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18/05/2025

La preghiera del soldato (1961) di Masaki Kobayashi - Minirece

I rischi di una guerra per Taiwan sono alti, occhio “agli errori di calcolo”

Mentre molti osservatori si concentrano sui conflitti in Ucraina e Medio Oriente, un interessante e inquietante articolo sulla rivista statunitense Foreign Affairs suona invece l’allarme sul rischio di una guerra con la Cina intorno alla questione di Taiwan.

Con il titolo: “I rischi di una guerra nello Stretto di Taiwan sono alti”, il lungo articolo di Bonny Lin, John Culver e Brian Hart, evidenzia soprattutto il pericolo di un “errore di calcolo” da parte di Pechino sulla possibile reazione Usa ad un attacco cinese verso l’isola.

Gli autori del saggio su Foreign Affairs scrivono tale proposito:
“Gli interlocutori cinesi notano che il team di sicurezza nazionale di Trump non è ricettivo alle preoccupazioni cinesi su Lai, e temono che quando si tratta della politica quotidiana di Taiwan, questa amministrazione probabilmente rafforzerà le relazioni con Taipei attraverso una cooperazione approfondita e un aumento delle vendite di armi.
Queste valutazioni contrastanti lasciano Pechino meno certa che gli Stati Uniti difenderanno Taiwan da attacchi su larga scala o scenari di minore intensità. Ma i funzionari cinesi ritengono che, se lasciati incontrollati, è probabile che gli Stati Uniti si avvicinino ancora di più a Taiwan. Ciò crea una dinamica matura per errori di calcolo”.

Le tensioni nello Stretto di Taiwan stanno infatti crescendo. La Cina ha manifestato una forte opposizione al nuovo presidente taiwanese, l’ultranazionalista Lai, definendolo un “separatista” e un “istigatore di guerra”. A metà marzo, il portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan della Cina aveva etichettato Lai come un “distruttore della pace tra le due sponde dello Stretto” e lo ha accusato di spingere Taiwan verso “il pericoloso orlo della guerra”.

Ma la preoccupazione degli autori è concentrata soprattutto sulla possibile errata valutazione da parte della Cina delle posizioni prevalenti dentro l’amministrazione Trump.

Da un lato la riduzione dei dazi contro le merci cinesi ha rivelato il bluff di Trump, indicando un cambiamento della linea aggressiva annunciata fino ad ora. Dall’altra le contraddizioni e l'imprevedibilità degli orientamenti dentro la nuova amministrazione USA non lasciano però trapelare una linea di condotta univoca nei rapporti con la Cina.

Osservando come gli analisti di Pechino guardano agli Stati Uniti, gli autori del saggio su Foreign Affairs segnalano che:

“Mentre la Cina aumenta le sue attività militari contro Taiwan, molti a Pechino non sanno da che parte sta Washington. Pechino è relativamente fiduciosa che l’amministrazione Trump voglia intensificare la concorrenza con la Cina, con particolare attenzione alle relazioni economiche. Anche gli analisti cinesi ritengono generalmente che Trump cercherà di usare Taiwan come carta in questa competizione, ma non c’è consenso su come lo farà. Gli esperti cinesi valutano che Trump e la sua squadra sono divisi su Taiwan. Molti credono che Trump voglia negoziare accordi con la Cina e che lui e molti dei suoi sostenitori vogliano evitare coinvolgimenti militari stranieri.
(...)
La Cina potrebbe decidere che ha bisogno di trattare Taiwan in modo più aggressivo per chiarire al team di sicurezza nazionale di Trump che non tollererà né i crescenti legami tra Stati Uniti e Taiwan né le mosse di Taiwan che considera provocatorie. Nel frattempo, la percezione della Cina che Trump non sia del tutto disposto a difendere Taiwan potrebbe portare Pechino a prendere in considerazione ulteriori azioni di escalation contro l’isola”.
Per gli analisti di Foreign Affairs l’amministrazione USA dovrebbe contrastare più apertamente la politica cinese su Taiwan prima del 2027, perché questa sarebbe la scadenza per una decisione assertiva della Cina se procedere alla soluzione di forza della questione Taiwan.

“Lo stesso Xi ha fissato la scadenza del 2027 affinché l’EPL abbia la capacità di prendere con la forza Taiwan. Data la spinta di Xi ad accelerare la modernizzazione dell’EPL, è improbabile che i suoi leader militari gli dicano nel 2027 che la Cina non è in grado di eseguire con successo operazioni militari su larga scala contro Taiwan, il che significa che Xi potrebbe sentirsi più sicuro di sé e disposto a provocare una crisi o un conflitto” scrivono gli autori sottolineando come: “La diminuita pazienza di Pechino e l’indurimento delle intenzioni rendono ancora più importante per l’amministrazione Trump garantire che la Cina comprenda chiaramente la determinazione degli Stati Uniti e la sua volontà di contrastare l’aggressione cinese”.

L’appello ad una postura più minacciosa da parte degli Stati Uniti verso la Cina diventa più esplicito verso le conclusioni del saggio ospitato da Foreign Affairs, ribadendo il pericolo che “un errore di calcolo” da parte di Pechino sulle intenzioni statunitensi, potrebbe portare ad un fatto compiuto sulla crisi di Taiwan.
“Poiché gli Stati Uniti si stanno muovendo rapidamente su più fronti, sarà importante prestare attenzione a come Pechino potrebbe collegare i punti delle diverse politiche statunitensi per mettere insieme una più ampia comprensione della strategia e delle intenzioni americane. Nella misura in cui la Cina sta fraintendendo gli Stati Uniti, sarà fondamentale per l’amministrazione Trump correggere e respingere le narrazioni cinesi, sia in pubblico che in privato. Se l’amministrazione Trump non vuole una crisi tra le mani, non dovrebbe lasciare una porta del genere aperta a Pechino”.
L’articolo di Foreign Affairs va letto e interpretato con la dovuta attenzione per almeno tre motivi:

a) il quadrante asiatico è indubbiamente diventato il più strategicamente rilevante nelle nuove relazioni internazionali. Qui si muovono le fonti e la circolazione dell’accumulazione capitalistica globale e qui le linee di faglia tra interessi contrapposti sono più profonde.

b) le priorità politiche della nuova amministrazione USA non sono sempre così decifrabili e costanti da consentire una realistica analisi tra costi e benefici di una eventuale forzatura.

c) l’insistenza con cui gli analisti di Foreign Affairs sottolineano il rischio di un errore di calcolo sulle eventuali reazioni statunitensi verso una forzatura della Cina su Taiwan, evocano molti dei fatti compiuti della storia passata che hanno reso irreversibili scelte che hanno innescato le guerre.

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La UE manda in soffitta il green per aiutare l’industria delle armi

La UE da tempo nasconde dietro la narrazione della “conversione ecologica” una serie di misure che servono unicamente a rilanciare settori capitalistici in crisi e provare a farli entrare in una competizione in cui, ad ogni modo, la Cina è molto più avanti. Ma ora che con il piano Readiness 2030 l’economia di guerra si è sostituita al green, le preoccupazioni ambientali diventano addirittura un ostacolo.

Lunedì 12 maggio Thomas Regnier, portavoce della Commissione Europea, ha rilasciato una dichiarazione con la quale ha fatto presente che Bruxelles sta considerando la possibilità di allentare le norme ESG, ovvero i criteri ‘Environmental, Social, and Governance’, usati per valutare la sostenibilità verde degli investimenti. Una tendenza che era già stata sancita lo scorso febbraio.

A inizio anno, infatti, erano stati elaborati e poi varati due pacchetti Omnibus, finalizzati a semplificare le normative sulla reportistica di sostenibilità per aziende e istituti finanziari: il CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), il CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) e la Tassonomia UE. La proposta della Commissione aveva già smantellato qualsiasi loro utilità.

In pratica, il CSRD verrà applicato soltanto alle aziende con più di mille dipendenti e almeno 50 milioni di fatturato – vengono escluse così circa l’80% delle imprese europee, fino a ieri soggette a obblighi di rendicontazione. Inoltre, la due diligence, ovvero l’indagine preliminare sull’impatto ambientale, sarà limitata solo ai fornitori diretti, escludendo gli operatori a monte e a valle della catena del valore.

Insomma, una tale riforma significa la garanzia di grandi margini per promuovere facili operazioni di greenwashing, mentre davvero poco verrebbe fatto per muoversi verso un'“economia verde”. Eppure, pare che il complesso militare-industriale europeo abbia trovato lo stesso di che lamentarsi, e che dunque la Commissione sia disposta a proporre ulteriori alleggerimenti sulle misure Omnibus.

Sembra che siano state in particolare le aziende produttrici di munizioni a evidenziare come le norme europee abbiano disincentivato gli investimenti privati e abbiano limitato la concessione di prestiti da parte delle banche. Questo perché, per quanto di facciata, le armi sono davvero in tutti i modi incompatibili con i criteri di sostenibilità ambientale, oltre che quelli etici.

Proprio per questo Regnier ha fatto presente che la Commissione Europea sta valutando “se l’accesso ai finanziamenti possa essere ulteriormente rafforzato, anche attraverso un adeguamento del quadro finanziario sostenibile”. Che tradotto, significa proprio lasciare maggiore spazio per le imprese della difesa per “una rapida crescita industriale in tutta Europa”.

In sintesi, per favorire l’economia di guerra, è bastato qualche mese perché la propaganda di una UE tutta lanciata sul green crollasse di fronte alle esigenze della competizione globale. Anzi, ora anche le armi diventano ‘verdi’, come già lo sono diventati il gas naturale e il nucleare: un segnale che a Bruxelles le stanno provando tutte per facilitare la deriva bellicista.

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Dentro gli attacchi del ‘campo largo’ a Meloni c’è una contraddizione clamorosa

Gli esponenti politici del “campo largo” del centro-sinistra devono decidere se parlare con lingua biforcuta o se contare fino a dieci prima di fare dichiarazioni di cui potrebbero – e dovrebbero – pentirsi.

L’occasione è venuta dalla polemica sulla mancata partecipazione della Meloni al vertice ristretto delle potenze europee della coalizione dei volenterosi (Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia) insieme al presidente ucraino Zelenski, svoltosi venerdì a Tirana.

La Meloni ha spiegato l’assenza con il fatto che quel vertice avrebbe discusso del coinvolgimento di militari europei in Ucraina, mentre l’Italia non è disponibile a inviare i propri soldati su quel fronte. La versione della premier è stata smentita da Macron ma i fatti, fin qui registrati alla televisione francese TF1 pochi giorni fa, ci dicono il contrario.

