro i rischi del riscaldamento climatico, ponendosi a difesa della Casa Comune. Pompeo fa parte di un’amministrazione che nega questo rischio, arrivando perfino ad uscire dall’accordo di Parigi sul clima.
Papa Francesco ha sempre ammonito contro le iniquità e le diseguaglianze. Oggi gli Stati Uniti sono la società più diseguale del mondo. Chiaramente, il valente popolo nordamericano non ha nessuna colpa. Invero, Trump non ha nemmeno vinto le elezioni. Tuttavia, l’amministrazione di cui Pompeo fa parte ha tagliato le tasse ai ricchissimi, inondando di liquidità Wall Street, che è ai massimi storici durante la pandemia.
Sul virus, poi è noto l’atteggiamento negazionista dell’amministrazione Usa, in questo simile a Bolsonaro. Recentemente il presidente americano ammetteva candidamente di conoscere da tempo la pericolosità del virus nel mentre invitava le persone a non prenderlo sul serio, disdegnando perfino le mascherine. E che dire, poi, degli atteggiamenti sleali? La volontà di requisire presidi sanitari e comprare brevetti? Come avrebbe fatto il Papa a incontrare Pompeo senza perdere la propria autorità morale?
Da decenni gli Stati Uniti tentano di ricattare la Santa Sede. Lo hanno fatto al tempo delle due guerre del Golfo, che Giovanni Paolo II tentò di scongiurare in ogni modo, ed anche dopo l'11 settembre, quando il Papa polacco non voleva gli attacchi in Afghanistan. Ogni volta minacciando – nemmeno tanto velatamente – di varare leggi che potevano addossare alle autorità vaticane le responsabilità civili e penali degli abusi sessuali laddove i vescovi nominati da Roma non erano intervenuti in modo adeguato, cioè sempre o quasi.
Ma quel che più infastidisce la Sede Apostolica è il tentativo subdolo della Casa Bianca di trovare all'interno della Chiesa Cattolica quinte colonne da utilizzare per condizionare il Papa: cardinali di curia come Raymond Leo Burke, episcopati legati alle oligarchie capitalistiche come in Venezuela e, infine, anche la Chiesa sommersa della Cina, capeggiata dal cardinale Zen Ze Kiun che in questi giorni, opportunamente, Papa Francesco ha preferito non ricevere.
Sì perché la Chiesa – anche in Cina – non deve cercare lo status di perseguitata ma il modo migliore di incarnare il Vangelo in un determinato contesto, mettendosi al servizio del popolo che è chiamata a servire. Che, a ben vedere, è precisamente lo scopo per il quale Papa Francesco e il suo segretario di Stato Pietro Parolin hanno stipulato l'accordo con Pechino che ora verrà rinnovato.
Fonte
Il Papa ha dimostrato fortemente la propria autorità morale, che certo non può essere messa in discussione da chi fa parte di un’amministrazione che dice di voler separare le madri dai propri figli al confine degli Stati Uniti o impiega continuamente una retorica razzista e suprematista nei confronti degli afroamericani e di qualsiasi minoranza, arrivando a giustificare le violenze della polizia nei loro confronti.
La politica di Pompeo e Trump è contraria all’etica cristiana. Abbiamo visto l’utilizzo indiscriminato di bombe o droni, contro chi non si può difendere. Abbiamo assistito, in questi anni, all’imposizione di sanzioni e blocchi criminali, che hanno privato uomini, donne e bambini di cibo, medicinali e cure di base.
La domanda che retoricamente sarebbe da porre a Pompeo è piuttosto un’altra: quale autorità morale avrebbe avuto il Papa se avesse deciso al contrario di incontrarlo? Papa Francesco ha caratterizzato il suo magistero denunciando la società dello scarto. Pompeo è il numero due di un’amministrazione che impone le più spietate forme di darwinismo sociale. Francesco ha più volte avvertito contro i rischi del riscaldamento climatico, ponendosi a difesa della Casa Comune. Pompeo fa parte di un’amministrazione che nega questo rischio, arrivando perfino ad uscire dall’accordo di Parigi sul clima.
Papa Francesco ha sempre ammonito contro le iniquità e le diseguaglianze. Oggi gli Stati Uniti sono la società più diseguale del mondo. Chiaramente, il valente popolo nordamericano non ha nessuna colpa. Invero, Trump non ha nemmeno vinto le elezioni. Tuttavia, l’amministrazione di cui Pompeo fa parte ha tagliato le tasse ai ricchissimi, inondando di liquidità Wall Street, che è ai massimi storici durante la pandemia.
Sul virus, poi è noto l’atteggiamento negazionista dell’amministrazione Usa, in questo simile a Bolsonaro. Recentemente il presidente americano ammetteva candidamente di conoscere da tempo la pericolosità del virus nel mentre invitava le persone a non prenderlo sul serio, disdegnando perfino le mascherine. E che dire, poi, degli atteggiamenti sleali? La volontà di requisire presidi sanitari e comprare brevetti? Come avrebbe fatto il Papa a incontrare Pompeo senza perdere la propria autorità morale?
Da decenni gli Stati Uniti tentano di ricattare la Santa Sede. Lo hanno fatto al tempo delle due guerre del Golfo, che Giovanni Paolo II tentò di scongiurare in ogni modo, ed anche dopo l'11 settembre, quando il Papa polacco non voleva gli attacchi in Afghanistan. Ogni volta minacciando – nemmeno tanto velatamente – di varare leggi che potevano addossare alle autorità vaticane le responsabilità civili e penali degli abusi sessuali laddove i vescovi nominati da Roma non erano intervenuti in modo adeguato, cioè sempre o quasi.
Ma quel che più infastidisce la Sede Apostolica è il tentativo subdolo della Casa Bianca di trovare all'interno della Chiesa Cattolica quinte colonne da utilizzare per condizionare il Papa: cardinali di curia come Raymond Leo Burke, episcopati legati alle oligarchie capitalistiche come in Venezuela e, infine, anche la Chiesa sommersa della Cina, capeggiata dal cardinale Zen Ze Kiun che in questi giorni, opportunamente, Papa Francesco ha preferito non ricevere.
Sì perché la Chiesa – anche in Cina – non deve cercare lo status di perseguitata ma il modo migliore di incarnare il Vangelo in un determinato contesto, mettendosi al servizio del popolo che è chiamata a servire. Che, a ben vedere, è precisamente lo scopo per il quale Papa Francesco e il suo segretario di Stato Pietro Parolin hanno stipulato l'accordo con Pechino che ora verrà rinnovato.
Fonte
Estrattivismo pandemico/4
[A questo link il capitolo precedente.]
Come da manuale, la recessione che viene – la peggiore, secondo l’OCSE, dal dopoguerra – sta imprimendo un nuovo impulso all’aggressione del profitto contro i territori.
L’illusione che la crisi pandemica potesse portare ad un ripensamento sull’assurdità di questo modello di sviluppo si è dissolta molto in fretta, a fronte della capacità del capitale (infinitamente maggiore della nostra) di trasformare le crisi in opportunità.
Sul piano normativo le conseguenze di tale aggressione si traducono in forma di deroghe alle tutele ambientali, provvedimenti a sostegno delle attività estrattive o dell’agroindustria, deregulations degli appalti per le grandi opere, rilancio del finanziamento pubblico di infrastrutture devastanti.
È una tendenza generale e molto chiara che ha preso corpo, seguendo modalità differenti, dall’Australia alle Americhe, dall’Indonesia al Belpaese.
Iniziamo dunque questo excursus sulle ultime controriforme a partire dalle deregulations di casa nostra, che verranno trattate un po’ più nel dettaglio, visto che ci riguardano da vicino.
Mi scuso in anticipo con i lettori e le lettrici se il linguaggio risulterà a volte tecnico e poco leggero, invitandol* ugualmente a soffermarsi a meditare sui punti che verranno fra poco elencati, perché ognuno di essi è illuminante.
Il 14 settembre è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la conversione in legge del Decreto Semplificazioni1, che “al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19” stabilisce alcune cosette, del tipo:
– che gli affidamenti di appalti pubblici di lavori fino alla soglia di rilevanza comunitaria (5.350.000 €) che abbiano iniziato il procedimento entro la fine del 2021 possano svolgersi senza gara2.
– che “gli interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità ... o che comportano un rilevante impatto sul tessuto socio – economico” possano essere affidati alla gestione commissariale anche al di fuori dei casi di straordinaria necessità ed urgenza.
– che fino alla fine del 2023 per le grandi opere infrastrutturali si possa derogare alle procedure del dibattito pubblico, previste dal Codice dei contratti pubblici alla voce “Trasparenza”3, con tanti saluti ad ogni residuo simulacro di “democrazia partecipativa”.
– che le sentenze definitive del TAR che bloccano un’opera per vizi emersi negli atti autorizzativi o nella valutazione di impatto ambientale, possano essere bypassate.
