30/11/2021
L'Honduras cambia pagina
Le elezioni sono state viste da Washington con una certa apprensione considerato il processo di delegittimazione politica dell’oligarchia filo-statunitense al governo – confermato dai risultati parziali – che gli ha permesso di esercitare la propria egemonia nell’ultimo decennio, e che ora potrebbe essere messo in discussione.
Altro motivo di preoccupazione statunitense è il possibile riconoscimento del governo di Pechino – per cui la futura presidente si era espressa in precedenza – e non più di Taiwan, considerato che l’Honduras fa parte di quella di dozzina di paesi che a livello internazionale riconoscono la rappresentanza politica di Taipei.
Un aspetto importante considerato lo scontro diplomatico tra la Repubblica Popolare e Stati Uniti proprio su Taiwan, e la polarizzazione internazionale che sta creando.
E Washington, tra l’altro, vede come il fumo negli occhi lo sviluppo dell’influenza di Pechino su quello che ha storicamente considerato il suo “cortile di casa”.
Un altro aspetto rilevante che lega USA e Honduras è quello legato all’immigrazione, considerato che la situazione nel paese ha spinto parte della popolazione verso gli Stati Uniti, e che un quinto dell’intero PIL del paese deriva dalle rimesse degli immigrati honduregni negli USA.
Lo sviluppo del Paese potrebbe permettere di recidere questo “cordone ombelicale”, o comunque renderlo meno dipendente dagli USA, per uno Stato in cui, su 10 milioni di abitanti, il 59% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Oltre all’elezione del prossimo presidente, il popolo honduregno ha votato per 20 membri del Parlamento, 128 deputati al Congresso Nazionale, 298 sindaci e i rispettivi consiglieri municipali.
Con il 51,3% delle schede scrutinate, pari a 9.384 seggi sui 18.933 totali, il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) dell’Honduras riporta il vantaggio di 20 punti percentuali di Xiamara Castro (53,6%), candidata della coalizione di centro-sinistra guidata dal Partito Libertad y Refundación (LIBRE), rispetto a Nasry Asfura (33,9%), principale sfidante e candidato del Partido Nacional al governo, e Yani Rosenthal del Partido Liberal (9,2%).
È da evidenziare, soprattutto, l’affluenza storica registrata da queste elezioni, con oltre 5 milioni di honduregni che hanno votato. Una cifra equivalente al 68,8% degli aventi diritto.
Si tratta di un elemento non indifferente, a riprova del fatto che il popolo honduregno non si è lasciato intimorire di fronte alle violenze che hanno segnato le settimane precedenti la votazione, ed un chiaro segno della volontà di cambiamento.
Le provocazioni, le minacce e gli attacchi denigratori hanno colpito attivisti e militanti di base della sinistra progressista e socialista honduregna. Xiomara Castro, la candidata del Partito LIBRE, è stata bersaglio costante della campagna di odio da parte del partito al potere e di altre forze reazionarie.
In una manifestazione organizzata il 7 novembre a Tegucigalpa dal candidato del Partido Nacional, Nasry Asfura, i suoi sostenitori hanno portato uno striscione con un disegno di Xiomara che pugnala allo stomaco una donna incinta, con lo slogan “Nasry sì, comunismo no!”.
La rappresentante del Partito LIBRE nel Consiglio Nazionale Elettorale, Rixi Moncada, è stata vittima di una campagna diffamatoria e di odio, quando ha denunciato pubblicamente i rischi di una destabilizzazione del processo elettorale a seguito dei tentativi della destra di creare un clima di terrore diffuso, di manipolare il Sistema di trasmissione dei risultati elettorali preliminari (TREP) e di compromettere la trasparenza delle votazioni.
È stato annichilito quindi, per ora, il tentativo della destra governativa di screditare la Castro con una feroce campagna anti-comunista, anche a causa dello stretto rapporto che la futura Presidente aveva coltivato con lo scomparso presidente venezuelano Hugo Chavez.
L’ultimo processo elettorale, nel 2017, era stato segnato da diffuse irregolarità, che scatenarono proteste di massa in tutto il paese per denunciare brogli da parte del Partido Nacional al potere.
Il governo dell’allora presidente Juan Orlando Hernández impose il coprifuoco e scatenò una violenta repressione della polizia contro i manifestanti, in cui più di due dozzine di persone persero la vita. Tre settimane dopo, Hernández fu dichiarato vincitore, riuscendo così ad assicurarsi un secondo mandato.
Come ha detto la leader comunitaria e figura storica dell’opposizione, Miriam Miranda: “i colpi di Stato hanno trasformato l’Honduras in un laboratorio politico per la distruzione delle istituzioni”, uno svuotamento della propria sovranità che il capitale internazionale ha promosso anche grazie allo sviluppo delle Zone Economiche Speciali (ZES).
Stavolta, a meno di colpi di mano all’ultimo minuto, Xiomara Castro sarà la prima presidentessa dell’Honduras, marcando una grande vittoria per le forze sociali e progressiste del paese che per 12 anni ha subito – non impassibili, ma sempre dimostrando una forte resistenza popolare – le politiche neoliberiste di massacro sociale attuate dal regime narco-militare e satellite dell’imperialismo USA guidato dal fedele Juan Orlando Hernández.
Gli ultimi 12 anni sono stati caratterizzati dalla militarizzazione del paese, la consegna di territori ad attori privati per l’estrazione di risorse naturali (ZES), il deterioramento delle condizioni socio-economiche della maggioranza della popolazione, i tagli al settore pubblico, la corruzione sfrenata e la migrazione di massa fuori dal paese e lo sviluppo del narco-traffico che ha fatto parlare di “Colombizzazione” del Paese.
“Abbiamo vinto! Dodici anni di resistenza di questo popolo e questi dodici anni non sono stati vani perché oggi il popolo si è mostrato e ha fatto valere la frase ‘solo il popolo salva il popolo’. Oggi il popolo ha fatto giustizia”, ha affermato trionfante Xiomara Castro nella conferenza stampa dopo il bollettino del CNE.
Inoltre, ha annunciato che formerà un governo di riconciliazione, di pace e giustizia sociale, per costruire una vera democrazia partecipativa nel paese centro-americano con tutti i settori politici e sociali che l’hanno sostenuta, e legalizzerà parzialmente l’interruzione di gravidanza.
Pertanto, l’Honduras si accinge a riprendere quel cammino di trasformazione sociale progressista iniziato nel 2006 da Manuel Zelaya, marito di Xiomara Castro, e brutalmente interrotto dal violento colpo di Stato nel 2009, quando fu destituito ed espulso dal suo paese.
Il golpe del 2009 è arrivato dopo che l’ex presidente Zelaya aveva firmato l’ingresso dell’Honduras, l’anno precedente, nell’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America, cominciando a stabilire una serie di accordi di cooperazione e sviluppo economico e sociale con gli altri paesi membri dell’ALBA.
Il suo piano di autodeterminazione e autonomia rispetto alle politiche di Washington, per far uscire il popolo honduregno da una condizione di povertà e precarietà sociale, è stato attaccato duramente dalla destra reazionaria e complice che ha riportato l’Honduras sotto l’influenza diretta degli USA, più simile ad una “colonia” che ad uno Stato indipendente.
“Fuori la guerra, fuori l’odio, gli squadroni della morte, il traffico di droga, la corruzione, basta con la povertà e la miseria in Honduras. ¡Hasta la victoria siempre! Insieme trasformeremo questo paese”, questo il messaggio di speranza lanciato da Xiomara Castro al popolo honduregno e che ci spinge, anche alle nostre latitudini, a rafforzare il nostro impegno politico per trasformare la solidarietà con i processi di emancipazione dell’America Latina in uno degli assi principali del nostro agire, perché è da questo continente che parte una speranza per tutta l’umanità.
La sfida di Xiomara Castro sarà quella di contrastare i poteri economici, mediatici e militari di cui gode la destra nazionalista, grazie all’appoggio statunitense, e le violenze dei cartelli della droga e dei gruppi armati, che sono aumentate dopo il colpo di Stato nel 2009 e che hanno causato la morte di numerosi attivisti sociali e leader indigeni, come quello di Berta Cáceres.
Xiomara Castro ha affermato che la sua vittoria metterà fine all’autoritarismo di pochi e agli abusi di una “classe dirigente” corrotta e servile che ora trema e rischia di perdere i privilegi accumulati: “da questo momento in poi, il popolo sarà l’eterno potere dirigente in Honduras”.
In questi anni, le organizzazioni sociali e le forze politiche progressiste hanno fatto un grande lavoro per costruire una resistenza popolare e di massa contro il governo di Juan Orlando Hernández, il sistema di affari del Partido Nacional, le élite economiche nazionali e le ingerenze di Washington nella politica interna.
Il nuovo governo, che entrerà in carica nel gennaio 2022, dovrà affrontare la sfida di salvare il popolo honduregno da un’enorme crisi economica e sociale; per farlo, dovrà rovesciare quell’infame condanna sancita dalle forze imperialiste USA che per decenni hanno fatto dell’Honduras una “colonia dannata” da sfruttare e depredare.
Come Rete dei Comunisti non possiamo che rallegrarci di questo ennesimo segnale di risveglio dell’America Latina e di indebolimento dell’imperialismo statunitense.
Le condizioni oggettive che erediterà la Castro ed i tentativi di ingerenza nord-americani che non cesseranno nonostante la vittoria elettorale rafforzano la necessità di essere al fianco delle popolazioni che in quel continente ne stanno riscrivendo il futuro.
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Il governo Draghi, sui problemi socuali fa schifo quasi a tutti
Viviamo in una congiuntura in cui l’informazione – anche prima delle “raccomandazioni” esternate da Mario Monti – ci descrive quotidianamente un mondo monoblocco, sul quale volteggia come un angelo benefattore tale Mario Draghi. Il quale, “grazie alla sua credibilità internazionale” avrebbe “risollevato l’Italia” nella considerazione degli altri paesi.
Draghi era uno dei componenti più autorevoli della “Troika”, nei mesi in cui Fondo Monetario, Unione Europea e Bce strangolavano la Grecia (la Bce di SuperMario pensò bene di non far arrivare più il denaro ai bancomat, per “convincere” quel popolo – e il suo governo – ad accettare il nodo scorsoio intorno al collo).
Ma si sa, passata la festa gabbato lo santo. Chi se ne ricorda più?
Ora governa direttamente lui (e i poteri multinazionali che l’hanno voluto a Palazzo Chigi), e quindi è “santo” per definizione.
Però il sondaggio Swg mostrato lunedì sera su La7 da Enrico Mentana mette in evidenza alcuni dettagli che è bene valutare politicamente in modo non approssimativo.
La misurazione del “gradimento” del governo è stata – incautamente, visto lo scopo – disaggregata per “ambiti di attività”. E risulta solare la distanza tra l’apprezzamento sostanziale per il piano vaccinale o le “misure per il contenimento dei contagi” – gli unici ambiti in cui raccoglie una solida maggioranza di consensi – e tutti gli altri.