Ma la mancata presenza della Meloni alla riunione dei peggiori leader guerrafondai d’Europa – curiosamente le stesse potenze che hanno innescato la Seconda Guerra Mondiale – è stata oggetto di attacchi dei partiti dell’opposizione a nostro avviso del tutto sballati, ma anche emblematici di una ambiguità inaccettabile.

Il leader del M5S Giuseppe Conte, pur cavalcando l’onda antimilitarista nel paese, ha accusato la Meloni di “isolare” l’Italia; Angelo Bonelli di AVS, anche lui identificato nel campo “pacifista”, l’ha accusata di fare la “comparsa”; dal PD giungono attacchi simili a quelli di Conte sul fatto che la Meloni disertando il vertice dei guerrafondai “emargina” l’Italia dall’Europa.

Per rispetto di noi stessi e dei nostri lettori non prendiamo poi in considerazione le dichiarazioni di Renzi e Calenda.

I leader del “campo largo” del centro-sinistra a questo punto devono decidere quale sia la loro posizione in materia: sono contrari alle forze che in Europa spingono per la guerra e il riarmo oppure ritengono che l’Italia debba aggregarsi a queste forze e partecipare alle loro riunioni?

La contraddizione a questo punto c’è tutta, e nella frenesia di attaccare la Meloni stavolta hanno messo i piedi su un terreno scivoloso e molto pericoloso.

E come in una matrioska, dentro questa contraddizione se ne presenta un’altra, ed è la posizione sulla natura dell’Unione Europea, troppo spesso mistificata e confusa con “l’Europa”.

Lo scorso 18 marzo le piazze a Roma si sono divise tra euroguerrafondai in Piazza del Popolo e antimilitaristi in Piazza Barberini. Due terzi del campo largo (Pd e Avs) erano presenti o avevano aderito alla piazza del suprematismo europeista, che non disdegna affatto il riarmo e la difesa comune europea ritenendoli decisivi per la costituzione di una “Europa forte” nella competizione globale.

Il M5S, allora, si è smarcato da quella piazza, ma anche da quella antimilitarista che contemporaneamente manifestava in Piazza Barberini in contrapposizione ai guerrafondai in Piazza del Popolo.

Due settimane dopo il M5S ha promosso una manifestazione che ha raccolto una grande adesione e aspettativa popolare per la pace, ma alcuni discorsi dal palco – e di Conte in particolare – non sono sembrati affatto in sintonia con lo spirito di chi era sceso in piazza.

Questa contraddizione adesso si è ripresentata di nuovo e piuttosto nitidamente in occasione della mancata partecipazione dell’Italia al vertice dei “volenterosi guerrafondai europei” a Tirana.

Se l’Italia si terrà alla larga da una coalizione di guerra che vede insieme le potenze più belliciste europee e la Nato sarà un bene e non certo un male. Anzi, andrebbe spinta a procedere in tale direzione. Lasciare che sia Meloni a coprire questo spazio è un suicidio politico, l’esatto contrario dell’averla smascherata sulla complicità con Israele e il genocidio dei palestinesi.

Non vorremmo ricorrere ancora una volta alla metafora del “nemico che marcia alla tua testa”, ma si tratta di “dettagli” di un certo rilievo in una fase storica critica come quella che stiamo attraversando e nelle mobilitazioni che stanno cercando di tenere l’Italia fuori dell’escalation di guerra.

È noto che le classi dirigenti nostrane si dibattono da anni sul voler essere “ultimi tra i primi o primi tra gli ultimi” nella complicatissima geopolitica europea, ma questa ambiguità – che una volta al governo diventa ossessione – non può essere certo il riferimento di un movimento contro i pericoli di guerra all’altezza della posta in gioco.

Anche di questo sarà utile discutere nell’assemblea nazionale convocata a Roma il prossimo 24 maggio e riaffermarlo con forza nella manifestazione nazionale contro la guerra e il riarmo convocata per sabato 21 giugno.

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Libia - Riesplode il caos che avevamo fatto finta di non vedere

di Alberto Negri

Regolamenti di conti mortali e scontri tra le fazioni in Tripolitania, avanzata delle truppe del generale Khalifa Haftar da Bengasi alla Sirte: la Libia sfugge a ogni controllo e soprattutto a quello del governo di Giorgia Meloni, che ieri a un certo punto stava valutando persino l’evacuazione degli italiani.

Questa confusione e l’essere sempre in balìa delle fazioni e dei clan libici è dovuta essenzialmente alla scelta italiana ed europea di rinunciare a ogni strategia politica, tanto è vero che l’influenza militare maggiore è quella della Turchia e Ovest e della Russia di Putin, padrino del generale Haftar, a Est, in Cirenaica.

Ma mentre Erdogan e Putin si parlano, anche a distanza, noi riceviamo informazioni di seconda mano, e accuratamente ‘masticate’ dal sultano turco, e nessuna ovviamente da Mosca che ha appena ricevuto Haftar in pompa magna: oggi il generale riceve sostegno militare non solo da Mosca ma anche dalla Turchia che un tempo lo osteggiava apertamente e nel 2019 era intervenuta a difesa del governo Sarraj di Tripoli.

Come cambia il mondo... e qui ce ne accorgiamo sempre con un leggero ma fatale ritardo.

L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia una scelta comprensibile nel breve periodo – soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica – ma miope. Ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, l’Italia ha impiantato il “sistema libico”, ovvero un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori.

Così ci siamo trovati in mano non a uno Stato, sia pure in ricostruzione e dotato di ingenti risorse energetiche che da sempre interessano l’Eni, ma siamo precipitati nelle cronache della malavita libica. Per contenere i flussi migratori ci siamo affidati a dei criminali.

Esemplare il caso del generale Almasry che fa parte a pieno titolo di questo sistema. L’uomo, noto come il torturatore dei migranti e il capo del carcere di Mitiga, un criminale che aveva costruito la sua fama con un regime del terrore fatto di abusi, stupri e omicidi, è un ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aja che avevamo arrestato a Torino e poi abbiamo rilasciato con un cavillo e il silenzio farisaico del ministro della Giustizia.

In Libia siamo talmente in buone mani che lunedì a Tripoli hanno fatto fuori, in circostanze poco chiare, un altro nostro “amico” del sistema di repressione libico. Si tratta di Abdulghani al Kikli, noto come “Ghnewa”, capo della potente Ssa, l’Apparato di Supporto alla Stabilizzazione.

Anche Al Kikli, come Almasry, è stato più volte avvistato in Italia dove andava e veniva indisturbato ospite. Alle sue milizie era affidata in parte la gestione delle carceri dove vengono rinchiusi i migranti. E infatti il suo nome è apparso in diversi dossier dell’Onu in cui si parla di abusi e torture nelle carceri di quello che veniva chiamato il “signore di Abu Salim”, la vecchia e famigerata prigione di Gheddafi che non ha mai smesso di inghiottire le sue vittime anche dopo la caduta del raìs.

A cosa si deve questo caos in Tripolitania? Siamo di fronte a lotte di potere e di soldi in cui il governo del premier Dbeibah è intervenuto appoggiandosi ad altre milizie, in particolare la Brigata 444, formata da combattenti provenienti da Misurata e ritenuta vicina al primo ministro, ovvero colui che firma gli accordi con l’Italia e l’Europa.

Chi oltrepassa certe “linee rosse” viene eliminato. È stato il caso di Bija, il noto trafficante di Zawiya, ucciso vicino a Tripoli nell’estate scorsa. E come l’eliminazione, tentata ma non riuscita, del ministro dell’Interno Adel Juma il 12 febbraio scorso.

Ricoverato per diversi mesi a Roma fu visitato in marzo proprio da Al Kikli. Nella girandola di alleanze e rivalità tripoline chi comanda ha la pistola in tasca e noi come Paese ci siamo in mezzo.

L’assenza di una vera strategia politica libica ha portato all’ascesa del generale Haftar, ex ufficiale di Gheddafi che nei suoi vent’anni di esilio in Usa è anche diventato cittadino americano. Il feldmaresciallo, che tiene in pugno la Cirenaica e l’Esercito Nazionale Libico (Lna), è sbarcato a Mosca, invitato il 9 alla parata della vittoria. Lui gioca una partita geopolitica che può disegnare nuovi equilibri nel caos libico. La Russia, dopo il parziale ritiro dalla Siria, ha scelto la Libia come nuovo avamposto africano e mediterraneo.

Ma la vera sorpresa è un’altra. Haftar ha mandato il figlio Saddam ad Ankara lo scorso aprile, ricucendo con la Turchia che nel 2020 lo aveva bloccato alle porte di Tripoli.

Haftar ha ottenuto forniture di droni turchi, addestramento per 1.500 uomini dell’Lna ed esercitazioni navali congiunte. In sintesi la Turchia, che mantiene basi in Tripolitania, si propone come mediatore per unificare le forze armate libiche. Il sultano di Ankara ha delle strategie, a noi, a quanto pare, resta soltanto la Gomorra libica.

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Gli Usa perdono la “tripla A”, ma stavolta può essere per sempre

Non siamo noi che “gufiamo” contro, sono proprio gli Stati Uniti che stanno messi male. Per la terza volta nella storia del dopoguerra – da quando gli Usa sono diventati la prima superpotenza economica occidentale e poi del mondo – hanno perso la “tripla A” sul rating relativo al debito pubblico.

Cosa significa? Che per far acquistare i propri titoli di stato – i treasuries, proverbiale bene “liquido” al pari dei dollari in contanti – Washington dovrà pagare qualche centesimo di interessi in più, aumentando così il “servizio del debito” e in definitiva il debito pubblico stesso.

Era successo solo nel 2011, quando lo abbassò l’agenzia Standard & Poor’s (ad AA+), e poi nel 2023, quando fu Fitch a fare altrettanto. Entrambe le volte la causa fu trovata nell’aumento del deficit e/o del debito pubblico, nonché nelle tensioni politiche, sia interne che mondiali. Va notato che solo negli ultimi 15 anni ci sono stati smottamenti simili nell’affidabilità dei titoli statunitensi, a conferma di un generale venir meno della “presa” Usa sul mondo.

Ora il “colpevole” è la terza agenzia, Moody’s – statunitense come le altre due – che ha declassato il rating a Aa1 (il secondo grado, a prescindere dai caratteri usati), quasi per le stesse ragioni ma aggiungendo quel tocco di scetticismo sulle possibilità di correggersi che dovrebbe costringere tutti a pensare.

Moody’s ha citato infatti l’aumento del debito statunitense e il suo costo per il bilancio federale: “I governi successivi e i funzionari eletti non sono riusciti a concordare misure per invertire la tendenza, il che ha portato a un deficit annuale significativo”.

Ma ha dovuto far presente che “Non crediamo che si possano ottenere riduzioni di spesa e deficit con la legge di bilancio attualmente in discussione”.