– che i gasdotti godano di procedimenti autorizzativi semplificati, con buona pace dei proclami sulla lotta ai cambiamenti climatici.
– che le procedure semplificate valgano anche per l’esplorazione e lo stoccaggio geologico di biossido di carbonio, esentando – fra l’altro – dalla valutazione ambientale gli stoccaggi di CO2 fino a 100.000 tonnellate.
– che per le opere realizzate in variante dei piani portuali e aeroportuali non sia più obbligatoria la Valutazione Ambientale Strategica (VAS).
– che i Comuni non possano introdurre limitazioni generalizzate (se non intorno a siti sensibili) alla proliferazione di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche, o incidere sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. Previsione chiaramente rivolta a bloccare il moltiplicarsi di ordinanze comunali contro l’installazione del 5G, e che impedisce l’adozione da parte degli enti locali di una maggior tutela da tutte le forme di inquinamento elettromagnetico.
Questa panoramica, non esaustiva, sui punti salienti del provvedimento avrebbe potuto essere ancora peggiore, se 170 gruppi e associazioni non ne avessero denunciato il contenuto in tempo utile, riuscendo a bloccare ulteriori nefandezze previste nella prima stesura4.
Ma anche così emendato il decreto, che ora è legge è, nel suo genere, un “capolavoro”.
Con un solo provvedimento il governo giallo rosa è riuscito infatti ad ampliare a dismisura la discrezionalità nella scelta del contraente negli appalti pubblici, e con essa le potenzialità per le assegnazioni di tipo nepotistico/politico/mafioso/clientelare, depotenziando al contempo le responsabilità degli amministratori per abuso d’ufficio e danno erariale.
È riuscito a trasformare le procedure emergenziali in regole per la gestione ordinaria degli appalti, prevedendo per le grandi opere – a partire dalle prime 40 elencate nel piano #italiaveloce – il controllo verticistico di commissari di nomina governativa, legittimati ad operare in deroga alle leggi in materia di contratti pubblici.
È riuscito a ridurre ulteriormente i già risicati spazi per il controllo delle opere da parte della cosiddetta società civile, nonché le possibilità di opposizione tramite i ricorsi ai tribunali amministrativi, la costruzione di “barricate di carta”.
Ha esteso il “modello Genova” dal ponte sul Polcevera a tutte le grandi opere, esempio di come la strumentalizzazione di una tragedia che ha colpito una popolazione e un territorio possa essere utilizzata per colpire altre popolazioni e altri territori, che subiranno le colate di cemento, le devastazioni ambientali, l’esautoramento dalla decisionalità sui propri luoghi di vita.
Il decreto semplificazioni può essere considerato un manifesto su ciò che il governo Conte bis, ma soprattutto i soggetti economici che decidono le politiche energetiche e industriali di questo paese, intendano per “transizione energetica” e “green new deal”.
Le disposizioni del decreto che riguardano le infrastrutture energetiche vanno nella direzione esattamente contraria a quella di una via d’uscita dall’economia fossile.
Questo nonostante l’enfasi con cui ministri e governatori insistono, da qualche tempo, sulla “decarbonizzazione”, che nelle loro intenzioni si riferisce però – sulla base di una traduzione dall’inglese volutamente distorta – all’uscita dal carbone, mentre il significato del termine “decarbonization” indica invece l’uscita dal carbonio, cioè da tutti i combustibili fossili, metano compreso.
L’operazione, che gioca volutamente su questa ambiguità, è quella di far passare la “transizione energetica” come transizione dal carbone al metano, sia nella conduzione delle centrali termoelettriche (a partire da Cerano) sia per i grandi impianti industriali, omettendo il fatto che il metano incombusto genera un riscaldamento dell’atmosfera 80 volte superiore a quello della CO2 (calcolato sui 20 anni), e la sua estrazione e trasporto comportano ogni anno perdite fisiologiche in atmosfera di centinaia di milioni di metri cubi di gas fortemente climalterante.
Un altro tassello del “green new fossil deal” prossimo venturo consiste nello sviluppo degli stoccaggi di CO2 nel sottosuolo.
Un’operazione la cui logica, ancora una volta, non è finalizzata alla sostituzione delle fonti fossili, ma a prolungarne ulteriormente l’uso, nascondendo sotto il tappeto i prodotti della loro combustione.
Il decreto semplificazioni ha considerato idonei allo stoccaggio i giacimenti esauriti di idrocarburi situati a mare, una previsione che sembra costruita attorno all’ENI e al suo progetto di apertura, nei pozzi esausti al largo di Ravenna, del più grande hub del mondo per lo stoccaggio di anidride carbonica, che prevede l’iniezione sotto i fondali di una quantità di CO2 compresa tra 300 e 500 milioni di tonnellate. Il tutto in zona sismica e soggetta a forte subsidenza.
In sintesi, le compagnie petrolifere che hanno contribuito (e continuano a farlo) a determinare il disastro climatico, si apprestano a trarre nuovo profitto da nuove infrastrutture “green” ad alto impatto ambientale. (Continua)
Note:
1) Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale.», Legge di conversione n. 120 dell’11 settembre 2020 (GU n.228 del 14-9-2020 – Suppl. Ordinario n. 33).
2) È possibile ricorrere all’affidamento diretto – cioè alla scelta puramente discrezionale – per gli appalti fino a 150.000 € (prima la soglia era di 40.000 €), oppure alla procedura negoziata per gli altri. La procedura negoziata prevede che la stazione appaltante inviti, senza bando pubblico, un certo numero di operatori economici a sua scelta fra cui selezionare il contraente. La disposizione vale anche per gli appalti pubblici di servizi e di forniture le cui soglie di rilevanza comunitaria son un po’ più variegate (vedere qui). La materia è stata già oggetto di una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia nel 2003, per violazione della Direttiva 2004/18/CE che prevede la possibilità di evitare un bando di gara in ipotesi molto limitate
3) D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 22 e D.P.C.M. 76/2018
4) AAVV, “Decreto semplificazioni, così sono devastazioni” . Attacco a bonifiche, acqua, partecipazione dei cittadini, valutazione di impatto ambientale e clima, 27 luglio 2020, pp. 27.
Fonte
Come da manuale, la recessione che viene – la peggiore, secondo l’OCSE, dal dopoguerra – sta imprimendo un nuovo impulso all’aggressione del profitto contro i territori.
L’illusione che la crisi pandemica potesse portare ad un ripensamento sull’assurdità di questo modello di sviluppo si è dissolta molto in fretta, a fronte della capacità del capitale (infinitamente maggiore della nostra) di trasformare le crisi in opportunità.
Sul piano normativo le conseguenze di tale aggressione si traducono in forma di deroghe alle tutele ambientali, provvedimenti a sostegno delle attività estrattive o dell’agroindustria, deregulations degli appalti per le grandi opere, rilancio del finanziamento pubblico di infrastrutture devastanti.
È una tendenza generale e molto chiara che ha preso corpo, seguendo modalità differenti, dall’Australia alle Americhe, dall’Indonesia al Belpaese.
Iniziamo dunque questo excursus sulle ultime controriforme a partire dalle deregulations di casa nostra, che verranno trattate un po’ più nel dettaglio, visto che ci riguardano da vicino.
Mi scuso in anticipo con i lettori e le lettrici se il linguaggio risulterà a volte tecnico e poco leggero, invitandol* ugualmente a soffermarsi a meditare sui punti che verranno fra poco elencati, perché ognuno di essi è illuminante.
Il 14 settembre è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la conversione in legge del Decreto Semplificazioni1, che “al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19” stabilisce alcune cosette, del tipo:
– che gli affidamenti di appalti pubblici di lavori fino alla soglia di rilevanza comunitaria (5.350.000 €) che abbiano iniziato il procedimento entro la fine del 2021 possano svolgersi senza gara2.
– che “gli interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità ... o che comportano un rilevante impatto sul tessuto socio – economico” possano essere affidati alla gestione commissariale anche al di fuori dei casi di straordinaria necessità ed urgenza.
– che fino alla fine del 2023 per le grandi opere infrastrutturali si possa derogare alle procedure del dibattito pubblico, previste dal Codice dei contratti pubblici alla voce “Trasparenza”3, con tanti saluti ad ogni residuo simulacro di “democrazia partecipativa”.
– che le sentenze definitive del TAR che bloccano un’opera per vizi emersi negli atti autorizzativi o nella valutazione di impatto ambientale, possano essere bypassate.
– che i gasdotti godano di procedimenti autorizzativi semplificati, con buona pace dei proclami sulla lotta ai cambiamenti climatici.
– che le procedure semplificate valgano anche per l’esplorazione e lo stoccaggio geologico di biossido di carbonio, esentando – fra l’altro – dalla valutazione ambientale gli stoccaggi di CO2 fino a 100.000 tonnellate.