In pratica, si potrebbe dire che sono gli unici temi su cui il governo sta socialmente in piedi.
Per un verso è abbastanza logico, anche se gli errori commessi sono stati enormi ed infiniti (ne abbiamo parlato ogni giorno, potete rileggere con calma).
Nel mezzo di una pandemia che va ad ondate, con varianti continue, allarmismi a corrente alternata, misure di anticipata “apertura” cui seguono “chiusure” frettolose, la popolazione tende a prendere il lato buono: la campagna di vaccinazione ha raggiunto oltre l’85% degli over 12, i morti e i ricoverati sono scesi in maniera verticale.
Si poteva certamente fare di più e meglio – con l’obbligo vaccinale, come per altri “10 vaccini 10” indispensabili per mandare i bambini a scuola – ma “meglio meno che niente”.
Questa “constatazione di massa” rende risibili le argomentazioni di quanti – “a sinistra”, magari addirittura “estrema” – sono caduti nella trappola delle mobilitazioni politiche contro il green pass (quelle sindacali sono state invece assolutamente condivisibili, con tutti i distinguo del caso), fino ad adottare o diventare “comprensivi” con le cazzate no vax.
Non c’è insomma “un popolo incazzato” su questo tema, che attenderebbe soltanto una guida “giusta”, contendendola ai fascisti. Ma minoranze disinformate che si cullano in un mondo immaginario, ampiamente manipolabili e manipolate da parte del potere (che ne ha fatto un comodissimo capro espiatorio dei propri innumerevoli errori).
Al contrario, su tutti gli altri tempi rilevanti il governo sta sotto la soglia della maggioranza.
Vero è che il giudizio sulla “gestione del PNRR” sfiora quel limite, ma è fin troppo evidente che qui gioca moltissimo l’assoluta mancanza di informazione. Il PNRR stesso è stato illustrato “per titoli”, senza entrare nei contenuti specifici. Solo alcuni addetti ai lavori sono stati in grado di conoscerne – e comprenderne – i tratti salienti.
I più sono dunque “informati” dai media con quella melassa secondo cui “arrivano i soldi dall’Europa” e “meno male che c’è Draghi, se no non ce li davano”. Ci sarà tempo e modo di far chiarezza...
Lo stesso si può dire per la la “politica” estera, che pure mostra un gradimento poco sopra la soglia di un terzo. Così come per le “politiche economiche” o quella “sanitaria” (su cui è presumibile si sia trasferita una parte degli apprezzamenti positivi per la campagna vaccinale, che ha coperto le altre magagne).
Subito dopo è tutto un precipizio. E passi, tra i dati politicamente negativi, lo scontento per “la sicurezza”, con i Salvini, le Meloni (e il Pd) che continuano a sparare allarmismi sull’”invasione” dei migranti, i rave e quant’altro.
Ma quando si va al sodo Draghi non convince più nessuno. Clamoroso lo sgradimento sull’ambiente (appena il 26%), che consolida la consapevolezza sul puro bla bla bla in bocca ai Cingolani & co, del green washing che accompagna politiche di “transizione” tutt’altro che ecologiche.
E ovviamente scuola, povertà, tasse (su chi guadagna poco, ovvio), lavoro (e salari) sono temi su cui ognuno può toccare con mano la differenza tra la propaganda governativa e la realtà quotidiana.
Ed è su questo, insomma, che ha senso mobilitarsi fin da subito (e fin da sabato, 4 dicembre). È su questi terreni che si può e si deve togliere il tappeto sotto i piedi a questo governo di servi del capitale multinazionale.
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Scommesse e soldi facili
In Nevada (+17%), Pennsylvenia (+44,6%), New Jersey (+35,5%) si gioca alla grande, e gli Stati incassano cospicue creste. Il Nevada, a giugno, ha incassato 1,2 miliardi, e Lo Strip di Las Vegas (casinò) ha realizzato il suo terzo maggiore incasso di tutti i tempi.
L’iGaming, la vera grande novità, legale solo in 6 stati, ha maturato un aumento del 15%, con incassi superiori a quelli di tutto il 2020.
Il giro di scommesse si è allargato alla borsa, generando un processo di concentrazione, con un volume d’affari superiore ai 20 miliardi. (forbes.com).
DraftKings, specializzata in scommesse sportive, ad agosto 2019 valeva al NYSE 9,85. Il 21 marzo 2021 chiudeva a 71,98. MGM Resorts International, nello stesso lasso di tempo, è passata da 5,90 a 51. International Game Technology PLC, controllata da De Agostini, il 22 aprile del 2020 valeva 3,59. L’11 luglio del 2021 è balzata a 32,95. Sono numeri da tavolo da gioco.
I ricavi delle scommesse sportive sono cresciuti del 69% dal 2019 al 2020, e di un altro 270% durante il primo trimestre del 2021 (theatlantic.com).
Il processo è contagioso. Anche i conduttori delle trasmissioni sportive sono entrati nel giro. Discutono allegramente di scommesse e probabilità di vincita. Charles Barkley, di TNT, ha un contratto di sponsorizzazione con FanDuel. Jalen Rose, di ESPN, ne ha uno con BetMGM. Fox ha la sua piattaforma di scommesse, Fox Bet. Anche Disney è voluta entrare nel giro, con una piccola partecipazione in DraftKings, e ha in cantiere altre opzioni per aumentare la sua quota di mercato.
Il gioco d’azzardo è ora saldamente radicato nella matrice sportiva. Le stesse società posseggono il diritto di trasmettere i giochi, il giornalismo sui giochi e i mercati delle scommesse per quei giochi.
Il gioco d’azzardo, scrive Stephen Marche su theatlantic.com, è divertente perché fa sembrare i soldi un gioco, una sciocchezza. L’euforia si è diffusa più ampiamente di recente, da quando le criptovalute, con un volume di mercato che ha superato i 2 trilioni, hanno cominciato a minare l’idea stessa di denaro.
I token (i gettoni) sono, per così dire, virtuali, rimbalzano da un computer ad un altro, e tutto ha il fascino del Monopoly e la parvenza del gioco.
Quando nel gioco entra a gamba tesa un organismo istituzionale, la differenza tra reale e virtuale, tra gioco e vita vera, diventa ancora più sfumata.
Dal 2008, dice Stephen Marche, la Federal Reserve (la Banca centrale Usa, ndr) ha iniziato a stampare denaro a manetta, facendo del quantitative easing parte integrante del suo regolare programma.
L’offerta di moneta degli Stati Uniti è cresciuta di 5,5 trilioni, con un aumento, da dicembre 2019 ad agosto 2021, del 35,7%.
L’inflazione, dice Marche, sta aumentando più velocemente di quanto non abbia fatto in 20 anni, minando ancora di più la credibilità che la gente riponeva nel denaro. Se i quattro spiccioli che hai sul conto oggi non equivalgono più a quelli di ieri, e domani saranno ancora meno, chi ti ferma più? Chi non gioca adesso?
Se il modello sociale è Tesla, che in Borsa corre più che sulle strade; se i soldi non hanno più una misura riconoscibile, e nemmeno il mercato, con la sua distruzione creatrice, è in grado di fermare le vertiginose ascese in borsa, chi sono io per non tentare la fortuna?
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Belgrado-Mosca: non solo gas a prezzi stracciati
Questo, quando il prezzo medio praticato nelle transazioni internazionali si avvicina ai 1.000 euro (varia da 650 a 1.200 euro; fa eccezione la Bielorussia, cui Mosca applica un prezzo di favore di 127 dollari).
Duecentosettanta dollari è il prezzo che Vladimir Putin ha accordato a Aleksandar Vučić a conclusione dell’incontro a Soči, lo scorso 25 novembre. Pare che nel pacchetto dell’accordo rientri anche una partita di lanciarazzi anticarro “Kornet”, ma Vučić assicura che Belgrado ha deciso di acquistarli indipendentemente dall’accordo sul gas.
Il tutto, condito con l’augurio del presidente russo al presidente serbo di essere riconfermato nella carica, alle presidenziali dell’aprile 2022.
Viste le difficoltà del paese, Vučić cercava di spuntare un prezzo di 500 dollari (le trattative erano iniziate un mese fa partendo da 790 dollari) almeno fino alla primavera prossima, mentre si è visto non solo accordare, ma quasi dimezzare il costo, portando a casa un risparmio complessivo di circa 1 miliardo di euro.
Senza entrare nei dettagli dell’accordo e del come tale prezzo del gas sia legato a quello del petrolio, è il caso però di fare alcune considerazioni di contorno.
Una, riguarda il via dato lo scorso 1 gennaio ai 400 km del tratto serbo del “Balkanskij potok” (Balcan stream), una delle due diramazioni del “Turkish stream” che, dalla Turchia, arriva in Bulgaria, Serbia e Ungheria, con una portata di circa 14 miliardi mc l’anno. Serve anch’esso, in qualche misura, ad aggirare in parte il “passante” ucraino e, soprattutto, a compensare un po’ la sospensione dell’avvio del “North stream 2” verso la Germania.
Ma, oltre a questo, come è che Mosca applica un prezzo così vantaggioso a un paese in continua altalena tra est e ovest e, soprattutto, augura la rielezione a un Presidente che, in patria, è inviso non solo alle élite liberali pro-occidentali, ma anche all’opposizione nazionalista-patriottica, che guarda proprio a Mosca quale baluardo per la difesa dalle influenze occidentali, e accusa Vučić di svendere gli interessi serbi a UE e USA sulla questione di Kosovo e Metohija?
Si tratta solo della tradizionale “fratellanza slava e ortodossa”, di cui pure, oggi, è difficile scorgere significativi momenti?
Sembrano passati i tempi in cui, come una trentina d’anni fa, partivano dalla Russia migliaia di volontari per andare a difendere i “Fratelli serbi”.
Non si può però dimenticare che Vučić, pur avvezzo a passare spesso “da una sedia all’altra”, con l’accordo sul gas sta andando contro alle principali pretese (alcune delle quali da lui stesso sottoscritte: ad esempio, proprio quelle riguardanti l’energia e le armi russe) di Washington e Bruxelles.
Per dire: l’accordo di “Normalizzazione economica” firmato a settembre 2020, a Washington, tra Belgrado e Priština, con la mediazione di Donald Trump, prevedeva, tra l’altro, la realizzazione di un’autostrada e collegamenti ferroviari diretti tra le città, l’adesione del Kosovo alla “mini-Schengen” del 2019 tra Serbia, Albania e Macedonia del Nord, l’impegno della Serbia a spostare la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, ecc.
Ma, soprattutto, Belgrado si impegnava a non “cadere nella dipendenza energetica dalla Russia e tecnologica dalla Cina” e a consentire l’apertura di una rappresentanza della International Development Finance Corporation in Serbia.