Il riferimento in tempo reale è al mega-disegno di legge in discussione al Congresso, considerato il fulcro dell’agenda del presidente Donald Trump, che prevede tagli al bilancio per 880 miliardi di dollari nell’arco di un decennio, che colpiranno principalmente i programmi di assicurazione sanitaria per 70 milioni di americani a basso reddito.

Ma come tutte le strategie basate sul taglio della spesa sociale i risultati saranno completamente diversi da quelli attesi. Persino Moody’, infatti, riconosce che si verificheranno “deficit ancora maggiori nel prossimo decennio, con una spesa in aumento e entrate stabili. Ciò aumenterà il peso del debito sulle finanze pubbliche”. Già ora, del resto, la spesa per interessi sul debito supera la spesa militare, che è anche la più alta del mondo.

Dall’altra parte dei tagli, com’è noto, l’amministrazione Trump – come tutte le altre neoliberiste – mette riduzioni della pressione fiscale, ossia tagli alle tasse soprattutto per i più ricchi. Il che inevitabilmente toglie risorse al bilancio pubblico, mentre i tagli di spesa si trasformano in riduzione dei consumi e dunque del Pil, specie in un paese dove i consumi rappresentano ormai il 68% del Prodotto interno lordo (con i servizi a fare la parte del leone: sanità, istruzione, intrattenimento, ecc.).

Non a caso l‘agenzia invita il governo ad “attuare riforme fiscali che rallenteranno significativamente e persino invertiranno il deterioramento del debito pubblico e dei deficit, sia aumentando le entrate sia riducendo le spese”. Evita ovviamente di dire “a chi” dovranno essere chiesti più “sacrifici” in termini di fisco, ma è ovvio che se Trump dovesse mantenere la promessa dell’ulteriore taglio per i super-ricchi saranno le fasce di reddito più basse a vedersi svuotare le tasche.

La coperta – per l’amministrazione Usa – è ormai cortissima. Ogni mossa che farà è potenzialmente a rischio: “un deterioramento più rapido e significativo dei saldi di bilancio” o un allontanamento degli investitori globali dal dollaro come valuta di riserva potrebbero avere un impatto molto negativo e causare “un aumento dei tassi di interesse, che aumenterebbe il costo del debito”.

Uno scenario al momento “improbabile”, secondo Moody’s, perché nonostante tutto non si è manifestata ancora una valida alternativa al dollaro. Ma è proprio qui la novità che anche l’agenzia non coglie (o non vuole cogliere): nessuno sta lavorando per proporsi come “egemonia alternativa” agli Usa. In tanti – i BRICS+ in testa – lavorano invece per creare un nuovo ordine multipolare dove nessuno è in grado di imporre la propria volontà – ovvero i propri interessi – a tutto il resto del mondo.

Ma intanto gli Usa devono abbassare la cresta. Quella “tripla A” – e i benefici economici relativi – può essere davvero persa per sempre...

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Gaza - Iniziata l’offensiva “Carri di Gedeone”. Trump vuole deportare i palestinesi in Libia

Come previsto, appena terminato il tour di Donald Trump nel Golfo, Israele ha lanciato la prima fase dell’operazione “Carri di Gedeone”, approvata il 5 maggio dal gabinetto di sicurezza e volta a rioccupare militarmente quasi tutta la Striscia di Gaza. L’annuncio è stato dato dall’esercito israeliano ieri in tarda serata mentre la tv americana NBC riferiva che l’amministrazione Usa sta lavorando a un piano per trasferire in modo permanente in Libia un milione di palestinesi di Gaza. La NBC ha aggiunto che in cambio dell’accoglimento dei palestinesi deportati, Trump verserà al governo di Tripoli i miliardi di dollari libici congelati da Washington più di un decennio fa.

Un portavoce militare israeliano ha affermato che nelle ultime ore l’esercito ha effettuato attacchi su vasta scala, mobilitando le sue forze per conquistare territori all’interno della Striscia, nell’ambito delle fasi iniziali dell’Operazione Gideon. Ha sottolineato che l’operazione mira a raggiungere tutti gli “obiettivi di guerra” di Gaza, tra cui “la liberazione dei prigionieri israeliani e la sconfitta di Hamas”.

Giovedì notte nel nord, carri armati e blindati hanno circondato il villaggio e il campo profughi di Jabaliya, preceduti da un intenso fuoco di artiglieria e dai colpi sparati dalla Marina militare sulla costa di Gaza. Un fuoco intenso e violento su 150 obiettivi che ha preceduto l’avanzata della Divisione 252. A sud si sono spinti in avanti i corazzati delle Divisioni 143 e 36. Droni e aerei continuano a dare copertura alle forze di terra soprattutto nell’area in cui un tempo c’era Rafah. La città sul confine con l’Egitto di fatto non esiste più. Viene rasa al suolo giorno dopo giorno.

Negli ultimi due giorni l’aviazione israeliana aveva intensificato i suoi raid in preparazione dell’avanzata di terra. Fonti mediche hanno affermato che più di 115 palestinesi sono stati uccisi dall’alba di ieri mattina. Un funzionario israeliano ha detto alla radio dell’esercito che gli abitanti del nord di Gaza saranno mandati verso il sud. Ha aggiunto che le forze israeliane rimarranno in qualsiasi area occupata e la gestiranno secondo il “modello Rafah”, ovvero distruggendo gli edifici e le case rimanenti nella zona per impedire ai residenti di farvi ritorno.

Il numero di edifici di Gaza completamente distrutti ha raggiunto quota 60.368, quelli gravemente danneggiati 20.050 e quelli parzialmente danneggiati 90.394. Significa che il 69% delle 245.000 unità abitative della Striscia ha subito danni di varia entità.

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Oltre il muro del suono: da Louie, Louie all’avanguardia

di Sandro Moiso

Thurston Moore, Sonic Life. Un memoir, Baldini+Castoldi, Milano 2024, pp. 687, 25 euro

Sulla carta geografica degli Stati Uniti è possibile tracciare un fitto reticolo di città e località che hanno segnato inconfutabilmente lo sviluppo della musica americana. Dalla musica hillybilly della parte meridionale della catene montuosa degli Appalachi, che si estende per quasi 3.300 chilometri alle spalle della costa atlantica dal fiume San Lorenzo in Canada fino all’Alabama, al blues del delta del Mississippi, passando per città come New Orleans, Los Angeles, San Francisco, Austin, Minneapolis, Detroit, Akron, Chicago, Seattle, Kansas City, Memphis, Saint Louis, Athens, Boston, Nashville non è possibile separare geografia, società e storia dalla musica prodotta in loco e poi riversatasi in concerti, sale da ballo, dischi a 78 giri e microsolco, radio, cd, cassette e Tv, prima degli States e poi, quasi sempre, in seguito in gran parte del mondo, non soltanto occidentale, nel corso del ‘900.

Molte di queste città, come molti lettori già sapranno, saranno rese famose, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, quel cinquantennio che ha fatto parlare, allungandone indebitamente i tempi, di secolo americano, quando la produzione culturale e immateriale statunitense riuscirà ad occupare gran parte dell’immaginario collettivo planetario, grazie allo sviluppo dell’industria cinematografica e alla diffusione su larga scala di nuove musiche giovanili derivanti dal rock’n’roll e dai suoi antenati, il blues e la country music. Musiche paradossalmente originatesi nel cuore del proletariato bianco e nero e della piccola proprietà terriera, spesso passata nelle mani callose dei discendenti degli schiavi o degli immigrati più poveri e disgraziati.

Una cultura popolare o pop che ha letteralmente sbancato il mercato delle produzioni musicali, grazie sia alla forza del dollaro e della potenza uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale che all’originalità e capacità creative dei suoi interpreti, maggiori e minori. Non si è trattato però soltanto di una colonizzazione culturale, così come alcuni tradizionalisti e conservatori, di entrambi gli schieramenti di destra o di sinistra avrebbero voluto spiegare il fenomeno liquidandolo con troppe semplificazioni, comprese quelle della sempre troppo osannata scuola di Francoforte e del suo maggior interprete: Theodor W. Adorno.

E non c’entra soltanto l’invenzione del disco microsolco a 45 giri, dei giradischi portatili e della diffusione delle radio commerciali che, sì, c’entrano ma che non avrebbero avuto modo di svilupparsi e diffondersi su scala così ampia se non avessero costituito un prodotto originale di una potenza che si presentava non soltanto sul piano finanziario, economico, politico e militare, ma anche tecnologico e, proprio per questo ultimo fatto, aperta alle sperimentazioni, anche le più strambe, da cui fosse possibile cogliere nuovi elementi da introdurre sul mercato delle merci. Dimostrazione concreta dell’affermazione di Marx, contenuta nel Capitale, secondo cui è la potenza dominante e più avanzata a indicare la via che le altre, in assenza di cambiamento radicale del modo di produzione, dovranno sicuramente seguire: «Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello sviluppato l’immagine del suo avvenire».

Non è quindi per caso che, tra tutte le città elencate prima, sia stata lasciata fuori New York, proprio per la rilevanza che questa ha assunto sia sul piano finanziario, per la presenza di Wall Street, che politico e culturale. In cui tutti gli aspetti elencati fino ad ora hanno finito col rimescolarsi in continuazione come in un grande calderone in cui aspiranti stregoni di ogni tipo hanno tentato di riversare i loro, sogni, desideri, esperienze e lati spesso oscuri dell’anima.

Una città lontana, però, dal punto di vista musicale, sia dalle estati dell’amore degli hippie che dal jazz tradizionale, in cui anche la musica folk, che proprio lì trovò la culla per la sua rinascita e che per ben poco tempo si fermò alla riproposizione dei temi classici d’origine, finì col diventare, con l’avvento di Bob Dylan nei locali del Greenwich, qualcosa che avrebbe trasformato il concetto stesso che ne costituiva la base, guarda caso elettrificandolo nel giro di pochi anni.

Una città in cui John Lennon, insieme a Yoko Ono, avrebbe trovato prima rifugio e poi la morte per mano di un fan, trasformando la moglie giapponese non soltanto in “vedova storica” del rock delle origini, ma anche, e forse soprattutto, in autentica sciamana e fonte di ispirazione per le successive avanguardie sviluppatesi nella Grande Mela1.

Una città di contraddizioni e luoghi simbolici diversi: dalle periferie proletarie di Newark al quartiere nero “per eccellenza” di Harlem; dagli accattoni e tossici della Bowery ai folksinger di Washington Square; dal Bronx devastato e povero alle Twin Tower, in una città che, come ha dimostrato l’attacco dell’11 settembre 2001, raccoglieva e, probabilmente, raccoglie ancora in sé, nel bene e nel male, tutti gli elementi dell’americanismo e della cultura americana.