– che per le opere realizzate in variante dei piani portuali e aeroportuali non sia più obbligatoria la Valutazione Ambientale Strategica (VAS).
– che i Comuni non possano introdurre limitazioni generalizzate (se non intorno a siti sensibili) alla proliferazione di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche, o incidere sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. Previsione chiaramente rivolta a bloccare il moltiplicarsi di ordinanze comunali contro l’installazione del 5G, e che impedisce l’adozione da parte degli enti locali di una maggior tutela da tutte le forme di inquinamento elettromagnetico.
Questa panoramica, non esaustiva, sui punti salienti del provvedimento avrebbe potuto essere ancora peggiore, se 170 gruppi e associazioni non ne avessero denunciato il contenuto in tempo utile, riuscendo a bloccare ulteriori nefandezze previste nella prima stesura4.
Ma anche così emendato il decreto, che ora è legge è, nel suo genere, un “capolavoro”.
Con un solo provvedimento il governo giallo rosa è riuscito infatti ad ampliare a dismisura la discrezionalità nella scelta del contraente negli appalti pubblici, e con essa le potenzialità per le assegnazioni di tipo nepotistico/politico/mafioso/clientelare, depotenziando al contempo le responsabilità degli amministratori per abuso d’ufficio e danno erariale.
È riuscito a trasformare le procedure emergenziali in regole per la gestione ordinaria degli appalti, prevedendo per le grandi opere – a partire dalle prime 40 elencate nel piano #italiaveloce – il controllo verticistico di commissari di nomina governativa, legittimati ad operare in deroga alle leggi in materia di contratti pubblici.
È riuscito a ridurre ulteriormente i già risicati spazi per il controllo delle opere da parte della cosiddetta società civile, nonché le possibilità di opposizione tramite i ricorsi ai tribunali amministrativi, la costruzione di “barricate di carta”.
Ha esteso il “modello Genova” dal ponte sul Polcevera a tutte le grandi opere, esempio di come la strumentalizzazione di una tragedia che ha colpito una popolazione e un territorio possa essere utilizzata per colpire altre popolazioni e altri territori, che subiranno le colate di cemento, le devastazioni ambientali, l’esautoramento dalla decisionalità sui propri luoghi di vita.
Il decreto semplificazioni può essere considerato un manifesto su ciò che il governo Conte bis, ma soprattutto i soggetti economici che decidono le politiche energetiche e industriali di questo paese, intendano per “transizione energetica” e “green new deal”.
Le disposizioni del decreto che riguardano le infrastrutture energetiche vanno nella direzione esattamente contraria a quella di una via d’uscita dall’economia fossile.
Questo nonostante l’enfasi con cui ministri e governatori insistono, da qualche tempo, sulla “decarbonizzazione”, che nelle loro intenzioni si riferisce però – sulla base di una traduzione dall’inglese volutamente distorta – all’uscita dal carbone, mentre il significato del termine “decarbonization” indica invece l’uscita dal carbonio, cioè da tutti i combustibili fossili, metano compreso.
L’operazione, che gioca volutamente su questa ambiguità, è quella di far passare la “transizione energetica” come transizione dal carbone al metano, sia nella conduzione delle centrali termoelettriche (a partire da Cerano) sia per i grandi impianti industriali, omettendo il fatto che il metano incombusto genera un riscaldamento dell’atmosfera 80 volte superiore a quello della CO2 (calcolato sui 20 anni), e la sua estrazione e trasporto comportano ogni anno perdite fisiologiche in atmosfera di centinaia di milioni di metri cubi di gas fortemente climalterante.
Un altro tassello del “green new fossil deal” prossimo venturo consiste nello sviluppo degli stoccaggi di CO2 nel sottosuolo.
Un’operazione la cui logica, ancora una volta, non è finalizzata alla sostituzione delle fonti fossili, ma a prolungarne ulteriormente l’uso, nascondendo sotto il tappeto i prodotti della loro combustione.
Il decreto semplificazioni ha considerato idonei allo stoccaggio i giacimenti esauriti di idrocarburi situati a mare, una previsione che sembra costruita attorno all’ENI e al suo progetto di apertura, nei pozzi esausti al largo di Ravenna, del più grande hub del mondo per lo stoccaggio di anidride carbonica, che prevede l’iniezione sotto i fondali di una quantità di CO2 compresa tra 300 e 500 milioni di tonnellate. Il tutto in zona sismica e soggetta a forte subsidenza.
In sintesi, le compagnie petrolifere che hanno contribuito (e continuano a farlo) a determinare il disastro climatico, si apprestano a trarre nuovo profitto da nuove infrastrutture “green” ad alto impatto ambientale. (Continua)
Note:
1) Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale.», Legge di conversione n. 120 dell’11 settembre 2020 (GU n.228 del 14-9-2020 – Suppl. Ordinario n. 33).
2) È possibile ricorrere all’affidamento diretto – cioè alla scelta puramente discrezionale – per gli appalti fino a 150.000 € (prima la soglia era di 40.000 €), oppure alla procedura negoziata per gli altri. La procedura negoziata prevede che la stazione appaltante inviti, senza bando pubblico, un certo numero di operatori economici a sua scelta fra cui selezionare il contraente. La disposizione vale anche per gli appalti pubblici di servizi e di forniture le cui soglie di rilevanza comunitaria son un po’ più variegate (vedere qui). La materia è stata già oggetto di una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia nel 2003, per violazione della Direttiva 2004/18/CE che prevede la possibilità di evitare un bando di gara in ipotesi molto limitate
3) D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 22 e D.P.C.M. 76/2018
4) AAVV, “Decreto semplificazioni, così sono devastazioni” . Attacco a bonifiche, acqua, partecipazione dei cittadini, valutazione di impatto ambientale e clima, 27 luglio 2020, pp. 27.
Fonte
USA - Quel che potrebbe significare una vittoria di Biden
Le elezioni nord-americane del prossimo 3 novembre
avvengono in un periodo di crisi sociale montante
– quasi da guerra civile strisciante – accelerata dalla disastrosa gestione
dell’emergenza pandemica.
Una campagna presidenziale “di piombo”, l’avevamo definita circa un mese fa.
Trump non ha ancora detto esplicitamente se accetterà o meno i risultati che usciranno dalle urne, lasciando aperta la possibilità di un conflitto sulla legittimità delle stesse elezioni che non trova riscontro nella storia recente.
Il New York Times, intanto, a poco più di un mese dalla consultazione si gioca la carta dello scoop, cominciando a rivelare quanto l’attuale presidente abbia pagato di tasse – di fatto ingannando nel corso degli anni il fisco e recentemente infischiandosene dei potenziali conflitti d’interessi tra la sua attività imprenditoriale ed il suo ruolo istituzionale – cercando di minarne la credibilità di fronte agli elettori “indecisi”.
The Orange Man smentisce seccamente il contenuto delle rivelazioni, e la sua base di consenso sembra essere rassicurata dall’avere imposto il piano del dibattito politico su tutti i fronti, a differenza del suo pallido sfidante, capace finora solo di “giocare di rimessa”, senza mai veramente incalzare il proprio avversario, neanche quando l’inquilino della Casa Bianca ha coperto gli omicidi politici di milizie dell’alt-right contro i propri avversari.
Qui proponiamo un inquadramento delle politiche di “sleepy Joe”, contestualizzate all’interno della traiettorie scelte dai democratici, con la traduzione di un contributo di Roger G. Harris.
Fin dall’inizio Biden era apparso come il “cavallo zoppo” su cui tutto l’apparato democratico – compresa la sua ipotetica “ala sinistra” – è stato costretto a scommettere per sbarrare la strada al socialista Sanders dopo una serie di notevoli exploit alle primarie.
La fortissima atomizzazione della società statunitense, ed un sistema di voto quasi censitario, crea una disgregazione sociale che aiuta i due fronti politici a solidificare blocchi elettorali divisi lungo linee identitarie.
Da una parte, Trump beneficia di decenni di Southern Strategy, passando all'incasso rivendicando il suprematismo bianco come cifra profonda della cultura Wasp e dello stile di vita americano, senza però riuscire a proporre alternative concrete alle condizioni del proletariato “bianco”, se non quella di un continuo odio sociale nei confronti della “minoranza” afro-americana e dei migranti latino-americani.
Biden ha invece dalla sua il voto degli afro-americani e dei latinos, quest’ultimi destinati in prospettiva a crescere come peso elettorale, uno degli zoccoli duri – insieme ai millenials ed ai “very liberal” – dell’outsider Bernie Sanders che sta convintamente appoggiando Biden.
Questi ultimi sono un chiaro anello debole all’interno della frammentazione multiculturale del paese, per le proprie condizioni economiche, la violenza sistematica della polizia nei loro confronti e la loro vulnerabilità davanti Pandemia, ma anche per il proprio rapporto diretto con l’imperialismo.
