Un governo frutto di un compromesso nazionale e di uno internazionale
(Usa e Unione Europea) porta inscritta nel proprio dna l'oscillazione
continua tra interessi e strategie diverse.
Sul fronte interno, Enrico Letta ha quindi esposto un
programma in 14 punti che cerca di tenere insieme le indicazioni della
Troika (e gli obblighi derivanti dal rispetto del Fiscal Compact) con
alcune “promesse” berlusconiane come la cancellazione dell'Imu sulla
prima casa o il congelamento dell'Iva al 21%, invece che al 22 come
previsto dalla legge di stabilità.
Sul fronte “esterno” dovrà
gioco forza cercare di ottenere dalla Troika margini di flessibilità
maggiori nella tempistica degli obiettivi imposti (riduzione della spesa
pubblica, pareggio di bilancio, riforme strutturali, ecc). Oggi a
Berlino, davanti a una Angela Merkel a sua volta ormai in piena campagna
elettorale, verificherà se ci sono margini di movimento oppure no.
Sul piano nazionale, Letta ha messo in fila:
1) riforma della «tassazione sulla prima casa», iniziando con lo «stop
dei pagamenti di giugno in vista di una riforma complessiva». Più in
generale, ha detto, occorre «una politica fiscale della casa che limiti
gli effetti recessivi sull'edilizia».
2) lavorare per arrivare a una «rinuncia dell'inasprimento dell'Iva», che dovrebbe scattare dal primo luglio.
3) dare fiato al lavoro, sia sul piano occupazionale che su quello
salariale; non basta solo il rifinanziamento della cassa integrazione in
deroga, ma punta «alla riduzione delle tasse sul lavoro: quello
stabile, quello sui giovani e sui neo assunti».
4) Una
indefinita «riforma del welfare con azioni di ampio respiro. Non
occorrono isterismi». Il che preannuncia interventi terribili (su
pensioni e sanità, par di intuire) , tali da costringere persino
Cgil-Cisl-Uil ad alzare un sopracciglio pensoso. Ha quindi compensato
“dando la guazza”, parlando di un altrettanto fumoso “welfare attivo”
(che spinga cioè a trovarsi un nuovo lavoro) e “al femminile”; in buona
sostanza un “miglioramento” degli ammortizzatori sociali estendendoli a
chi ne è privo (i precari) e magari un “reddito minimo” per “famiglie
bisognose con figli”.
5) «abolire definitivamente le province»,
come parte essenziale della strategia di “riavvicinamento” al sentire
comune popolare, che chiede di «ridurre i costi dello Stato, valorizzare comuni e regioni in un'ottica di alleanza, chiudere la partita sul
federalismo fiscale rivedendo il rapporto tra centro e periferia». Tutto
e nulla, province a parte.
6) con gli esodati la comunità
nazionale «ha rotto un patto, va trovata una soluzione strutturale, è un
impegno prioritario di questo governo ristabilirlo»; naturalmente
bisognerà vedere nel concreto in cosa consiste - il “quanto” - questa
“soluzione strutturale”.
7) riforme istituzionali e
costituzionali, ovviamente senza indicazioni improprie da parte di un
governo (è materia parlamentare per definizione). «Dal momento che
questa volta l'unico sbocco è il successo, tra 18 mesi verificherò se il
progetto sarà avviato a porto sicuro. Se ci sarà la ragionevole
certezza che il processo di riforma costituzionale potrà continuare». Se
dopo 18 mesi di lavori i veti incrociati sono tali da «impantanare tutto
per l'ennesima volta, non avrei esitazioni a trarne le conseguenze». E
questo è un orizzonte temporale chiaro, l'unico, peraltro, di questo
governo; che viene quasi a coincidere con i due anni che si possono
credibilmente chiedere a Napolitano prima di mollare la presidenza della
Repubblica.
8) «serve una riforma che avvicini i cittadini alle
istituzioni con principi di democrazia governante, la possibilità di
superare il bicameralismo paritario e evitare ingorghi come quello
appena sperimentato». Il ragionamento sembra filare solo in apparenza.
Di fatto, davanti a una struttura costituzionale che prevede due Camere e
l'obbligo per ogni governo di ricevere la fiducia di entrambe, si
sceglie di tagliare il piede pur di farlo entrare nella scarpa: via una
Camera, così non ci sono “inceppamenti”. Se poi nell'altra restasse un
“premio di maggioranza” abnorme, avremmo tranquillamente superato anche i
“fastidi” della Repubblica parlamentare...
9) «Dobbiamo qui
assumere l'impegno che quella dello scorso febbraio è stata l'ultima
consultazione elettorale con la legge vigente». E quindi via il porcellum, ma se le forze politiche non dovessero trovare un accordo su
un'altra formula, «Migliore della legge attuale sarebbe almeno il
ripristino della legge elettorale precedente». Il mattarellum, dunque.
10) Lo sviluppo del Mezzogiorno – un punto fisso della retorica nel
giorno dell'insediamento di ogni governo, dal 1945 ad oggi –. Ma stavolta
non c'è nessuna grande strategia e nessun piano per lo sviluppo;
soltanto «la modifica della legge 92, che riduca le restrizioni ai
contratti a termine finché persiste la crisi economica». Il “progresso”
del Meridione, insomma, dipenderebbe dall'estensione della precarietà.
Una promessa che vale per tutto il paese, ne siamo certi.
11)
«Bisogna coniugare ferrea lotta all'evasione e fisco amico, senza che la
parola Equitalia debba provocare dei brividi quando viene evocata». Non
si dice come due cose così contraddittorie possano stare insieme, ma un
democristiano – non importa se vecchio o giovane – si riconosce proprio
da questa indeterminatezza...
