31/05/2022
NATO, una storia da chiudere
Indubbiamente si tratta di fattori che hanno un loro peso, ma occorre spingere il nostro sguardo al di là di tali miserie umane, per cogliere quella che possiamo definire l’inadeguatezza strategica della NATO nell’attuale fase della politica internazionale.
Indizi di tale inadeguatezza possono essere colti nella scoordinata e spasmodica reazione all’attuale crisi ucraina. I farfugliamenti subito smentiti in merito a sanzioni e invii di armamenti, costantemente annunciati e subito disattesi, sottolineano lo stato di confusione mentale delle élite occidentali. Vorrebbero, ma non possono, fare a meno delle materie prime russe in settori chiave come quello energetico. Vorrebbero inviare armi sempre più distruttive ma poi ci ripensano. Annunciano, come ha fatto Johnson, azioni militari per sbloccare il grano ucraino e subito dopo si smentiscono (senza neanche avvisare il povero Letta, che si affretta a sponsorizzare l’iniziativa restando appeso). Spingono Svezia e Finlandia a entrare nella NATO, ma inciampano nel veto di Erdogan che vorrebbe approfittarne per ottenere nuovi micidiali armamenti e sterminare definitivamente i Kurdi.
In questo bailamme si delineano alcune tendenze fortemente negative per tutti. La von der Leyen e altri gerarchi europei continuano a inneggiare come ubriachi alla prossima vittoria ucraina, proprio nel momento in cui tutto il Donbass sta per passare sotto il controllo dell’esercito russo. Continuano ad inviare armamenti senza neanche prendere nota delle forniture spedite, col rischio che, come denunciato dal procuratore Gratteri, la ndrangheta o analoghe organizzazioni criminali possano disporre presto di lancimissili, droni e altri armamenti sofisticati (è noto come l’Ucraina sia da tempo un hub mondiale del mercato nero delle forniture belliche e con la guerra lo stia diventando sempre di più). Paradossalmente, le sanzioni hanno determinato finora, proprio in virtù dei meccanismi del mercato capitalistico internazionale, un arricchimento del governo russo, e le loro conseguenze saranno pagate dai popoli, sia in Russia, che in Europa, che in Africa e Medio Oriente dove la fame si appresta a dilagare.
In sintesi, contraddittorietà tra propositi impossibili e azioni realizzate, che però continuano ad essere estremamente negative, allontanando la possibilità del necessario compromesso proprio nel momento in cui l’ultimazione delle operazioni nel Donbass potrebbe aprire la strada a un accordo compatibile col diritto internazionale vigente, basato sull’affermazione della neutralità permanente dell’Ucraina, nel pieno rispetto della sua sovranità e indipendenza e del contestuale rispetto del diritto all’autodeterminazione dei territori contesi (Crimea e Donbass).
Il problema di fondo, di fronte a questa spiacevole situazione, è quello dell’effettiva funzione della NATO, un organismo sempre più autoreferenziale e votato alla propria autoperpetuazione, a beneficio dei burocrati stanziati a Bruxelles e delle esigenze statunitensi di controllo sull’Europa, alla quale stronca ogni velleità di autonomia mantenendo ai suoi vertici personaggi di inquietante miopia politica e statura intellettuale infima.
Un interessante contributo è quello redatto al riguardo da Adam Tooze per la rivista britannica The New Statesman (ripreso da Internazionale in edicola). Pur se discutibile da vari punti di vista, pone il problema dell’autonomia strategica dell’Europa, sottolineando la necessità di “riconoscere la sua distanza storica e politico-culturale dall’entusiasmo patriottico così platealmente in mostra in Ucraina” e, al tempo stesso, “mantenere le distanze dalla cultura strategica militarizzata e ossessionata dalla tecnologia degli Stati Uniti”.
Al riguardo, alcuni spingono su un’autonomia europea dal punto di vista militare, ma si tratta di una prospettiva estremamente pericolosa e fortemente inadeguata. Occorre invece concentrarsi sulle prospettive dell’Unione europea in seno alla nuova governance multilaterale del pianeta che si va delineando. L’emancipazione dalla NATO e il suo scioglimento costituiscono al riguardo un primo passo di essenziale importanza ma non ci si potrà certo limitare a questo.
Al momento, tuttavia, la vera urgenza è mettere fine alla guerra in Ucraina, evitando che siano messe in atto le disastrose opzioni evocate dall’amministrazione statunitense e condivise dai suoi vassalli europei, e cioè l’escalation del conflitto fino ad esiti imprevedibili o il suo congelamento in modo tale da trasformare l’Ucraina stessa – come auspicato da Hillary Clinton – in un nuovo Afghanistan (e l’Europa orientale in un nuovo Pakistan, come suggerito da Tooze nel contributo menzionato).
Scenari da incubo per l’Europa e i suoi popoli ma, obiettivamente, legna sul fuoco per gli interessi statunitensi, che rappresentano oggettivamente il pericolo maggiore per la stabilità e la pace del nostro continente.
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Unione Europea. Il “Triangolo di comando” si inventa un compromesso stracco
I tre leader hanno dovuto concordare la linea da tenere nel vertice in corso ieri e oggi, sia per esercitare il loro peso politico congiunto – e qui Draghi dovrà spiegare qualcosa del suo viaggio negli Usa e del “piano di pace italiano” presentato all’Onu – sia per controbilanciare le evidenti “sbandate” della Commissione europea su diversi dossier legati alla guerra in Ucraina e alla recessione economica. Macron e Scholz riferiranno invece degli 80 minuti di colloqui avuti con Putin il 28 maggio.
Ieri e oggi si tiene infatti il Consiglio europeo straordinario per affrontare questioni rilevanti legate al conflitto in Ucraina, alla Difesa comune europea, all’energia, alla transizione energetica e alla sicurezza alimentare.
La discussione non è affatto lineare sul come proseguire il “sostegno all’Ucraina” sotto il profilo politico, militare, finanziario.
Sulle sanzioni il meccanismo dell’unanimità nelle decisioni ha consentito all’Ungheria (che ci ha messo la faccia mentre altri ne condividono gli stessi problemi) di mettere il veto sulle sanzioni immediate alla Russia in materia di gas e petrolio. Su questo si rileva che la compagnia olandese GasTerra ha riferito che Gazprom ha deciso lo stop alle forniture di gas per rifiuto della società di pagare in rubli.
L’interruzione delle forniture russe all’Olanda avverranno a partire da oggi, 31 maggio perché la società olandese ha rifiutato di accettare le richieste di Mosca di essere pagata in rubli. E se fino ad oggi solo a Polonia, Bulgaria e Olanda è stata interrotta la fornitura di gas perché non intendono pagare in rubli, vuol dire che gli altri paesi europei fin qui si stanno comportando diversamente.
L’intesa preliminare e a livello diplomatico prevede l’embargo sul petrolio proveniente via mare dalla fine dell’anno in poi, con la temporanea eccezione per quello che transita via oleodotto. La Russia esporta verso la Ue 720mila barili al giorno di greggio attraverso il suo principale oleodotto a fronte di volumi via mare di 1,57 milioni di barili al giorno. L’obiettivo dell’accordo è di venire incontro all’Ungheria, paese molto dipendente dal greggio russo. Sul benestare di tutti i leader europei tuttavia domina ancora l’incertezza.
Mentre sull’oltranzismo bellicista si continuano a registrare toni diversi tra i membri dell’Europa dell’Est (Polonia in prima fila) e gli altri. Emerge con forza il peso dell’ipoteca voluta dagli Stati Uniti nei decenni scorsi, quella che impose l’adesione dei paesi dell’Est prima alla Nato e solo dopo all’Unione Europea, una ipoteca che sta rafforzando le divaricazioni interne alla Ue e che più di qualcuno comincia a valutare non negativamente, così come era stato per la Brexit.
Contestualmente la discussione sull’accelerazione della Difesa comune europea riguarda principalmente le modalità per rafforzare le capacità della difesa comune attraverso investimenti coordinati e non più su base nazionale.
I premier dell’Ue dovranno misurarsi con l’analisi delle carenze di investimenti presentata dalla Commissione europea attraverso la recente Dichiarazione Comune, in cooperazione con l’Agenzia europea per la difesa, e che punta a rafforzare la base industriale e tecnologica europea, anche approfittando del rilevante aumento delle spese militari deciso dai vari stati europei e dello sganciamento delle spese militari dai vincoli previsti dal Patto di Stabilità.
Nei prossimi mesi nella UE saranno disponibili notevoli risorse per nuovi armamenti, e le aziende del complesso militare-industriale europeo stanno agendo affinché i sistemi d’arma da acquistare siano europei e non più statunitensi.
P.S.
Dopo una lunga serata di negoziati i ventisette hanno trovato un accordo per un embargo parziale delle importazioni di petrolio russo. L’Ungheria ha ottenuto la deroga che pretendeva, continuando a ricevere il greggio attraverso un oleodotto degli anni Sessanta (il Druzhba, o “dell’amicizia”). In pratica l’embargo funzionerà solo per le forniture via mare, ma non varrà via terra.
Lo stesso oleodotto, del resto, rifornisce non solo solo l’Ungheria, ma anche Cechia, Slovacchia e Polonia (che al tempo della costruzione facevano parte del Patto di Varsavia, dunque erano nell’orbita sovietica), ma anche la Germania, attraverso le regioni dell’Est. Questi paesi potrebbero dunque ricevere anch’essi il petrolio russo, anche se affermano di non volerlo fare (chiudendo i rubinetti dal proprio lato). Vedremo se andrà così, c’è comunque da dubitarne...
«Questa decisione andrà a colpire una enorme fonte di finanziamento della macchina da guerra russa», ha scritto enfaticamente su Twitter il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Ma se la riunione è durata otto ore significa che i contrasti non erano né pochi né irrilevanti.
Secondo la Commissione europea e il Consiglio europeo, infatti, verrà così interrotto il 90% delle importazioni di petrolio russo. L’estensione dell’embargo alle forniture via oleodotto verrà discussa «appena possibile». Una data, tuttavia, non è stata fissata. E in questi dettagli si nasconde come sempre “il diavolo”.
Di fatto, Ungheria, Cechia e Slovacchia sono state “convinte” ad accettare il compromesso con la garanzia scritta che l’esenzione sarà di lungo periodo. Anzi, che nel caso di ritorsioni russe (che potrebbero riguardare anche loro) saranno “assistite” con forniture dagli altri partner europei. Non a caso i più esperti, come in questo caso Draghi, hanno espresso preoccupazione per le “distorsioni del mercato energetico all’interno dell’Unione”.
Naturalmente, visto che comunque ci sarà una riduzione delle importazioni europee di petrolio dalla Russia, il prezzo del greggio sul mercato è tornato immediatamente sui massimi. Complimenti agli intelligentoni!
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Cina, patto per il Pacifico
Wang porta con sé una proposta di accordo di ampio respiro che dovrebbe coinvolgere una decina di paesi (Salomone, Kiribati, Samoa, Figi, Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea, Isole Cook, Niue e Stati Federati di Micronesia). La colonna portante del progetto cinese è un accordo di libero scambio in quest’area, ma particolare attenzione viene data, soprattutto da media e governi occidentali, anche alla questione della sicurezza. Secondo una bozza dell’intesa analizzata dalla Associated Press, Pechino vorrebbe creare tra l’altro un programma di addestramento delle forze di polizia dei vari paesi del pacifico ed espandere la cooperazione sempre sul tema della sicurezza interna.