Il tentato colpo di stato di Guaidò in Venezuela, il riuscito golpe in Bolivia, la conversione sulla Via di Damasco di Moreno in Ecuador e l’onnipresente uribismo in Colombia, sono tutti segni di una rinnovata politica aggressiva in America Latina da parte dell’amministrazione Trump. Biden si ritrova così uno scenario di guerra aperta verso tutti quei paesi da cui proviene una parte di blocco sociale che deve essere coinvolto all’interno dell’establishment democratico.
Una situazione simile, mutatis mutandis, a quella in cui si trovarono i democratici nei confronti degli afro-americani quando montava il movimento dei diritti civili in patria ed il processo di de-coloniazzazione in Africa. Costretti loro malgrado a far balenare l’idea dell’integrazione e di rapporti di cooperazione con i Paesi africani usciti dal giogo coloniale.
Da questo punto di vista, un tentativo di pacificazione sociale è stato loro posto su un piatto d’argento proprio da Trump: l’accordo USMCA, che il primo luglio ha sostituito il NAFTA, storica istituzione imperialista, simile al rapporto Germania/UE, prevede l’aumento salariale orario per i dipendenti messicani del settore automobilistico, nonché un maggiore rafforzamento dei sindacati concertativi del paese.
Questo modello collaborazionista in chiave socialdemocratica, già proposto dal presidente messicano Lopez Obrador, in chiara controtendenza con l’evolversi del capitalismo attuale, meno favorevole al profitto e quindi ad un quasi impossibile “nuovo patto capitale-lavoro”, potrebbe essere riproposto da una possibile amministrazione Biden nel resto del continente, al fine di ridurre l’immigrazione e, al tempo stesso, mettersi in buona luce con i latinos in casa propria.
Non si sta ovviamente cercando di fsre distinzioni artificiose tra un imperialismo “buono” e uno “cattivo”: l’opzione strategica è la stessa, ma cambia l’articolazione tattica sul come coniugare la governance delle contraddizioni sociali all’interno e la ripresa del controllo in quello che gli USA hanno sempre considerato il proprio “cortile di casa”.
Lo impone la re-internalizzazione delle filiere produttive nelle Americhe, il controllo delle risorse, in particolare quelle indispensabili per essere competitivi nella guerra tecnologica, la necessità di respingere ogni avance russa e cinese sull’America Latina.
Tutto questo, considerando l’ampio spettro di opzioni militari che Biden potrebbe usare in ogni caso, sembra più il consolidato copione tra good cop e bad cop che una vera alternativa.
Di conseguenza, la rappresentanza politica delle classi subalterne si pone di nuovo in questione, in quanto Trump e Biden concordano completamente sulle misure anti-popolari per quel che riguarda la sanità privata e la salvaguardia della finanza.
Come già accennato all’inizio, la frammentazione sociale apre al coinvolgimento delle masse in opzioni politiche chiaramente reazionarie, blindate dentro un “bipolarismo perfetto” dove tertium non datur, come dimostra la parabola di Sanders alle primarie e il suo reiterato appoggio ad un membro dell’establishment democratico: quattro anni fa la Clinton, oggi Biden.
Quello che potremmo chiamare “ricomposizione di classe” – sui temi sociali, di razza e genere – all’interno di uno spazio politico alieno dai due establishment partitici repubblicano e democratico (tanto formalmente antitetici, quanto sostanzialmente complementari) è quindi l’unico strumento che può portare effettivamente ad un avanzamento rispetto all’impasse prodotta in chi comunque, tra mille limiti e contraddizioni – come il movimento che ha sostenuto il senatore socialista del Vermont – ha cercato di dare voce ai “senza voce” della società nord-americana.
Un “nuovo movimento operaio sembra andare in questa direzione”.
Una percorso di non facile realizzazione tra “il martello” del fascismo americano tout court, rappresentato da Donald Trump, e l’incudine dell’establishment democratico legato a doppio filo alle élite che l’hanno lautamente finanziato.
Certo è che nel contesto americano questo è un lavoro di lunga durata, e anche difficile, in quanto attraversa secoli di discriminazioni e violenze. Ma se le proteste scoppiate dopo la morte di George Floyd sono un’indicazione, l’alternativa non è impossibile come sembrava prima.
Buona lettura.
Una campagna presidenziale “di piombo”, l’avevamo definita circa un mese fa.
Trump non ha ancora detto esplicitamente se accetterà o meno i risultati che usciranno dalle urne, lasciando aperta la possibilità di un conflitto sulla legittimità delle stesse elezioni che non trova riscontro nella storia recente.
Il New York Times, intanto, a poco più di un mese dalla consultazione si gioca la carta dello scoop, cominciando a rivelare quanto l’attuale presidente abbia pagato di tasse – di fatto ingannando nel corso degli anni il fisco e recentemente infischiandosene dei potenziali conflitti d’interessi tra la sua attività imprenditoriale ed il suo ruolo istituzionale – cercando di minarne la credibilità di fronte agli elettori “indecisi”.
The Orange Man smentisce seccamente il contenuto delle rivelazioni, e la sua base di consenso sembra essere rassicurata dall’avere imposto il piano del dibattito politico su tutti i fronti, a differenza del suo pallido sfidante, capace finora solo di “giocare di rimessa”, senza mai veramente incalzare il proprio avversario, neanche quando l’inquilino della Casa Bianca ha coperto gli omicidi politici di milizie dell’alt-right contro i propri avversari.
Qui proponiamo un inquadramento delle politiche di “sleepy Joe”, contestualizzate all’interno della traiettorie scelte dai democratici, con la traduzione di un contributo di Roger G. Harris.
Fin dall’inizio Biden era apparso come il “cavallo zoppo” su cui tutto l’apparato democratico – compresa la sua ipotetica “ala sinistra” – è stato costretto a scommettere per sbarrare la strada al socialista Sanders dopo una serie di notevoli exploit alle primarie.
La fortissima atomizzazione della società statunitense, ed un sistema di voto quasi censitario, crea una disgregazione sociale che aiuta i due fronti politici a solidificare blocchi elettorali divisi lungo linee identitarie.
Da una parte, Trump beneficia di decenni di Southern Strategy, passando all'incasso rivendicando il suprematismo bianco come cifra profonda della cultura Wasp e dello stile di vita americano, senza però riuscire a proporre alternative concrete alle condizioni del proletariato “bianco”, se non quella di un continuo odio sociale nei confronti della “minoranza” afro-americana e dei migranti latino-americani.
Biden ha invece dalla sua il voto degli afro-americani e dei latinos, quest’ultimi destinati in prospettiva a crescere come peso elettorale, uno degli zoccoli duri – insieme ai millenials ed ai “very liberal” – dell’outsider Bernie Sanders che sta convintamente appoggiando Biden.
Questi ultimi sono un chiaro anello debole all’interno della frammentazione multiculturale del paese, per le proprie condizioni economiche, la violenza sistematica della polizia nei loro confronti e la loro vulnerabilità davanti Pandemia, ma anche per il proprio rapporto diretto con l’imperialismo.
Il tentato colpo di stato di Guaidò in Venezuela, il riuscito golpe in Bolivia, la conversione sulla Via di Damasco di Moreno in Ecuador e l’onnipresente uribismo in Colombia, sono tutti segni di una rinnovata politica aggressiva in America Latina da parte dell’amministrazione Trump. Biden si ritrova così uno scenario di guerra aperta verso tutti quei paesi da cui proviene una parte di blocco sociale che deve essere coinvolto all’interno dell’establishment democratico.
Una situazione simile, mutatis mutandis, a quella in cui si trovarono i democratici nei confronti degli afro-americani quando montava il movimento dei diritti civili in patria ed il processo di de-coloniazzazione in Africa. Costretti loro malgrado a far balenare l’idea dell’integrazione e di rapporti di cooperazione con i Paesi africani usciti dal giogo coloniale.
Da questo punto di vista, un tentativo di pacificazione sociale è stato loro posto su un piatto d’argento proprio da Trump: l’accordo USMCA, che il primo luglio ha sostituito il NAFTA, storica istituzione imperialista, simile al rapporto Germania/UE, prevede l’aumento salariale orario per i dipendenti messicani del settore automobilistico, nonché un maggiore rafforzamento dei sindacati concertativi del paese.
Questo modello collaborazionista in chiave socialdemocratica, già proposto dal presidente messicano Lopez Obrador, in chiara controtendenza con l’evolversi del capitalismo attuale, meno favorevole al profitto e quindi ad un quasi impossibile “nuovo patto capitale-lavoro”, potrebbe essere riproposto da una possibile amministrazione Biden nel resto del continente, al fine di ridurre l’immigrazione e, al tempo stesso, mettersi in buona luce con i latinos in casa propria.