A raccontarcene la storia musicale, culturale e, quindi, sociale degli ultimi sessant’anni (1963-2023) ci ha pensato Thurston Moore (n. 1958), chitarrista e fondatore dei Sonic Youth, nella monumentale autobiografia uscita in lingua originale nel 2023 e successivamente (2024) pubblicata in Italia per Baldini+Castoldi: Sonic Life. A partire dalla sua personale scoperta nel 1963, a cinque anni e grazie al fratello che allora ne aveva dieci, di quel classico del rock più semplice ed ipnotico rappresentato da Louie, Louie dei Kingsmen, destinato ad essere ripreso da centinaia di altri gruppi beat, garage e punk, americani e non.

Un preludio alla scoperta della scena punk che di lì a pochi anni si sarebbe sviluppata, con i suoi ritmi ripetitivi, la scarsa preparazione musicale dei suoi esecutori e il suono delle chitarre elettriche portate all’estremo secondo la legge che di lì a poco, per bocca e liuti elettrici dei giovani membri della band Red Kross, avrebbe rigidamente stabilito che «notes and chords mean nothing (to me)» (Born Innocent, 1981).

Ed è in questo contesto, in cui le band e gli artisti di riferimento non possono che esser i Velvet Underground con Lou Reed, John Cale e l’algida Nico, i New York Dolls e in seguito Patti Smith e i Television di Tom Verlaine e poi ancora i Suicide di Alan Vega, che prenderà corpo uno dei più significativi gruppi del rock dagli anni Ottanta del Novecento al primo decennio del XXI secolo: i Sonic Youth.

Gruppo il cui suono chitarristico, guidato dagli strumenti a sei corde di Thurston Moore e Lee Ranaldo (n.1956) e marcato dal basso di Kim Gordon (n.1953) e dalla batteria di Steve Shelley (n.1962), raccoglierà in sé tutta la lezione del frat rock di Louie Louie, del punk, del garage ma anche delle avanguardie jazz, elettroniche e contemporanee, in una autentica catastrofe sonora che anticiperà di quasi un ventennio il rumore assordante del crollo delle torri gemelle nel settembre del 2001.

Tutto sarà “scritto” e anticipato in una serie di album, e soprattutto di concerti, che via via lasceranno il pubblico sempre più tramortito, estasiato o smarrito. Un rituale che tra i solchi dei dischi oppure sui palchi di mezzo mondo portava alle orecchie degli ascoltatori il frastuono delle catastrofi a venire, anticipato tutto nella ripresa, fin dai primi dischi, di un altro grande tormentone del rock più degenerato: I Wanna Be Your Dog di Iggy Pop e dei suoi “dannati” Stooges (Detroit, 1969).

Una storia del rock passato, presente e futuro che, fino al furto delle medesime, saliva sul parco insieme ad un arsenale di chitarre elettriche che, dalle Fender di ogni tipo, alle Gibson fino alle Gretsch e Rickenbacker, riassumeva l’esperienza elettrica trasformandola definitivamente in quel corpo elettrico cantato già da Walt Whitman nelle sue Foglie d’erba: «I sing the body electric…» (1855 prima versione – 1892 ultima e definitiva).

Sì, perché occorre aver sperimentato sulla propria pelle e sul proprio corpo le vibrazioni universali emesse dal quartetto, soprattutto nel periodo compreso tra gli album Evol (1986), Daydream Nation (1988), Sister (1987) e Bad Moon Rising (1985) (titolo quest’ultimo che rinvia inevitabilmente ad un altro incomparabile gruppo del rock proletario e ipnotico come pochi altri, i Creedence Clearwater Revival), cosa significasse a cavallo tra anni Ottanta e Novanta essere esposti al bombardamento sonoro proveniente dagli amplificatori e dagli strumenti, spesso preparati in precedenza con “scordature” o cacciaviti cacciati tra le corde, dei Sonic Youth.

Un’astronave che decollava, con i motori a tutto regime, in fuga da un pianeta alieno, il frastuono terrorizzante di un bombardamento aereo su una città o quello dell’artiglieria sul campo di battaglia, il rumore delle sfere che si infrangono silenziosamente, soltanto per mancanza d’aria attraverso cui trasmettere le onde sonore prodotte dal loro scontro. Oppure di menti andate in frantumi. Per questo motivo si sono tralasciati qui i rimandi possibili, ma inadeguati, ai grandi improvvisatori della West Coast, Grateful Dead in testa, poiché nel suono del gruppo newyorkese non ci sono buone vibrazioni.

L’epoca dei Beach Boys e della loro Good Vibrations era già morta e sepolta all’epoca. Al suo posto si era aperta quella della guerra dei mondi e Thurston e soci lo annunciavano senza mezzi termini e, forse, per questo Neil Young li volle insieme a lui nel tour che trasmise in diretta dal palco il rumore dei bombardamenti su Baghdad ai tempi della prima guerra del Golfo. Neil Young che nei suoi assolo migliori e più acidi aveva portato il folk rock verso le stesse sponde, senza osare però mai superare il muro del suono che il gruppo di New York avrebbe infranto fin dagli esordi.

Esordi che, ripercorrendo le pagine dell’autobiografia di Moore, non scaturivano esattamente dal nulla e non soltanto per via dell’ambiente newyorkese più legato al CBGB (il locale sorto nel Lower Est Side che vide tra le sue pareti e sul suo palco svilupparsi la scena punk e new wave della Big Apple), con i concerti di Patti Smith e dei Television descritti al loro interno, ma anche in quell’avanguardia sperimentale che, da Glenn Branca (1948-2018), con The Ascension e Lesson N° 1, a Loren MazzaCane Connors (n.1949), con le sue sinfonie per cento chitarre elettriche, che avevano subito accolto Thurston Moore e Lee Ranaldo all’interno delle loro orchestre tutt’altro che da camera, aveva fatto della chitarra elettrica ciò che Beethoven, Haydn e, più tardi, Wagner avevano fatto con strumenti ad arco, fiati e timpani2.

Per un lungo tratto del loro percorso, prima della crisi e dello scioglimento legato anche alla frattura intervenuta nella coppia Thurston Moore/Kim Gordon, costituiranno davvero “l’avanguardia” con una scelta consapevole che li vedrà impegnati nella realizzazione di una serie di dischi incisi con composizioni e musicisti d’avanguardia, da Yoko Ono a Mats Gustafsson e molti altri, e che, proprio per questo, vedrà aggiungersi un quinto membro, Jim O’Rourke (n.1969), anche lui impegnato da tempo negli stessi territori musicali in compagnia del “vecchio genio” dei texani Red Krayola, Mayo Thompson (n.1944), operativo in quell’ambito fin dalla fine degli anni Sessanta. Una scelta artistica e sonora che Thurston Moore ha continuato a perseguire oltre e al di fuori degli stessi Sonic Youth, così come hanno continuato a fare sia Kim Gordon che Lee Ranaldo, senza però eguagliarne i risultati.

Tutto questo e molto altro ancora ci narrano le memorie dell’autore trasformando, proprio per questo motivo, Sonic Life in uno dei testi più preziosi, utili e interessanti per comprendere la storia e l’evoluzione della musica degli ultimi quarant’anni. 

Note

1) Sul significato della morte di John Lennon, si veda D. Gabutti, Pop. John Lennon e le culture della società opulenta in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Ediore, Vicenza 2025, pp. 55-63.

2) A proposito di Wagner e chitarre elettriche si veda qui

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17/05/2025

Love Lies Bleeding (2024) di Rose Glass - Minirece

Trump e gli Houthi, una “vittoria” per nascondere una sconfitta

Ha suscitato autentica sorpresa, qualche giorno fa, l’improvvisa affermazione di Donald Trump sugli Houthi (AnsarAllah) dello Yemen: “si sono arresi, non siamo più in guerra con loro”. Sorprendente non solo perché gli stessi guerriglieri non confermavano la notizia, ma soprattutto perché nelle stesse ore lanciavano un paio di missili verso Israele, che pure aveva giurato di aver azzerato quanto meno le infrastrutture portuali del paese.

Che cos’è accaduto, insomma? Un articolo del New York Times, qualche giorno dopo, ha fornito dettagli ancora più sorprendenti.

Trump era già abbastanza “frustrato” per l’assenza di risultati evidenti nell’operazione Rough Rider, finalizzata appunto ad indebolire sostanzialmente la capacità operativa di Ansar Allah di colpire le navi in transito nello stretto di Bab el Mandeb, all’ingresso del Mar Rosso e verso il canale di Suez (costringendo così le navi del solo Occidente a fare il periplo del continente africano).

Soltanto nel primo mese di attacchi – condotti impegnando due portaerei, bombardieri B-2 e caccia, nonché difese aeree Patriot e Thaad – erano andati perduti ben sette droni Predator da 30 milioni l’uno e due caccia F/A-18 Super Hornet, caduti dal ponte in due diverse occasioni, quando la portaerei aveva dovuto fare manovre di “evasione” in piena velocità per evitare di essere colpita da un missile yemenita.

I Predator sono droni di grandi dimensioni, ricchi di tecnologia di rilevamento elettronico, e doverne limitare l’utilizzo riduce enormemente la conoscenza dei punti da attaccare più rilevanti per le difese Houthi (è risaputo che in questo tipo di guerra le batterie antiaeree o missilistiche, anche se tecnologicamente un po’ “datate”, sono comunque mobili. Insomma, non stanno lì ad aspettare di essere individuate e colpite).

La somma delle perdite, in soli 30 giorni, è così arrivata ad un miliardo di dollari. Una cifra in fondo piccola nel bilancio del Pentagono, ma certamente sproporzionata se spesa per combattere un nemico così “minimo” come Ansarallah...

Il peggio però è arrivato nei giorni scorsi quando, secondo funzionari “ben informati” sentiti dal NYT, un numero non specificato di caccia F-35 e F-16 è stato quasi abbattuto dalle difese aeree Houthi. Il che era assolutamente imprevisto, dato che quelle batterie antiaeree di fabbricazione russa sono una fornitura “di seconda mano” da parte dell’Iran.

Un rischio alto corso per ottenere risultati in fondo irrilevanti, visto che le stesse agenzie di intelligence Usa hanno verificato che i danni inferti agli Houthi erano facilmente riparabili, e in poco tempo.

Al dunque, però, Trump avrebbe chiesto un rapporto sui “progressi” compiuti con i bombardamenti, non avendo alcuna intenzione di restare impelagato in un mini-conflitto dagli alti costi contro un nemico considerato “minimo”.

E qui arriva il vero scoop del New York Times: in 30 giorni gli Stati Uniti non erano nemmeno riusciti a stabilire la “superiorità aerea” sugli Houthi.