Se confermata, questa intenzione dimostra anche come la Cina abbia appreso la lezione dei fatti del recente passato in vari paesi del Pacifico, dove disordini interni sono stati in più di un’occasione sfruttati dalle potenze regionali, a cominciare dall’Australia, per organizzare interventi diretti volti a destabilizzare governi e orientarne le rispettive scelte di politica estera. La collaborazione tra Pechino e questi paesi dovrebbe ad ogni modo toccare anche altri ambiti, come ad esempio la pesca, la costruzione delle nuove reti internet, la cultura, l’educazione e gli investimenti in genere.
La trasferta di dieci giorni del ministro degli Esteri cinese ha dunque moltiplicato i timori degli Stati Uniti e dell’Australia per una possibile ridefinizione delle priorità strategiche delle isole-nazioni del Pacifico. La già ricordata vicenda delle Salomone aveva spinto i leader americani e australiani a muoversi per adottare contromisure che, tuttavia, si sono limitate finora a poco più di minacce di invasione se questo paese dovesse concedere una base militare permanente alla Cina. Una feroce polemica era esplosa appunto nei mesi scorsi con la notizia della firma di un accordo sulla “sicurezza” tra Pechino e le isole Salomone, anche se entrambi i paesi continuano a smentire che esso preveda una presenza militare cinese fissa.
La complicazione numero uno per Washington, come ha spiegato l’ex ispettore ONU ed ex membro dell’intelligence USA Scott Ritter in un’analisi pubblicata dalla testata ufficiale cinese Global Times, è il tentativo cinese di “boicottare la strategia americana e australiana in fase di sviluppo per contenere l’espansione di Pechino nel Mar Cinese Meridionale”. Questa strategia, prosegue Ritter, “si basa su una maggiore presenza USA in Asia orientale grazie all’utilizzo di basi esistenti” nella regione, così appunto da rafforzare l’impronta militare in paesi come Australia, Papua Nuova Guinea e Micronesia.
La sola notizia di una possibile “intrusione” militare cinese nelle isole Salomone o altrove rischia di mettere a repentaglio questa strategia e gli ultimi sviluppi hanno così mandato in crisi l’amministrazione Biden e l’Australia, guidata da pochi giorni da un nuovo governo a maggioranza laburista. A parte le già ricordate minacce rivolte alla leadership delle Salomone, Washington e Canberra stanno cercando di avviare alcuni progetti di contrasto all’espansione cinese.
Il neo-premier australiano, Anthony Albanese, ha ipotizzato un progetto di addestramento militare in grado di coinvolgere i paesi dell’area del Pacifico meridionale con l’obiettivo di contrastare qualsiasi dispiegamento di forze cinesi. Lo stesso “Quad” è a sua volta un meccanismo diretto interamente contro Pechino e la presenza in esso dell’Australia fa in modo che possa essere impiegato nell’area oggetto del viaggio in corso del ministro Wang. Da ultimo e forse con le maggiori ambizioni, l’amministrazione Biden sta cercando di coinvolgere anche alcuni paesi del Pacifico nella proposta di accordo economico-commerciale appena lanciato durante il vertice di Tokyo.
Questo soggetto è chiamato IPEF (“Indo-Pacific Economic Framework”) e dovrebbe rimediare al danno fatto da Trump con il ritiro dall’accordo di libero scambio trans-pacifico (TTP) negoziato in precedenza da Obama. Non solo, l’IPEF avrebbe come obiettivo teorico di competere con un altro accordo di questo genere, il cosiddetto RCEP (“Regional Comprehensive Economic Partnership”), promosso dalla Cina. La nuova proposta di Biden risulta però decisamente meno attraente sia rispetto al TTP sia al RCEP, soprattutto perché non prevede l’abbattimento delle tariffe doganali americane per le merci dei paesi membri e risulta perciò poco più di uno strumento per la promozione degli interessi USA in Asia orientale.
Ciononostante, la contromossa americana potrebbe quanto meno limitare l’ingresso di alcuni paesi nell’orbita economica cinese e, almeno secondo la Casa Bianca, proprio nei giorni scorsi anche un paese dell’area Pacifico – le Figi – avrebbe aderito all’IPEF. Da parte del governo delle Figi non ci sono state finora comunicazioni ufficiali in proposito. Anzi, domenica il ministro degli Esteri cinese è stato protagonista di un vertice cordiale con le massime autorità delle Figi, dove ha anche preso parte al summit del Forum delle Isole del Pacifico, che proprio qui ha il suo quartier generale.
Prima dell’arrivo di Wang, comunque, nelle Figi si era recata in visita la nuova responsabile della politica estera del governo australiano, Penny Wong, impegnata in un chiaro tentativo di dissuadere i leader dell’arcipelago dal sottoscrivere i piani cinesi. Prima dell’incontro con la Wong, il premier delle Figi, Frank Bainimarama, aveva dichiarato fermamente che il suo paese “non è il cortile di casa di nessuno”, esprimendo, nelle parole di un altro recente articolo del Global Times, l’opposizione ai tentativi occidentali di fare dei paesi del Pacifico “un mezzo per la strategia [di USA e Australia] di contenimento della Cina”.
Come in altre parti del pianeta dove si intersecano gli interessi degli Stati Uniti e della Cina, è molto difficile che anche nel Pacifico meridionale gli sforzi di Washington vadano a buon fine. Non c’è dubbio che le manovre di destabilizzazione e le minacce di intervento militare possano rallentare l’espansione di Pechino, ma sul piano economico o, ancor più, su quello dell’interesse dei singoli paesi del Pacifico le armi a disposizione degli USA appaiono ormai spuntate.
L’allineamento alle direttive americane implica oltretutto una collaborazione fortemente improntata all’elemento militare che, in caso di guerra con la Cina, metterebbe questi paesi in prima linea con conseguenze evidentemente rovinose. Il successo cinese, per quanto non a senso unico né privo di contraddizioni, dipende al contrario da un’offerta sul fronte economico, commerciale e degli investimenti che risulta tutto sommato vincente, innestandosi tanto più su realtà spesso duramente colpite dalla crisi di questi ultimi due anni.
Anche la stampa “mainstream” in Occidente è talvolta costretta ad ammettere i vantaggi che la presenza cinese porta con sé per questi paesi. Un articolo di domenica della Associated Press già nel titolo cita ad esempio i “benefici” che “molti” nelle isole Figi vedono nell’accordo promosso da Pechino nel Pacifico. Nei paesi coinvolti non c’è peraltro uniformità di vedute e i negoziati proseguiranno probabilmente ancora per qualche tempo. Il presidente degli Stati Federati di Micronesia, David Panuelo, ha fatto sapere di essere contrario all’iniziativa cinese, poiché “aumenterebbe senza ragione le tensioni geopolitiche e minaccerebbe la stabilità della regione”. Nella migliore delle ipotesi, a suo dire, provocherebbe “una nuova Guerra Fredda” e nella peggiore “una guerra mondiale”.
I rischi sono evidentemente presenti, ma, al di là della inevitabile difesa degli interessi strategici e probabilmente anche militari insita nei progetti di Pechino, l’elemento destabilizzante è rappresentato non da questi ultimi quanto dalla risposta degli Stati Uniti e dai loro alleati. Non solo, le reazioni isteriche alle nuove circostanze nel Pacifico si scontrano con la presunta difesa del principio di sovranità e della libera scelta di ogni paese di aderire a organismi internazionali o di stipulare alleanze con chiunque. Ciò che vale insomma per l’Ucraina non vale per le Salomone, per le Figi o per altri paesi ritenuti cruciali per la difesa di ciò che resta dell’egemonia globale USA.
Che le regole, anche in questo caso, intendano farle solo gli Stati Uniti se ne è avuta un’altra prova alla vigilia della partenza del ministro cinese Wang per il sud del Pacifico. In una conferenza stampa tenuta giovedì scorso, il segretario di Stato Anthony Blinken è tornato a formulare il concetto-chiave della politica estera americana, cioè che la Cina rappresenta la principale “minaccia a lungo termine” per il suo paese, più ancora della Russia. La Cina, ha spiegato Blinken, “è l’unico paese con la volontà e, sempre più, la forza economica, diplomatica, militare e tecnologica per ridisegnare l’ordine internazionale”. Se dovesse prevalere nella competizione in atto, quindi, “la visione di Pechino ci allontanerebbe dai valori universali alla base dei progressi del pianeta negli ultimi 75 anni”.
Per “valori universali” si deve intendere gli interessi USA e del capitalismo americano, costantemente erosi dalle tendenze multipolari in atto da anni e principalmente sotto la spinta dei piani di sviluppi promossi dalla Cina. Al di là delle minacce e degli appelli a valori democratici ormai totalmente svuotati da decenni di crimini e soprusi commessi proprio dagli Stati Uniti, la nuova realtà indica che il modello americano non solo dispone sempre meno di risorse per contrastare la crescita di potenze rivali, ma che esso, come dimostra il caso del Pacifico meridionale, trova anche ormai uno scarso appeal tra gli stessi paesi finora considerati come alleati o partner indiscussi di Washington.
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In Germania – e in Europa – ormai corre solo l’inflazione
Un modello proposto obbligatoriamente a tutta l’Unione Europea, tramite la scrittura di Trattati che prevedevano l’austerità come regola per tutti. E soprattutto per i concorrenti interni...
La crisi non sta tanto nel fatto che quel modello non poteva essere eterno, quanto nel venir meno improvviso delle basi su cui si fondava. La pandemia prima e la guerra ora, più seccamente, hanno sciolto come neve al sole relazioni e abitudini che sembravano forgiate nell’acciaio.
Oggi l’istituto centrale di statistica, Destatis, ha reso noto che i prezzi nel paese corrono a una velocità superiore a qualsiasi pessimistica previsione: una variazione mensile dello 0,9% e un’accelerazione al 7,9% annuo (ad aprile era al 7,4%). Le attese erano per un +0,5% mensile e +7,5% annuo. Il dato armonizzato mostra una crescita dell’1,1% mensile e dell’8,7% annuo.
Numeri che non si vedevano dalla prima crisi petrolifera, quella del 1973. Ed anche in questo caso sono proprio i prezzi dell’energia (gas e petrolio) a trainare tutti gli altri, visto che – al pari del lavoro umano – questi entrano nella produzione di tutte le merci.
I prezzi dell’energia sono infatti aumentati del 38,3% annuo a maggio. Ed anche i prezzi dei generi alimentari sono aumentati sopra la media (+11,1%).
Non è finita. Anche altri componenti fondamentali – come i microprocessori – hanno subito rialzi a due cifre a causa dell’interruzione dei rifornimenti provenienti da parti remote del mondo, per via dei lockdown (in Cina) o altri problemi.
È una crisi di fatto della “globalizzazione”, che presupponeva mercati e forniture in tempo reale senza problemi e soprattutto senza limiti. Questo permetteva di abbattere molti costi (quelli di immagazzinamento, per esempio), nel mentre si spostava la dinamica salariale mondiale verso un “punto medio” che significava salari fermi o in recessione nei paesi avanzati e grandi aumenti in quelli di nuova industrializzazione.