Non si può dimenticare che Bruxelles e Washington, se non lesinano gli sforzi per far breccia tra quella stragrande maggioranza di serbi che guardano a Mosca (come diceva già Dostoevskij, ci sono due “Serbie”, una degli strati superiori, anti-russa, e una Serbia popolare, che considera i russi salvatori e fratelli), poi però non possono rinunciare agli obiettivi più direttamente “operativi” e strategici. E, in questi, la questione kosovara è più che mai all’ordine del giorno.
Se Vučić freme per aderire alla UE, da Bruxelles gli oppongono che prima di tutto debba rinunciare a considerare Kosovo e Metohija quale regione autonoma serba – quale in effetti è, anche in base alla risoluzione 1244 ONU, che parla dell’integrità territoriale della Serbia.
Ma, d’altra parte, a ovest si deve fare il possibile perché Belgrado non si avvicini troppo a Mosca e Pechino. E cosa si fa? Non bastasse “Camp Bondsteel” in Kosovo – la cui realizzazione iniziò subito dopo la fine dei bombardamenti del 1999 e che era allora considerata la più grande base yankee dalla guerra in VietNam – che consente agli USA di controllare il corridoio Nord-Sud, cioè il commercio tra Europa, Turchia, Medio Oriente e Asia minore, ora, con l’evidente via libera di Washington, poco distante dalla parte serba di Mitrovitsa, ecco che Priština realizza la più grande base dell’esercito kosovaro, destinata a ospitare “specialisti” anglo-americani e apparecchiature per contromisure elettroniche.
Di più: già dal 2017, il Pentagono sta mettendo a punto un nuovo servizio di supporto tecnico di intelligence per le forze yankee nei Balcani ed Europa orientale; a partire da Germania, Italia e Kosovo, tali “specialisti” operano in Polonia, Romania, Bulgaria, Paesi baltici e Kosovo, appunto.
Sembra più che naturale che a Mosca, se si scorge la minima possibilità di inserirsi con maggior peso in un’area in cui USA e UE non nascondono di volerla fare da padroni, colga l’occasione.
In questo caso, forse puntando anche proprio a quel 85% di popolazione serba che guarda a Mosca e che, confermando un instabile Vučić nella carica, gli sia “riconoscente” per aver assicurato un inverno al caldo e lo spinga quindi a spostare un po’ il timone verso nordest e, pur nella sua smania di essere ammesso al tavolo europeista, a dimostrarsi più deciso nei confronti dell’ovest.
Non come, ad esempio, un paio di mesi fa, quando era scoppiata l’ennesima crisi di “confine” tra Belgrado e Priština, congelata con la “mediazione" di NATO e KFOR. In quell’occasione, come accaduto anche in precedenza, forze speciali kosovare avevano occupato l’intera area settentrionale di Kosovo e Metohija, contravvenendo agli accordi di Bruxelles del 2013, che prevedevano la creazione in Kosovo di una Comunità dei comuni serbi, quale organismo di autogoverno dei serbi che vivono in questa provincia autonoma della Serbia.
Commentando quegli avvenimenti, il nazionalista serbo Mlađan Đorđević, originario del Kosovo, aveva scritto che «la Serbia negli ultimi otto anni ha dato ai separatisti praticamente tutto ciò che poteva – ha accettato di trasferire loro il proprio sistema giudiziario, sistemi di sicurezza, approvvigionamento energetico, telecomunicazioni, ecc. – senza ricevere in cambio nemmeno un ente non governativo, quale in sostanza sarebbe la Comunità dei Comuni serbi».
Firmando gli accordi di Bruxelles, affermava Đorđević, Vučić ha «ufficialmente distrutto tutti gli elementi dello stato serbo in Kosovo e Metohija: sono stati sciolti difesa civile, amministrazione statale, ufficio del pubblico ministero e magistratura», costretti a prestare giuramento «davanti alla “costituzione” e ai simboli del cosiddetto Kosovo».
Poi, quasi in contemporanea con le uscite del primo ministro albanese Edi Rama, che ribadiva l’intenzione di unire il Kosovo all’Albania, nuovi scontri si erano verificati in ottobre a Mitrovitsa settentrionale (la parte della città a maggioranza serba, sede di tutte le istituzioni serbe in Kosovo, riconosciute da Belgrado ma non da Priština) e a Zvečan, quando la polizia kosovara aveva lanciato lacrimogeni e bombe assordanti contro residenti serbi di Mitrovitsa nord, riunitisi per protestare contro un’operazione condotta dalla polizia kosovara.
Anche in quell’occasione, Vučić si era limitato a ordinare alle forze armate di innalzare il livello di allerta, ma non aveva agito in alcun modo. Di nuovo nei giorni scorsi, si sono ripetute provocazioni contro esponenti serbi nei pressi di Gjilan, nel sud del Kosovo.
Ancora Mlađan Đorđević, dopo Vučić si era incontrato in estate col Primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, per continuare, sotto egida UE, i negoziati per la firma del cosiddetto “accordo giuridicamente vincolante”, in base al quale Belgrado riconosce di fatto l’indipendenza del Kosovo e gli assegna un seggio all’ONU, constatava come continuino ad aumentare in Kosovo gli attacchi alla comunità serba, con bastonature, molestie, con politici e organizzazioni albanesi che minacciano in ogni modo i serbi per costringerli ad andarsene.
Tutto questo, scriveva Đorđević «ricorda il pogrom del marzo 2004, quando folle organizzate di albanesi kosovari attaccarono gli insediamenti serbi in Kosovo e Metohija, espulsero migliaia di serbi, ne uccisero 11, bruciando case, chiese e monasteri. Oggi, l’escalation di violenza contro i serbi in Kosovo e Metohija coincide con l’ascesa al potere di Albin Kurti, leader del movimento “Autodeterminazione”, presentato da Berlino come progressista e di sinistra, in realtà ultranazionalista, che sostiene la creazione di una “Grande Albania”».
Ora, è più che dubbio che le stesse Bruxelles e Washington diano il via libera a Tirana. Ma, in ogni caso, in questo quadro complessivo di rapporti tra Belgrado, Priština e l’“Occidente collettivo”, il “regalo” fatto da Putin a Vučić non ha nulla di sorprendente.
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La riforma fiscale di SuperMario: regressiva e sfregio alla Costituzione
Dunque, in punta di Costituzione, il sistema tributario dovrebbe essere informato a criteri di progressività. E Il principio di progressività è il criterio generale a cui secondo l’art. 53, co. 2, della Costituzione si ispira il sistema tributario.
Tale principio deve essere inteso come una particolare accezione del criterio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, co. 2, della Costituzione, in quanto contribuisce a eliminare all’interno della comunità statale tutti gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
In base a esso, infatti, il sistema tributario dovrebbe prediligere i tributi progressivi, vale a dire quelli che incidono in misura superiore sui soggetti che mostrano una maggiore attitudine alla contribuzione (nelle imposte progressive l’aliquota aumenta con il crescere della base imponibile).
Un sistema tributario caratterizzato dalla progressività dovrebbe, pertanto, pesare in modo più che proporzionale nei soggetti dotati di maggior ricchezza e meno che proporzionale nei soggetti più poveri.
Ciò comporta una redistribuzione della ricchezza stessa, con riduzione delle disuguaglianze tra i cittadini contribuenti (evasori ed elusori a parte).
Insomma, il carattere della progressività è riferito al sistema tributario nel suo complesso, non a specifici tributi o a singoli profili degli stessi. In buona sostanza, si richiede che ai tributi a struttura progressiva sia assegnato valore caratterizzante del sistema.
Ma in che direzione va la riforma fiscale del governo Draghi che introduce una revisione delle aliquote Irpef nel 2022?
Secondo le notizie che circolano da qualche settimana, le nuove aliquote Irpef 2022 prevederanno una riduzione, passando dagli attuali 5 scaglioni ai 4 stabiliti dal taglio Irpef. Ci sarà la cancellazione dell’aliquota Irpef al 41% e il taglio di tre punti di quella del 38% che passa al 35%.
I nuovi scaglioni Irpef 2022 cambierebbero nel nodo seguente:
– I redditi fino a 15mila euro restano con una aliquota al 23%
– lo scaglione compreso tra 15mila e 28mila euro passa dal 27% al 25%
– la fascia 28-50mila cambia aliquota dal 38% al 35%.
Ma la novità più odiosa e fortemente iniqua delle nuove aliquote Irpef è quella che riguarda le fasce più facoltose. Chi ha un reddito di oltre 50mila euro passa direttamente al 43%. Ed anche le detrazioni verranno “profilate” per portare un vantaggio anche per i redditi sopra i 50mila euro.
Con le nuove aliquote Irpef, senza tener conto dell’impatto che potrà avere la revisione anche della no tax area e delle detrazioni, si prospetterebbe la situazione seguente:
– fino al primo scaglione di reddito (15.000 euro): tassazione invariata;
– da 15.000 a 50.000 euro: risparmio d’imposta crescente fino al picco massimo (920 euro l’anno in meno) per redditi pari a 50.000 euro;
– da 50.000 a 75.000 euro: risparmio di imposta decrescente fino a 270 euro per redditi pari a 75.000 euro;
– da 75.000 euro in poi: risparmio “fisso” d’imposta pari a 670 euro.
Per l’Unione Sindacale di base “resta quindi in piedi e per certi versi si approfondisce un impianto fiscale regressivo, mentre naturalmente permane per le imprese quella vergognosa flat tax di fatto (24 per cento) e per i redditi di capitale la sottrazione al meccanismo della progressività dell’imposta [...]
Alcuni conti circolati in queste ore già evidenziano che il vantaggio sarà chiaramente nullo per il primo scaglione, ammonterà a pochi euro di riduzione fiscale per chi guadagna poco oltre i 15.000 euro, circa 260 euro l’anno per chi guadagna sui 28.000 euro, fino a circa 1070 euro per chi guadagna sui 55.000 euro e circa 670 euro per coloro che superano i 75.000 euro.
La fotografia è chiarissima: si avvantaggia il segmento medio alto, le fasce di reddito che avrebbero più bisogno di un effetto redistributivo vengono completamente ignorate e soprattutto si assesta un ulteriore colpo alla progressività verso l’alto poiché si equipara un reddito di 50.000 euro a quelli milionari magari percepiti da un top manager.
In sintesi si conferma la principale causa di iniquità sociale del nostro sistema fiscale: l’elevata aliquota media pagata dai redditi medio bassi e la scarsa distanza tra questa e quella pagata da chi percepisce redditi elevatissimi...”.
Insomma, un bel governo Robin Hood alla rovescia che prende ai poveri per dare ai ricchi.
Un paio di decenni fa un certo Cossiga si atteggiava a “picconatore” della Costituzione. Mario Draghi non si accontenta di metterla in discussione; forte del mandato blindato conferitogli dall’Unione Europea e dall’endorsement della grande finanza internazionale, la deturpa, a suo piacimento, per mezzo di una legge ordinaria – la legge di bilancio – e i costituzionalisti muti.
Certo, cos’altro ci si poteva aspettare da uno come Draghi che ora tutti, da destra a “sinistra”, vedono come una divinità?