Bisogna districarsi nelle trappole del linguaggio specialistico militare, altrimenti si prendono lucciole per lanterne. È chiaro infatti che gli Houthi non dispongono di aviazione, quindi la “supremazia” Usa nei cieli non è nemmeno in discussione.

“Superiorità” però significa – in quel linguaggio – possibilità di operare a piacimento, senza alcun disturbo né rischio (come l’aviazione israeliana che bombarda Gaza o la Cisgiordania, insomma). Le perdite subite e i rischi di doverne registrare anche di più gravi, invece, escludono che questa condizione sia stata realizzata o facile da conseguire a breve termine.

Per operare in relativa tranquillità, insomma, l’aviazione Usa ha dovuto condurre attacchi “stand off”, ossia da molto lontano, e dunque con precisione inevitabilmente minore (ridotta ulteriormente dalla carenza di Predator, più facili da abbattere).

In fondo, dice il NYT, è la stessa tattica che hanno dovuto adottare i jet israeliani quando hanno attaccato l’Iran. Anche il quel caso la propaganda di Tel Aviv aveva celebrato “successi” favolosi, parlando addirittura di “azzeramento” delle difese contraeree di Tehran. Ma pare che le cose stiano un po’ diversamente.

La “resilienza” Houthi, condotta oltretutto con mezzi di “seconda mano”, dimostra che attacchi portati troppo da vicino avrebbero un costo molto alto.

Così “tante munizioni di precisione sono state utilizzate, specialmente quelle avanzate a lungo raggio, che alcuni pianificatori di emergenza del Pentagono stavano diventando sempre più preoccupati per le scorte complessive e le implicazioni per qualsiasi situazione in cui gli Stati Uniti potrebbero dover respingere un tentativo di invasione di Taiwan da parte della Cina”, racconta il NYT.

Il che apre interrogativi molto più complicati per qualunque pianificazione militare futura. Se gli Stati Uniti non sono in grado di condurre operazioni in sicurezza vicino allo spazio aereo dello Yemen, con le sue cosiddette difese aeree “rudimentali”. E gli F-35 – definiti “i caccia più avanzati mai assemblati” – non sono in grado di operare in sicurezza senza essere rilevati da una difesa aerea in fondo “arretrata” come quella Houthi, come gestirebbero i celebrati F-35 e B-2 (sia statunitensi che israeliani) la rete di difesa aerea iraniana, molto più estesa e più avanzata?

Di fatto, sta diventando chiaro che l‘Occidente neoliberista ha passato decenni a costruire un’intera dottrina di guerra che sta diventando obsoleta – basata su armi hi-tech, ad alto costo, che non possono essere prodotte su larga scala. Armi però contrastabili con efficacia anche da sistemi meno avanzati ma dal costo nettamente minore, e quindi impiegabili in numero significativamente maggiore.

Un esempio concreto si è avuto nella risposta iraniana ai bombardamenti israeliani: una massa di droni lenti e poco costosi che ha “saturato” le capacità del celebrato sistema Iron Dome di Tel Aviv, aprendo così la strada a normali missili balistici che arrivavano sui bersagli un attimo dopo, quando le batterie contraeree erano ormai “scariche”.

Ovvio che gli alti comandi militari occidentali stiano ragionando su come aggiornare armamenti e dotazioni. Ma ogni cambio di paradigma, anche quelli militari, ha bisogno di tempo, soldi, idee.

E non si trovano schioccando le dita...

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Romania - Il candidato presidente Simion accusa Macron di ingerenze elettorali

“La Francia si è intromessa nelle elezioni romene”. Queste sono le parole rilasciate giovedì da George Simion, candidato dell’Alleanza per l’unione dei romeni (Aur, partito di destra) favorito per le elezioni presidenziali in Romania, per le quali è previsto il ballottaggio in questo fine settimana.

Le “tendenze dittatoriali” di Macron

In un’intervista alla televisione CNews, Simion ha accusato il presidente francese Emmanuel Macron e l’ambasciatore francese a Bucarest Nicolas Warnery di ingerenze nei confronti del processo elettorale romeno: “amo la Francia e il popolo francese, ma non mi piacciono le tendenze dittatoriali di Emmanuel Macron. La Francia si è intromessa nelle elezioni romene”, ha detto Simion.

“L’ambasciatore francese ha parlato con il presidente della Corte costituzionale romena, che ha annullato le elezioni, e ha visitato le regioni del Paese per convincere gli imprenditori a sostenere il mio avversario, Nicusor Dan”, ha proseguito il candidato presidente.

Il golpe elettorale in Romania

La Romania è stata al centro di un vero e proprio golpe elettorale “made in Ue” quando la Corte Costituzionale decise all’unanimità di annullare le elezioni presidenziali, lo scorso autunno.

Le elezioni avevano visto l’ex primo ministro socialdemocratico Marcel Ciolacu classificarsi solo al terzo posto, con vincitore a sorpresa Calin Georgescu, candidato “indipendente” finché non disturbava l’establishment europeo, poi improvvisamente diventato di “ultradestra” (come era sempre stato), ma soprattutto antieuropeista e favorevole a un processo di pace con la Federazione russa.

“Non siamo l’Iran, dove un ayatollah decide chi può candidarsi. Ma anche in Francia, alcuni giudici hanno di fatto escluso Marine Le Pen. In Romania, le elezioni sono state annullate senza spiegazioni”, ha rincarato la dose Simion.

La democrazia liberale da mettere in soffitta

Come segnalato nell’ultimo editoriale di questo giornale, la democrazia liberale per come conosciuta negli decenni in Europa sta diventando un orpello da mettere in soffitta perché impedisce al grande capitale di allocare le proprie risorse in modo profittevole e rispondere alla frammentazione del mercato mondiale, scosso dalla crisi tutta occidentale del 2007/2008 e messo duramente alla prova dalla triade pandemia (2020), fuga Usa dall’Afghanistan (2021) e intervento russo in Ucraina (2022).

“Fingete di criticare Putin, ma usate gli stessi argomenti”, ha concluso Simion, mettendo a nudo l’ipocrisia di un sistema democratico europeo oramai alla frutta, con giudici che cecchinano candidati poco graditi (il caso di Marine Le Pen in Francia), governi che si impegnano in spese multimiliardarie senza passare dai pur inutili parlamenti (riarmo europeo), restringono spazi di dissenso sociale (dl sicurezza in Italia), ecc.

Il criterio non è “ideologico”, ma strettamente politico. Non importa se sei di destra, di centro o di estrema sinistra; se non condividi la triade guerra-austerità-riarmo devi esser messo fuori gioco.

L’interesse europeo per il fronte orientale

Il fronte orientale europeo è uno dei focolai caldissimi nel riordino dei rapporti di forza internazionali, su cui crediamo si giochi il salto di qualità dell’assetto dell’Unione europea per come conosciuta da Maastricht a oggi, con i guerrafondai di ultradestra baltici elevati ai vertici della commissione (Kallas, Kubilius, ecc), e i “pacifisti” di altri paesi (gli ultradestri ungheresi e rumeni, il socialdemocratico slovacco Fitso, ecc.) messi all’indice.

L’ingerenza francese in Romania deve essere intesa in questa partita di carattere generale, così come fu quella statunitense in Ucraina ai tempi del “fuck Eu” della Nuland.

Ossia il tentativo da parte della borghesia europea, di cui Macron è un fedele rappresentate, di tenere insieme un sistema politico-economico europeo, profondamente antipopolare, la cui tenuta è “stressata” dalle molteplici crisi internazionali.

Ma che, in assenza di un’alternativa, sta scegliendo di superare la democrazia liberale per mantenere intatti, o difendere alla “bell’e meglio”, i propri interessi di classe. Quelli dei padroni.

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Spese militari al 2% del PIL (forse)... ma è solo l’inizio

Arrivando al vertice informale dei ministri degli Esteri della NATO, svoltosi il 14 e 15 maggio nella città turca di Antalya, Antonio Tajani ha dichiarato ufficialmente che l’Italia ha raggiunto la soglia del 2% del PIL in spese militari. Anzi, ha detto che il governo ha già inviato il documento che attesta questo traguarda a Mark Rutte, segretario dell’alleanza atlantica.

Il ministro italiano ha detto che Giorgia Meloni avrebbe voluto annunciarlo al summit NATO del 24 e 25 giugno, di cui l’incontro di Antalya è un passaggio preparatorio. Ma alla fine Tajani ha preferito fregiarsene subito, durante un’occasione che aveva al centro, oltre all’espansione della produzione e il rafforzamento di deterrenza e difesa, anche l’aumento delle spese militari.

Nelle parole di Tajani c’è sicuramente la volontà di mostrarsi sulla buona strada rispetto agli impegni presi, arrivando alla soglia di spesa fissata ormai nel 2014. Ma andando più a fondo è anche una mossa di un governo che sa di non avere molto spazio fiscale, e che a fine giugno la NATO deciderà obiettivi finanziari molto più onerosi.

Infatti, nemmeno un mese fa Rutte, di ritorno da un incontro a Washington con il presidente statunitense Donald Trump, aveva annunciato la volontà di fissare una nuova soglia di spesa al 5% del PIL, da raggiungere gradualmente entro il 2032. Del resto, si prevede che entro la fine del 2025 tutti i paesi dell’alleanza raggiungeranno il 2%, e perciò si vuole spingere l’acceleratore sulla deriva bellicista.

L’idea sarebbe quella di toccare il 3,5% del PIL per la difesa in senso stretto – i core military requirements, elaborati secondo i criteri di calcolo di spesa attualmente in uso tra i membri dell’alleanza atlantica – e l’1,5% in più generiche spese per la sicurezza, i broader defence related investments, la cui definizione dovrà essere contrattata, e che sicuramente sarà tema del vertice NATO di fine giugno all’Aja.

Su questa divisione di spesa Tajani non è molto d’accordo, e ha affermato di ritenere più equilibrato un investimento del 3% nella difesa in senso stretto e del 2% nella sicurezza. La soglia del 2% raggiunta in questi giorni, annunciata da Tajani e poi anche da Crosetto, quasi sicuramente è stata raggiunta conteggiando nel totale un insieme di spese non propriamente militari.

L’osservatorio Milex ha calcolato per il 2025 una spesa militare italiana secondo i criteri NATO di poco superiore ai 35 miliardi: mancano 10 miliardi all’appello per raggiungere la soglia del 2% del PIL. Probabilmente oggi sono state conteggiate anche le pensioni militari, le spese della Guardia costiera e della Guardia di finanza, e forse altri fondi del ministero dell’Università e dell’Industria.

C’è chi valuta che, nelle spese militari largamente intese, il governo voglia considerare anche quelle per il Ponte sullo Stretto di Messina, di cui è stata dichiarata l’importanza strategica. Quello di Tajani è un annuncio che mostra la buona volontà italiana nella militarizzazione dell’economia, ma che serve anche a mandare un messaggio rispetto alla trattativa che riguarderà i paesi NATO nei prossimi mesi.

