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13/10/2018

Governo a tre sulla graticola, spunta l’ombra di Draghi

Il “governo a tre” sta arrivando al punto di massima tensione interna. Le due anime che vengono chiamate “populiste” pretendono alcune misure di ammorbidimento dell’insoddisfazione dei rispettivi elettorati – entrambi fortemente “inter-classisti”, ma a guida piccolo-medio borghese – in vista di elezioni europee e locali in cui cercano la conferma promessa oggi dai sondaggi. L’anima tecnocratica-europeista, assolutamente prona ai desiderata dei “mercati”, incarnata soprattutto dai ministri Tria e Moavero Milanesi (economia ed esteri, non per caso), oltre che dal presidente Mattarella, deve invece garantire a tutti gli organismi sovranazionali che “la tenuta” dei conti rispetta i diktat della Troika.

Mancano ormai solo 48 ore all’invio del testo a Bruxelles, per l’esame di rito, e i bulloni si vanno stringendo intorno a nodi che muovono miliardi. Com’è noto, flat tax e reddito di cittadinanza sono le bandiere rispettivamente di Lega e Cinque Stelle. Nella versione promessa in campagna elettorale sono impossibili da realizzare se si resta dentro il vincolo dei trattati europei; ma sono anche in aperto conflitto tra loro.

La flatx tax infatti, avvantaggiando soltanto i ricchi (in proporzione alla loro ricchezza, perché per i salariati meno fortunati resterebbe l’aliquota minima al 23%, che pagano già oggi), va nella direzione di concentrare quote maggiori della ricchezza prodotta in poche mani. Mentre il reddito di cittadinanza – in astratto – andrebbe in direzione opposta, verso la redistribuzione di quote della ricchezza prodotta verso le fasce più povere.

Dunque il reddito di cittadinanza andrebbe finanziato innalzando la tassazione sulle fasce più ricche, ma questo metterebbe fine all’alleanza di governo. La soluzione che si profila, perciò, è quella di un “forfettone” per professionisti e piccole imprese, “compensato” da un reddito-ricatto per costringere a lavorare anche a salari bassissimi, ma concesso con tante e tali clausole escludenti da restringere la platea a pochissimi s-fortunati.

Il punto programmatico comune – una piccola revisione della legge Fornero, con l’introduzione di una “quota 100” di ancora indefinita formulazione (quanti anni di età? quanti di contributi?) – sembra fatto per soccorrere lavoratori privati del Nord e fasce anziane del pubblico impiego. Ma sappiamo dallo stesso Tria che si tratta di una misura chiesta dalle imprese di ogni dimensione, che vorrebbero liberarsi di lavoratori anziani e con buone retribuzioni (frutto delle lotte degli anni ‘70, ormai) per sostituirli con giovani precari e sottopagati. Se avessero avuto altre esigenze, “quota 100” potevi sognartela...

Misura comunque costosa anche questa, se si continuano ad accettare i parametri europei, anche se decisamente meno dei “100 miliardi” urlati dal bocconiano Tito Boeri, messo da Renzi a capo dell’Inps per smantellare rapidamente la previdenza pubblica. Per diminuirne l’impatto sui conti circolano addirittura voci sul rinvio del pagamento della liquidazione comunque ai 67 anni di età. In soldoni, ti mano in pensione a 63-64 anni, con un assegno più basso per ogni anni di anticipo, ma il grosso dei contanti – la liquidazione, appunto – te la farò avere solo quando la pensione sarà maturata secondo i tempi della Fornero. Hai visto mai che nell’attesa stiri le zampe, così “risparmiamo pure”...

Come si vede, sono tutte versioni “ridotte” di quanto promesso. Insufficienti a cambiare l’esistenza dei soggetti sociali interessati, ma abbastanza da poterle rivendicare come “cose fatte” nella prossima campagna elettorale a breve termine. L’attuale classe politica, del resto, sembra aver compreso perfettamente il motto keynesiano più famoso: “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Dunque si preoccupa soprattutto di sopravvivere nel brevissimo periodo (la durata della legislatura, insomma...).

Comunque è una manovra che “concede troppo”, agli occhi di un numero spaventoso di “istituzioni” pubbliche e private che rappresentano il punto di vista dei “mercati”. Il Mario Draghi che da Bali, al vertice del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), si dichiara “ottimista su una soluzione di compromesso” con il governo grillin-leghista, è lo stesso che ha fatto visita qualche giorno fa al presidente Mattarella per minacciare indirettamente sfracelli finanziari nel caso la manovra fosse stata “inaccettabile”. E le consuete voci interessate lo indicano come possibile primo ministro in caso di crisi di governo e ricorso al classico “governo tecnico”. In fondo il suo mandato alla Bce termina a metà 2019, ma per statuto ha la possibilità di lasciare anche sei mesi prima. A gennaio, insomma, sarebbe tecnicamente disponibile...

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