Non si sta ovviamente cercando di fsre distinzioni artificiose tra un imperialismo “buono” e uno “cattivo”: l’opzione strategica è la stessa, ma cambia l’articolazione tattica sul come coniugare la governance delle contraddizioni sociali all’interno e la ripresa del controllo in quello che gli USA hanno sempre considerato il proprio “cortile di casa”.
Lo impone la re-internalizzazione delle filiere produttive nelle Americhe, il controllo delle risorse, in particolare quelle indispensabili per essere competitivi nella guerra tecnologica, la necessità di respingere ogni avance russa e cinese sull’America Latina.
Tutto questo, considerando l’ampio spettro di opzioni militari che Biden potrebbe usare in ogni caso, sembra più il consolidato copione tra good cop e bad cop che una vera alternativa.
Di conseguenza, la rappresentanza politica delle classi subalterne si pone di nuovo in questione, in quanto Trump e Biden concordano completamente sulle misure anti-popolari per quel che riguarda la sanità privata e la salvaguardia della finanza.
Come già accennato all’inizio, la frammentazione sociale apre al coinvolgimento delle masse in opzioni politiche chiaramente reazionarie, blindate dentro un “bipolarismo perfetto” dove tertium non datur, come dimostra la parabola di Sanders alle primarie e il suo reiterato appoggio ad un membro dell’establishment democratico: quattro anni fa la Clinton, oggi Biden.
Quello che potremmo chiamare “ricomposizione di classe” – sui temi sociali, di razza e genere – all’interno di uno spazio politico alieno dai due establishment partitici repubblicano e democratico (tanto formalmente antitetici, quanto sostanzialmente complementari) è quindi l’unico strumento che può portare effettivamente ad un avanzamento rispetto all’impasse prodotta in chi comunque, tra mille limiti e contraddizioni – come il movimento che ha sostenuto il senatore socialista del Vermont – ha cercato di dare voce ai “senza voce” della società nord-americana.
Un “nuovo movimento operaio sembra andare in questa direzione”.
Una percorso di non facile realizzazione tra “il martello” del fascismo americano tout court, rappresentato da Donald Trump, e l’incudine dell’establishment democratico legato a doppio filo alle élite che l’hanno lautamente finanziato.
Certo è che nel contesto americano questo è un lavoro di lunga durata, e anche difficile, in quanto attraversa secoli di discriminazioni e violenze. Ma se le proteste scoppiate dopo la morte di George Floyd sono un’indicazione, l’alternativa non è impossibile come sembrava prima.
Buona lettura.
*****
Com’è palesemente ovvio, gli Stati Uniti sono nei guai. Ondate di calore e incendi provocati dal cambiamento climatico mettono alle strette il paese. Un’economia già vacillante, con contraddizioni profonde, non può far altro che schiantarsi visto che lo shock prodotto dalla pandemia ha imposto vari livelli di tagli alla spesa pubblica.
Di fatto, il collasso era già cominciato prima che il COVID-19 si manifestasse. Un sistema sanitario perlopiù privatizzato e dedito al profitto, e un’etica sociale che rifiuta misure sanitarie pubbliche “socialiste”, non poteva far altro che risultare inadeguato.
In aggiunta, rispetto a questa pentola che ribolle, abbiamo una nazione storicamente razzista arrivata al culmine, con proteste doverose contro palesi ingiustizie. Queste condizioni esistevano ben prima dell’avvento di Trump alla presidenza e hanno predeterminato il caos attuale.
Trump sta mandando tutto all’aria, ma le cause ultime erano inevitabili. Invece di sottolineare l’inerente natura del capitalismo, che mette il profitto prima delle persone come principio operativo, le opinioni delle élite puntano il dito contro un capro espiatorio inoffensivo. Qualcuno deve pur cadere e l’utile idiota in questo caso è Trump. Vedere, per credere, tutte le figure dell’establishment repubblicano che finiscono per fiancheggiare Biden.
Trump, in circostanze normali, avrebbe un gigantesco vantaggio essendo il presidente uscente. Dei 13 presidenti, dal 1933, tutti si sono ricandidati tranne JFK che, tragicamente, non ebbe scelta. Tutti tranne 3 rivinsero.
Queste eccezioni provano la legge dei grandi numeri secondo cui tempi economicamente magri condannano il presidente uscente: Ford e Bush senior furono sconfitti dalle recessioni e Carter dalla “stagflazione”.
Le circostanze odierne non sono normali. L’incarico di Trump potrebbe essere una pecca fatale, in condizioni peggiori, sotto molti aspetti, rispetto a quelle della Grande Depressione.
Insieme ad un’economia che sta collassando e un paese incendiato dal desiderio di giustizia razziale e sociale, Trump non ha affatto ampliato le proprie speranze di successo governando male i contagi. Un passaporto americano era una volta il più accettato al mondo, ma ora che gli Stati Uniti guidano la classifica dei morti totali per coronavirus e sono all’undicesimo posto per morti pro capite, solo otto paesi al mondo sono pienamente aperti ai turisti americani: Albania, Bielorussia, Brasile, Messico, Serbia, Turchia, Zambia e la destinazione “più ricercata”: la Macedonia del Nord, il cui fiore simbolo è il papavero da oppio.
La paura delirante secondo cui Trump organizzerà un colpo di stato per rimanere al potere pone interrogativi su quale apparato di sicurezza potrebbe appoggiarlo. Non l’Esercito, né altre agenzie di sicurezza statali – FBI, NSA, CIA e altri infami (traduciamo così spooks).
Queste istituzioni permanenti dello Stato sono a favore di Trump tanto quanto l’elettorato attivo americano, che probabilmente lo caccerà in autunno.
Nel bel mezzo della pandemia, quando si sapeva che le richieste di assicurazione sanitaria sarebbero salite alle stelle, gli assicuratori hanno fatto profitti osceni, garantiti dalla sostanziale assenza di sanità pubblica. Tra i pescecani, Jeff Bezos di Amazon ha guadagnato 87,1 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno mentre Elon Musk di Tesla ne ha accumulati quasi 74.
Grazie in larga parte all’aiuto che dà la Federal Reserve ai detentori del capitale finanziario, Market Insider predice che “il 2021 sarà un anno spettacolare per le azioni”, mentre le prospettive per la classe lavoratrice diventano sempre più buie. Eh sì, Bernie Sanders aveva ragione quando diceva che “il sistema è pilotato” a favore della classe dei capitalisti.
Una vittoria democratica a novembre cambierà tutto questo? La Speaker della Camera Nancy Pelosi, politico democratico con la carica più alta, dice tutto: “siamo capitalisti e questo è il nostro modo di essere”. Il suo portafoglio personale ammonta a 120 milioni di dollari.
Perfino “liberal” democratici di spicco, quali Elizabeth Warren, sono rigorosamente “capitalisti fino all’osso”. Quando le è stata chiesta una spiegazione, la senatrice ha risposto “credo nei mercati e nei benefici che portano al popolo”. Mezza verità: il “popolo” che beneficia dal capitalismo è fatto solo di capitalisti.
E i progressisti del Partito Democratico come The Squad, vi chiederete? Nel “cimitero dei movimenti sociali”, qual è il Partito Democratico, sono relegati al ruolo di stagisti della diversità (“diversity window dressing”), con Alexandra Ocasio Cortez che riceve “ben” 90 secondi di fama alla National Convention dei Democratici.
Bernie Sanders, nominalmente indipendente, ha provato una disperata corsa per la nomina presidenziale e si è andato a scontrare contro la “no progressive rule” dei Democratici. Così, nel caso Biden vincesse nel 2020 ed Harris nel 2024 e nel 2028, nel 2032 ci sarebbe la prima possibilità di far candidare un progressista.
Sempre riguardo alla National Convention democratica, Bernie Sanders ha lodato Zio Joe – tra le altre cose – per le sue politiche sulla sanità. Michelle Obama ha portato il livello di assurdità alle stelle, criticando Trump per quel che ha fatto sull’immigrazione, nonostante abbia ereditato tutto da suo marito. I migliori autori di discorsi che i soldi possono comprare non riescono a scrivere bugie più convincenti?
Il progetto neoliberista continuerà, con un probabile nuovo cambio della guardia da un partito del capitale all’altro a gennaio, anche se con una faccia più gentile. Non dovremo più combattere con Pence il Principe delle Tenebre e il suo amichetto.
La nuova coppia volemose bene scatenerà l’amore, e nessuno si sentirà meglio della classe capitalista che ha già finanziato i democratici con donazioni da 48 milioni di dollari nelle prima 48 ore dall’annuncio della Harris come candidata vice-presidente. Ogni media mainstream ha sottolineato le sue magnifiche “qualifiche”, prima fra tutte il fundraising. Detto in parole povere, lei è chiaramente riconosciuta come zelante servitrice della classe dei capitalisti.