Con la guerra, soprattutto, questo schema e la relativa logistica saltano completamente. Il punto critico più evidente sta nelle forniture energetiche. Gas e petrolio russi arrivano “via tubo”, dunque a costi inferiori e tempi rapidi rispetto ai rifornimenti via nave. Rinunciarvi, come sarebbe obbligatorio secondo le sanzioni emesse da Nato e Ue, significa azzoppare una crescita che era già anemica (nemmeno pareggiate le perdite dei due anni di pandemia, sperando che non si ripresenti aggressiva in autunno).
Ma cambiare tutta la catena dei fornitori richiede tempo e nuove infrastrutture (rigassificatori, per esempio). Il che mette in forse gli ambiziosi obiettivi di “neutralità climatica” da raggiungere entro il 2045, abbandonando il carbone nel 2030 e il nucleare già da quest’anno.
Con molto ottimismo esibito, Olaf Schoz era andato a fine aprile in Giappone per vedere come agganciarsi alla ricerca sull’idrogeno. «L’idrogeno è il nuovo gas», ha esordito incontrando il suo omologo, il primo ministro giapponese Fumio Kishida, a conclusione di una visita a fine aprile.
Aveva infatti visitato la Chiyoda corporation a Yokohama, che ha ideato una tecnica per trasportare l’idrogeno attraverso gli oceani. Ma per ora anche il Giappone importa idrogeno “marrone” dall’Australia, congelato a meno 253 gradi (ovviamente con grande dispendio energetico).
Ma l’idrogeno “verde”, “blu” o “grigio” è ancora un miraggio. Impossibile, insomma, sostituire il gas anche per percentuali minime. Siamo alla fase degli esperimenti, non della produzione massiva.
Anche perché l’infrastruttura per questi altri tipi di fonti energetiche è al momento inesistente. L’idrogeno verde liquefatto è dunque al palo.
Ma del resto la Germania – al pari dell’Italia e altri paesi dipendenti dai “tubi” – non ha neppure i gasdotti necessari per il gas naturale liquefatto (GNL).
Ultima notazione negativa. I capitali finanziari in cerca di rapida valorizzazione hanno da tempo iniziato a migrare dalle borse alle materie prime. Anche a prescindere dunque dalle dinamiche , e dalle relative “recinzioni economiche” tra diversi blocchi, la crescita dei prezzi energetici è un dato di fatto che nessuna iniziativa delle banche centrali (aumenti dei tassi di interesse) potrà minimamente bloccare. A meno di imporre un improvviso e lungo “inverno produttivo”.
Cosa che, insieme ai bassi salari mangiati da un’inflazione crescente e incontrollabile, mette in discussione la “coesione sociale” dei paesi dell’Occidente neoliberista. Perché se la Germania è la locomotiva, tutti i vagoni sono destinati a seguirla.
Forse non è il caso di lamentarsene, ma di attrezzarsi per la lotta in queste altre condizioni...
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Potere e Contropotere nelle Filippine. I brogli nelle elezioni presidenziali
Quindi, non solo alle elezioni non possono partecipare candidati del partito comunista ma tutti i candidati vicini ai ceti popolari vengono boicottati o minacciati, con l’accusa di essere simpatizzanti di una organizzazione terroristica.
D’altra parte, è assurdo considerare terrorista un movimento che si batte nelle campagne, anche con le armi, a fianco dei contadini e degli indigeni contro tutte le multinazionali che li cacciano dai loro campi e dalle loro terre ancestrali; in particolare, contro le multinazionali agricole, che sostituiscono i prodotti destinati al consumo locale con quelli destinati all’esportazione (piantagioni di ananas, banane ecc.); contro le multinazionali minerarie, che inquinano l’ambiente e distruggono le risorse di vita; contro i latifondisti, che impediscono la riforma agraria e difendono un sistema semi feudale; contro un regime fascista, che terrorizza e bombarda contadini, indigeni e minoranze mussulmane.
Nemici di questo movimento sono anche gli imperialisti americani, che hanno fatto delle Filippine una loro colonia dalla fine della seconda guerra mondiale e che tuttora le occupano con basi militari, sulla base di “trattati ineguali”. Queste basi sono sia in funzione anticinese, sia per appoggiare la repressione delle truppe governative, là dove i contadini o gli indigeni si ribellano ai progetti delle multinazionali o al potere dei latifondisti.
Un vero contropotere si costituisce nelle campagne, fino ad avvolgere le città. Anche nelle città nascono lotte organizzate, come ad esempio quelle dei conducenti di jeepney. Quando la vita degli attivisti è messa a rischio essi trovano rifugio nelle campagne.
L’articolarsi di questo contropotere riveste una importanza fondamentale e richiede un primo approccio a parte.
Con questo contropotere vari governi filippini tendenzialmente più democratici hanno intavolato negoziati di pace. Il parlamento dell’Unione Europea, a testimonianza di un orientamento politico all’epoca ben diverso, aveva approvato nel 1997 e nel 1999 due risoluzioni in cui promuoveva lo svolgimento di colloqui di pace fra il governo filippino ed il National Democratic Front of the Philippines (l’insieme delle 18 organizzazioni democratiche guidate dal Partito Comunista, di cui fa parte anche il Nuovo Esercito del Popolo).
Il governo di Oslo aveva patrocinato varie sessioni di questi colloqui. L’ultima si tenne a Roma, nel gennaio 2017, ma fu interrotta per volontà di Duterte, che si era illuso di porre fine con le armi all'insurrezione comunista entro la fine del suo mandato. Il Partito Comunista ed il Nuovo Esercito del Popolo furono dichiarati organizzazioni terroristiche, contro cui ogni metodo di lotta era lecito. Così fece pure l'Unione Europea.
Ora, di fronte ad un attacco sempre più duro, che unisce il dittatore uscente Duterte con quello entrante Marcos Jr., i compagni filippini hanno costituito l’associazione internazionale Amici del Popolo Filippino in Lotta / Amici del Fronte Democratico Nazionale delle Filippine (FRIENDS OF THE FILIPINO PEOPLE IN STRUGGLE / FRIENDS OF THE NDFP), con lo scopo generale di sostenere, nel mondo, la lotta per la realizzazione del programma del NDFP e quello immediato di far cadere la dittatura e di ottenere la cancellazione del Partito Comunista Filippino e del Nuovo Esercito del Popolo dalla lista delle organizzazioni terroristiche.
Il potere delle “grandi famiglie”
Le elezioni nelle Filippine hanno avuto sempre esiti molto discutibili. In quelle del 1986 si scontrarono Ferdinand Marcos Senior, presidente in carica, e Corazon Aquino. Cory Aquino, proveniente da una ricca famiglia di agrari, era la moglie di Benigno Aquino Jr., di idee socialisteggianti, imprigionato sotto l’amministrazione di Ferdinand Marcos Senior, poi esiliato ed assassinato da agenti militari al suo ritorno in patria.
Gli evidenti brogli della amministrazione Marcos provocarono la rivolta popolare, cui man mano si affiancarono personalità importanti della chiesa (la chiamarono “la rivoluzione del rosario”) e una parte determinante delle forze armate.
Dopo la rivoluzione del 1986, gli Stati Uniti organizzarono la fuga di Marcos e della sua famiglia verso le Hawai, portando con sé quanto potevano delle ricchezze accumulate.
Ma i Marcos non si rassegnarono a perdere il loro potere nelle Filippine.
Rincominciarono conquistando, grazie ai grandi fondi a loro disposizione, il potere politico locale a Ilocos Norte e Leyte. Poi si candidarono e conquistarono seggi nel Congresso e ristabilirono legami politici finanziari con la grande borghesia compradora e le banche straniere. La loro marcia verso il potere è stata favorita dai regimi reazionari che si sono succeduti dal 1988 e che, su pressione degli USA, hanno avuto l’obiettivo di appianare i conflitti per il potere fra le grandi famiglie.
Il piano dei Marcos per tornare alla presidenza è stato favorito negli ultimi sei anni dal presidente uscente, Rodrigo Duterte, che ha autorizzato una sepoltura da eroe per Marcos Sr., ha ripetutamente elogiato il suo governo dittatoriale, ha affermato che i Marcos non hanno ricchezze illecite e infine ha fatto di tutto per truccare le elezioni.
Così, le famiglie dei Marcos e dei Duterte intrecciano le loro fortune. Non solo Duterte considera un eroe il dittatore Ferdinand Marcos Sr., ma farà in modo che le ricchezze che egli aveva rubato al popolo filippino, ora in parte sequestrate, vengano completamente consegnate alla sua famiglia. In compenso Ferdinand Marcos Jr. farà in modo che Rodrigo Duterte sfugga alla condanna della Corte Penale Internazionale per le 14.000 persone uccise durante il suo mandato.
I brogli nelle elezioni presidenziali del 9 maggio sono andati molto oltre quanto già si temeva.
Essi sono stati determinanti per assegnare la presidenza a Ferdinand Marcos Junior. Dati parziali, ma relativi al 98,38% dei seggi, gli assegnano il 58,74% dei voti. Marcos si presentava con il Partito Federale delle Filippine, anche se in realtà nelle Filippine non contano i partiti ma le famiglie.
Leni Robredo, avvocatessa per i diritti umani, si presentava come indipendente per raccogliere i voti di tutta l’opposizione democratica. Era stata accusata di avere il sostegno anche dei comunisti, di voler fare la pace con il National Democratic Front of the Philippines, di cui fa parte il partito comunista, e addirittura di voler fare un governo con loro. Lei, che era la vera antagonista di Marcos, avrebbe ottenuto solo il 27,99% dei voti.
Nelle Filippine le elezioni per la presidenza sono distinte da quelle per la vice presidenza. Può così accadere che presidente e vice presidente provengano da partiti in contrasto e si trovino su posizioni opposte. È quanto è accaduto nelle precedenti elezioni, vinte da Rodrigo Duterte, come presidente, e da Leni Robredo, come vice presidente. Lo scontro fra i due è stato netto, soprattutto quando Leni Robredo ha voluto indagare sulla sanguinaria “lotta contro la droga”.
Duterte è incriminato davanti alla Corte Penale Internazionale per aver provocato le esecuzioni sommarie di più di 14.000 filippini, con il paravento della lotta contro la droga, la guerriglia comunista ed il terrorismo islamico. Temendo per la propria sorte, Duterte la ha privata di ogni incarico.
Così non sarà per Sara Duterte, figlia di Rodrigo Duterte, che correva in tandem con Marcos Jr. ed avrebbe ottenuto il 61,29% dei voti, davanti a Francis Pangilinan cui viene assegnato il 17,93%.
La Duterte è una donna autoritaria, che ha governato Davao City, di cui era sindaca, con il potere dell’esercito e della polizia.
Tornando alla sfida principale Marcos – Robredo, ai Filippini appare evidente il contrasto fra la presenza di milioni di persone nelle piazze che acclamavano la Robredo e la piccola percentuale elettorale che le viene assegnata.
Da febbraio, una Missione Internazionale di Osservazione (OIM) della International Coalition for Human Rights in the Philippines (ICHRP) raccoglie documentazione sulla gestione antidemocratica delle elezioni. I risultati di queste indagini sono stati pubblicati nel Rapporto intermedio dell’OIM, scaricabile dal sito delle ICHRP.