In fondo Mario Draghi è lo stesso uomo che, dal 1991 venne chiamato dall’allora ministro Guido Carli a fare il direttore generale del Tesoro, su suggerimento del governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e che avviò un’ondata di privatizzazioni selvagge: chiusura dell’IRI, Eni, Enel e, soprattutto, l’allora Sip.
Una serie di cessioni, rimpalli, rimbalzi di responsabilità che decuplicò il debito, a ridusse del 40% gli investimenti industriali bruciando più di 70mila posti di lavoro.
Lo stesso uomo che, dal 2002 al 2005, fu vicepresidente e membro del management del Committee Worldwide di Goldman Sachs, proprio nel periodo in cui in America le banche d’affari erano scatenate in manovre speculative e scavavano il baratro finanziario che si è materializzato nel 2008, trascinando in rovina il resto del mondo.
Lo stesso uomo che, nel 2015, da presidente della Banca centrale europea, decretò l’esclusione della Grecia dal programma di quantitative easing. Un provvedimento che avrebbe potuto evitare il disastroso ‘terzo memorandum’.
Una decisione fondata sull’assunto (sbagliato, naturalmente) che quella greca fosse una “crisi incontrollabile” e che contribuì – sotto la minaccia della cacciata della Grecia dall’eurozona – a seminare il panico (chiusura delle banche e dalle limitazioni ai prelievi bancomat) in un Paese già da tempo ricattato e messo in ginocchio con l’unico scopo di imporgli i diktat dei suoi creditori.
E che produsse la definitiva capitolazione di un popolo costretto a subire l’ennesimo piano di “salvataggio” da parte di quelle istituzioni europee che, in cambio, pretesero un’ulteriore ondata di tagli e macelleria sociale in un paese già devastato da cinque anni di “riforme” e feroce austerità.
Insomma, SuperMario non è mai stato un filantropo e l’ottima reputazione (la cosiddetta accountability) di cui gode presso i maggiori circoli finanziari mondiali, il nostro “divino” Presidente del Consiglio se l’è guadagnata mandando al macero fondamentali beni comuni ed al massacro sociale milioni di persone ingannate dalle false promesse di gente tipo “Lupi di Wall Street”.
Contro le misure economiche del governo Draghi, contro i licenziamenti, le privatizzazioni, le delocalizzazioni ed il carovita, per la giustizia climatica e sociale, il sindacalismo di base propone una Giornata di protesta nazionale per il prossimo 4 dicembre denominata “No Draghi Day” ed ha invitato tutti i movimenti e le realtà sociali e politiche a costruire la mobilitazione in forma unitaria e condivisa.
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29/11/2021
Meno democrazia, please, ce lo chiede l’Europa
Mario Monti – ex presidente dell’Università Bocconi dal 1994, commissario europeo per il mercato interno tra il 1995 e il 1999; nella Commissione Prodi ha rivestito il ruolo di commissario europeo per la concorrenza fino al 2004, poi nominato senatore a vita e presidente del consiglio nel giro di 24 ore (da Giorgio Napolitano) – se ne è bellamente uscito con una “raccomandazione” da brividi: “Bisogna trovare delle modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione, in una situazione di guerra si devono accettare delle limitazioni alle libertà”.
Il contesto è determinante, come sempre. Stava parlando di come l’informazione-comunicazione sta affrontando da due anni la pandemia, e la “guerra” che nomina è contro il virus. Ma i concetti hanno la nota caratteristica per cui, una volta enunciati, possono essere applicati a contesti diversi. Se ce n’è l’opportunità, la possibilità, la convenienza, ecc.
Come accade sempre più spesso, un’uscita così infame ha richiesto una rettifica e una puntualizzazione. Ma il proverbio che recita “la toppa è peggio del buco” mai come in questo caso si è rivelato di saggezza assoluta.
Ha “precisato” infatti l’ex premier della “riforma Fornero”: “Ho usato un’espressione infelice e impropria. Però, al di là del termine infelice, il tema esiste”.
Ovvero: “è come se fossimo in guerra. Ma nessuno si è posto il problema di adeguare la comunicazione a una situazione di guerra. Credo che, andando avanti la pandemia o in futuri disastri per la salute, bisognerà trovare un sistema che dosi dall’alto l’informazione”. Comunicazione, badate bene, non “informazione”. Propaganda, insomma.
E chi dovrebbe decidere questo dosaggio di informazioni, da “somministrare” come una medicina pericolosa? Nessun dubbio, “Il governo, ispirato e istruito dalle autorità sanitarie”. O da quelle militari ed economiche, in altri tipi di guerra.
I no vax lo eleggeranno a loro nume tutelare, non c’è dubbio...
In due o tre frasi appena, questo tecnocrate che ha peggiorato la vita a decine di milioni di persone, quando ne ha avuto il potere, è riuscito a distruggere un paio di secoli di retorica democratica, compreso il pilastro liberale del “quarto potere”, la stampa.
Nel far questo è stato però non paradossalmente favorito da un sistema mediatico decerebrato e ossessionato esclusivamente dall’audience (l’equivalente del profitto, in questo ambito). E che dunque ci somministra – è il caso di dirlo – decine di ore al giorno su statistiche, varianti, vaccini e campagne vaccinali, no vax e no green pass (come “colpevoli” predestinati), virologi ed epidemiologi spesso non in grado di esprimersi in tv in modo differente da come farebbero in un convegno (luogo in cui la “problematicità” di ogni scoperta è altamente apprezzabile, visto che si parla tra pari livelli di conoscenza). Eccetera.
Un’informazione intossicata dalla ricerca dell’audience ha una caratteristica fondamentale: non può e non vuole “arrivare alla verità”.
Per un motivo banale: scoprire la verità è un atto definitivo, che chiude una discussione e apre ad altre ricerche, a problemi nuovi.
Ma se si stanno facendo i soldi – per l’editore – pestando sempre sullo stesso tema, allora “la parola definitiva” non deve arrivare mai.
Un esempio storico è quello della “dietrologia sul caso Moro”, sui cui si sono s-formati centinaia di gazzettieri italici. Il “mistero”, in quel caso, era la molla del business e dunque doveva restare in piedi a tutti i costi.
Con l’epidemia da Covid il problema è stato impostato in modo simile. “Tira”, e dunque si deve dare spazio più o meno a tutti, perché meno si arriva a una conclusione certa, più si continua a far girare la macchina, i soldi arrivano, l’editore è contento e “noi” (i giornalisti mainstream, non certo noialtri che lavoriamo volontariamente) siamo sull’onda.
La “libertà di stampa” è un concetto da sbandierare, nelle redazioni “professionali”, ma non da praticare. Avete mai letto su La Stampa una recensione critica nei confronti di un’auto Fiat o – sacrilegio! – contro la famiglia Agnelli? Idem in Rai o a Mediaset verso “l’editore di riferimento”, ovvio.
In questo caos informativo Mario Monti e quelli del suo livello ravvisano un “problema”, che identificano con “la democrazia”. Va bene che gli editori facciano i soldi con questa merda, ma se poi i governi – e le altre imprese che contano – non riescono ad esercitare una governance efficace, allora bisogna cambiare registro.
E “somministrare i giusti dosaggi di informazione”: quelli decisi dal governo.
Passi avanti in questa direzione erano già stati fatti – con il consenso degli stessi giornalisti mainstream – con le campagne in favore dell’”informazione docg” (la loro, ça va sans dire), per “combattere le fake news” (che sono un problema oggettivo, come i no vax). Ora Monti & co. invitano a fare il salto decisivo verso l’informazione di regime.
Ok, questo è chiaro. Monti lo dice esplicitamente.
Ma perché? Per quale motivo la “libertà di stampa”, e le libertà in generale, sono diventate un intralcio? Non avevano costituito fin qui la “vera differenza” del capitalismo neoliberista rispetto alle esecrate “dittature”?
La ragione è che “siamo già in guerra”, e non contro un virus.
Lo ha spiegato – con meno chiarezza, con molti veli in più – il più esperto Mario Draghi, durante la firma del Trattato del Quirinale: “Sovranità europea significa disegnare il futuro come lo vogliamo noi europei, non come lo vogliono gli altri. Per questo serve controllare i confini, gettare le basi per una difesa europea“.
La fase che è iniziata è di “competizione internazionale”, anzi di “iper-competizione”. Con la Cina e la Russia, certo, ma smarcandosi quanto basta dagli Stati Uniti, perché ci sono “interessi strategici europei” – per esempio in Africa – che debbono essere difesi anche da loro.
E “per fare la guerra”, come chiosa Monti, non c’è bisogno di “Nessuna censura, piuttosto un nuovo ruolo dell’informazione in una situazione di emergenza. Noi abbiamo già accettato di buon grado limitazioni mai immaginate alla nostra libertà di movimento. Diciamo di stare in guerra, ma appunto c’è da chiedersi in questa guerra, in un sistema democratico, come si affronta l’emergenza?”
Non dubitiamo che i “liberi professionisti” dell’informazione mainstream sapranno raccogliere immediatamente questo invito. Infondo, c’è solo da ricordarsi che devono tener conto di un secondo editore, che sta più in alto di chi paga loro lo stipendio a fine mese.
Il problema vero, comunque, è l’altro: siamo già in una guerra. E la vostra nuova “patria” si chiama Unione Europea. L’Italia o la Francia vanno bene allo stadio, come l’Inter o la Scafatese.
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L’export italiano ha il cuore verso la Cina
Le importazioni cinesi dall’Italia hanno raggiunto ad ottobre 2,306 miliardi di dollari (1,903 miliardi nel 2020). In totale nei primi 10 mesi di quest’anno l’import cinese dal nostro Paese è pari a 25,1 miliardi di dollari (17,4 miliardi di dollari nel 2020, mentre nel 2019, pre-pandemia era pari a 17,67 miliardi di dollari).
L’interscambio raggiunge nei primi 10 mesi 60 miliardi di dollari, dunque si superano i 50 miliardi di euro come obiettivo prefissato tra le parti negli anni scorsi.
L’Istat registra ancora, nel corso dei primi 10 mesi, un passivo con la Cina di 18,56 miliardi di euro. Dal Gacc risulta invece 10 miliardi di dollari, molto meno.
È sempre quello il problema: ci sono triangolazioni commerciali tali per cui l’export italiano verso la Cina passa per altri paesi (ad esempio, quest’anno si registra un boom di export verso Olanda e Belgio, che non trova riscontro nelle destinazioni reali delle merci italiane).
Dalle simulazioni fatte invece dalla Sace (la Società di assicurazione all’export, riprese da Il sole 24 ore), quest’anno l’export totale italiano passa da 480 miliardi del 2019, pre pandemia, a 500 miliardi. 20 miliardi di differenza.
Come potete notare dalle cifre, e come ho sostenuto nel dibattito di venerdì scorso organizzato da Potere al Popolo e Cambiare Rotta Salerno, 8 miliardi sono da accreditare all’export verso la Cina.
Complessivamente il peso della Cina rispetto al totale arriverebbe a 7,5 -8% annuale, mentre l’Istat registra un peso del 2,9%.