Potrebbe essere troppo presto per respirare con un Biden alla Casa Bianca. Se le prestazione passate possono essere d’indicazione, dobbiamo dare un’occhiata alle presidenze democratiche più recenti.
Sotto la guida del New Democrat Bill Clinton, fu rimosso il Glass-Steagall Act, dando di fatto avvio ad una recessione. Il NAFTA esportò posti di lavoro sindacalizzati americani e allo stesso tempo distrusse la piccola agricoltura messicana. Smembrò la Jugoslavia e bombardò l’Iraq, contribuendo alla destabilizzazione perpetua di quella parte del mondo.
“Il welfare come l’abbiamo conosciuto” fu abolito e istituita l’incarcerazione di massa. Clinton andava a gonfie vele, con la Social Security prossima vittima della ghigliottina dei tagli, fermata solo dallo scandalo Lewinski.
Nonostante questi fossero progetti-base per l’ala repubblicana del duopolio politico americano, c’è voluto un democratico per imporli alla popolazione. Nessuna legislazione progressista è stata emanata sotto la guida di Clinton. Abilmente avvertiva “il tuo dolore” mentre lo infliggeva sulla classe lavoratrice e le minoranze fatte prede dai Democratici, col plauso della classe che serviva.
Il Presidente democratico successivo, Barack Obama, non aveva neanche finito di servire il suo periodo da senatore prima che cominciasse la sua ascesa meteorica nell’Ufficio Ovale. Obama aveva abilità (wiring), ma la sua salita alle vette arrivò dopo essere stato controllato dalla classe dominante, affinché portasse la sua acqua a quel mulino.
Fu un prodotto dell’Hamilton Project del Brooklyn Institute, che riuscì con successo a far diventare il Partito Democratico il favorito di Wall Street.
Dopo aver promesso la pace, Obama portò la guerra in almeno sette paesi. Mentre nessuna legge progressista fu emanata durante i governi Obama, i suoi molti sussidi alla classe dominante includono il salvataggio di banche senza che nessuno sia stato processato. Ha regalato Obamacare alle compagnie d’assicurazione, troncando definitivamente il single payer. Ha raddoppiato la produzione di combustibili fossili, di cui si è preso direttamente il merito.
La lezione è che è più difficile creare una resistenza organizzata contro leggi regressive sponsorizzate da Democratici piuttosto che dai Repubblicani. Pensate all’incredibile opposizione alla guerra di Bush, svanita all’indomani dell’elezione di Obama, che in un attimo nominò Robert Gates, segretario della Difesa di Bush, nel proprio gabinetto.
In modo analogo, vediamo i Democratici sabotare Medicare for All, mentre Biden promette di porre il veto nel caso fosse approvata prima che lui inizi il mandato.
L’unica cosa che può preservare Trump dall’autodistruzione non è nient’altro che il Partito Democratico. Di tutti i candidati che avrebbero potuto asfaltare Trump – partendo da Bernie Sanders, con la sua promessa di un sistema pubblico sanitario in un periodo di crisi pandemica, o addirittura Elizabeth Warren, con l’idea di tassare le corporazioni in un momento di profitti record durante una recessione – ha scelto l’unico che potrebbe perdere.
L’ex senatore da Mastercard ha già assicurato a Wall Street che la sua posizione privilegiata sarà protetta sotto la sua guida. I falchi sono già stati messi a proprio agio con la promessa che il budget militare non potrà che aumentare. I parassiti delle assicurazioni sanno che le politiche di privatizzazione della sanità sono scolpite nel marmo. I Sionisti non devono agitarsi al pensiero di un possibile riconoscimento di diritti ai palestinesi o alla revisione del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.
Peggio dei negazionisti del clima, Biden crede nella scienza del cambiamento climatico e conosce le sue catastrofiche conseguenze, ma farà poco al riguardo: ha già opposto un divieto a misure di limitazione del fracking. I sussidi per i combustibili fossili continueranno con i democratici.
Badate bene che queste promesse sono state fatte in campagna elettorale nel tentativo di attrarre voti.
Pelosi ha creato l’ambiente per una presidenza Biden. La prima legge passata dopo averla ripresa in mano nel 2018 è stata la pay-go rule, una misura fiscalmente conservatrice che mette una croce su ogni tentativo di far passare la benché minima riforma sociale.
A marzo di quest’anno, poi, i Democratici all’unanimità e senza dibattito hanno fatto passare il Cares Act, il più grande trasferimento di ricchezza dai lavoratori ai paperoni che la storia abbia mai visto.
I Democratici, dall’amministrazione Obama-Biden in poi, hanno sorpassato a destra i Repubblicani in fatto di politica estera su aspetti importanti riguardo l’Afghanistan, la Corea del Nord, la Russia, la Siria, il Venezuela etc. I democratici si rifiutano addirittura di ritirare le truppe all’estero.
Trump è stato caotico, inetto e inconsistente nell’essere ostile a Putin mentre minacciava Xi Jinping. Con un’amministrazione democratica, possiamo star certi di vedere un imperialismo USA ben più subdolo e letale, cercando una dominazione ad ampio raggio.
Tutti coloro i quali si lamentano dei pasticci di Trump dovrebbero capire che l’alternativa di Biden rappresenta una più efficiente e mortale macchina del capitale. Dovremmo essere più coscienti di quel che desideriamo.
*****
di Roger D. Harris, membro del Peace and Freedom Party e reporter per Venezuelanalysis. Il testo originale è uscito su www.mintpress.com con il titolo: “Austerity at Home and imperialism Abroad: What a Joe Biden win would mean for America”
Fonte
Nagorno-Karabakh: i dubbi di Mosca
Per la seconda volta in poco più di due mesi, il conflitto di lunga data tra Armenia e Azerbaigian, attorno alla regione contesa del Nagorno-Karabakh, è riesploso con un bilancio provvisorio di vittime che appare già il più grave da molti anni a questa parte. Se i governi di praticamente tutto il mondo hanno subito fatto appello alle due parti per un cessate il fuoco, le ragioni dello scontro si sovrappongono e sono complicate dal rimescolamento in atto degli equilibri strategici euro-asiatici e risentono, in particolare, dell’intreccio di rapporti e rivalità tra Turchia, Russia e Stati Uniti.
Com’è sempre accaduto nei casi precedenti, la ripresa delle attività militari si è accompagnata alla solita campagna di disinformazione condotta da entrambe le parti. Per il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, le forze armate azere avrebbero lanciato un attacco nella mattinata di domenica contro il territorio del Nagorno-Karabakh, costringendo Yerevan a una controffensiva. Per il governo dell’Azerbaigian, al contrario, sarebbero stati i bombardamenti armeni contro le proprie postazioni e alcune aree popolate da civili e scatenare la risposta militare.
Le agenzie di stampa internazionali hanno parlato di almeno 16 vittime tra i militari delle forze del Nagorno-Karabakh e di un numero imprecisato di civili nella sola giornata di domenica. Lunedì i combattimenti si sono ulteriormente aggravati e il numero di morti è salito in modo preoccupante. Fonti armene hanno ammesso di avere registrato 58 militari caduti sul campo e 200 feriti. L’Azerbagian ha dato invece notizia di sei civili uccisi, mentre le perdite tra le forze armate non sono state rivelate. La gravità della situazione è testimoniata dalla decisione delle autorità del Nagorno-Karabakh di istituire la legge marziale, così come ha fatto l’Azerbaigian e il governo armeno, e l’arruolamento obbligatorio di tutti i maschi di almeno 18 anni.
Lo scontro tra Armenia e Azerbaigian risale agli anni appena precedenti la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La situazione del Nagorno-Karabakh, geograficamente appartenente all’Azerbaigian ma popolato in maggioranza da armeni e riconosciuto come entità indipendente solo da Yerevan, risulta contesa fin dal cessate il fuoco del 1994, seguito a un sanguinoso conflitto durato sei anni.
Da allora, come già ricordato, si sono verificati scontri episodici tra i due paesi, durati in genere solo alcuni giorni, ma talvolta con perdite significative. Nel 2016, ad esempio, una guerra di quattro giorni combattuta con artiglieria pesante, aerei da guerra e carri armati provocò quasi duecento morti tra i militari dei due paesi e alcune decine tra i civili. L’episodio più recente prima di questa settimana era stato registrato lo scorso mese di luglio. In quell’occasione i morti erano stati sedici e i combattimenti erano insolitamente scaturiti da scaramucce in una zona di confine armeno-azera non collegata alla regione del Nagorno-Karabakh.
Anche quest’ultimo inasprirsi del conflitto caucasico si inserisce ovviamente nel quadro di una situazione tesissima e irrisolta da ormai tre decenni. I fattori di rischio sono però in questa circostanza decisamente maggiori rispetto al passato e potrebbero determinare una pericolosa escalation difficile da fermare attraverso la consueta mediazione delle potenze interessate, le quali, anzi, rischiano di essere trascinate in una guerra potenzialmente più ampia.