La campagna è stata condotta, grazie alle enormi disponibilità finanziarie della famiglia Marcos, da grandi agenzie di pubbliche relazioni che hanno gestito campagne mediatiche e troll farm sui social media, scatenando potenti attacchi informatici contro gli oppositori.
Inoltre, il governo ha dispiegato tutta la forza del suo controllo sull’apparato dello Stato.
Il sistema di conteggio automatico dei voti è stato manipolato dalla Comeelec (la Commissione Elettorale designata da Rodrigo Duterte), con la programmazione delle macchine Smartmatic per conteggio dei voti.
Le forze armate e la polizia sono intervenute pesantemente con il pretesto della “contro-insurrezione”, facendo campagna elettorale attiva, specie nelle zone rurali, essendo presenti nei seggi, intimidendo gli elettori, impedendone il voto o falsificandolo.
La NTF – ELCAC (National Task Force per porre fine al conflitto armato comunista nelle Filippine), ampiamente sovvenzionata dal governo, ha fatto un uso generalizzato del red tagging, “etichettatura rossa”, vere liste di proscrizione legalizzata, che colpiscono tutti i democratici, accusati di essere simpatizzanti dei comunisti. Gli attivisti ed i candidati colpiti dal red tagging diventano vittime di ogni abuso e molti di loro sono stati uccisi.
Per dare un’idea del clima politico nelle Filippine, gli osservatori dell’OIM riferiscono che la NTF – ELCAC ha qualificato il sindaco di Baguio come simpatizzante dei comunisti per il suo divieto di affissione dei cartelli rossi (le liste dei presunti simpatizzanti per i comunisti), “in diretta violazione degli ordini del presidente Duterte”.
Attualmente, per la proclamazione di Marcos Jr. a presidente, si aspetta il verdetto della Corte Suprema di fronte ad un ricorso presentato da un gruppo di vittime della legge marziale durante la dittatura di Ferdinand Marcos Sr.. Tale appello si basa sulla non eleggibilità di Marcos Jr. per aver nascosto condanne che comportavano l’esclusione dai pubblici uffici.
Contro questa proclamazione si sono attivati i democratici filippini, in patria e nel mondo.
In Italia, a Roma, domenica 22 maggio il Comitato di Amicizia Italo Filippino ha indetto una manifestazione a piazza della Repubblica, cui per la prima volta hanno aderito, oltre alle organizzazioni filippine, molte organizzazioni politiche italiane. Tutti i compagni hanno partecipato con al polso un nastro rosa, simbolo di Leni Robredo. Questo vuol dire che tutta l’opposizione democratica, compresi i comunisti, ritiene che la presidenza della Repubblica spetti a questa avvocatessa dei diritti umani.
Alla manifestazione hanno aderito:
Umangat Migrante, Gabriela, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Rete dei Comunisti, OSA – organizzazione studentesca di alternativa, CAMBIARE ROTTA – Organizzazione giovanile comunista, Immigrati in Italia (International Migranti Alliance), JVP SRI LANKA Comitato in Italia, Cred Centro Ricerca e Documentazione per la Democrazia.
L’unione di queste forze consentirà, in Italia, di dare adeguato sostegno alla lotta dei compagni filippini.
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Niente di nuovo dal fronte occidentale
Hanno scelto di tornare indietro nella storia, vedono altri paesi che invece, chi con fatica, chi con intelligenza, progrediscono verso assetti socio economici improntati alla modernità. La stessa Russia, solo dopo la guerra, ha deciso questa linea e si indirizza verso Est e verso quei 150 paesi che non hanno votato le sanzioni.
L’Occidente si arrocca per non perdere il suo privilegio di classe, fatta di deflazione salariale, di mercantilismo e di armamenti, che ha portato una classe minoritaria a godere di grandi ricchezze e grandi privilegi.
La traduzione “politica” di questa scelta è frutto dei rapporti di classe instaurati negli ultimi 50 anni, fatti in modo che la classe lavoratrice non rialzi la testa, non permettendogli alcuna minima rivendicazione.
Un ritorno ad assetti feudali dove vige anche la servitù, locale, indigena o straniera. Un suicidio collettivo che porta l’Occidente a declinare sempre più.
Solo il progresso, organico, di tutte le classi, permette l’accumulazione capitalistica, e non già la sola tecnologia, e ciò implica istruzione di massa a tutti i livelli, salario sociale e plusvalore relativo.
Quando i politici dicono di non allontanarsi dall’Occidente, in questo caso la Meloni con Salvini, vogliono proprio dire questo: manteniamo assetti di dominio feudali, altrimenti gente come noi non ha senso ed è finita. Tutta la classe dominante si aggrappa a questo contesto come nella corte di Versailles.
La classe lavoratrice, nella storia, visto questi assetti, deve conoscere la fame per organizzarsi, altrimenti, come negli ultimi decenni, è letargia. Fame che coinvolge ormai, tantissima gente, come ho riportano ieri nel racconto del Dottor Armenante.
Il livello di povertà estrema, di disperazione è massimo proprio nel centro nevralgico del sistema occidentale, gli Usa, dove vi è una sottile guerra civile, fatta di sparatorie, eroina, alcol, emarginazione, senza fissa dimora.
Questo modello lo si vuole portare anche da noi, ma gli italiani sono fan della Ferragni e magari vengono dall’emarginazione dell’estrema periferia. Niente di nuovo dal fronte occidentale.
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30/05/2022
Alzare l’embargo e darselo sui piedi
I problemi sono numerosi, tutti interconnessi e ognuno irrisolvibile da solo.
La “pensata” sull’esenzione per Ungheria, Cechia e Slovacchia – che dipendono pressoché totalmente dall’oleodotto Druzhba (”amicizia”, appunto) – sembrava una soluzione che poteva mettere d’accordo gli anti-russi più vicini agli Usa (Polonia, baltici, ecc.) e i “tiepidi” che stanno misurando l’idiozia economica di misure che danneggiano soprattutto l’Europa senza peraltro toccare più di tanto la Russia.
La battuta attribuita a Ursula von der Leyen – presidente della Commissione – è illuminante nella sua contorsione: “Dobbiamo continuare ad acquistare petrolio russo per evitare che la Russia possa venderlo ad altri, i quali a loro volta lo rivenderebbero a noi a prezzi superiori“.
Il “mercato”, infatti, è tutt’altro che il luogo dei buoni sentimenti e dei “valori”. Da un lato ci sono i fornitori che ovviamente vedono con favore ogni occasione per aumentare i prezzi (anche rifornendosi a loro volta dalla Russia), da quest’altro ci sono i paesi europei che sarebbero stati obbligati comunque a fare meno del petrolio di Mosca (Italia, Francia, Spagna, Grecia, ecc.), e che naturalmente indicano la “distorsione del mercato” che si creerebbe facendo eccezioni per Orbàn ed altri. Finirebbero infatti per pagare di più all’interno di una “comunità” teoricamente “unita e compatta”.
In secondo luogo, questa distorsione arriverebbe nel pieno del tentativo – guidato apparentemente da Mario Draghi – di individuare un meccanismo per mettere un limite al rialzo dei prezzi dei beni energetici. Almeno per quanto riguarda i paesi dell’Unione Europea.
Meccanismo che molti vorrebbero rafforzare imponendo una separazione tra dinamica dei prezzi del gas e prezzi dell’energia elettrica. Cosa abbastanza complicata da definire tecnicamente, visto che alcuni paesi producono elettricità sfruttando soprattutto le centrali nucleari (la Francia, in primo luogo), mentre altri usano in primo luogo il gas (l’Italia, of course) e altri ancora diversi mix che comprendono persino il carbone.
Un quadro così complicato e differenziato negli interessi da far dire al vice cancelliere tedesco Robert Habeck che “Dopo l’attacco della Russia all’Ucraina, abbiamo visto cosa può succedere quando l’Europa è unita“, ma sulle sanzioni quest’unità “si sta sgretolando“. Un avvertimento, certo, per far riflettere bene i 27 partner, ma anche una fotografia dei rischi a breve termine.
Anche perché, nelle stesse ore, l’agognata fine del lockdown a Shanghai – richiesta da tutto il mondo, nelle scorse settimane, per i componenti che dovevano arrivare dalle industrie locali – ha fatto immediatamente impennare la richiesta di petrolio e dunque anche i prezzi.
Alle ore 8 di stamattina, il greggio di qualità Brent scambiava a 116 dollari al barile con un rialzo dello 0,74%, dopo aver toccato un picco di 120 dollari al barile. La quotazione della qualità WTI, a sua volta, mostrava un +0,83% a 116 dollari al barile.
Queste dinamiche del mercato comportano naturalmente una spinta alla crescita dell’inflazione. E le banche centrali principali (Federal Reserve, Bce, Banca di Inghilterra) si scoprono fattualmente impotenti di fronte a questo scenario, che arriva dopo oltre un decennio di “iniezioni di liquidità” nei mercati.
Se infatti agiscono come previsto dai manuali di neoliberismo – aumentando i tassi di interesse – è assolutamente certo che innescheranno una profonda recessione nelle economie occidentali, facendo chiudere molte aziende e provocando uno choc occupazionale. Mentre quelle asiatiche – più concentrate da decenni sull’economia reale – non soffrirebbero particolarmente della stessa malattia.
Ma c’è di peggio. L’aumento dei tassi non avrebbe probabilmente alcun effetto sulla stessa dinamica dell’inflazione, visto che l’oceano di liquidità finanziaria immessa nei “mercati”, da oltre un anno sta lasciando i tradizionali investimenti (la Borsa) per concentrarsi sull’immobiliare e le materie prime. Ossia sui beni “fisici”, non di carta.
Ossia proprio in quei settori che alimentano l’inflazione, indifferenti alle scelte di politica monetaria.
Insomma, l’Occidente dimostra di essere reazionario alzando l’embargo per poi darselo pesantemente sui piedi (a voler essere gentili...).
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Guerra in Ucraina - Lavrov chiarisce la strategia russa. La Ue in crisi sull’embargo petrolifero
“Per quanto riguarda gli altri territori dell’Ucraina interessati dall’operazione militare, gli abitanti di queste regioni dovrebbero decidere autonomamente il loro futuro”. “Ci sono persone che muoiono, ma se l’operazione militare in Ucraina è così lunga è perchè l’esercito russo ha ricevuto l’ordine di evitare a qualsiasi costo attacchi contro infrastrutture civili” ha affermato Lavrov, aggiungendo che la Russia non rifiuta la possibilità di riprendere il dialogo con l’Unione europea, ma le intenzioni di Bruxelles saranno giudicate dalle azioni concrete. “Non vogliamo dire che la strada per la ripresa del dialogo sia interrotta. Ma giudicheremo le intenzioni europee solo dai fatti pratici. Abbiamo imparato una lezione seria. In questo senso la situazione è cambiata rispetto alla fine della Guerra Fredda”, ha sottolineato Lavrov.
Il fronte militare
La situazione sul campo vede le forze russe avanzare verso il centro di Severodonetsk, nella regione di Luhansk. Il quadro viene confermato questa mattina dal governatore regionale ucraino di Luhansk, Serhiy Haidai, sul proprio canale Telegram. “Il nemico ha usato tutte le armi possibili, usa gli aerei. Tuttavia, il nostro esercito si sta difendendo fermamente per impedire al nemico di entrare nella città”, ha sottolineato il governatore.