Il tutto senza considerare la spesa turistica (nella pre-pandemia venivano in Italia 3 milioni di cinesi, il contributo più alto agli scambi tra i due paesi), altrimenti il peso della Cina nell’economia italiana sarebbe ancora più significativo.
La Cina onora il Memorandum, sta ai patti, e, come sostenuto un anno e mezzo fa, consiglia agli operatori cinesi di importare merci italiane.
Non sappiamo ancora a quanto ammonti la percentuale italiana nell’import totale cinese, sicuramente sta aumentando a svantaggio di quote di mercato di altri paesi europei.
E pensare che c’era chi sosteneva che il peso della Cina nell’export italiano era pari a quello della Bulgaria..
I fatti hanno la testa dura.
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28/11/2021
Draghi taglia e l’Europa loda (ma non basta...)
Come prevedibile, anche in queste settimane il ‘Governo dei migliori’ guidato da Mario Draghi sta proseguendo pedissequamente nel percorso di riforme previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR): a fronte di poche risorse elargite dall’Unione Europea, largamente insufficienti a far ripartire un’economia falcidiata dalla crisi, il Governo ha accettato la via della piena adesione alle condizionalità europee, definitivamente istituzionalizzate attraverso l’accordo alla base del programma Next Generation EU. Rispetto alle 528 condizioni negoziate dall’Italia con la Commissione per accedere alle venti tranche di finanziamento previste dal suddetto programma, il Governo sta infatti lavorando di buona lena all’implementazione delle riforme strutturali richieste. Tra queste, ha già portato a casa: il decreto sulla concorrenza, che spiana la strada alla cessione dei monopoli naturali ai privati; una riforma delle pensioni che prevede il ritorno alla Legge Fornero; il depotenziamento del reddito di cittadinanza, che indebolisce ulteriormente la posizione contrattuale dei lavoratori; dulcis in fundo, la prima fase della riforma fiscale, che cambia poco per cambiare male, lasciando intaccati la scarsa progressività del sistema e i privilegi dei redditi da capitale (redditi d’impresa e rendite finanziarie).
Ciascuna di queste misure va però inserita all’interno del disegno complessivo dell’esecutivo, il quale si evince con la massima chiarezza attraverso l’analisi della Legge di bilancio 2022: una difesa a tutto campo del profitto privato, attraverso l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e l’erosione degli scampoli di stato sociale rimasti in piedi nonostante trent’anni di riforme neoliberiste. Nella manovra sono infatti condensate tutte le richieste di Confindustria e le pretese delle istituzioni europee, con l’Italia che riprende la via dell’austerità più feroce e incanala le scarse risorse concesse alle imprese.
Fin qui tutto bene, direbbe l’Unione Europea. Eppure, un articolo apparso su ‘La Stampa’, a firma Emanuele Bonini, dall’eloquente titolo: L’UE critica Draghi, fa riferimento alle opinioni formulate dalla Commissione europea circa la recente Legge di bilancio, sottolineando come la Commissione stessa ha criticato la ‘manovra’ Draghi, facendo riferimento alle “poche garanzie sulla riduzione del debito” e suggerendo di adottare “le misure necessarie per limitare la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale”.
L’articolo sembra dunque suggerire una profonda diversità di vedute tra le istituzioni europee e l’esecutivo italiano, reo di approfittare della flessibilità di bilancio offerta dall’Unione in tempi di crisi per spendere e spandere, senza badare troppo all’entità del debito. In realtà, nelle otto pagine di documento cui fa riferimento il contributo si rintracciano ripetuti apprezzamenti alla Legge di bilancio, che testimoniano un atteggiamento a dir poco benevolo nei confronti del Governo Draghi. Proviamo a vedere di seguito come il tono e i contenuti della lettera siano diametralmente opposti a quelli che La Stampa vuole lasciarci intendere.
Il documento si apre con una serie di considerazioni generali sulla vigente normativa europea, ricordandoci che l’applicazione della clausola di salvaguardia, che sospende il Patto di Stabilità e Crescita, continuerà nel 2022, per poi essere disattivata dal 2023, quando i diversi Stati Membri dovranno tornare a una ferrea disciplina di bilancio. Dobbiamo evidenziare ancora una volta che, al fine di fronteggiare la crisi economica innescata dalla pandemia, tale clausola ha consentito di stanziare un ammontare di risorse in deficit impensabile nel contesto europeo nella fase pre-Covid, sebbene tali risorse si siano rivelate, alla prova dei fatti, del tutto insufficienti a contenere il devastante impatto economico e sociale della pandemia.
In seguito, si passa alle raccomandazioni specifiche per l’Italia. E qui iniziano i complimenti al Governo Draghi: infatti, la Commissione ci ricorda innanzitutto che le raccomandazioni indirizzate all’Italia dalle istituzioni europee in merito all’utilizzo delle risorse del PNRR sono state accolte dall’attuale Governo, tant’è che il Consiglio dell’UE ha approvato il Piano italiano, dando il via libera a una prima tranche di prefinanziamento. Se il PNRR costituisce l’asse portante della politica economica nazionale del prossimo quinquennio, il via libera delle istituzioni europee non può che testimoniare un’ampia comunanza di vedute tra le istituzioni europee e il Governo Draghi. In particolare, la Commissione evidenzia che il PNRR “contiene rilevanti riforme strutturali e fiscali che dovrebbero contribuire alla sostenibilità delle finanze pubbliche”. Tutt’altro registro rispetto a quello suggerito dal titolone de ‘La Stampa’.
Tra le riforme elencate, particolare apprezzamento è riservato alla lotta all’evasione fiscale, alle misure di rafforzamento della spending review e alla riforma del codice degli appalti, tutte misure che dovrebbero contribuire a migliorare i conti pubblici: ciò significa che la Commissione apprezza gli sforzi compiuti dal governo Draghi nel PNRR per ridurre il disavanzo, al fine di tornare a perseguire surplus di bilancio all’interno di una strategia di riduzione del debito pubblico.
Con queste parole al miele sul Governo e sul PNRR, l’intuito ci anticipa che la tesi giornalistica di una critica serrata da parte della Commissione alla Legge di Bilancio sia del tutto infondata. Prendiamo comunque in rassegna il documento. Quando il focus si sposta sulla manovra, questo afferma in primo luogo che le previsioni del Governo per il prossimo anno circa la riduzione del deficit (dal 9,4% al 5,6% del PIL) e del debito pubblico (dal 153,5% al 149,4%) sono “ampiamente in linea con le stime della Commissione”.
Di fronte a questi dati, un lettore disattento potrebbe obiettare che in fin dei conti la politica di bilancio rimarrà pur sempre espansiva anche per il 2022. Tuttavia, come abbiamo più volte spiegato, le variabili di riferimento per valutare l’orientamento fiscale di un Governo sono il saldo di bilancio primario e il rapporto deficit/PIL aggiustato per il ciclo economico. Da questo punto di vista, il 2022 segna una prima significativa normalizzazione delle politiche di bilancio, che va letta come la prima tappa del processo di definitivo rientro nei binari dell’austerità. La Commissione afferma infatti che la Legge di Bilancio implica per gli anni successivi “un aggiustamento strutturale cumulato complessivo dell’1,6% del PIL nel biennio 2023-2024” ed indica esplicitamente una strategia di riduzione del debito basata sulla realizzazione di “adeguati surplus primari”.
Oltre all’orientamento fiscale complessivo dei prossimi anni, in questo documento la Commissione esprime ulteriore gradimento anche per alcune misure specifiche volte a “rafforzare crescita e resilienza”, come gli incentivi fiscali e le garanzie pubbliche destinate alle imprese. Grande entusiasmo ha suscitato, infine, la riforma fiscale contenuta nella manovra, che stando alla Commissione avrebbe il potenziale di alleggerire il carico fiscale sul lavoro. Non sappiamo come la Commissione sia potuta arrivare a formulare questa profezia senza consultare alcun testo definitivo (che ad oggi non esiste), ma scommettiamo un fiorino che questo non sarà l’esito della riforma.
Dopo il breve passaggio critico che così tanta attenzione ha suscitato per la stampa italiana, il documento conclude che le misure contenute nella Legge di Bilancio “contribuiscono a soddisfare la raccomandazione del Consiglio di garantire una ripresa sostenibile e inclusiva”.
Insomma, contrariamente al messaggio che vuole farci arrivare il titolista de ‘La Stampa’, parole al miele per Draghi e il suo esecutivo giungono da Bruxelles. Non poteva, tuttavia, essere altrimenti: il Governo Draghi è l’incarnazione vivente degli interessi di Confindustria e del grande capitale, perfettamente tutelati dai principi su cui si fonda il progetto di integrazione europea. Semmai, quelli della Commissione sono moniti per coloro che, domani o dopodomani, si troveranno ad amministrare e governare al posto di Draghi: ogni dubbio sul fatto che il ritorno alla più dura delle austerità (che non potrà conoscere deviazioni) è fugato fin da ora. Insomma, parlare a nuora perché suocera intenda.
Vaccinare il mondo si può, se...
Che i vaccini a mRNA non proteggessero per un lungo periodo dopo due dosi era abbastanza ovvio immunologicamente, soprattutto senza testing, misure non farmaceutiche e senza aver vaccinato il Mondo.
Sono vaccini straordinari, ottimi per una prima ondata di protezione, ma da soli non avrebbero risolto.
Considerare i “boost” con vaccini proteici, soprattutto se RBD-based (basati sul frammento della Spike che induce gli anticorpi più neutralizzanti), è una valida soluzione, sicura ed immunologicamente intelligente.
Bisognava vaccinare il Mondo, lo abbiamo già detto, ed ora guarda caso ci sorprendiamo della variante B.1.1.529 dal Sud dell’Africa.
Terze dosi e pediatria non possono e non devono essere un tema da risolvere solo con vaccini a mRNA.
Senza distanziamento e testing, senza una imparziale divulgazione scientifica che parli del Mondo, rimanendo egoisticamente aggrappati a standard produttivi da Paesi ricchi, non penso risolveremo a breve la “pandemia”.
Ci sono diversi vaccini al Mondo che combinati tra loro aiuterebbero sia da un punto di vista immunologico che produttivo.
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Mario Draghi il sovranista, ma “europeo” e di classe
Pronunciata sia da Macron che da Draghi, davanti al sorriso beato di Mattarella, lo stigma verbale che l’ha contrassegnata negli ultimi anni è improvvisamente scomparsa. Sdoganata in un attimo...
Non vi preoccupate, nei prossimi giorni i gazzettieri di regime riprenderanno a masticare invettive contro il “sovranismo”, come sono stati abituati a fare, dimentichi che la “sovranità” viene rivendicata apertamente dall’Unione Europea tramite i suoi grand commis più importanti (parte dei quali firmatari del nuovo Trattato).
A breve termine, dunque, si creerà un doppio circuito retorico e linguistico in grado di distinguere tra un “sovranismo cattivo” (nazionale, populista, novecentesco, ecc.) e un “sovranismo buono” (europeo, oligarchico, moderno). Come per il debito pubblico, secondo Draghi.
