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07/01/2019

Scricchiola il modello neoliberista. Persino in UE...

Il neoliberismo ha i mesi contati? Inutile fare oroscopi, però è bene mettere in fila una ormai lunga serie di segnali che evidenziano la difficoltà – o l’impossibilità – di riproporre per la millesima volta la stessa ricetta davanti ai venti di crisi globale che stanno accompagnando questo finale di decennio.

Tenendoci soltanto a questa prima settimana dell’anno, abbiamo dovuto registrare un cambio di prospettiva – assai poco enfatizzato dai media mainstream – addirittura di Mario Monti, secondo cui l’Unione Europea dovrebbe “Delineare una formula per lo scomputo controllato degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit; e avviare un deciso intervento di armonizzazione fiscale, che combatta ogni sleale concorrenza basata sulle imposte.”

Sembra una cosetta da nulla, un codicillo da super-tecnici. In realtà è un’idea che richiederebbe la riscrittura di alcuni trattati oggi in vigore, che obbligano a considerare gli investimenti pubblici come “spesa”, al pari di stipendi degli statali, acquisti di armi (peraltro “consigliati” da Ue e Nato), interessi sul debito, sanità, istruzione, ecc. Una autentica “riforma” della Ue che andrebbe in direzione opposta a quella seguita finora, pur restando – ovviamente – del tutto coerente con la difesa oltranzista degli interessi del grande capitale multinazionale.

Perché un guardiano dell’ortodossia come Monti è arrivato a questo punto? Perché la recessione è iniziata (si attendono i dati sul Pil del quarto trimestre per ufficializzarla anche tecnicamente), “i privati” hanno congelato i loro investimenti non vedendo luce nell’immediato futuro, e dunque – se nessuno investe – la crisi può solo aggravarsi.

Fin qui siamo tutti rimasti a galla grazie agli immensi quantitative easing messi in atto prima dalla Federal Reserve statunitense, poi anche dalla BoJ giapponese, dalla Bank of England e dalla Bce. Ma tutto quel denaro “stampato” da nulla non è finito nell’economia reale, ma nei circuiti finanziari, che hanno lo sguardo – al massimo – sui rendimenti trimestrali. Dunque non lasciano “sgocciolare” crediti verso l’economia reale, che ha tempi di realizzo e ritorno mediamente molto più lunghi.

Dunque, “contrordine liberisti!, lo Stato deve poter spendere per investimenti. Poi gli diremo anche quali può fare (quelli che servono al big buniness) e quali no” (indovinate un po’...).

Non sarà semplice invertire la rotta, nel Vecchio Continente, perché l’attuale assetto ha consentito di riscrivere le filiere produttive europee in un senso completamente favorevole alle grandi imprese soprattutto tedesche. E quelli sono interessi che pesano decisamente più della Grecia o dell’Italia. Però qualcosa bisognerà che se lo inventino, perché l’altro pistone del “motore europeo” – la Francia – sta battendo colpi in testa sia sul piano economico che, soprattutto, su quello della tenuta sociale. Se le ruspe prendono come bersaglio i ministeri, invece che i campi rom, come in Italia, per il potere si fa dura...

Ma non è l’unico “revisionista” in campo neoliberista. Il giorno dopo, sul Corriere, l’economista ex Bce Lucrezia Reichlin invita ad un “coordinamento europeo per una forte politica fiscale espansiva”, visto che quella monetaria (ossia la Bce) non può fare più niente. Del resto, il crollo ventennale in Europa degli investimenti e della deflazione salariale ha creato una situazione impossibile: si produce roba mediamente vecchia ed è stato depresso il mercato interno (continentale) che dovrebbe comprarla. L’innovazione, infatti, si fa altrove e il modello mercantilista (bassi salari per rendere più competitivo l’export) non funziona più, perlomeno in tempi di crisi e/o di guerre commerciali (i dazi).

Se ne è accorto persino l’ometto delle banche, quell’Emmanuel Macron che non può più uscire per strada, che l’ultimo giorno dell’anno se n’è uscito con una considerazione che per uno come lui suona come un’ammissione di sconfitta: “Il capitalismo ultraliberista e finanziario, troppo spesso guidato da una visione di corto termine e dall’avidità di qualcuno, va verso la sua fine”. Ma non è che cambia la sua politica di “riforme”, solo per questo...

La Cina – come resocontato altrove – reagisce al rallentamento generale con una poderosissima spinta fatta di incentivi fiscali, alti salari (+15% annuo il livello minimo), investimenti pubblici (rete ferroviaria, ecc).

Ma anche negli Stati Uniti, tra protezionismo e paure di perdere altro consenso sociale, stanno aumentando i salari persino per i lavoratori non qualificati. Non avveniva dagli anni '70...