In un videomessaggio diffuso ieri sera, il presidente ucraino Zelensky, ha dichiarato che “la leadership ucraina sta facendo di tutto per contenere l’offensiva delle truppe russe e il loro tentativo di occupare Severodonetsk, nella regione di Luhansk. A seguito degli attacchi russi a Severodonetsk, l’intera infrastruttura critica della città è stata distrutta. Il 90 per cento degli edifici è stato danneggiato. Più di due terzi del patrimonio immobiliare sono stati distrutti. Non ci sono comunicazioni”, ha affermato Zelensky.
Sempre secondo fonti ucraine l’esercito russo prosegue le operazioni offensive nella zona operativa orientale. Nella direzione di Donetsk, le truppe russe stanno concentrando i loro sforzi principali sulla conduzione di operazioni offensive per isolare le forze ucraine nelle aree di Lysychansk e Severodonetsk e bloccare le principali linee logistiche. L’esercito russo sta inoltre raggruppando le proprie truppe per riprendere l’offensiva nelle direzioni di Izyum-Barvenkovo e Izyum-Slavyansk.
A sud invece le truppe ucraine hanno tentato per due volte, ma senza successo, di riconquistare la regione di Kherson. Secondo il vicegovernatore regionale, Kirill Stremousov, negli ultimi giorni “le truppe ucraine hanno tentato due volte di sfondare la linea di difesa nella regione di Kherson vicino al villaggio di Davydov Brod, ma sono state sconfitte e hanno subito perdite molto pesanti. Hanno cercato di sfondare e impossessarsi della testa di ponte e tagliare i collegamenti con le regioni di Kherson e Zaporizhzhia”.
Zelenski a Kharkiv. Missili russi sulla città. Rimosso il capo militare
Zelensky, ieri ha visitato le sue truppe a Kharkiv ma poco dopo la sua partenza c’è un stato lancio di missili russi sulla città. Lo stesso Zelenski ha annunciato su Telegram di aver rimosso il capo della sicurezza per la regione di Kharkiv, Roman Dudin. Il motivo, ha precisato il leader ucraino, è che Dudin non si è impegnato “per la difesa della città”.
Una forte esplosione è stata invece segnalata nel centro di Melitopol, ormai sotto controllo russo, nella regione di Zaporizhzhia, provocando dei feriti. Probabilmente si è trattato di una autobomba. Secondo Vladimir Rogov, membro dell’amministrazione regionale, l’esplosione è stata un attacco terroristico, del quale “il regime di Kiev” è responsabile, senza tuttavia precisare il numero dei feriti o delle eventuali vittime.
Sulle sanzioni petrolifere nessun accordo dentro la Ue
Intanto non si registra alcun accordo nella Ue relativamente all’embargo sul petrolio russo. L’Ungheria ha mantenuto il suo veto nonostante la proposta di esenzione dall’embargo del greggio proveniente da oleodotto. E’ quanto si apprende da fonti diplomatiche a Bruxelles. Gli ambasciatori dei 27 paesi aderenti alla Ue torneranno a riunirsi questa mattina prima del Consiglio europeo ma un’intesa al momento appare improbabile. La stessa Von der Leyen nella giornata di ieri ha rilasciato una dichiarazione che ha mandato molti in confusione affermando che è meglio continuare ad acquistare il petrolio dalla Russia piuttosto che acquistarlo successivamente ad un prezzo più alto da paesi che lo acquistano dalla Russia.
La Commissione ha proposto lo stop alle importazioni via mare da fine anno e un’esenzione temporanea per l’oleodotto che rifornisce l’Ungheria. “Penso che alla fine ci sarà un accordo sul divieto di acquisto di petrolio russo. Bisognerà tenere in considerazione le condizioni di ogni Paese, ci vuole l’unanimità. Quindi ci sono state delle trattative ieri e ci saranno di nuovo questa mattina. Continueremo e lavorare e penso che nel pomeriggio potremo offrire ai capi di Stato e di Governo un accordo” ha dichiarato l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, Josep Borrell.
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Erdoğan, la variabile impazzita
Il dialogo affronta il complesso argomento del peso geopolitico ed economico della Turchia, nonché delle sue capacità militari.
Vale la pena condividere questo articolo con i lettori poiché tocca delle tematiche che all’interno di In Donbass non si passa sono assenti, ma che in una certa misura completano alcune analisi del volume.
La situazione internazionale si evolve rapidamente e va tenuto conto che questi pensieri (esposti e raccolti imparzialmente) risalgono a diversi giorni fa, tuttavia essi non perdono di importanza e anzi potrebbero ancora offrirci degli elementi per qualche previsione su un prossimo futuro.
Grazie per il suo tempo Alberto. Nel marzo di quest’anno, nell’ambito di un incontro pubblico, ha parlato del governo di Ankara come di una contraddizione all’interno della Nato pronta a esplodere. La posizione che il presidente turco continua a tenere in queste ore nei confronti del possibile ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato le pare una prima conferma della sua previsione?
Mi sono occupato molto di Turchia, Erdoğan è una variabile impazzita che nessuno riesce a controllare. Prima di parlare di questo, però, occorre una precisazione utile per inquadrare meglio il discorso generale.
L’intervento russo in Ucraina come risultato politico concreto e immediato ha avuto quello di resuscitare la Nato. Se si fa mente locale su quella che era la situazione fino a qualche mese fa, la Nato sembrava sostanzialmente arrivata al capolinea, la Francia e altri paesi spingevano addirittura per la creazione di un esercito europeo. Con la questione ucraina tutto questo è stato accantonato.
Concentrandoci sul ruolo della Turchia all’interno della Nato dobbiamo sottolineare che è stata uno dei paesi più problematici per gli Stati Uniti da dover gestire; benché sia il secondo esercito dell’alleanza, quello turco è il meno affidabile per gli USA.
Questa mancanza di fiducia si è esternata con il tentativo di colpo di stato che Washington ha ordito ai danni di Erdoğan, da quel momento lo statista ha cercato ogni momento buono per “vendicarsi” e lo ha fatto con una politica altalenante rispetto alla sfera di influenza statunitense e quella russa (con cui condivide tanti interessi e tanti conflitti). Un interesse condiviso è la gestione dello Stretto dei Dardanelli e, sul terreno dei conflitti, quello in Siria.
Gli Stati Uniti hanno apprezzato molto il comportamento tenuto dai turchi in questa fase del conflitto tra Russia e Ucraina, cioè il fatto che è stato limitato il passaggio attraverso i Dardanelli di navi che potessero in qualche modo dare un contributo a Mosca. La Russia vede il Mar Nero essenzialmente come un lago, mentre altre forze – quelle della Nato – hanno potuto passare liberamente.
Credo che, proprio in ragione di questo comportamento conciliante, gli USA abbiano dato luce verde alla Turchia ad esempio per la repressione dei curdi, soprattutto nel nord dell’Iraq. Questo fatto è caduto nel silenzio generale, e a mio avviso grida vendetta.
In questo momento, però, ciò che reputo ancora più interessante è il ruolo di mediazione che sta cercando di avere la Turchia, che – ricordiamolo – è un partner strategico dell’Ucraina, sotto molti aspetti, ma sottolineerei soprattutto in campo militare.
D’altro canto la Turchia ha degli interessi geostrategici e militari pure con la Russia, per questo Ankara è uno dei candidati ritenuti adatti a fungere da mediatore. Avevano già organizzato un tavolo di trattative, ovviamente il proposito non è andato a buon fine perché mancava l’invitato principale, che è Biden; tuttavia è stato un primo tentativo di ricomposizione critica dell’attrito. In questa fase la Turchia è uno di quegli attori che sanno giocare da soli: sa imporsi in maniera significativa sullo scacchiere internazionale.
Però è da parecchio tempo che la Nato sembra aver lasciato carta bianca a Erdoğan, la posizione privilegiata in cui si trova la Turchia è la prova del “relativismo morale” (come ha scritto nel suo testo) dei governi (cosiddetti) occidentali. Va ricordato anche l’aiuto della Turchia agli azeri nella loro orrenda guerra contro la Repubblica dell’Artsakh nel Caucaso.
Guerra vinta – badiamo bene – grazie all’utilizzo dei droni; droni che avevano motori ucraini (che ora non vengono più forniti).
Un altro esempio di relativismo riguarda proprio il fatto che l’utilizzo dei droni da parte dell’esercito dell’Azerbaigian è considerato dagli “occidentali” come un’atrocità (e qui hanno ragione), ma se gli ucraini usano gli stessi droni, in condizioni analoghe, sono stimati semplicemente dei “grandi strateghi”. Restando sul tema della Turchia e degli armeni, alcuni comunisti italiani (forse mal informati) parrebbero aver rivalutato Atatürk (o lo ricordano positivamente), il quale oltre a essere stato un genocida ha tenuto anche una linea molto ambigua nei suoi rapporti con l’Unione Sovietica. Ha qualcosa da dire su questo “fenomeno”?
Io avrei qualcosa da dire su tanti comunisti italiani, che si innamorano perdutamente di personaggi che di rivoluzione e progresso nella loro biografia non hanno proprio niente.
La Cina esercita una crescente influenza sulla Turchia in termini economici (e questo ha un peso politico), crede che la bandiera stellata possa schiacciare finanziariamente la mezzaluna? L’espansionismo turco è una costruzione di cartapesta?
I dati macroeconomici parlano chiaro sulla capacità di industrializzazione del paese negli ultimi tempi; non parlo solo delle tecnologie d’avanguardia, dell’industria aeronautica, ma anche di altri settori come quello chimico, metalmeccanico, militare.
La Turchia ha fatto passi da gigante, ma ciò che è più interessante è il fatto che attualmente la compagnia di bandiera turca ha sostanzialmente divorato il mercato europeo, anche come tratte commerciali.
Questo come è stato possibile? Io credo che ciò sia avvenuto secondo un preciso piano, faccio un esempio: sono tornato dal Venezuela circa un mese fa e gli Stati Uniti hanno vietato alle compagnie europee di volare in quel paese ispanoamericano. Adesso, per volare in Venezuela, devi andare in Turchia e rivolgerti a Turkish Airline. E alla compagnia non viene rimproverato nulla.
A mio avviso è evidente che gli USA – come dicevo prima riguardo alla gestione dello Stretto dei Dardanelli – abbiano in qualche modo deciso di premiare la Turchia per un qualche servizio reso, e possiamo anche facilmente immaginare quali potrebbero essere questi favori. Il problema è che questi premi che vengono dati alla Turchia sono tutti a discapito dell’Europa.
Io non credo proprio che una presenza economica cinese possa in qualche modo schiacciare la crescita turca. Dalla Cina mi aspetterei un’altra mossa: è uno stato che ha la caratteristica di non avere nessun problema a finanziare qualsiasi soggetto si trovi su qualsiasi scacchiere.
Il caso più clamoroso – a mio avviso – è quello della guerra in Ucraina: la Cina detiene una quantità sterminata di territori arabili e, dato che buona parte dei cereali prodotti dall’Ucraina sono fermi alle frontiere e non riescono a partire, la Repubblica Popolare sta operando da entrambi i lati del fronte.