L’obiettivo, ad ogni modo, è condiviso: sollevare gli Stati Uniti da parte del peso della spesa per l’alleanza atlantica. Passare dal burden shifting, ossia dal semplice spostamento degli oneri, al burden sharing, ovvero la condivisione di essi, stando al contenuto di una lettera inviata da Rutte ai membri della NATO, anticipata dalla rivista tedesca Der Spiegel.

Un percorso che asseconderebbe i desideri di Washington, ma che rappresenta anche la giustificazione del progresso nell’edificazione di una compiuta difesa europea. Proprio ieri, 16 maggio, si è svolta a Roma la quarta riunione dell’E5, un formato di cooperazione informale tra i ministri della Difesa di Italia, Francia, Germania, Polonia e Regno Unito.

L’obiettivo di questo tipo di forum, si legge sul sito della Difesa italiana, è quello di promuovere una “maggiore autonomia strategica dell’Europa nella gestione delle proprie questioni di sicurezza, pur mantenendo saldi legami con la NATO e con l’Unione Europea”. Ne fanno infatti parte i cinque grandi attori del complesso militare-industriale europeo.

Le prime tre economie della UE, il bastione del fronte orientale di Unione Europea e NATO, e il Regno Unito. Sono questi gli attori che si candidano a guidare un nuovo sistema integrato delle difese del Vecchio Continente, come strumento strategico fondamentale in questa fase della competizione globale. Per questo il 2% è solo l’inizio...

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Perché Trump sta tradendo l'India?

Generazione Romantica

Generazione Romantica, dal titolo internazionale Caught by the Tides – ovvero “catturati dalle maree irrefrenabili” – è l’ultima opera del celebre regista cinese Jia Zhangke.

È la storia, principalmente di due città, Datong e Fenjie, e di due vite, quelle di Qiao Qiao e Guao Binche.

Più che intrecciarsi, le esistenze dei due protagonisti si sfiorano, nel turbinio dei cambiamenti – “le maree irrefrenabili” appunto – della Cina degli ultimi 25 anni.

La narrazione filmica è una sorta di danza del tempo dove storia collettiva e storia individuale sono i due costanti livelli dello sviluppo della trama: questi due piani della storia dialogano costantemente, creando un affresco in cui il privato e il collettivo si fondono, si combinano e si “giustappongono” con uno sviluppo cronologico che segna cambiamenti epocali e lascia solchi profondi come le rughe dei due personaggi a fine pellicola.

Le due città sono al centro di grandi cambiamenti: la prima è un paese “ex” minerario dello Shanxi che sembra destinato al declino, la seconda dello Chongqing che subisce le conseguenze della costruzione delle “Tre dighe”.

Le vite dei due personaggi principali sono in costante dialettica con i cambiamenti che attraversano la società in cui vivono, in una gamma di reazioni che va dall’adattamento passivo a ciò che sembra essere lo spirito del tempo, cercando di trovare una propria strategia di successo all’attiva reazione rispetto alle conseguenze della pandemia.

Da sempre Jia ha portato avanti un racconto personale e stratificato della Cina, tanto nel documentario quanto nella finzione.

Il senso di appartenenza alla terra e alla nazione attraversa l’intera sua filmografia, sostenuto da una costante ricerca delle immagini più evocative per raccontarla: una ricerca formale attenta e poetica, con una continua esplorazione di immagini capaci di raccontare la trasformazione del paese e delle persone che al loro interno si muovono. Frame e sequenze che sono talvolta “fossili” e testimoniano un mondo che non c’è più.

L’attenzione verso l’immagine e la cura nella sua costruzione propone allo spettatore una riflessione sul mezzo cinematografico stesso e la sua “storicità”: la capacità di rappresentare una realtà che muta così come cambiano i mezzi per rappresentarla.

In un’intervista ha raccontato che il titolo provvisorio del film era L’uomo con la macchina digitale, in omaggio al grande Dziga Vertov. Le immagini sgranate, tipiche del digitale dei primi anni 2000, accompagnano le sequenze iniziali e rievocano l’estetica del suo primo periodo: marcano una distanza profonda con l’oggi, uno scarto evidente tra i primordi post-analogici e quelli attuali. Non a caso, ritroviamo anche gli stessi attori: i due protagonisti, Qiaoqiao (Zhao Tao) e Bin (Li Zhubin), erano già apparsi ventidue anni fa in Plaisirs inconnus.

La protagonista femminile Qiaoqiao incarna il sentimento d’una Cina che, nei primi anni Duemila, si affaccia con slancio alla contemporaneità, pensando di trovare una propria possibilità di successo individuale in quelle che sembrano essere le attività che offre una società in profonda trasformazione e sviluppa inevitabilmente quelle storture che scaturiscono dalla volontà della dirigenza politica di sfruttare il modo di produzione capitalista e l’entrata nel mercato mondiale globalizzato, come opportunità di modernizzazione impetuosa per risalire nella gerarchia delle potenze.

Qiaoqiao si muove, danza, attraversa spazi e tempi con il corpo e l’anima di una nazione che si “apre” al ritmo del mondo e che sembra in preda alla colonizzazione dei valori occidentali verso un individualismo sfrenato, ma che ritrova un forte senso della collettività attraverso lo sforzo con cui si affronta l’emergenza pandemica del Covid-19.

Il formato cinematografico qui oscilla tra documentario e finzione, rendendo ibrido il mezzo cinematografico tra l’inserimento di video, filmati in 35 mm e un formato che oscilla tra il 4:3 o in 16:9, rompendo la “linearità” della rappresentazione e per così dire de-costruendone l’omogeneità attraverso il recupero di immagini attingendo ad un archivio stratificato di ciò che non si è utilizzato in lavori precedenti.

Le musiche che accompagnano le immagini – brani pop cinesi e internazionali, come i Pet Shop Boys di Au-delà des montagnes – rafforzano questa dimensione di esperienza collettiva. Il tutto si inserisce in un contesto storico preciso: l’ingresso della Cina nella World Trade Organization, evento periodizzante di un cambiamento epocale, le Olimpiadi e poi il Covid-19.

Un epoca di transizione dove il passato non viene raccontato direttamente, ma si trova sullo sfondo e dentro il cambiamento che viene rappresentato: un’istituzione culturale operaia di epoca maoista che si trasforma progressivamente fino ad essere “irriconoscibile”, o le macerie degli edifici demoliti contenenti numerosi segni della vita passata, accanto a quelli più moderni che stanno sorgendo.

Ciò che viene rappresentato contiene ciò che è stato e ciò che sarà, in un gioco tra potenzialità ed effettività, mutamento e fissità che attraversa tutto il film.

Tra questi, la costruzione della Diga delle Tre Gole, conclusa nel 2006. Attraversando il fiume Yangtze, la diga è diventata nel tempo una potente metafora della trasformazione radicale della Cina moderna.

In questo contesto si colloca Still Life (2006), film cruciale nella filmografia di Jia, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola racconta con estrema sensibilità le vicende di persone costrette ad abbandonare le proprie case per fare spazio al bacino della diga, restituendo allo spettatore una riflessione intima e politica sulla perdita di uno spazio.

Se da un lato la dimensione visiva assume una funzione narrativa centrale, il silenzio dei personaggi rappresenta un tratto distintivo e ricorrente nel cinema di Jia Zhang-ke, che nel film assume quasi la valenza dell’incomunicabilità se ognuno percorre l’illusione della propria affermazione individuale attraverso il successo economico e non si riconosce in una volontà comune.

Qiaoqiao, come già accennato, incarna simbolicamente la Cina e le sue trasformazioni. Mentre Bin le invia un messaggio invitandola a cercare fortuna altrove, lei resta ferma, e costante ai cambiamenti del Paese che si prepara a mostrarsi al mondo con le Olimpiadi di Pechino del 2008.

Il tempo del film si dilata fino alla pandemia da Covid-19, tutto cambia radicalmente: il silenzio si fa più profondo, il formato dell’immagine muta, vivido, e l’estetica raffinata delle prime parti viene progressivamente abbandonata, sostituita da uno stile che richiama la freddezza delle videocamere di sorveglianza. La pandemia bussa alle porte mentre Qiaoqiao, ora impiegata in un supermercato, lavora indossando una mascherina. La realtà si fa sempre più spersonalizzata, meccanica, quasi robotica – riflesso di un mondo ormai distante dalle sue origini.

La terza e ultima parte del film, ambientata durante la pandemia da Covid-19, si chiude con l’incontro finale tra Qiaoqiao e Bin. In una scena tanto semplice quanto densa di significato, i due si tolgono la mascherina, lasciando affiorare sul volto i segni visibili del tempo passato.

È un momento sospeso, fragile, che non offre una vera riconciliazione, ma restituisce piuttosto la sensazione di aver attraversato un mondo trasformato, ormai irriconoscibile, dove nonostante questa mutazione, i personaggi continuano a esistere, a muoversi con discrezione, come figure comuni “trascinate dalle maree” della Storia, proprio come chiunque altro.

Generazione romantica si cristallizza così in una forma instabile, evanescente, come una pellicola che fluttua nel tempo e nella memoria. Non si tratta di un racconto chiuso, né di una narrazione che cerca risposte, ma di un film che abita lo spazio incerto tra ciò che è stato e ciò che resta, proiettato verso ciò che sarà.

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A Istanbul si tratta, anche se all'“Europa” non piace

Parte la trattativa, anche se media e governanti europei fanno il tifo contro fino a negarla. A Istanbul, stamattina, si siedono le delegazioni russa, statunitense e ucraina, una di fronte all’altra, per la prima volta dal marzo 2022, quando solo l’intervento di Boris Johnson (primo ministro britannico) impedì che si arrivasse ad un cessate il fuoco ed a una prima bozza di accordo.

Molto tempo è passato, al punto che il nuovo premier di Londra – il sedicente “laburista” Keir Starmer – non è assolutamente in grado di influire sulla nuova trattativa, anche se gli piacerebbe moltissimo farla fallire.

La Russia presenta la stessa squadra di tre anni fa (Vladimir Medinsky come capo della delegazione), a sottolineare che da quel punto bisogna ripartire. Completamente diverso invece il team ucraino, guidato dal ministro della difesa Rustem Umerov, insieme a una dozzina di vice-funzionari, viste le numerose sostituzioni imposte ai vertici di Kiev da una guerra dall’andamento catastrofico. L’allora onnipotente Dmitri Kuleba, per esempio, è sparito dai radar...

A far capire che il gioco è serio è stato l’arrivo a Istanbul del segretario di Stato americano Marco Rubio, e non dovrebbe esser lì per fare il turista... Probabile che anche il suo omologo russo, Lavrov, stia per fare altrettanto.