Come per il virus e il vaccino, la popolazione non ci capirà più molto, e sarà invitata ben presto a rassegnarsi e lasciar fare a “quelli che stanno lassù”. Maledicendoli, certo, ma senza saper sbrogliare più alcuna matassa.
I nostri lettori forse ricorderanno che sulla questione del “sovranismo” ci siamo già esercitati, facendo qualche “scoperta” (si fa per dire).
Detta in estrema sintesi: “sovrano” è qualunque potere istituzionalizzato che non ha altro potere sopra di sé (sovra-no). Un potere che decide e fa rispettare le proprie decisioni (con la persuasione e/o la forza), senza dipendere da altri.
Dunque, secondo logica ed esperienza, non può esistere alcun assetto politico-sociale senza che si crei/selezioni una capacità di decidere sopra o per conto di una popolazione nel suo insieme. In parole brutali, si deve sapere chi comanda.
Qualunque sia l’assetto istituzionale preferito (nella realtà: storicamente determinato), “la sovranità” viene esercitata in qualche modo. Fanno eccezioni le utopie anarchiche, ma sono per l’appunto delle utopie, sperimentate al massimo – e per un arco di tempo molto limitato – in comunità di piccole dimensioni, con una “popolazione di sognatori” selezionata su base volontaria.
Nella Storia reale dell’umanità abbiamo avuto diversi tipi di “sovranità”. Ogni re ha preteso per sé quel potere, quasi sempre facendolo discendere da un’investitura divina.
In epoca più moderna, e con l’apparire di una struttura più articolata di classi sociali, quel potere sovrano è stato prima “costituzionalizzato” – ossia condizionato dalla legittimazione di nuove istituzioni, in genere di natura oligarchica (assemblee di proprietari terrieri o commercianti) – e infine sostituito da una sovranità “repubblicana”.
La quale, a sua volta, ha avuto forme molto differenziate, che sono andate dalle dittature fasciste alle democrazie liberali o socialiste. Regimi insomma in cui “la sovranità appartiene al popolo” di un particolare paese, ma viene esercitata in forme istituzionali molto differenziate, corrispondenti alla forza delle diverse classi in conflitto tra loro.
Gli imperi (ambiti in cui la sovranità viene esercitata su più popoli, multinazionali) sono stati possibili o quando la sovranità era esercitata da un monarca, oppure quando le “istituzioni democratiche” erano riservate al popolo dominante, nel mentre manteneva altri popoli sotto il proprio tallone.
L’imperialismo Usa, britannico o francese sono esempi tipici di “imperi a geometria democratica variabile”. Così variabile da esser negata fuori della “nazione” e quasi sempre fortemente limitata anche all’interno del “popolo privilegiato”.
Insomma, la “sovranità” appartiene a qualcuno. Non è eliminabile e possiamo solo ragionare (e discutere, litigare e combattere) su come vada esercitata, decidendo chi comanda e secondo quali regole. Ogni retorica “anti-sovranista”, insomma, sostiene che la sovranità vada affidata a qualcuno/qualcosa di diverso dal “popolo”.
L’Unione Europea – anche nei discorsi di Macron e Draghi al Quirinale – è ormai una struttura istituzionale complessa che vuole risucchiare la sovranità dai singoli Stati-nazione che ne fanno parte, soprattutto per quanto riguarda gli attributi strategici di ogni potere sovrano: esercito (in costruzione), moneta (già fatto), polizie (“sicurezza”, già in parte centralizzata con la nascita di EuroGendFor), politica estera (già ampiamente centralizzata nel Pesc).
Anche gli scopi di questa “sovranità sovranazionale” sono dichiarati, ormai.
“Per essere sovrani – spiega Draghi – occorre che l’Europa sappia proteggersi, sappia difendere i propri confini, bisogna creare una vera difesa europea. Questo trattato aiuta questa difesa europea che naturalmente è complementare alla Nato, non è sostitutiva: un’Europa più forte, fa la Nato più forte. Questo è uno dei primi e più fondamentali passi verso cui è diretto questo trattato“.
C’è una “competizione internazionale” cui si vuole partecipare da posizioni di forza – come in ogni competizione che si rispetti – e questo spinge per il superamento dei residui di sovranità nazionale ancora in essere.
Piccolo problema: dato per assodato che la forma istituzionale della nuova sovranità è l’Unione Europea, a chi appartiene quella sovranità?
Non può “appartenere al popolo”, in primo luogo perché un “popolo europeo” non esiste (sorvolando su quante istanze indipendentiste sono ancora attuali all’interno di forme statuali nazionali che non le riconoscono, dai catalani ai baschi, dai sardi ai corsi, ecc.).
Anche all’interno di istituzioni comuni eque e stabili – ben lontane dall’essere anche solo ipotizzate – occorrerebbero secoli per creare una comunanza culturale e linguistica tale da farci identificare gli uni con gli altri.
In secondo luogo, perché il cuore di ogni democrazia rappresentativa – il Parlamento – è tale se può esercitare il principale dei poteri: quello di fare leggi (potere legislativo). Cosa che non è prevista per il Parlamento Europeo, in un assetto istituzionale in cui le leggi vengono invece formulate dalla Commissione Europea (il governo) e poi approvate o respinte dall’assemblea.
Di certo, insomma, l’Unione Europea può ambire praticamente ad essere sovrana. Ma non può farlo in modo democratico, né con istituzioni democratiche.
Un’esagerazione? Ricordatevi dei due unici referendum tenuti, nel 2005, sull’allora progetto di “Costituzione europea”. I popoli di Francia e Olanda bocciarono nelle urne quel testo. La UE andò avanti lo stesso, ma non venne più chiesto ai popoli che cosa ne pensassero. Un rischio in meno...
Il discorso fatto da Mario Draghi sulla sovranità è, in questa luce, particolarmente sporco, manipolatorio, falso: “Il senso più profondo di questo trattato è che la nostra sovranità, intesa come la nostra capacità di indirizzare il futuro, può rafforzarsi solo attraverso una gestione condivisa delle sfide comuni. Oltre a consolidare le nostre relazioni bilaterali, l’accordo vuole infatti favorire e accelerare il processo di integrazione europea. Penso al rilancio degli investimenti, soprattutto in ambiti strategici e innovativi come i semiconduttori; alla transizione digitale ed energetica; alla costruzione di una vera difesa europea. Dobbiamo dotare l’Unione Europea di strumenti che siano compatibili con le nostre ambizioni e con le aspettative dei nostri cittadini.”
Le “aspettative dei cittadini” sono una bella frase. Ma chi le ha identificate? Di cosa stiamo (stanno) parlando? Siamo sicuri che “ i cittadini” si attendano una “competizione internazionale più forte”, un “esercito europeo”, una “strategia di sicurezza”, ecc.?
Magari preferirebbero salari più alti, un’età pensionabile più bassa, lavorare qualche ora e qualche anno in meno, scuole che stiano in piedi, programmi di studio che formino coscienze più solide, politiche della casa che diano un tetto a tutti, una sanità non strozzata dai tagli, ecc...
Ma chi glielo ha chiesto, ai cittadini?
Non certo Draghi. Né alcuno dei partiti che lo sostengono in Parlamento. Né quelli che fanno finta di fare “l’opposizione”...
Dunque, a nome di chi, Mario Draghi, pronuncia quel “Cercare la sovranità europea significa voler disegnare il proprio futuro come lo vogliamo noi europei. Non ce lo vogliamo far disegnare da altri. Per essere sovrani occorre che l’Europa sappia proteggersi, sappia difendere i propri confini. Bisogna creare una vera difesa europea”?
Quel “noi” che esercitano la sovranità europea, chi sono?
Se non è “il popolo”, se non è il monarca, chi è?
Nella struttura sociale attuale resta un solo soggetto: i mercati. Anzi, quella esigua fascia dei consiglieri di amministrazione di aziende – industriali, finanziarie, commerciali – di dimensioni almeno continentali.
Si è formata in 75 anni una vera “borghesia europea” secondo schemi, leggi, modi di agire che non hanno più molto a che vedere con gli angusti ambiti “nazionali”.
Una borghesia di alto livello che può gestire le proprie imprese mettendo la sede legale in un paese, quella fiscale in un altro, gli impianti produttivi in più di uno, con personale assunto secondo regole e contratti e salari molto differenti, sfruttando legislazioni e incentivi fatti apposta per “attirare capitali” (ma se lo fanno tutti gli Stati, i capitali vagano cercando sempre quello più conveniente), suggerendo al contempo – con le proprie decisioni di investimento – le regole che gli Stati dovranno legiferare per ottenere la sua approvazione.
È la borghesia del “Britannia” – ma senza più gli inglesi – per ricordare una famosa riunione semisegreta con Mario Draghi, nel lontano 1992 (mentre stavano per entrare in vigore i “parametri di Maastricht” che hanno dissanguato l’Italia e i paesi mediterranei).
Una borghesia che non ha niente a che vedere col “sciur Brambilla”, che guarda con un sorriso di compatimento gli sforzi del padroncino o del negoziante sotto casa (ridotti a cercarsi una fatiscente “rappresentanza politica” in qualche vecchio nazionalista di ritorno, in un Salvini o una Meloni), che viaggia con jet privati e monopolizza tutte le poltrone che contano perché “riconosce i propri” in ogni paese.
È un club esclusivo, molto più esclusivo del Rotary o di una loggia massonica (quelli delle vecchie “borghesie nazionali”).
Questo è il soggetto della “sovranità europea” di Draghi e Macron – due banchieri, come se fosse una coincidenza fortuita.
Questo – e non “i popoli” o “le nazioni” (che esistono ormai solo per le competizioni sportive) – il nemico principale, non l’unico, di chi vive del proprio lavoro o che si affanna a trovarne uno.
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Privatizzazione dei servizi, un furto senza destrezza
L’affidamento ai privati della gestione di servizi tradizionalmente forniti dal settore pubblico (che per semplificare chiameremo Stato, anche quando si tratta di altre sue articolazioni come ad esempio i Comuni, le Regioni, le Authority) è motivato essenzialmente da due variabili. La prima è il pregiudizio secondo cui il privato è sempre più efficiente, veloce e innovativo. La seconda è la pretesa di introdurre la concorrenza anche in quei casi in cui la concorrenza è di fatto impossibile, come per i monopoli naturali. Per chi non avesse chiaro il concetto, l’esempio più semplice è quello delle autostrade: chi va – per dire – da Napoli a Milano deve fare l’A1, e costruirne un’altra parallela in modo da dare all’utente una possibilità di scelta non avrebbe senso economico, anche trascurando i problemi ambientali.
Dunque si sposta la possibilità di concorrenza sulla gestione, da assegnarsi tramite una gara. Supponendo una cosa che non è affatto certa, e cioè che la gara riesca a selezionare il candidato migliore, da questo momento il compito dello Stato è quello di controllare che il gestore rispetti gli impegni contrattuali e che non aumenti arbitrariamente le tariffe agli utenti, i quali – come abbiamo visto – non possono fare a meno di utilizzare quel servizio, che si tratti dell’autostrada oppure dell’acqua o della gestione dei rifiuti.