La vicinanza cinese alla Russia è arcinota, ma pure con l’Ucraina c’è una partnership importante. Tant’è che sono convinto che la Cina sarà il soggetto che potrà in qualche misura predisporre una sorta di piano Marshall, un piano di ricostruzione di entrambe le parti dell’Ucraina dopo la guerra.
Come vede il futuro della Turchia? Erdoğan continuerà a muoversi come un equilibrista, o si arriverà a uno scontro nel Caucaso?
Non credo che Erdoğan si lascerà condizionare dalle elezioni del 2023, secondo me può avere modo di muoversi ancor prima. In realtà il problema è più ampio: noi siamo già dentro alla Terza Guerra Mondiale, è inutile negarlo.
Già parecchi anni fa il Papa ha parlato di una “terza guerra mondiale a pezzi”, io sono pienamente d’accordo e ho il timore che molto rapidamente – a stretto giro – possano iniziare a ricomporsi questi “pezzetti”. In questo scenario è difficile fare previsioni su ciò che possa succedere nelle diverse regioni.
Al netto delle opposizioni che reprime ferocemente nel sangue, Erdoğan riesce ad allungare la sua ombra anche in paesi che sono suoi nemici.
Segnalo il recente caso riguardante la Grecia: undici rifugiati turchi sono stati arrestati entro i confini dello stato ellenico. Uno di questi oppositori era in possesso di una pistola, che usava per difesa personale, ma questi uomini non disponevano di altre armi, eppure la Grecia gli ha inflitto una pena che non è nemmeno prevista nel suo ordinamento (trent’anni a testa).
La Turchia continua ad avere una forza crescente, ma non è nemmeno detto che non si possa vanificare tutto all’improvviso con uno stravolgimento delle vicende belliche.
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La guerra in Ucraina riaccende le tensioni in Medio Oriente
Per quanto riguarda Tel Aviv, si sono intensificati, durante il mese di maggio, i raid aerei in territorio siriano che hanno preso di mira postazioni delle milizie filo-iraniane e presunti carichi di armi destinati ad Hezbollah.
L’intensificazione dei bombardamenti israeliani in Siria si verifica a seguito delle dure schermaglie diplomatiche con Mosca, presente, si ricorda, dal 2015 in Siria, su invito del governo siriano, con un proprio contingente di terra, la propria aviazione e la propria batteria anti-aerea.
Il pezzo più pregiato della contraerea, ovvero il sistema S-300, non era mai stato utilizzato contro le incursioni dei velivoli di Israele proprio in ossequio ai buoni rapporti fra i paesi.
Tuttavia, dopo un’iniziale tentativo di accreditarsi come mediatore terzo fra Russia e Ucraina, il Governo Bennet si è allineato a Washington e ha cominciato a rifornire l’esercito ucraino di armi difensive, provocando dure reazioni diplomatiche da parte di Mosca.
Ad esempio, durante le aggressioni ai danni dei fedeli musulmani alla Spianate delle Moschee da parte dell’esercito sionista, la Russia è giunta a richiamare l’ambasciatore israeliano a Mosca per consultazioni e, nelle dichiarazioni ufficiali, si è riscoperta “grande sostenitrice della causa palestinese”.
Tali schermaglie sono culminate, secondo fonti israeliane, con l’utilizzo per la prima volta del sistema S-300 contro un raid israeliano in Siria il 17 maggio. Nessuna dichiarazione ufficiale è stata rilasciata a riguardo.
In seguito, Israele ha insistito con un nuovo raid il 22 maggio nei confronti del quale non si sa di che qualità sia stata la risposta anti-aerea. Ha, tuttavia, procurato 5 vittime, fra cui un civile.
La fine dell’impunità israeliana nel colpire l’esercito siriano e le milizie filo-iraniane in Siria, tuttavia, potrebbe costituire un’importante novità. Un’indiretta conferma di tale risvolto è costituito dall’intensificarsi di viaggi aerei di velivoli cargo iraniani verso la Russia nelle ultime settimane.
Secondo i servizi segreti occidentali, essi sarebbero indice di una collaborazione militare fra le parti, in forza della quale l’Iran fornirebbe alla controparte materiale bellico elettronico e droni, tecnologie in cui Teheran primeggia, mentre si stanno rivelando un punto debole dell’esercito russo in Ucraina; in cambio, ovviamente, la Russia dovrebbe fornire maggiore protezione in Siria.
L’altro fronte rilevante è quello che potrebbe aprire la Turchia, per l’ennesima volta, nel nord della Siria: parlando al Consiglio dei Ministri, infatti, il Presidente Erdogan ha dichiarato: ”Presto intraprenderemo nuovi passi per quanto riguarda le parti incomplete del progetto che abbiamo avviato riguardo la zona sicura profonda 30 km da stabilire lungo il nostro confine meridionale”.
Si tratterebbe, in buona sostanza, di ricongiungere le aree in mano ai propri proxy salafiti nel nord-est e nel nord-ovest della Siria, sottratte attraverso diverse operazioni militari alle milizie curde Ypd-Ypj, allora appoggiate dagli USA.
Una simile operazione militare coinvolgerebbe anche l’esercito siriano, presente in alcuni territori di confine unitamente alle Ypg, secondo gli accordi scaturiti dalla precedente invasione turca dell’ottobre 2019, oltre alle truppe russe, impegnate in pattugliamenti congiunti proprio con l’esercito turco, e alle stesse truppe americane, le quali hanno stabilito diverse basi militari nelle aree in mano curda.
Anche in questo caso, dopo un iniziale tentativo di accreditarsi come mediatore terzo fra Russia ed Ucraina, la Turchia sta cercando di lucrare sui risvolti derivanti dal conflitto in est-Europa, mettendo sul tavolo delle trattative per dare il proprio assenso all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, proprio l’appoggio (per lo più strumentale, ma comunque reale) che alcuni paesi dell’Alleanza Atlantica e i due nuovi candidati danno alle milizie curde sullo scenario siriano o nel proprio territorio, dove offrono ospitalità ad alcuni esuli.
Ovviamente, in una fase in cui gli USA stanno cercando di ricompattare la NATO in funzione anti-russa e di utilizzare la stessa alleanza atlantica per alimentare il proprio progetto di minare l’autonomia strategica dell’Unione Europea, a Washington potrebbero esservi orecchie attente rispetto alle proposte di turche di abbandonare le milizie curde.
I precedenti costituiti dalle invasioni turche prima nell’area di Afrin e poi nei pressi di Kobane, in cui gli USA non svolsero alcun ruolo di deterrenze né diplomatica, né militare, vanno in tale direzione.
Allo stesso modo, anche la Finlandia e la Svezia potrebbero ritenere prioritaria la necessità di entrare nella NATO rispetto a continuare a proteggere alcuni esponenti della comunità curda.
Naturalmente, in caso di operazione militare turca, il grande coinvolgimento nel conflitto ucraino con tutta probabilità limiterebbe di molto anche l’attivismo russo nel cercare di contenere la Turchia o limitarne il raggio d’azione delle operazioni militari, come accaduto precedentemente.
Si tratta, dunque, di un’ennesima congiuntura politico-diplomatica favorevole in cui potrebbe inserirsi Ankara per alimentare le proprie ambizioni geopolitiche.
A fronte di ciò, da parte curda, apparentemente, ancora non è stato elaborato un piano, né sono state tessute relazioni politico/diplomatiche per preparare una via di uscita rispetto alla necessità di mantenere una stretta relazione con gli USA e, dopo aver perso l’area di Afrin nel 2018 e la striscia fra Tel Abyad e Ras al-Ayn nel 2019, perdere altri insediamenti importanti come Manjij e Kobane potrebbe costituire un colpo definitivo per il progetto politico del Rojava.
Oltre che per le popolazioni locali, che andrebbero a subire le politiche di colonizzazione a favore delle popolazioni arabo-sunnite perseguite dalla Turchia.
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Consigli non richiesti: Europa e FMI predicano austerità
La primavera dovrebbe portare una ventata di aria fresca, ma a leggere i giornali in questi giorni è sconcertante verificare come, dopo anni di austerità e miseria e nonostante pandemie e guerre, i guardiani dell’ortodossia continuino a riproporci le solite ricette.
Il 23 maggio la Commissione europea ha pubblicato i Country Reports, cioè le relazioni con cui la Commissione manifesta i risultati del proprio monitoraggio sulle condizioni economiche e sociali degli Stati membri, esprimendo una serie di consigli con cui di fatto prende avvio il processo di sorveglianza delle politiche di bilancio (ma non solo) degli Stati. Una sorveglianza che, nell’ambito del piano di ripresa post-pandemica, è legata a doppio filo all’erogazione dei fondi del programma Next Generation EU e, quindi, al PNRR. Come ha ricordato, infatti, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, in riferimento alle raccomandazioni specifiche per ciascun Paese, “finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno, ma ora le raccomandazioni sono legate a sussidi e potenziali prestiti” Ovviamente, ce n’è anche per l’Italia, e a leggerlo cascano le braccia.
Già in prima pagina, il report ci dice “chi siamo e da dove veniamo”, e forse è l’unica cosa per cui dobbiamo ringraziarlo perché con un semplice grafico ci ricorda, cancellando l’insopportabile retorica dei vari “migliori” che si sono succeduti, che dalla crisi finanziaria del 2008 non solo il divario con le altre economie europee è drammaticamente aumentato, ma addirittura la pandemia coglie l’Italia con un PIL reale inferiore ancora del 3% rispetto al livello pre-2008; il resto è storia recente: la caduta del PIL più importante in Europa durante il 2020, un “rimbalzo” che – a differenza di quanto accade negli altri paesi – è largamente insufficiente a recuperare il terreno perso, la linea del PIL che con la guerra torna a farsi orizzontale e a un livello sempre inferiore al 2008; insomma, 15 anni in cui abbiamo perso terreno non solo in senso relativo ma anche assoluto.
Quello che il report, guarda caso, si dimentica di dire è che in questi quindici anni – e in particolare dal 2011 fino all’inizio della pandemia – siamo stati fra gli alunni più diligenti nello svolgere i “compiti a casa” (leggi: applicare le misure di austerità con continui avanzi primari ed eliminare quel poco di misure sociali che restavano), applicando fedelmente i “consigli” che ci ritrovavamo nei report degli anni precedenti: insomma, una lettura che a voler essere onesti equivale a una bocciatura del “maestro”, e non dell’allievo.
Ma tant’è: il report dedicato all’Italia fa allegramente spallucce e ci ripropone la solita ricetta fatta di tagli, riforme e (unica novità) “aspettando il PNRR...”.
Continuando nella descrizione dell’esistente, gli estensori del report si rammaricano che – anche a causa delle misure non temporanee adottate negli ultimi due anni – il deficit pubblico continuerà a superare la magica soglia del 3%, rimpiangendo i bei tempi (per loro) del 2019, quando lo avevamo ridotto all’1,5% anche grazie a una serie impressionante di avanzi primari: eppure oggi sappiamo bene questo cosa ha significato durante la pandemia, ad esempio in termini di carenza di servizi, personale ospedaliero, posti letto oppure di classi pollaio e strutture fatiscenti (giusto per citare due settori fra i più colpiti).