Vedremo gli sviluppi, anche se per il momento sia gli statunitensi che i russi ostentano aspettative piuttosto basse.

Gli europei, invece, fanno a gara per dire che “la trattativa non c’è”, naturalmente per colpa di Putin che non si è presentato a Istanbul dopo aver proposto lui stesso data e sede.

Qui è necessario smettere di seguire i media europoidi e attenersi alle consolidate abitudini della diplomazia internazionale. Da che mondo è mondo, infatti, una trattativa tra due paesi in guerra è impostata dagli “sherpa”, ovvero da quei funzionari incaricati di preparare il terreno curando tutti i dettagli, registrando i punti di blocco, le possibilità di mediazione, isolando gli ostacoli insormontabili, ecc.

Solo dopo – quando quasi tutto è stato fissato in documenti – intervengono anche fisicamente i capi di stato per sciogliere gli ultimi nodi ed eventualmente firmare i “trattati”.

Immaginarsi Putin, Trump e Zelenskij chini per ore e giorni intorno alle mappe, a disputare sulle centinaia di metri in più o in meno da fissare come “confini”, oppure sulle quantità di armi che in futuro potranno essere stipate in Ucraina, ecc., è pura fantasia. Come sa ogni giornalista di medio livello che in vita sua abbia seguito, sia pure a distanza, una trattativa...

Ciò nonostante tutti hanno cercato di spiegare che questa sarebbe stata la scena clou “se Putin avesse voluto davvero la pace”. Una bestialità falsaria che è stata addirittura fatta propria da Giorgia Meloni in Parlamento...

La partita a Istanbul ha solo due giocatori veri: Russia e Stati Uniti. Perché le “garanzie” davvero strategiche sono quelle che Mosca chiede da almeno venti anni (da quando fu respinta la sua richiesta di adesione alla Nato!). Ossia l’arresto dell’espansione ad Est dell’alleanza atlantica e soprattutto il posizionamento delle testate nucleari a distanza di sicurezza dai confini russi.

E per quanto Francia e Gran Bretagna si pavoneggino con la loro piccola dotazione nucleare, tutti capiscono che non è quella la prima preoccupazione dei vertici russi.

Poi, certo, questa coppia di sciagurati può ancora provocare casini indescrivibili (tipo l’annuncio di Macron di voler posizionare in Polonia i pochi bombardieri nucleari francesi), finalizzati unicamente a far fallire ogni trattativa e continuare la guerra per procura. Ma non ci sono molti dubbi sul fatto che, se Russia e Usa trovano un punto di equilibrio credibile e duraturo, quello diventerà “legge” per tutti.

Il resto sono chiacchiere per giornalisti servi o boccaloni.

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16/05/2025

Animale (2024) di Emma Benestan - Minirece

Venezuela - Elezioni regionali e parlamentari

Pubblichiamo quest’articolo tratto dal sito del Network d’informazione latino-americana Telesur sull’imminente passaggio elettorale in Venezuela che vedrà presente una delegazione della Rete dei Comunisti/Cambiare Rotta/OSA, su invito del governo bolivariano del Venezuela in continuità con quella che è stata una costante presenza nelle varie tappe elettorali del Paese e degli appuntamenti dell’Internazionale Antifascista.

Questa costante presenza politica a Caracas è stata riportata con un ciclo di iniziative alla presenza delle delegazioni che si sono recate in Venezuela in varie tappe.

Segnaliamo l’intervento fatto da Luciano Vasapollo della Rete dei Comunisti all’incontro on-line con vari leader internazionali nel contesto delle elezioni del 25 maggio in Venezuela: “Il Venezuela vota, il mondo lo accompagna” con la partecipazione del dott. Jorge Rodríguez, capo del Comando di campagna, tenutasi lunedì 12 maggio 2025: Con le elezioni in Venezuela si afferma la democrazia socialista partecipativa con la pace.

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Il prossimo 25 maggio nel paese più a nord del Sud America, nella Repubblica Bolivariana del Venezuela, si terranno le elezioni regionali relative ad un processo elettorale in cui saranno eletti 285 deputati all’Assemblea Nazionale, 24 governatori, 260 legislatori regionali e 569 seggi a livello nazionale. Questo include il nuovo Stato della Guyana Esequiba.

In uno scenario di enormi difficoltà proprie di un paese assediato dalle politiche di massima pressione promosse dagli Stati Uniti, agite tramite l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) e la complicità dei governi sudamericani come quelli di Cile, Argentina, Paraguay ed Ecuador, impegnati a focalizzare il dibattito delle loro politiche estere sul carattere democratico del governo di Nicolás Maduro, ma tacendo, vergognosamente e ipocritamente di fronte ai crimini costanti degli Stati Uniti, dei paesi europei e regimi come quello israeliano, marocchino o altri, sostenuto da quell’Occidente che dice di promuovere la democrazia, ma incoraggia colpi di stato, aggressioni, invasioni, occupazione e genocidi.

Un’opposizione frammentata

A questa realtà si unisce un’opposizione ostinata nella contrapposizione al governo venezuelano, barricata nelle trincee del sostegno esterno e della destabilizzazione permanente, avvolta nella teoria della guerra a bassa intensità descritta dall’analista americano Gene Sharp (1).

Un’opposizione fondata sulla visione della destra più estremista dell’America Latina, che non esita a chiedere il sostegno degli Stati Uniti per invadere il paese, rovesciare il governo e consegnare il paese in un piatto d’argento agli USA, politici che servono Washington più del loro paese.

In questa strategia, l’opposizione legata agli Stati Uniti e ai paesi europei alleati, dove risalta il cognome Machado, sta spingendo un boicottaggio delle elezioni regionali e legislative, al fine di generare una narrazione dei loro partner e sponsor, volta a delegittimare il probabile trionfo delle forze governative.

Vecchia condotta che ripaga solo in termini di arricchimento della casta, come nel caso di Maria Machado, o il già caduto Juan Guaidó, che ha approfittato del suo minuto di fama per accumulare ricchezze a piene mani accanto alla casta di quel governo fantasma patrocinato da Washington e riconosciuto dagli europei, come anche governi latinoamericani, raggruppati nell’estinto ed esecrabile Gruppo di Lima.

Leopoldo López, Juan Guaidó, María Corina Machado fanno parte di questo gruppo di politici senza posto nello scenario politico nazionale venezuelano, in virtù del fervido allineamento con la politica di Trump e anche avallando le azioni di Washington e il governo salvadoregno di Bukele, che ha significato la detenzione nelle carceri di El Salvador di migranti venezuelani. La sottomissione a Trump e le sue politiche sono così potenti e le sue risorse così miserabili, che avallano anche la violazione dei diritti umani dei propri connazionali così come gli appelli ad invadere il proprio paese con forze militari straniere.

Ma c’è anche un’opposizione di destra che non vuole lasciare il campo elettorale solo al governo venezuelano che oggi può far valere un notevole progresso in ampie sfere della vita quotidiana, con il miglioramento dell’attività economica e indicatori che hanno normalizzato anni di difficoltà. Questa destra ha nomi noti nella scena politica venezuelana, sono figure prevedibili ed estranee all’idea di astenersi o boicottare come sta facendo il machadismo estremista.

Parlo di dirigenti regionali e nazionali come Luis Eduardo Martínez, deputato dell’opposizione del partito Azione Democratica, così come Henrique Capriles, ex candidato presidenziale ed ex governatore dello Stato di Miranda, che ritorna al campo della politica attiva dopo 8 anni di allontanamento (2).

Un Capriles che ha dichiarato al quotidiano spagnolo El País (bacheca costante degli attacchi al governo venezuelano) che “L’opposizione ha già usato l’astensione come mezzo per fare politica e alla fine non è nulla. Cosa puoi costruire dall’astensione?”. Un evidente riconoscimento del fallimento della strategia del terrorismo di Maria Machado e dell’esiliato Edmundo González che considera parte di un’opposizione che da anni lo squalifica, perché rappresenta la razionalità contro l’irrazionalità di una politica destinata ad affrontare i venezuelani.

Capriles fa parte della cosiddetta Rete Decide (Difesa cittadina della democrazia) presentata il 2 aprile 2025 che secondo le sue stesse parole «segna un cambiamento strategico di una parte dell’opposizione venezuelana, privilegiando la partecipazione elettorale come strumento di resistenza democratica, mentre rifiuta le sanzioni economiche internazionali e le tariffe secondarie legate al Venezuela». Accompagnano Capriles in questa rete di politici considerati “moderati” (termine ambiguo in materia politica) Jesús «Chuo» Torrealba, Henri Falcón, Tomás Guanipa, Andrés Caleca e Vladimir Villegas, tra gli altri. (3)

In questo gruppo di oppositori favorevoli alla partecipazione elettorale, includo l’ex candidato presidenziale Manuel Rosales, attuale governatore dello Zulia e Antonio Ecarri, del partito Alianza Lápiz, che ha presentato in questi giorni la sua lista di candidati all’Assemblea Nazionale e i governatorati di almeno sette stati. Ognuno di loro ha dichiarato pubblicamente che scommettono sulla strada elettorale, come l’unico modo per cercare di sconfiggere il governo. Tra questi vi sono i quattro governatori anti-Chavice che attualmente dirigono il governo a Zulia, Barinas, Cojedes e Nueva Esparta.

È evidente che, in tutti i nostri paesi, dove le democrazie rappresentative sono il sistema politico imperante, si affrontano disgiunzioni molto simili al fine di dirimere chi occupa determinati incarichi, ma la caratteristica di queste prossime elezioni regionali e legislative in Venezuela dispone un elemento centrale: l’esistenza stessa di un’opposizione abbattuta, con poca rilevanza e incapace di affrontare con statura e proposte le sfide del popolo venezuelano e un governo dotato, in questo momento, di un timone fermo.

Le elezioni del 25 maggio si profilano come una pietra miliare in materia di determinare ciò che un amico venezuelano mi ha indicato in una conversazione distesa “la correlazione di forze in un paese con un governo dotato di forza e decisione, di fronte a un’opposizione divisa, senza meta, con la stessa attitudine di sempre e la necessità che esiste di definire le tendenze nei processi di governance per il paese nel prossimo lustro”.

Un’opposizione sanguinante in lotte intestine, per vedere chi riceve la benedizione e le enormi risorse economiche che la Casa Bianca e l’Unione Europea donano, per continuare a mantenere una politica ostile contro il governo di Nicolas Maduro che ha mostrato in questi ultimi mesi una forza sul piano delle proposte e azioni a livello internazionale, come anche progressi e consolidamento di una struttura territoriale e governativa oliata e con forza per raggiungere un nuovo trionfo in queste elezioni 2025. Il processo elettorale tenuto in tutto il paese sabato 10 maggio è stato un chiaro esempio del potere di convocazione del governo venezuelano.