Su come determinare le tariffe sono state scritte intere biblioteche, ma la soluzione perfetta non è stata trovata. In via di principio, se la gestione è stata affidata ai privati perché sono più efficienti, le tariffe dovrebbero diminuire rispetto alla precedente gestione pubblica, o quantomeno aumentare a un ritmo più basso dell’inflazione: questo, del resto, è lo scopo – e anche la sola giustificazione – di affidare il servizio ai privati. Non so se questo sia mai accaduto. Il fatto è che ci sono buoni motivi per rendere impossibile che accada.
Il privato, dalla sua attività, deve realizzare un profitto, mentre lo Stato dovrebbe solo coprire i costi. Questo significa che – a parità di tariffe – l’efficienza deve essere tanto migliore di quella del pubblico da generare un margine che assicuri un guadagno al gestore, e che possibilmente non sia tutta a carico del lavoro. È vero che spesso le aziende pubbliche hanno sovrabbondanza di manodopera e che a volte i loro addetti riescono a ottenere salari e prebende assai migliori di quelle che potrebbero ottenere nel settore privato, ma è anche vero che in quest’ultimo sono altrettanto frequenti i casi specularmente opposti, per esempio con l’utilizzo di subappalti. Se la maggiore profittabilità fosse dovuta solo a questo, cioè fosse a spese dei lavoratori, sarebbe ipocrita parlare di miglioramento.
Silvia Borelli, docente di Diritto del lavoro a Ferrara, si è occupata di servizi come gli asili nido e le scuole materne. “Il processo di esternalizzazione è diffuso ovunque e continuerà anche con il PNRR per il semplice motivo che questi servizi, quando sono gestiti da privati, costano circa un terzo in meno perché: si applica un diverso contratto nazionale; si applica una diversa (più facile) disciplina dei licenziamenti; possono essere utilizzate liberamente forme flessibili di lavoro; può essere impiegato personale volontario (soprattutto quando gli enti gestori sono del terzo settore). Dal 2010 al 2015 l’esternalizzazione ha poi permesso di ovviare ai blocchi al turn over previsti nell’amministrazione pubblica”. Come si vede, in questo caso la “maggiore efficienza” deriva solo dalla possibilità di spremere di più i lavoratori e dar loro meno garanzie.
Ma questo è solo l’inizio dei problemi. Una corretta gestione richiede investimenti in manutenzione e miglioramenti (per esempio adottando nuove tecnologie). Per investire si deve fare debito, e salvo rare eccezioni lo Stato ottiene denaro a un costo minore del privato. I contratti possono riconoscere al gestore una remunerazione del capitale che investono, e ci sono stati casi in cui questa remunerazione è stata fissata a un livello assai più elevato di quanto sarebbe stato ragionevole nelle condizioni di mercato del momento.
Ma quali investimenti bisogna fare, e dove? Qui si entra nel vivo della strategia di gestione. Lo Stato deve controllare quali e quanti investimenti si fanno? La risposta positiva appare scontata. Ma apre anche un problema logico. Lo Stato può decidere che gli investimenti decisi dal gestore sono insufficienti o male indirizzati? Se sì, allora è di fatto lo Stato che gestisce. Se no, allora in che cosa consiste il controllo? Ma non solo. Per decidere se sono necessari investimenti, e dove, e se sono adeguati, lo Stato dovrebbe disporre di una struttura tecnica e manageriale almeno comparabile a quella dell’impresa. Personale e competenze che hanno un costo, e che sarebbero un doppione delle analoghe strutture dell’impresa. E lo stesso discorso si può fare sul controllo della manutenzione: serve o no qualcuno – ovviamente qualificato – che sia in grado di giudicare se la Società Autostrade sta facendo adeguata manutenzione per il Ponte Morandi e per gli altri del sistema autostradale? Attenzione a rispondere “ovviamente sì”, perché anche questa è una duplicazione di costi.
Da quanto sopra deriva che un effettivo controllo è impossibile, a meno di non duplicare le funzioni più importanti dell’impresa che gestisce, il che non avrebbe senso. I controlli che si fanno sono solo sulla carta, e si basano su informazioni che ha il gestore, ma non il concessionario: si deve giocoforza contare sulla buona fede (stavo per scrivere “buon cuore”) dei privati. Che però tendono molto spesso a pesare la sicurezza in base ai costi e a trascurare quelle che gli economisti chiamano “esternalità negative”. Al di fuori del discorso sulle concessioni, abbiamo visto come la famiglia Riva ha gestito le esternalità negative dell’Ilva, che consistevano nell’avvelenare un intero territorio.
Le concessioni hanno una durata molto lunga, venti o trent’anni, perché si deve dare al gestore la possibilità di rientrare dagli investimenti. E se il gestore sta facendo un cattivo lavoro? Beh, gli si revoca la concessione. Facile a dirsi, ma si è visto che cosa è accaduto nella vicenda Autostrade. Nonostante che ci fosse l’evidenza che la società non aveva lavorato bene, adottando addirittura comportamenti penalmente rilevanti, una semplice revoca si è rivelata impossibile, e si è dovuto inventare un meccanismo che ha di fatto indennizzato la società. Il fatto è che le grandi imprese che concorrono per questi appalti si servono dei migliori studi legali per stipulare contratti che le mettano al riparo da ogni possibile imprevisto. E non potrebbe farlo anche lo Stato, visto che le competenze interne non hanno dato grande prova? Certo, con una ulteriore duplicazione di costi che poi andranno a gravare sugli utenti.
Si dirà che però è possibile fare confronti fra i vari gestori, e dunque con la gara successiva affidare la concessione a chi ha dato buona prova. Ma, a parte che ci sono sempre differenze che rendono non facile il confronto, la gara successiva avverrà dopo una ventina d’anni almeno, tutto il tempo perché una gestione mal fatta lasci danni costosissimi da riparare.
Riassumendo. Appaltare ai privati i servizi pubblici è una pessima idea, strutturalmente più costosa della gestione diretta. I controlli sono solo teorici, e in caso di mala gestione la revoca è quasi impossibile. Perché allora si vuol fare? Perché operare senza concorrenza – visto che ciò accade una volta che la concessione sia stata assegnata – è il sogno di tutti i capitalisti, e le pressioni per imboccare questa strada sono fortissime. Qualche volta può esserci anche un altro motivo: il gestore pubblico non se la sente di affrontare il costo politico di un aumento delle tariffe che sarebbe magari necessario, e lascia al privato il “lavoro sporco”. Ma l’aumento delle tariffe dev’essere autorizzato dall’Authority di controllo, cioè dallo Stato, quindi la mossa corrisponde al coprirsi con una foglia di fico.
Ci sarebbe un’alternativa sensata. Il confronto si potrebbe fare tra gestioni pubbliche, prendendo a modello quelle più efficienti. Ce ne sono da fare invidia a qualsiasi privato. Ma questo naturalmente non piace agli adoratori del mercato, secondo i quali la mano pubblica deve fare il meno possibile e soprattutto togliersi di torno da settori lucrosi e senza rischi. Lo chiamano mercato, ma qui l’unico mercato che c’è è quello alimentato dalle lobby.
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Cigno nero invincibile se i paesi ricchi continuano a prendere ordini da Big Pharma
Ma, si sa, nel mondo interconnesso del capitale globale tutto si sposta velocemente da un luogo all’altro e – come è già avvenuto per la variante Delta – anche questa nuova variante del Covid-19, incurante delle draconiane circolari del ministri degli interni, passerà allegramente (si fa per dire) le frontiere degli Stati con il serio rischio di nuove ondate pandemiche o, comunque, di prolungare, per chissà quanto, quella già in atto.
A fine ottobre l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva avvisato che la pandemia di Covid «si trascinerà anche nel 2022» perché i Paesi più poveri non ricevono i vaccini di cui hanno bisogno. Bruce Aylward, ricercatore di punta dell’OMS aveva rilanciato l’appello a donare le dosi a chi ne ha bisogno.
Proprio in Africa, ad esempio, è stato vaccinato meno del 5% dell’intera popolazione del continente. Persino quei noti “filantropi” del Fondo Monetario Internazionale avevano avvertito “occupiamoci dei paesi poveri o la pandemia non finirà”.
Niente da fare, perché l’11 marzo di quest’anno, i Paesi più ricchi e potenti del WTO(L’Organizzazione mondiale del commercio), completamente succubi delle grandi lobbie farmaceutiche e dei loro giganteschi interessi speculativi sul covid, hanno detto un bel NO alla deroga sui brevetti per la produzione di vaccini Covid. In testa ai contrari alla deroga gli USA, il Regno Unito e la Commissione UE.
Sulla stessa posizione, i 27 Stati membri dell’Unione Europea, Italia compresa. Si perchè, la settimana prima, 67 organizzazioni avevano firmato una lettera aperta proprio a Mario Draghi perché sostenesse la sospensione chiesta da India e Sudafrica, che a causa dei brevetti, non possono produrre le dosi su larga scala.
Ma il nostro superbanchiere nonché supercommissario per conto della Troika, ovviamente, ha fatto orecchie da mercante.
Ed ecco che, dopo la variante indiana, ora è il turno della variante sudafricana, che parrebbe essere più potente, contagiosa e, forse, più refrattaria ai vaccini della precedente variante Delta. Per ora si sa che la nuova variante “B11529” ha 32 nuove mutazioni nella sola proteina spike SARSCoV2, la parte del virus che la maggior parte dei vaccini usa per innescare il sistema immunitario contro il Covid.
Le mutazioni nella proteina spike possono influenzare la capacità del virus di infettare le cellule e diffondersi, ma rendono anche più difficile per le cellule immunitarie attaccare l’agente patogeno. Tuttavia, nei casi rilevati fino ad oggi, sia in Sudafrica che altrove, i sintomi manifestati appaiono di lieve entità e comunque non gravi.
Il dottor Tom Peacock, un virologo dell’Imperial College di Londra, ha pubblicato i dettagli della nuova variante su un sito web di condivisione del genoma, osservando che “la quantità incredibilmente alta di mutazioni spike suggerisce che ciò potrebbe essere motivo di vera preoccupazione”.
In una serie di tweet, Peacock ha affermato che “molto, molto dovrebbe essere monitorato a causa di quell’orribile profilo di picchi”, ma ha aggiunto che potrebbe rivelarsi uno “strano cluster” che non è molto trasmissibile. “Spero che sia così”, ha scritto [1].
Intanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha designato il nuovo ceppo “B11529” come una “variante preoccupante ad alta priorità di classificazione dei rischi” e gli ha dato il nome greco “Omicron”.
[1]https://www.theguardian.com/world/2021/nov/24/scienti
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27/11/2021
Da Zerocalcare a Squid Game: il futuro è tutto qui?