Si continua con gli immancabili “squilibri macroeconomici eccessivi”. Squilibri che si traducono, nel linguaggio della Commissione, come “eccessivo debito pubblico”. Un debito pubblico da tagliare in maniera indiscriminata, soprattutto attraverso la riduzione della spesa pubblica. Andando, così, ad aggravare la già drammatica situazione dei servizi pubblici in Italia e la disoccupazione. Quest’ultimo, evidentemente, è uno squilibrio che la Commissione può tollerare.
Inoltre, si cita la “debolezza strutturale del mercato del lavoro”, anche se pure la Commissione deve riconoscere che la parziale ripresa del livello occupazionale dopo la pandemia è dovuta essenzialmente a lavoro precario. Last but not least, il report ci ricorda che l’Italia è fra i paesi europei maggiormente dipendenti dal gas russo, e che quindi verosimilmente accuserà maggiormente i contraccolpi economici della guerra.
Se questo è lo stato dell’arte, lo sguardo sul futuro è se possibile ancora più deprimente: detto della necessità di riprendere la marcia verso il pareggio di bilancio (e con buona pace di chi esulta per la sospensione del patto di stabilità: del resto, se noi siamo i migliori, l’austerità ce la autoinfliggiamo da soli...), tutte le speranze sembrano essere riposte nelle proprietà salvifiche del PNRR, rispetto al quale si ricorda che l’Italia è il maggior beneficiario in termini assoluti e uno dei soli quattro paesi ad avere richiesto l’accesso anche ai prestiti.
Messo da parte che – come abbiamo già spiegato altrove – quest’intervento è largamente insufficiente quando non apertamente contraddittorio, quello che impressiona davvero è vedere in fila le varie “riforme” associate al PNRR: taglio della burocrazia per guarire una pubblica amministrazione “non sufficientemente reattiva alle esigenze delle imprese” (sic!), riforma del pubblico impiego (e l’esempio portato è quello degli esperti a tempo determinato assunti proprio per la gestione del PNRR), liberalizzazioni (in particolare per i servizi pubblici, vedi trasporti locali, acqua, rifiuti, etc.)... insomma tutta roba già vista e sentita, e purtroppo spesso anche già applicata, al punto che ne conosciamo fin troppo bene gli effetti nefasti per la nostra qualità della vita.
Per il resto, poco altro, fra cui un sistema fiscale da riformare spostando il peso maggiormente sulle imposte sui consumi (e sono messe nel mirino in particolare le aliquote agevolate, cioè lo strumento per cercare di mitigare gli effetti di un’imposta strutturalmente regressiva) e sugli immobili (inclusa la prima casa).
La Commissione europea comunque è in buona (anzi, cattiva) compagnia: il 17 maggio si è conclusa la missione annuale di sorveglianza in Italia del Fondo Monetario Internazionale, e anche in questo caso, prima di andare via, gli esperti hanno ritenuto opportuno lasciarci qualche consiglio: oltre a richiedere come un disco rotto “una credibile duplice strategia per ridurre significativamente l’elevato disavanzo e debito nel medio termine”, questo rapporto si concentra maggiormente sulle conseguenze economiche della guerra mettendo in chiaro che “la risposta fiscale allo shock energetico dovrebbe essere più contenuta rispetto a quanto avvenuto per la pandemia”; le “soluzioni” in questo caso sono individuate nel piano REPower EU (quindi praticamente nulla) e sui bonus sociali (vedi il recente e largamente insufficiente decreto Aiuti). Anche in questo caso, la cosa più interessante sta in quello che il rapporto non dice: in presenza di bollette impazzite, passi pure dare qualche spicciolo a quelli più a terra, ma guai a richiedere un intervento più profondo e strutturale dello Stato nel regolare il mercato; perfino i timidi interventi su alcune voci delle bollette come accise e oneri di sistema vengono sconsigliati perché “sebbene questo riduca immediatamente i prezzi per famiglie e imprese, l’efficienza energetica è disincentivata e i vantaggi sono a beneficio di tutti i consumatori”.
In conclusione, Commissione europea e Fondo Monetario Internazionale richiamano all’ordine, riproponendo di fatto le stesse ricette grazie alle quali ci siamo fatti trovare senza strumenti davanti al disastro della pandemia.
Noi sappiamo che il miglioramento della nostra qualità della vita passa per una strada esattamente opposta: rilancio della spesa sociale da parte di Stato ed enti locali (che vuol dire anche spesa corrente ad esempio per pagare medici, infermieri, maestri, etc.), politiche ambientali ed energetiche coerenti, contratti di lavoro stabili e salari decenti, un sistema fiscale realmente progressivo. Mai come oggi, per raggiungere questi obiettivi, abbiamo bisogno di liberarci da “cattivi consigli e consiglieri” del passato, anche nella forma autoimposta dalla politica nostrana.
Guerra in Ucraina - Si chiude la “sacca” a Severodonetsk?
Il leader ceceno Kadyrov sostiene invece che la città di Severodonetsk, nella regione orientale ucraina di Lugansk, è ormai sotto il pieno controllo russo: “Severonetsk è sotto il nostro completo controllo. La città è stata liberata. D’ora in poi gli abitanti non sono più in pericolo”, ha scritto Razman Kadyrov sul suo canale Telegram.
In un messaggio il presidente ucraino Zelenski ha confermato che le aree principali dello scontro con le forze armate russe sono attualmente Severodonetsk, Lysychansk, Bakhmut e Popasna.
Il presidente ucraino, Zelensky, in un intervento diffuso nella nottata ha affermato che si aspetta di ricevere “buone notizie” dai partner occidentali in merito all’assistenza militare al suo Paese la prossima settimana. Dal canto loro la CNN rivela che gli Stati Uniti si stanno preparando a inviare nuove potenti armi all’Ucraina per contrastare la Russia. La CNN cita “molteplici fonti” affermando che nel nuovo pacchetto di aiuti militari sarebbero previsti sistemi missilistici a lungo raggio, cioè quelli richiesti da Kiev nelle ultime settimane.
In particolare si parla del sistema MLRS, Multiple Launch Rocket System, in grado di muoversi velocemente su mezzi di artiglieria leggeri e sparare più razzi allo stesso tempo. L’annuncio dovrebbe essere dato all’inizio della prossima settimana. L’anticipazione arriva ventiquattr’ore dopo il monito lanciato dalla Russia che ha avvertito gli Stati Uniti a “non superare la linea rossa”, fornendo sistemi offensivi agli ucraini.
Nella giornata di ieri il presidente russo Vladimir Putin ha discusso per circa 80 minuti con i leader di Francia e Germania affermando che Mosca è pronta a cercare i modi per spedire il grano bloccato nei porti ucraini, ma ha chiesto all’Occidente di revocare le sanzioni.
Il capo del Cremlino ha anche avvertito il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz di non aumentare le forniture di armi all’Ucraina, affermando che potrebbero destabilizzare ulteriormente la situazione.
Il viceministro degli esteri russo, Andrei Rudenko, ha dichiarato che la Russia è pronta a fornire un corridoio umanitario per le navi che trasportano cibo attraverso il Mar Nero in cambio della revoca delle sanzioni. Il ministro ha anche chiesto all’Ucraina di sminare l’area intorno al porto di Odessa per consentire il passaggio delle navi.
L’agenzia Bloomberg riferisce che la UE ha proposto di vietare il petrolio marittimo proveniente dalla Russia ma di non imporre restrizioni sulle importazioni dall’oleodotto chiave di Druzhba, la principale fonte di importazione di greggio dell’Ungheria, per soddisfare le obiezioni di Budapest. La Commissione europea ha inviato una proposta rivista ai governi nazionali il 28 maggio.
Fonti: Agi, Agenzia Nova, Kyev Indipendent, Tass, Moscow Times
Fonte
29/05/2022
Le ferite notturne del potere: “Esterno notte”
La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto «al momento giusto».
Elias Canetti
Dopo Buongiorno notte, del 2003, Marco Bellocchio, con Esterno notte, riporta sullo schermo la vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse. Ma se il film del 2003 era marcatamente pervaso di un habitus onirico, adesso, la ricostruzione della vicenda sembra delinearsi all’interno di un impianto cronachistico più accentuato. Spicca anche stavolta, nel titolo, la parola “notte”. E se l’accostamento “buongiorno notte” rimandava ad una vera e propria antitesi presentata in forma ossimorica, il nesso “esterno notte” riecheggia invece un gergo cinematografico, con una precisa allusione alle tecniche di ripresa. Come se si trattasse di una messa in scena cinematografica il più fedele possibile (un “esterno”) ma girata di notte. Si tratta infatti di vicende ambientate durante la “notte della Repubblica”, sulle quali sembra essere stato posto una sorta di filtro cinematografico appunto per creare l’“effetto notte”, come nell’omonimo film di François Truffaut (il cui titolo originale è La nuit américaine, 1973).
Il film, uscito in questi giorni al cinema, è solo la prima parte di una storia che si dilata fino ad assumere le sembianze di una serie tv (verrà infatti presentato in tv ad ottobre). Questa prima sezione del film si incentra sulle figure che attorniano il personaggio di Moro (interpretato da un bravissimo Fabrizio Gifuni) e non tanto sul suo pensiero o sulla sua volontà di aprire il governo al PCI. La politica di Moro era infatti mirata a garantire una maggiore stabilità e, forse, la fine degli scontri violenti di quell’epoca.
Per la pacificazione del paese, secondo Moro, era necessario far partecipare il PCI al governo, partito che – è detto chiaramente – si presentava come l’alfiere di una politica di “legge e ordine” tanto quanto la DC. Questa prassi politica fu da lui auspicata ed è stata oggetto anche della ricostruzione saggistica e romanzesca realizzata da Leonardo Sciascia con il titolo L’Affaire Moro (1978). Rispetto al film, il libro mostra un Moro più ‘umano’ e straziante nel suo chiedere aiuto agli amici. Nel lungometraggio di Bellocchio, d’altra parte, vediamo tutti i personaggi che partecipano all’“affare Moro”, senza tralasciare la Santa Sede (figura importante della vicenda è Paolo VI, magistralmente interpretato da Toni Servillo), e rende perfettamente manifesto l’inganno del voler far valere un principio a tutti i costi: non cedere a nessuna richiesta dei rapitori. Viene mostrato come le questioni di principio siano in sé sbagliate e siano strumentalizzate per allontanare i personaggi che lavorano per la pace del paese. Tra questi ‘amici’, Andreotti (Fabrizio Contri) è la figura più spaventosa; sappiamo benissimo che manovra le trattative per non salvare la vita dell’amico. Fisicamente sembra una maschera surreale (in modo anche più accentuato rispetto all’affresco del politico offerto da Paolo Sorrentino con Il divo, 2008), artefatta, dai lineamenti che ricordano il cospiratore, il traditore. Il film presenta anche una perfetta ricostruzione delle dinamiche di comunicazione tra un politico e l’altro. Non ci sono mai dialoghi spontanei ma tutto è pervaso della retorica degli ambasciatori che portano le notizie e ai quali si risponde con frasi brevi e sottintesi, esclusivamente di natura politica e mai umana.