12) Naturalmente ci deve essere
una “radicale riforma del sistema di finanziamento dei partiti”, ma le
forme – va da sé – andranno trovate nel dibattito parlamentare. Amen.
13) Un governo che sa di dover fare cose altamente impopolari deve
sempre preoccuparsi di tener buone le forze di polizia. E quindi, nelle
pieghe contorte di un discorso sulla “criminalità organizzata”, spunta
fuori anche un «riconoscere la specificità del lavoro del personale in
divisa». Più soldi in busta paga, forse; o un'età pensionabile meno
oltranzista che non per i lavoratori “comuni”.
14) “Riportare a casa i due marò”.
Quest'ultimo appare anche quello più facile da raggiungere, nonostante i
disastri provocati da Terzi di Santagata e Monti. Il che la dice lunga
sulla realizzabilità degli altri punti.
Sono quasi tutti,
infatti,impegni che prevedono aumento di spesa pubblica o riduzione
delle entrate fiscali (per 12 miliardi, si calcola). Ma in nessun luogo
si dice dove e come possano essere trovate le risorse,in presenza di
obblighi devastanti assunti con l'Europa e la Troika. Saccomanni, il
nuovo ministro dell'economia, è certamente persona competente, ma la
moltiplicazione dei pani e dei pesci non appare possibile neppure per
lui. Nell'incertezza, state attenti alle vostre tasche. Quando
promettono di riempirvele senza sforzo, è facile che stiano per
svuotarvele...
«Nelle sedi europee individueremo le strategie
per arrivare alla crescita senza compromettere il risanamento. Di solo
risanamento l'Italia muore». L'allentamento
dell'austerità è d'altronde uno dei pochi punti sui cui convergono le
tre forze di maggioranza: Partito democratico, Popolo della libertà e
Scelta civica. Peccato che non sia nelle disponibilità “nazionali”, ma
dipenda da poteri esterni cui è stata trasferita buona parte della
sovranità in materia.
Farne quindi l'architrave del programma di
governo significa legare l'esistenza – o la tenuta nel tempo –
dell'esecutivo a qualcosa di difficilmente controllabile. “Conti fatti
in casa”, scrive oggi qualche commentatore con sale in zucca, mentre
fuori i creditori sono già in fila. L'Italia, infatti, anche se il resto
d'Europa vorrebbe reinserirla nel “nocciolo duro” dell'Unione (se non
altro per le dimensioni della sua economia e i costi inimmaginabili di
un suo eventuale “salvataggio”), non appare in condizioni di
“contrattare” granché. Non solo per l'evidente situazione di sofferenza
dei conti pubblici, ma anche per la fragilità pericolosa delle sue
istituzioni politiche attuali.
La “scommessa sulla crescita”, insomma, è al momento più un “esercizio di retorica” che un piano realistico.
Del resto, nonostante la sua vicinanza ai “giri che contano” (sia in
Europa che negli Usa), Letta non è davvero considerato al livello di
Mario Monti. Vero è che la stessa Unione Europea appare in questo
momento un po' meno “certa” che la strategia fin qui adottata su forte
input tedesco – l'”austerità espansiva”, in realtà recessiva – sia
ancora la scelta giusta. Un qualche piccolo margine di tolleranza in più
potrebbe quindi essere esperito. Ma è la credibilità dell'”arco
parlamentare” che lo sostiene ad azzopparlo almeno in parte. In Europa,
infatti, un esecutivo con Berlusconi decisivo è una baracca senz'arte né
futuro.
Ma anche la Ue deve a questo punto rifarsi i conti. La
“ripresa” annunciata per la fine del 2013 è già stata ricalendarizzata
nell'anno successivo; e la sua “forza” – se pure ci sarà – dovrebbe
essere quasi nulla (un “rimbalzo del gatto morto”, dopo tre anni di
tassi negativi). E intanto, a febbraio la disoccupazione nell'Eurozona
ha toccato il 12%, 19 milioni di persone senza lavoro.
Le proroghe
concesse a Spagna e Francia potrebbero a questo punto diventare l'unico
appiglio a disposizione di “Letta il giovane”. Una mano però potrebbero
dargliela proprio gli Stati Uniti, che ormai da mesi vanno pressando i
vertici Ue perché adottino – come fa la Federal Reserve e la Banca del
Giappone – una politica monetaria molto più aggressiva e “spendacciona”.
Barroso, ma non soltanto lui, si è già speso in questa direzione; e
anche Olli Rehn, trinariciuto finlandese messo a fare il cane da guardia
per conto di Bundesbank, ha dovuto riconoscere quantomeno l'inefficacia
delle misure fin qui messe in campo.
Il giovane Letta italiano ha citato nel suo discorso la possibilità di finanziare l'innovazione e la ricerca con i project bond,
idea approvata in fase sperimentale dal parlamento europeo, e bandiera
del presidente francese François Hollande. Ma dalla scrittura di piani
alla pratica il passo è sempre lungo. E la Ue, fin qui, non si è spostata di un millimetro sul piano delle decisioni operative.
Di fatto, fino alle elezioni tedesche, l'Europa non può cambiare linea. E dopo non è nemmeno detto che sia disposta a farlo.
Letta, insomma, deve navigare a vista, barcamenandosi tra “rispetto degli
impegni presi” e “politiche per la crescita” senza risorse da
investire. Diciotto mesi possono diventare lunghissimi...
Fonte
Probabilmente sono troppo menagramo io, ma il governo Letto mi pare si candidi a divenire una via crucis più distruttiva del già aberrante esecutivo Monti.
Ci sarà da divertirsi, in senso sarcastico ovviamente.
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