Un fattore da tenere in considerazione è la fermissima presa di posizione della Turchia che ha assicurato pieno appoggio all’Azerbaigian, con cui condivide profondi legami storici e culturali. Nelle scorse settimane era circolata la notizia che Ankara aveva inviato circa duemila “ribelli” impegnati nella guerra in Siria, con ogni probabilità reclutati nella galassia dei gruppi jihadisti sostenuti dalla Turchia, per combattere a fianco delle forze azere in Nagorno-Karabakh.
In questa prospettiva, il riesplodere del conflitto tra Armenia e Azerbaigian può essere in parte ricondotto alle ambizioni del presidente turco Erdogan per ridisegnare il quadro delle influenze nella regione mediorientale e caucasica. L’obiettivo sarebbe in questo caso la totale riconquista del territorio del Nagorno-Karabakh da parte azera. Comunque sia, proprio il coinvolgimento turco è uno degli elementi che rendono difficoltoso il meccanismo diplomatico che in passato aveva fermato le operazioni militari di Baku e Yerevan. Infatti, la questione del Nagorno-Karabakh è oggi complicata dalle tensioni esistenti tra la Turchia e i paesi mediatori, da quelli UE alla Russia fino agli Stati Uniti, attorno ad altre crisi in atto, come Siria, Libia, Cipro e Mediterraneo orientale.
L’eventuale intervento di Ankara a fianco dell’Azerbaigian metterebbe così la Turchia e la Russia su posizioni contrapposte in ben tre conflitti, dopo Libia e Siria, facendo traballare ancora di più la già incerta partnership strategica che Putin ed Erdogan stanno cercando di costruire.
Le implicazioni del conflitto in Nagorno-Karabakh sono comunque molteplici ed estremamente complesse. Alcuni osservatori hanno rilevato come nella situazione più delicata si trovi proprio la Russia. Mosca intrattiene rapporti amichevoli sia con l’Armenia sia con l’Azerbaigian. Di Yerevan, però, la Russia è un alleato formale ed ha obblighi di difesa nell’ambito dell’organizzazione per la “sicurezza collettiva” CSTO, considerata una sorta di alternativa alla NATO, guidata da Mosca e di cui fa appunto parte l’Armenia.
Quest’ultimo paese, oltre a essere membro dell’Unione Economica Euroasiatica (EEU), sempre a guida russa, ospita anche un contingente militare del potente alleato ma, a complicare ulteriormente le cose, i cambiamenti politici interni risalenti a un paio di anni fa hanno rimescolato le carte in tavola e la posizione strategica armena appare in piena evoluzione. Nella primavera del 2018, cioè, il governo di Yerevan, guidato dall’ex presidente Serzh Sargsyan, era stato deposto da una “rivoluzione colorata” della quale in molti avevano ricondotto la regia in Occidente.
L’operazione aveva portato alla guida del governo l’ex giornalista Nikol Pashinyan, innescando un cauto ripensamento delle priorità strategiche dell’Armenia, nel tentativo di riposizionare il paese caucasico nell’orbita occidentale. Non è da escludere quindi che gli scontri di luglio e quelli in corso siano stati provocati proprio da Yerevan in collaborazione con Washington e in funzione anti-russa, in primo luogo attraverso la destabilizzazione dei rapporti tra Russia e Turchia.
Il dilemma del Cremlino è d’altra parte evidente, non solo dagli appelli alla calma lanciati in queste ore a entrambi i paesi in guerra. Il precipitare della situazione costringerebbe infatti la Russia a intervenire, anche se in maniera riluttante, a sostegno dell’Armenia. Ciò provocherebbe una spaccatura nel Caucaso che finirebbe, nella migliore delle ipotesi, per incrinare i rapporti di Mosca con Baku e Ankara e, nella peggiore, per mettere di fronte militarmente Russia e Turchia. Oltretutto con l’incognita del comportamento della NATO, impegnata ad accelerare il tentativo di accerchiamento della Russia ma al cui interno è chiara da tempo la crescente ostilità di molti membri nei confronti della Turchia di Erdogan.
Fonte
Rossana Rossanda: una “comunista italiana” molto particolare
È stato naturale ed oltremodo giusto che nei primi giorni successivi alla scomparsa di Rossana Rossanda si sommassero attestati di stima e ricordi collettivi verso una importante figura del movimento comunista del nostro paese.
Non sono mancati, però, i necrologici interessati e fuorvianti che hanno visto attivi quanti – a vario titolo – negli ultimi 30/40 anni hanno sempre osteggiato Rossanda e la sua azione culturale e politica.
Ha brillato, con un alto tasso di ipocrisia, l’attuale direzione del quotidiano il Manifesto la quale – sia dalle pagine del giornale, sia nella commemorazione svolta a Piazza Santi Apostoli a Roma – ha dato spazio e voce ai peggiori arnesi dell’anticomunismo e della più generale operazione di dissoluzione dell’esperienza comunista nel nostro paese.
Veramente una squallida operazione di triste trasformismo storico e politicista, che stride con ogni canone di corretta narrazione a cui un quotidiano – sulla cui testata ancora stranamente campeggia la dizione “comunista” – dovrebbe scrupolosamente attenersi!
Questa condotta non ci ha stupiti! Da tempo il Manifesto è la voce di una sbiadita “sinistra” sempre più compatibilizzata e normalizzata che, non a caso, circa 10 anni fa mise ai margini Rossanda e gli altri compagni a lei politicamente legati emarginandoli ed espellendoli, di fatto, da ogni funzione nel “quotidiano comunista” diretto da Norma Rangeri.
“Comunisti italiani” a fine corsa
Passati alcuni giorni è utile tornare criticamente su alcuni pezzi fondanti del pensiero politico di Rossanda che – volendo oggettivizzare, oltre la singola compagna – sono comuni a molti “comunisti italiani” i quali pur animando numerose esperienza della “nuova sinistra” (il primo gruppo del Manifesto rivista, le varie fasi del PdUP, le numerose intraprese editoriali negli anni novanta e successivamente), pur non condividendo la liquidazione politica del PCI e pur osservando e contribuendo alle varie “rifondazioni comuniste” non hanno preso atto – fino in fondo – delle nuove contraddizioni della nostra epoca iniziate a squadernarsi dopo il ciclo politico che, solo per comodità di esposizione, datiamo dal 1989 al 1991 ed oltre.
La fine del “socialismo reale”, le nuove forme della mondializzazione capitalistica a scala globale, l’emergere della competizione interimperialistica tra potenze e blocchi monetari, la nascita dell’Unione Europea e dell’Euro e – soprattutto – i nuovi ed originali processi politici che, seppur contraddittoriamente, si sono messi in movimento in America Latina, Asia e Africa sono stati interpretati da Rossanda e da tanti “comunisti italiani” con uno “sguardo politico” rivolto al passato e con un taglio teorico intriso di eurocentrismo e positivismo non adatto a cogliere le caratteristiche, profondamente inedite e maledettamente più complicate, della nuova fase strategica del capitalismo.
Certo Rossana Rossanda – assieme a Pietro Ingrao – nei primi anni della vulgata sulla “imperante globalizzazione neo/liberista” tentarono di ostacolare i cantori della “fine della Storia” e della “post/modernità imperante”, ma questa operazione si impantanò nelle pieghe del vizio di origine e nella vera e propria coazione a ripetere dei “comunisti italiani” e delle loro alchimie sul terreno politico.
Il testo “Appuntamenti di fine secolo” (Manifesto edizioni, 1995) propose una sistematizzazione teorica interessante che – come è sempre accaduto nella tradizione togliattiana, che costituiva l’humus teorica di Rossanda – ebbe, immediatamente, da parte degli autori e dei loro seguaci, una declinazione politica tutta rivolta ad una impossibile ed illusoria rivitalizzazione di ciò che residuava della storia politica piccista e, più complessivamente, di una “sinistra” piegata al dogma della governance a tutti i costi.
Da tale tracciato d’impostazione derivano i pesanti svarioni politici di Rossanda: l’invocazione dell’intervento umanitario in Bosnia (i bombardamenti NATO), l’accettazione dei vari “rospi” (il governo Dini, quello che aprì la strada alla controriforma delle pensioni), l’invocazione astratta di una “Europa sociale” (mentre veniva scopertamente avanti il processo di costruzione di un autentico polo imperialista) fino alla riduzione della lotta per il Socialismo ad un evanescente ed indistinto “orizzonte culturale” sempre lontano e completamente slegato dalle complesse dinamiche quotidiane del conflitto sociale.
Insomma Rossanda ha incarnato – anche con tratti di autentica innovazione – la migliore tradizione del “togliattismo” ma anche la sua sostanziale implosione.