La resa cinematografica di Bellocchio mostra anche la pesantezza e l’oggettività del potere, in tutta la sua granitica presenza: alcune inquadrature mostrano scorci architettonici di Roma, come Piazza Venezia, incancreniti in pose di geometrica compostezza, segnati da plumbei rigurgiti di fascismo. I politici percorrono le stanze dei palazzi come tante marionette irreggimentate in percorsi obbligati, costretti a percorrere oscuri corridoi che li fagocitano come tunnel. E se dei personaggi – soprattutto di Moro, ma anche di Cossiga (Fausto Russo Alesi) e di Andreotti – ci viene presentato anche l’aspetto più intimo e privato, ad avere il sopravvento è la loro caratterizzazione ‘pubblica’ che li fa somigliare a delle maschere. Ricordiamo quanto, riguardo ai politici democristiani, scriveva Pasolini nel celebre “articolo delle lucciole”, poi raccolto negli Scritti corsari: “Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto” (P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1995, p. 132). I politici che poi si riuniscono nei loro consessi, nel palazzo del potere, appaiono come tante rigide marionette, molto simili a come vengono affrescati dallo stesso Pasolini in Petrolio, durante la “festa della repubblica”, in cui i potenti sono elencati in modo quasi tecnico, come nella parte relativa al “catalogo degli eroi” dell’epica antica. Anche nel loro aspetto più intimo e ‘notturno’, anche nel loro privato martirio, quei politici sembrano degli automi manovrati da un potere altrettanto oscuro e notturno perché, come continua Pasolini nell’articolo delle lucciole, “i potenti democristiani coprono, con le loro manovre da automi e i loro sorrisi, il vuoto” (ibidem). Un vuoto che è ben visibile nelle strade romane percorse dalle automobili blindate dei potenti, quello scorcio di anni Settanta cadenzato da rabbia e da lotte. E queste ultime, dal momento che nel film sono viste quasi esclusivamente attraverso l’ottica del potere (quando l’auto di Moro si muove lungo un muro coperto di scritte a opera dei vari movimenti di contestazione sembra che scenda all’inferno), vengono caratterizzate, in modo riduttivo, soltanto da violenza e ferocia (almeno in questa prima parte).
Meno male che a stemperare un po’ l’atmosfera plumbea creata dalla pellicola intervengono alcuni momenti di ironia e di abbassamento delle tonalità ‘tragiche’ dominanti. Ad esempio, come se nulla fosse, durante diverse azioni sceniche parte il commento sonoro, ritmato e ballabile, di Porque te vas, un brano di Jeanette del 1974. La prima incursione musicale della canzone interviene a commentare l’apparizione di alcuni elicotteri della polizia che sbucano da dietro i palazzi, visti dalla moglie di Moro che ancora non sa nulla del sequestro. La notte, il martirio, la greve pesantezza di un potere che si scopre ferito sono intrisi anche di connotazioni carnevalesche, ironiche e leggere. E questo ci sembra, senza dubbio, uno dei punti di forza del film.
Le ceneri di De Mita
Scrivere della morte di don Ciriaco è difficile come scrivere della morte di Maradona – il rischio di scivolare nel folclore, nel banale, o nell’invettiva, è assolutamente inevitabile. Poche figure politiche sono state iconiche come la sua – nel senso di rappresentative di un contesto, di una suggestione, di un’epoca che trascende la figura stessa. Lui è stato la Prima Repubblica, la sua essenza pubblica, visibile, ma anche la “grana” di cui quell’esperienza storica era intessuta. La Prima Repubblica è figlia del conflitto sociale, figlia, a suo modo, della Resistenza; figlia delle stragi operaie e contadine degli anni ’40/’50; figlia della battaglia politica e dello scontro di classe. Questa è la sua cifra, la sua carta d’identità, la sua ricchezza plurale. I suoi uomini più rappresentativi introiettano la logica del conflitto, le sue strategie palesi o i suoi giochi sporchi – vivono e metabolizzano la vigenza del conflitto, traendone ognuno una lezione diversa.
De Mita fu tra coloro che vissero l’idea della lotta di classe senza drammatizzazione; bisognava fare i conti con il movimento operaio, con la questione sociale imposta dalla modernizzazione frenetica del neo-capitalismo, con il partito comunista più forte dell’occidente e l’oggettiva durezza della fase storica. I democristiani post-Scelba prendono tutto e lavorano con tutto: non c’è bisogno di scomunicare, alzare fortini, inseguire logiche da guerra fredda, competiamo e cooptiamo, piuttosto. Su che terreno? Non su quello becero dell’anticomunismo, ma su quello del consenso, dell’interesse popolare, della vantaggiosità della suggestione del cattolicesimo popolare e sociale rispetto a ogni altra teorizzazione o modello.
Ecco, tutta la retorica e la miseria del clientelismo, così tanto esecrata dall’Italia puritana, nascondeva in realtà un’idea potente – gramsciana e nazional-popolare, in questo assai materialista e moderna – di costruzione di un nuovo blocco sociale: questo facevano, i democristiani come De Mita, analizzavano la società, i rapporti di forza in campo, gli strumenti disponibili e poi, intorno alle leve straordinarie che l’epoca consentiva loro (industria di Stato, credito di Stato e spesa pubblica) modellavano la composizione sociale indirizzandola verso la costruzione di una rete dinamica di alleanze sociali maggioritarie. “Cetimedizzazione” delle classi popolari, tutela del coltivatore diretto, favorendo una uscita pilotata e indolore dalla piccola economia rurale in declino, scolarizzazione dei figli del sud per promuoverne l’ingresso nei ranghi della scuola e della PA, tutela delle grandi imprese familiari a patto che stiano dentro il disegno democristiano; svalutazione competitiva per le aziende del nord e intervento straordinario nel mezzogiorno. Un’idea di egemonia sociale basata su una prassi di irriducibile presenza reale.
Questa idea di manipolare e orientare la composizione sociale – le dinamiche di classe, la mobilità tra ceti, il rapporto forze produttive e comunità – è l’essenza del ‘900 e rimanda a non poche suggestioni “socialiste”; in questo ricorda (in piccolo e in modalità edulcorate) gli esperimenti di ingegneria sociale dello stalinismo e del denghismo – niente a che vedere con il tatcherismo e l’affidamento al mercato delle funzioni di stratificazione sociale.
Fu l’esistenza del demitismo a permettere a Scalfari e ad un pezzo di borghesia (sedicente illuminata) di andare oltre la vecchia idea del compromesso storico: verso un processo di divoramento e digestione del partito comunista e della DC, entrambi rappresentanti di un Italia che stava scomparendo, in direzione del progetto di partito democratico che una ventina d’anni dopo sarebbe effettivamente sorto. Un progetto che avrebbe assimilato e sterilizzato per sempre la memoria e le ragioni dei comunisti italiani, piegando anche il cattolicesimo sociale alla tecnicalità “laica”, di modernizzazione capitalistica neo liberale, prima ulivista e poi piddina – da cui, per nemesi, lo stesso De Mita si staccò presto.
Sono cresciuto in quella che fu la capitale del “clan degli avellinesi” che, secondo Pannella, si era impadronito del potere politico in Italia negli anni ’80. E mentre gli sceneggiatori americani dei Soprano collocavano, chissà perché, ad Avellino l’origine della celebre famiglia mafiosa, la cittadella d’Irpinia, povera e disastrata, invece di generare boss da fiction, forniva un pezzo importante e decisivo di classe dirigente alla prima repubblica nel suo momento più fulgido, prima del crollo. I democristiani sui territori erano ovunque, in cordate organizzate con una capillarità che ricordava il radicamento comunista nell’Italia centrale: nei quartieri – soprattutto nelle coree, nei rioni di brutte case popolari, nei campi terremotati e nelle nuove periferie disagiate – e dentro al sindacato, nei cantieri e nelle fabbriche, dentro le organizzazioni di categoria di commercio e agricoltura, nella pletora degli enti assistenziali, nelle associazioni disabili, dentro gli ineluttabili oratori di parrocchia. Partito Stato ma anche Partito Società.
Nel 1985 si sviluppò in Italia un robusto movimento studentesco, che non ha lasciato grandi tracce, ma rappresentò uno dei primi elementi di ripresa di piazza, dopo la sconfitta degli anni ’70. Anche ad Avellino, quei giovanissimi studenti provarono a organizzarsi, collocandosi in modo naturale su un terreno antigovernativo e antidemocristiano. Ebbene, alle riunioni del movimento (che si tenevano in CGIL) si presentava regolarmente anche un nipote di Ciriaco De Mita; tutti noi sapevamo chi fosse e, pur avendo solo 17 anni, anche somaticamente era riconducibile alla stirpe politica e alla prestigiosa schiatta familiare di provenienza; veniva dal liceo classico del centro, e si infilava senza pudori in un contesto nel quale eravamo quasi tutti figli degli istituti tecnici e professionali.
All’inizio facemmo finta di niente, non puoi buttare fuori la gente in quella situazione, tra ragazzini senza esperienza. Lui era imperturbabile, arrivava e diceva la sua, come se essere lì fosse la cosa più normale del mondo. Un giorno, alla fine della riunione, lo fermai e gli dissi senza mezzi termini che la sua presenza era inopportuna: quel contesto lì era chiaramente antigovernativo, che diavolo ci faceva il nipote del capo, dentro una sede di movimento? E lui, allora, con disinvoltura, mi rifilò una lezione politica: io sono qui, perché noi siamo dappertutto, e nessuno può buttarci fuori. Stava esprimendo un’idea di egemonia che probabilmente nessuno gli aveva inculcato, era il prodotto di una prassi storica, generazionale. Stava dicendo: noi siamo qui, questa è casa nostra, il nostro territorio, il nostro mondo, e anche nelle vostre enclave di sinistra non siete al riparo, perché in realtà la vera sinistra siamo noi che possiamo dare lavoro a migliaia di giovani destinati all’emigrazione, non le vostre chiacchiere ideologiche; noi possiamo prendere i figli dei sottoproletari e trasformarli in bidelli e comunali; noi possiamo prendere i figli dei bidelli e farli diventare dottori; noi questo siamo in grado di mettere sul piatto: voi con le vostre bandiere rosse cosa offrite a questi ragazzi? Le impotenze picciste, le chiacchiere dei filosofi in via di pentimento, le galere (che all’epoca erano ancora discretamente affollate di comunisti)?
Ecco, quando penso a De Mita, penso a quella stagione, che fu anche folclore e brutture – il Bagaglino, il tressette, la dizione terribile, le citazioni in latino, e i patti non scritti con i clan, le produzioni nocive, i baraccati di lunghissimo corso – iperprovincia depressa, insomma: ma anche la capacità di discutere da pari a pari con Gorbaciov, Reagan e Fidel, alla luce di una storia, di un retroterra, di un lignaggio. Odiavamo De Mita, potendo gli avremmo mosso guerra. Non sapevamo che dietro l’angolo della storia, incombevano altri pericoli e altre beffe: il crollo di quel mondo e la fine dei partiti repubblicani, l’avvento dell’imprenditore-politico e della formattazione di massa della telecrazia, l’arrivo sconclusionato nelle stanze del potere dell’Uomo Qualunque (Gigino Di Maio è nato ad Avellino, a chiudere un cerchio di decadenza). Una traiettoria in cui non ci sarebbe stato posto per le nostre bandiere, che provavamo senza grandi successi ad alzare sui barracani e i container dell’Irpinia terremotata. Sic transit gloria mundi – vale per lui e vale per noi, che di gloria ne abbiamo vista poca.
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