Per ora l’insofferenza per l’establishment neoliberista è andato maggioritariamente verso Donald Trump, in chiave nazionalista, razzista, anti-immigrati e anti-cinese. Ma persino lì è emersa una “nuova sinistra” che – orrore! – si professa pubblicamente socialista. Negli Usa, fino a poco tempo fa, era praticamente un insulto e uno stigma che impediva la carriera politica. Oggi non più.

Le proposte che arrivano da questa parte non sono nulla di rivoluzionario, diciamolo subito. In pratica, ripropongono il modello fiscale pre-reaganiano: alta tassazione per i più ricchi e investimenti pubblici. La novità sta soprattutto nell’obiettivo: finanziare la transizione ecologica dal modello industriale fondato sugli idrocarburi ad uno più sostenibile.

Può sembrare, anche in questo caso, poca cosa, ma è praticamente enorme. Sia sul piano della torsione da dare – se si affermerà questa visione – all’intero sistema industriale Usa (e a cascata su tutte le filiere produttive agganciate a quelle statunitensi); sia sul piano sociale. Se si guarda infatti alle “soluzioni europee” pensate fin qui, abbiamo un quadro molto diverso, se non opposto: disincentivare i consumi tramite aumento della tassazione sui carburanti inquinanti (Francia) o, più modestamente, sui nuovi modelli di auto diesel. Un modo, insomma, di far pagare timidi accenni di “transizione ecologica” a lavoratori, in primo luogo pendolari per necessità.

Per un’informazione più dettagliata su quel che cova in America, invitiamo a leggere questo interessante articolo dell’agenzia Agi, che espone le proposte avanzata dalla neoparlamentare socialista Alexandria Ocasio Cortez.

Per capirci: i media mainstream, in questi giorni, ne stanno parlando solo in riferimento a un video girato qualche anno fa – quando era studentessa – in cui, come tanti altri ragazzi della sua età... balla! (bene, peraltro...).

E poi si chiedono perché i giornali più noti hanno perso così tanta credibilità sociale...

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Perché la tassa del 70% sui super ricchi può funzionare

L’idea non è della deputata demo-socialista Ocasio-Cortez che l’ha appena rilanciata, ma dell’America del 1936. E persino con Reagan le tasse per i ricchi erano più alte di ora. Un paio di Nobel per l’Economia spiegano perché quel sistema funzionava.

Ugo Barbàra

La premessa è questa: in America 160 mila famiglie detengono il 90 per cento della ricchezza del Paese. Che non sarebbe male se avesse le dimensioni del Lussemburgo, dove i nuclei familiari sono poco meno di 150 mila, ma diventa un problema se – come negli Stati Uniti – sono 126 milioni. Una diseguaglianza che pesa come un macigno sulla tenuta della società.

La soluzione, per come l’ha pensata la stella nascente della politica americana, la deputata newyorkese di origini portoricane Alexandria Ocasio-Cortez, è in una tassazione del 70% proprio a carico di questa fetta di super-ricchi. Una ridistribuzione della ricchezza di mero stampo socialista? Non proprio, visto che la parlamentare democratica ha in mente un piano ben preciso: finanziare con quei soldi un Green New Deal per portare a termine la transizione dagli Stati Uniti dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.

Cosa è il Green New Deal di Ocasio-Cortez

Una proposta – lanciata durante l‘intervista con ’60 minutes’ della Cbs ed echeggiata come una cannonata sulla stampa americana – che in realtà fino all’era Reagan non era affatto rivoluzionaria e che di recente è stata rilanciata da Peter Diamond, Nobel per l’Economia.

La deputata demo-socialista è convinta che in una decina d’anni tutta l’elettricità che serve al suo Paese possa derivare da fonti rinnovabili e che la realizzazione di reti di distribuzione intelligenti possa portare alla eliminazione completa delle emissioni di gas serra industriali.

Per finanziare un’operazione del genere servono soldi e questi soldi dovrebbero venire dalle tasche non dei più ricchi, ma degli ultra ricchi, gente come Jeff Bezos di Amazon, per dare un’idea. O dei creatori di Google. E tutto con un sistema di aliquote fiscali che era già in vigore negli anni ’60, quando l’America era tutto tranne che un covo di socialisti.

Per dare un’idea, durante l’intervista la Ocasio-Cortez ha ipotizzato che la tassazione possa essere del 10% fino a 75 mila dollari l’anno e poi salire man mano che i guadagni decollano. Per raggiungere il 70% per quelli che non si limitano a volare, ma raggiungono l’iperspazio. E solo a partire da quella quota – diciamo 10 milioni di dollari a titolo di esempio. Per cui se uno guadagna 11 milioni l’anno, pagherebbe il 70% solo su quel milione oltre i 10. E così via.