L’attenzione di Rossanda alla Cina di Mao e alla Rivoluzione Culturale, lontana anni luce dal “volgare emmellismo” che fioriva in quegli anni, oppure il suo “garantismo giuridico” nella cupa stagione dei “processi politici” nei primi anni '80, sono aspetti non secondari di un tentativo di emancipazione teorico/pratico dalla ingessata chiesa madre di Via delle Botteghe Oscure. Che però è proceduto con la classica modalità “un passo in avanti e due indietro”, volendo parafrasare il buon Vladimir Ulianov.
La sua riflessione è riuscita a cogliere per tempo i prodromi delle “poderose trasformazioni capitalistiche”, ma non ha saputo/voluto intrecciare questi assunti teorici alle conseguenze politiche e di schieramento che ne derivavano, le quali – necessariamente – prevedevano strappi e rotture con un filone politico ben definito verso una “collocazione politica controcorrente” che comporta (ieri ed ancora di più oggi) condizioni di azione politica fuori da quello che Ingrao ebbe a definire come “il gorgo”.
Su tale aspetto, il giudizio di chi scrive esula dalla soggettività di Rossanda e si spalma a tutta una composizione di militanti che si è riprodotta in una tradizione organizzativa, comunque a ridosso del Partito Comunista Italiano di Togliatti, Longo e Berlinguer, ossia dei “comunisti italiani” cresciuti nel “partito nuovo”.
Insomma, la figura della compagna Rossana Rossanda è stata paradigmatica del corso politico del “comunismo italiano” e della sua importante funzione svolta, per un lungo arco temporale, nella società italiana.
Parimenti però, si è palesata l’incapacità strutturale di adeguare la sua ricerca – individuale e collettiva – alla nuova qualità della “posta in gioco” nella costruzione dell’alternativa di modello di società. Una divaricazione avvenuta in un momento in cui la contemporaneità capitalistica ha mostrato – a scala internazionale – nel passaggio di fase e nei primi decenni di questo ventunesimo secolo tratti di novità e una fenomenologia completamente inedita che occorre decodificare e, possibilmente, comprendere a tutto tondo.
Una sfida epocale – questa – ancora tutta da affrontare compiutamente e che, volendo tornare un attimo all’attualità, la vigenza della crisi pandemica globale continua drammaticamente a ricordarci.
Fonte
Non sono mancati, però, i necrologici interessati e fuorvianti che hanno visto attivi quanti – a vario titolo – negli ultimi 30/40 anni hanno sempre osteggiato Rossanda e la sua azione culturale e politica.
Ha brillato, con un alto tasso di ipocrisia, l’attuale direzione del quotidiano il Manifesto la quale – sia dalle pagine del giornale, sia nella commemorazione svolta a Piazza Santi Apostoli a Roma – ha dato spazio e voce ai peggiori arnesi dell’anticomunismo e della più generale operazione di dissoluzione dell’esperienza comunista nel nostro paese.
Veramente una squallida operazione di triste trasformismo storico e politicista, che stride con ogni canone di corretta narrazione a cui un quotidiano – sulla cui testata ancora stranamente campeggia la dizione “comunista” – dovrebbe scrupolosamente attenersi!
Questa condotta non ci ha stupiti! Da tempo il Manifesto è la voce di una sbiadita “sinistra” sempre più compatibilizzata e normalizzata che, non a caso, circa 10 anni fa mise ai margini Rossanda e gli altri compagni a lei politicamente legati emarginandoli ed espellendoli, di fatto, da ogni funzione nel “quotidiano comunista” diretto da Norma Rangeri.
“Comunisti italiani” a fine corsa
Passati alcuni giorni è utile tornare criticamente su alcuni pezzi fondanti del pensiero politico di Rossanda che – volendo oggettivizzare, oltre la singola compagna – sono comuni a molti “comunisti italiani” i quali pur animando numerose esperienza della “nuova sinistra” (il primo gruppo del Manifesto rivista, le varie fasi del PdUP, le numerose intraprese editoriali negli anni novanta e successivamente), pur non condividendo la liquidazione politica del PCI e pur osservando e contribuendo alle varie “rifondazioni comuniste” non hanno preso atto – fino in fondo – delle nuove contraddizioni della nostra epoca iniziate a squadernarsi dopo il ciclo politico che, solo per comodità di esposizione, datiamo dal 1989 al 1991 ed oltre.
La fine del “socialismo reale”, le nuove forme della mondializzazione capitalistica a scala globale, l’emergere della competizione interimperialistica tra potenze e blocchi monetari, la nascita dell’Unione Europea e dell’Euro e – soprattutto – i nuovi ed originali processi politici che, seppur contraddittoriamente, si sono messi in movimento in America Latina, Asia e Africa sono stati interpretati da Rossanda e da tanti “comunisti italiani” con uno “sguardo politico” rivolto al passato e con un taglio teorico intriso di eurocentrismo e positivismo non adatto a cogliere le caratteristiche, profondamente inedite e maledettamente più complicate, della nuova fase strategica del capitalismo.
Certo Rossana Rossanda – assieme a Pietro Ingrao – nei primi anni della vulgata sulla “imperante globalizzazione neo/liberista” tentarono di ostacolare i cantori della “fine della Storia” e della “post/modernità imperante”, ma questa operazione si impantanò nelle pieghe del vizio di origine e nella vera e propria coazione a ripetere dei “comunisti italiani” e delle loro alchimie sul terreno politico.
Il testo “Appuntamenti di fine secolo” (Manifesto edizioni, 1995) propose una sistematizzazione teorica interessante che – come è sempre accaduto nella tradizione togliattiana, che costituiva l’humus teorica di Rossanda – ebbe, immediatamente, da parte degli autori e dei loro seguaci, una declinazione politica tutta rivolta ad una impossibile ed illusoria rivitalizzazione di ciò che residuava della storia politica piccista e, più complessivamente, di una “sinistra” piegata al dogma della governance a tutti i costi.
Da tale tracciato d’impostazione derivano i pesanti svarioni politici di Rossanda: l’invocazione dell’intervento umanitario in Bosnia (i bombardamenti NATO), l’accettazione dei vari “rospi” (il governo Dini, quello che aprì la strada alla controriforma delle pensioni), l’invocazione astratta di una “Europa sociale” (mentre veniva scopertamente avanti il processo di costruzione di un autentico polo imperialista) fino alla riduzione della lotta per il Socialismo ad un evanescente ed indistinto “orizzonte culturale” sempre lontano e completamente slegato dalle complesse dinamiche quotidiane del conflitto sociale.
Insomma Rossanda ha incarnato – anche con tratti di autentica innovazione – la migliore tradizione del “togliattismo” ma anche la sua sostanziale implosione.
L’attenzione di Rossanda alla Cina di Mao e alla Rivoluzione Culturale, lontana anni luce dal “volgare emmellismo” che fioriva in quegli anni, oppure il suo “garantismo giuridico” nella cupa stagione dei “processi politici” nei primi anni '80, sono aspetti non secondari di un tentativo di emancipazione teorico/pratico dalla ingessata chiesa madre di Via delle Botteghe Oscure. Che però è proceduto con la classica modalità “un passo in avanti e due indietro”, volendo parafrasare il buon Vladimir Ulianov.
La sua riflessione è riuscita a cogliere per tempo i prodromi delle “poderose trasformazioni capitalistiche”, ma non ha saputo/voluto intrecciare questi assunti teorici alle conseguenze politiche e di schieramento che ne derivavano, le quali – necessariamente – prevedevano strappi e rotture con un filone politico ben definito verso una “collocazione politica controcorrente” che comporta (ieri ed ancora di più oggi) condizioni di azione politica fuori da quello che Ingrao ebbe a definire come “il gorgo”.
Su tale aspetto, il giudizio di chi scrive esula dalla soggettività di Rossanda e si spalma a tutta una composizione di militanti che si è riprodotta in una tradizione organizzativa, comunque a ridosso del Partito Comunista Italiano di Togliatti, Longo e Berlinguer, ossia dei “comunisti italiani” cresciuti nel “partito nuovo”.
Insomma, la figura della compagna Rossana Rossanda è stata paradigmatica del corso politico del “comunismo italiano” e della sua importante funzione svolta, per un lungo arco temporale, nella società italiana.
Parimenti però, si è palesata l’incapacità strutturale di adeguare la sua ricerca – individuale e collettiva – alla nuova qualità della “posta in gioco” nella costruzione dell’alternativa di modello di società. Una divaricazione avvenuta in un momento in cui la contemporaneità capitalistica ha mostrato – a scala internazionale – nel passaggio di fase e nei primi decenni di questo ventunesimo secolo tratti di novità e una fenomenologia completamente inedita che occorre decodificare e, possibilmente, comprendere a tutto tondo.
Una sfida epocale – questa – ancora tutta da affrontare compiutamente e che, volendo tornare un attimo all’attualità, la vigenza della crisi pandemica globale continua drammaticamente a ricordarci.
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