Se Netflix è il problema
Forse non è un caso che, almeno in Italia, le due serie del momento facciano parte della grande piattaforma di Netflix. Sicuramente non possiamo dimenticare il ruolo della tecnologia digitale che condiziona e mette a regime ogni secondo della nostra vita e che crea, continuamente, segni, sogni e senso. In tutto questo processo di globalizzazione e di tecnologie invasive siamo oltre il “no logo” di Naomi Klein dove il brand era una tendenza, un modo di vivere, un identificarsi in un gruppo magari dentro un paio di scarpe, seduti in un Mc Donald o bevendo Coca Cola anche se fatto in maniera planetaria e includente (No Nike no party). Siamo oltre la società della sorveglianza di Foucault o la società di controllo di Deleuze, oltre la società dello spettacolo di Debord e oltre il fascismo del consumismo temuto da Pasolini; adesso il capitalismo digitale e le sue applicazioni, rappresentano luoghi virtuali, fisici, emotivi e relazionali d’incredibile forza e pervasività, velocità pura e consumo immediato. Netflix, Instagram o Apex Legends non soltanto condizionano e controllano quel brodo culturale e sociale dove si producono immaginari, orizzonti e progetti personali, ma sono, ora più che mai, quello che siamo, pensiamo, facciamo; e sono parte di una trasformazione cognitiva e antropologica che va attraversata, combattuta e risolta a nostro favore. Ormai non è possibile stare fuori l’algoritmo, ma bisogna comprenderlo e trasformarlo con la piena e naturale partecipazione delle nuove generazioni: “Cos’è dunque l’odierno strapotere dei giganti digitali se non un tremendo squilibrio tra capitale e lavoro in cui conoscenze e risorse collettive vengono assorbite dal capitale fisso degli algoritmi e il lavoro vivo degli utilizzatori e sviluppatori viene pagato zero o comunque meno del valore intangibile creato? La tecnologia – nella declinazione capitalistica – occulta il lavoro, brilla d’una luce sottratta alla collettività e diventa la massima espressione dell’alienazione intesa come sottrazione di valore al lavoratore.” (Da “I diavoli – Cronache anticapitaliste”)
La generazione rubata
La serie di Zerocalcare esprime e mostra, anche ma non solo, i disagi e i dubbi di una parte della generazione che va dai 25 ai 40 anni, una parte chiaramente; e riesce a farlo bene. Ma la domanda che ci dobbiamo porre è di natura diversa.
Oggi i giovani dove sono? Da che parte stanno? Non dovrebbero uscire in massa dalle case del mondo, asiatiche, italiane e livornesi e protestare per mille motivi, lavoro, scuola, casa, servizi essenziali e comunque per riprendersi un futuro diverso? Ma la scuola cosa sta facendo per loro da molti anni ormai? Gli ultimi dati sull’abbandono scolastico che supera ormai il 13% annuo sono a dir poco devastanti. Parlare di generazioni spesso è fuorviante (generazione x, y, z, millenials...) e la contrapposizione fra generazioni (le vostre pensioni e i vostri lavori sicuri ci hanno rubato il futuro...) non porta da nessuna parte. Certamente vi sono precisi legami tra i redditi del passato e quelli presenti, soprattutto nella realtà italiana; ma principalmente è proprio per la presenza dei risparmi dei nonni che la società italiana e le sue città, come Livorno, stanno ancora a galla. Probabilmente ancora per poco.
Questa globalizzazione selvaggia e questo sistema onnicomprensivo ormai non lascia spazio e possibilità a una grossa fascia di giovani e anziani e ci sta presentando il conto in termini di migrazioni e d’insicurezza, di lavoro precario e di pensioni impossibili, di sogni e di felicità, di movida e alcol, di droga e psicofarmaci.
Ma allora cosa manca ai giovani? Un lavoro, una famiglia, un’esistenza futura, un progetto politico? Gli spazi culturali? Oppure un iPhone 13, una Google Car o essere un influencer da milione di follower? O forse soltanto dei sogni? E quali sono i sogni della gioventù livornese, italiana, tedesca, orientale, dei nuovi emigrati, di quei ragazzi che spopolano sui video patinati di Instagram o Tik Tok? Una sola sicurezza: la nuova politica a venire avrà bisogno, in maniera radicale, naturale e profonda della fantasia e dell’intensità delle generazioni future.
La politica e il lavoro
I temi relativi ai licenziamenti, alle delocalizzazioni, alla disoccupazione, all’autoproduzione o alle pensioni rappresentano alcuni punti cardine di una battaglia che la sinistra, per quello che rimane di questa parola, sembra aver perduto da decenni ormai. In questo senso la battaglia politica e sindacale intorno alla GKN è di fondamentale importanza in quanto cerca di unire più aspetti rispetto alle solite vertenze sindacali per limitare i licenziamenti.
Riprendere queste lotte però significa costruire un nuovo insieme di linee e piani in cui il salario minimo, il reddito di esistenza, l’età pensionabile, la pensione sociale, il lavorare tutti e meno, molto meno, la tecnologia digitale, la robotica, il rifondare nuove tecniche di produzione di segni, simboli e linguaggi devono essere legati fra loro e uniti ai temi dell’ecologia sociale e del futuro della terra, della miseria e della fame del mondo, della società patriarcale e del neocolonialismo del capitale per una nuova politica a venire.
Fin troppo evidente che i giovani non vedranno mai arrivare la pensione, salvo fasce privilegiate, con una vita di contratti precari, “salari da fame” e ritmi di vita insostenibile per decenni. Bisogna battere questo chiodo per cercare di unire le varie fasce di età della società reale.
La questione del reddito di esistenza è fondamentale per capire come questo capitalismo non regala nulla, non vuole concedere più nemmeno quella miseria che è il reddito di cittadinanza attuale in Italia, nulla a che vedere con il vero reddito incondizionato di base, per sfruttare i lavoratori e imporre le paghette mensili che rifilano di questi tempi, per non parlare degli infiniti stage gratuiti per farsi le ossa e l’esperienza per sfondare. Ma sfondare che cosa?
Comunque nessuna critica avrà senso se non mettiamo in discussione che cosa è il lavoro, che cosa serve produrre, costruire, ristrutturare e che cosa ci serve davvero per un altra vita e per un futuro da vivere e da riconquistare fino in fondo. In questo senso bisogna ripensare davvero ogni forma d’informazione, di comunicazione, di spettacolo e d’immaginario per scoprire un nuovo orizzonte di senso possibile.
Il futuro che non c’è
Tra Zerocalcare e Squid Game possiamo però tracciare un filo rosso profondo che unisce le due serie, oltre Netflix, che riguarda il futuro, i sogni e le possibilità delle nuove generazioni a venire, che siano italiane o asiatiche, come se il capitalismo e la globalizzazione in atto avessero una forza terribile sugli eventi da poter cancellare ogni forma di speranza dalla terra, dove non solo il lavoro o la stabilità economica sono messi in discussione, ma sono anche oggetto di battaglie individuali infinite e terribili, con milioni di vittime in termini di povertà, migrazioni, precariato e malattie. E comunque qui la posta in gioco è ancora più alta in quanto si tratta di non dimenticare mai che la vita è anche amore, amicizia, essere insieme, legame sociale e rivoluzione a venire. Scusate se è poco.
«Non esiste più alcun noi; esistono solo loro, e il collettivo, che sia familiare, politico, professionale, confessionale, nazionale, razionale o universale, non è più portatore di alcun orizzonte: appare totalmente vuoto di contenuto». (Reincantare il mondo – Bernard Stiegler)
Certo i piani e temi in questione sono davvero tanti e sarebbe utile coinvolgere settori della società, del territorio e delle nazioni molto ampi, cercando nuove linee di lettura e nuovi strumenti di lotta, cominciando a riprendersi quel futuro che sembra ormai negato a troppe persone da questo capitalismo realista.
“L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile”. (Realismo capitalista – Mark Fisher)
Oppure, più semplicemente, ascoltare lo zio Lou:
“Questo è il momento di agire
Perché il futuro è a portata di mano
Questo è il momento
Perché non c’è tempo
Non c’è tempo”
(Lou Reed – There in no time)
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Agnoletto: “Più cautela nella vaccinazione dei bambini”
Prima di decidere un intervento di sanità pubblica è necessario valutare il rapporto rischi/benefici rispetto alla singola popolazione.
Nel caso dei bambini è ampiamente documentato che: si infettano meno facilmente degli adulti, solo in casi rarissimi l’infezione evolve verso la malattia, i decessi dall’inizio dell’epidemia ad oggi nell’età 6-11 anni sono stati 9 (fonte: Istituto Superiore di Sanità, dati aggiornati al 17 novembre 2021) su oltre 132.000 decessi totali, hanno riguardato quasi sempre bambini che presentavano altre patologie, inoltre i più volte citati casi di sindrome infiammatoria multisistemica sono rarissimi e sono curabili.
È bene ricordare che i bambini quando si infettano nella grande maggioranza dei casi o sono asintomatici o sviluppano i sintomi di una comune influenza, guariti dalla quale sviluppano una immunità molto più forte di quella suscitata dal vaccino.
D’altra parte, la sperimentazione presentata da Pfizer ha coinvolto un numero estremamente limitato di bambini, poco più di 2.000, ed è durato pochi mesi ed infatti la stessa Pfizer in un suo documento afferma:
“Il numero di partecipanti all’attuale programma di sviluppo clinico è troppo piccolo per rilevare eventuali rischi potenziali di miocardite associati alla vaccinazione. La sicurezza a lungo termine del vaccino COVID-19 nei partecipanti da 5-12 anni di età sarà studiato in 5 studi sulla sicurezza dopo l’autorizzazione, compreso uno studio di follow-up di 5 anni per valutare a lungo termine sequele di miocardite/pericardite post-vaccinazione”.
Di fronte a queste affermazioni ogni pronunciamento pubblico richiederebbe la massima cautela, considerando che si tratta di esseri umani in una fase di forte sviluppo e crescita, situazione che implica un’analisi attenta dei possibili effetti collaterali anche a medio e lungo termine.
Da più parti si dice: vaccinare i bambini per evitare che trasmettano l’infezione agli adulti; ma la priorità dovrebbe essere quella di contattare i circa due milioni di ultrasessantenni che non hanno ancora fatto la prima dose e certamente non sono tutti no vax.
Il sistema politico-mediatico sembra, nella sua maggioranza, non porsi simili domande e spingere verso la vaccinazione di massa anche in età pediatrica; dimenticandosi troppo presto le nefaste conseguenze degli open day rivolti agli adolescenti realizzati con AstraZeneca, vaccino poi dimostratosi non adatto a quell’età.
D’altra parte, la pressione di Big Pharma è fortissima e si realizza anche sul mondo medico e su diverse società scientifiche.
In attesa di ulteriori studi una soluzione possibile sarebbe rendere disponibile il vaccino per quei bambini che hanno una situazione di fragilità o che vivono in famiglie dove i genitori, per motivi clinici, non hanno potuto vaccinarsi.
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