Quante tasse pagano oggi i super-ricchi

Le cose oggi stanno ben diversamente: l’aliquota fiscale massima è scesa al 37% in seguito al passaggio del Tax Cuts and Jobs Act del 2017, fortemente voluto da Donald Trump. Inoltre la Ocasio-Cortez ha già al suo attivo una cocente sconfitta nella battaglia con i democratici centristi e l’establishment del partito su come la sinistra dovrebbe affrontare i cambiamenti climatici. Non è riuscita a ottenere la creazione di un comitato ristretto per un Green New Deal, ma la speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, ha già annunciato l’intenzione di creare un comitato sui cambiamenti climatici presieduto da Kathy Castor, deputata della Florida esperta in materia ambientale. E forte di questa nuova apertura, la giovane deputata newyorkese ha suggerito dove trovare i soldi.

L’idea che piace ai Nobel

Ma quanto è fuori di testa l’idea della Ocasio-Cortez della super-tassa per gli iper-ricchi? Non troppo, secondo un altro premio Nobel, Paul Krugman, che in un editoriale per il New York Times fa il punto delle proposte simili. Partendo proprio da quella di Diamond che, insieme con Emmanuel Saez, esperto di diseguaglianze, ha ipotizzato una tassazione ideale dei super patrimoni al 73%. Ancora più alta quella suggerita a suo tempo da Christina Romer, macroeconomista e consigliera capo del presidente Obama sulle questioni economiche, secondo cui dovrebbe attestarsi all’80%.

Numeri a caso? Non proprio, dato che alla base della dottrina Diamond-Saez ci sono l’utilità marginale decrescente e i mercati competitivi.

L’utilità marginale decrescente è quell’idea in base alla quale mille dollari dati a una famiglia che ne guadagna 20 mila l’anno hanno un impatto infinitamente più alto di quello che avrebbero su una persona che ne guadagna un milione. La sostanza è che, secondo Krugman, non bisogna preoccuparsi di ciò che una politica fa ai redditi dei ricchi perché una politica che rende i ricchi un po’ più poveri influenzerà solo una manciata di persone, e influirà a malapena sulla loro vita, dal momento che saranno ancora in grado di comprare ciò che vogliono.

Certo questo non autorizza a pensare di tassarli al 100% perché eliminerebbe qualsiasi incentivo a guadagnare, con un danno per l’economia e la crescita. In altre parole, la politica fiscale verso i ricchi non dovrebbe avere nulla a che fare con gli interessi dei ricchi di per sé, ma dovrebbe riguardare solo il modo in cui gli effetti di incentivazione cambiano il comportamento dei ricchi e come questo influenza il resto della popolazione.

Ma cosa c’entrano i mercati competitivi? In un’economia perfettamente competitiva, senza potere di monopolio o altre distorsioni, dice Krugman, se si viene pagati 1.000 dollari l’ora, ogni ora in più che si lavora aggiunge 1.000 dollari all’economia. Ma attenzione: non è vero che se un uomo ricco lavora un’ora in più (aggiungendo 1.000 dollari all’economia e venendo pagato 1.000 per i suoi sforzi) si tratta per tutti gli altri di un gioco a somma zero, perché pagando le tasse su quei soldi extra darà un beneficio alla comunità. In buona sostanza, sia secondo Diamond-Saez che secondo Romer, la tassazione giusta per i guadagni dei super-ricchi è quella che permette allo stato di incamerare più soldi possibili senza togliere lo stimolo a lavorare e quindi guadagnare di più. Per continuare a pagare più tasse.

Un po’ di numeri

Fin qui la teoria. Ma di quanti soldi stiamo parlando? Nel 1936 la tassazione arrivava al 79%. Nei decenni diminuì, ma persino nei ruggenti anni ’80 di Reagan era al 50%, ricorda l’Independent. Ora la tassazione sopra i 600 mila dollari l’anno è al 37 per cento, contro il 39,6 di prima della riforma fiscale del 2017.

Secondo la Ocasio-Cortez, dalla supertassazione potrebbero arrivare 720 miliardi di dollari in dieci anni. Da dove? Non dall’uno per cento di super-ricchi, ma dallo 0,05% di americani che oggi guadagna più di 10 milioni l’anno: 16 mila persone. Complessivamente, il loro reddito imponibile totale ammontava a 405 miliardi di dollari nel 2016, quando hanno pagato 121 miliardi di tasse federali, oltre alle tasse statali e locali, che aumentano i loro oneri fiscali complessivi.

Cosa si potrebbe finanziare con quei soldi? Non essendoci ancora una valutazione del Green New Deal e basandosi sulle iniziative di welfare esistenti o del passato, 720 miliardi non basterebbero a pagare il sistema sanitario Medicare che costa 30 triliardi, ma pagherebbero quasi per intero il programma di istruzione superiore gratuita da 800 miliardi che è nel programma dal socialista Bernie Sanders, l’uomo al quale verosimilmente la Ocasio-Cortez strapperà più voti negli anni – se non nei mesi – a venire. Anche grazie a un concreto e già sperimentato (in tempi non sospetti) piano di ridistribuzione di una (minima) parte della ricchezza che un pugno di super-ricchi – perlopiù digitali – ha accumulato in una manciata di anni.

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