Elementi chiave

L’economia è stata al centro della discussione regionale e legislativa. Il PIL del 2024 è aumentato del 4% e la produzione di petrolio ha raggiunto un milione di barili al giorno, con il prezzo di questa risorsa in aumento. Cifre da tenere d’occhio perché, dopo il trionfo e l’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la politica di massima pressione ritorna a perseguitare il paese sudamericano e vuole mettere le mani sulla preziosa risorsa energetica di cui il Venezuela è il paese con più riserve del mondo.

In questo scenario, l’ampliamento e il consolidamento delle relazioni del Venezuela con il mondo dei BRICS+ è fondamentale. Questo, in materia di nuovi mercati e supporto in aree strategiche dell’economia del paese sudamericano, è legato agli idrocarburi. Il Venezuela deve affrontare le proiezioni negative fornite da società di consulenza legate al mondo di destra come Ecoanalítica.

E questo richiede audacia e accordi, un lavoro di fino, che permetta di contendersi con le prospettive di un’inflazione alta, perdita di una percentuale della crescita del PIL ottenuta nel 2024, calo della produzione petrolifera a causa delle restrizioni imposte dal governo americano, che può significare una perdita di produzione di 200 mila barili al giorno.

Queste proiezioni devono essere scongiurate dal governo, perché sono il cavallo di battaglia di questa opposizione in materia di una politica del terrore mediatico, utilizzando per questo, non solo i mezzi che possiedono in Venezuela, ma l’ampio spettro di strumenti di manipolazione e disinformazione dagli Stati Uniti, dalla Spagna e dai paesi latinoamericani come Ecuador, Paraguay, Argentina e Cile.

Quest’ultimo paese dove circa 800 mila venezuelani rappresentano il 38% della popolazione straniera nel paese andino e che hanno significato una forte discussione riguardo al tema migratorio. Linea discorsiva e di tensioni in cui è risaltato il ruolo svolto da un’organizzazione criminale denominata “Tren de Aragua” che è servito come punta di lancia delle denunce contro il governo venezuelano riguardo a una certa complicità con la sua azione, nel caso specifico di un ex ufficiale golpista ucciso in Cile.

Un tema che segna anche la discussione nel paese australe in vista delle prossime elezioni presidenziali. Questo, nonostante che la stessa comunità di intelligence degli Stati Uniti abbia sottolineato con forza, pochi giorni fa (4) che il Venezuela non guida il treno di Aragua, indebolendo l’argomento di Trump per usare la cosiddetta “legge dei nemici stranieri” negli stessi Stati Uniti e con ciò smentire quello che la destra e l’estrema destra cilena e anche partiti dell’alleanza di governo hanno utilizzato nei loro attacchi contro il Venezuela.

Secondo un documento di studio, consegnato alla Freedom of the Press Foundation ai sensi della legge sulla libertà di informazione e fornito alla CNN (furioso nemico del governo venezuelano) la comunità dell’intelligence ha basato il suo giudizio in gran parte sull’azione della polizia, a volte letale, del governo venezuelano contro il Tren de Aragua, che dimostra che tratta quell’organizzazione come una minaccia.

La grande debolezza nella leadership dell’opposizione venezuelana è evidente. La sig. Maria Machado nonostante tutte le risorse economiche messe a disposizione da Washington e dai suoi accoliti, non è stata in grado di mobilitare nemmeno una parte della popolazione incredula di fronte al suo evidente e criticabile comportamento di mostrarsi preoccupata del Venezuela, ma semplicemente servire i suoi datori di lavoro e quindi favorire il proprio profitto. Machado è un’anima in pena, eclissata a scapito di Henrique Capriles che si sta ergendo come la voce di un’opposizione disposta a partecipare alle elezioni, lasciando indietro le posizioni più estremiste

Il governo, in uno scenario complesso a livello locale (con processi di destabilizzazione che non cessano) regionale (con la disputa imposta per il territorio venezuelano della Guyana Esequiba) e internazionale con la massima pressione promossa da Washington, obbliga ad approfondire le unioni di obiettivi come quelle che si stanno stabilendo con gli alleati in ambito multilaterale: Cina, Iran, Russia, tra gli altri.

Così si intravede con la Federazione Russa, paese con il quale lo scorso mercoledì 7 maggio a Mosca – approfittando della vista di Nicolás Maduro per la commemorazione degli 80 anni del trionfo dell’Armata Rosso sul nazismo – ha firmato con il presidente Vladimir Putin un accordo di partenariato strategico e cooperazione che eleva al massimo livello le relazioni tra la Russia e il Venezuela.

Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha definito il trattato come “potente, significativo e importante”, sottolineando che l’accordo bilaterale “chiude una nuova tappa geopolitica con proiezione a lungo termine” In materia energetica. Entrambi i paesi hanno annunciato investimenti congiunti in petrolio, gas e miniere, con il sostegno tecnologico russo e la ricchezza delle risorse naturali del Venezuela. Inoltre, hanno rafforzato il loro coordinamento all’interno dell’OPEC+ e del Forum dei Paesi Esportatori di Gas (5)

Il prossimo 25 maggio il Venezuela si trova nuovamente ad affrontare una contesa elettorale.

Oggi, con un governo più consolidato in materia di realtà economiche, miglioramento globale, con difficoltà proprie di un paese sottoposto alle pressioni del vicino del nord, impegnato a seguire la strategia di Gene Sharp, anche se sono stati anni di fallimenti. Maria Machado invisibilizzata, come espresso da consulenti come Data Analysis (6) con un declino di popolarità simile a quello che ha sperimentato Juan Guaidó. Il “muto” Edmundo González più silenzioso che mai e i vecchi dirigenti come Capriles e Rosales, cercando di aprirsi uno spazio in uno scenario di incredulità, di fronte agli stessi argomenti esposti da anni di opposizione.

Note

1) Gene Sharp è un filosofo e politologo americano, fondatore dell’ONG Albert Einstein, il cui scopo presunto è quello di promuovere «la difesa della libertà e della democrazia e la riduzione della violenza politica attraverso l’uso di azioni non violente». La sua opera, tuttavia, racconta cinque passi per provocare colpi leggeri: ammorbidimento; delegittimazione; riscaldamento di strada; combinazione di forme di lotta e frattura istituzionale. Come si verificano queste tappe di fronte ai governi post-neoliberali del nostro continente? Quanto sono simili a ciò che è accaduto nell’ultimo mese in Venezuela? https://rebelion.org/el-manual-sharp-y-los-golpes-suaves-en-america-latina/

2) In un interessante articolo pubblicato su Telesur dall’analista Daniel Ruiz Bracamonte, questo afferma che “La recente abilitazione di Capriles Radonski, dopo otto anni di interdizione politica, reintroduce nella scacchiera un attore che cerca di capitalizzare l’evidente logoramento della strategia astensionista promossa da Machado…” https://www.telesurtv.net/venezuela-elecciones-encrucijada-oposicion/

3) https://misionverdad.com/venezuela/la-importancia-estrategica-de-las-elecciones-del-25-de-mayo-en-venezuela

4) https://cnnespanol.cnn.com/2025/05/06/eeuu/inteligencia-ee-uu-venezuela-tren-de-aragua-ley-trump-trax

5) https://espanol.almayadeen.net/noticias/politica/2012944/rusia-y-venezuela-firman-trascendental-acuerdo-de-alianza-es

https://www.youtube.com/watch?v=y1w_fCxLquw

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Mattarella e Draghi fanno l’ultima chiamata per l’autonomia strategica UE

Mattarella e Draghi, la diarchia che ha segnato l’Italia dei primi anni post-pandemici, si è trovata riunita a Coimbra. Parlo di diarchia non per gioco retorico, ma perché queste due figure hanno davvero espresso la verticalizzazione della politica italiana, la gerarchizzazione e il ‘bacchettamento’ dei partiti che non si volevano allineare ai dettami di Bruxelles.

Ciò avveniva in una fase di forte sollecitazione per le mire strategiche unioneuropeiste, e dunque avviene di nuovo in questi mesi, in cui la rottura dell’illusione dell’unità euroatlantica sta costringendo la UE ad assumere quell’autonomia strategica a cui ha sempre aspirato o a perdere definitivamente il treno della competizione globale.

Senza tenere a mente questa cornice analitica, non si può capire il valore delle parole che entrambi i politici hanno pronunciato nella città portoghese, dove si è svolto il 17esimo summit sull’innovazione organizzato dalla fondazione Cotec Europa. Non a caso, il titolo era “A call to action”, che è poi il senso dei loro discorsi.

Partiamo dal discorso tenuto da Draghi, che fa il paio con quello dello scorso febbraio, quando l’economista era intervenuto al Parlamento Europeo chiedendo al consesso di “fare qualcosa”, e di non dire sempre di no a tutto. Soprattutto perché ora i dazi di Trump hanno aperto una faglia che non si richiuderà.

“È un azzardo credere che torneremo alla normalità nel nostro commercio con gli Stati Uniti”, ha detto Draghi, aggiungendo poi che “dovremmo chiederci come mai siamo finiti nelle mani dei consumatori statunitensi per guidare la nostra crescita. E dovremmo chiederci come possiamo crescere e generare ricchezza da soli”.

Anche se l’ex presidente della BCE e del governo italiano ha ribadito che la UE deve cercare un accordo per salvaguardare le proprie esportazioni e mantenere l’accesso al mercato stelle-e-strisce, l’obiettivo deve essere quello di promuovere relazioni e dotarsi di strumenti che garantiscano la crescita europea, con o senza Washington.

Per dirla in altre parole, serve aumentare innanzitutto la domanda interna del Vecchio Continente, quella stessa domanda che è stata strozzata dalle politiche di austerità di cui lo stesso Draghi è stato promotore. Come già altre volte negli ultimi mesi, il buon ‘SuperMario’ si scorda di dirlo, perché significherebbe dichiarare al mondo il fallimento della trentennale politica mercantilista della UE.

Ad ogni modo, Draghi ha ribadito che l’unico modo perché si venga a capo di questa situazione è una maggiore integrazione europea, a partire dall’emissione di debito comune. “Quando il debito è già elevato – ha detto – l’esenzione di categorie di spesa pubblica dalle regole di bilancio può arrivare solo fino a un certo punto”, con ovvio riferimento ai piani di riarmo.

“Nelle occasioni in cui l’UE ha fatto salti significativi verso una maggiore integrazione, tre fattori sono stati tipicamente presenti: una crisi che dimostra oltre ogni dubbio che il sistema precedente è diventato insostenibile; un grande shock politico che sconvolge l’ordine istituzionale; un piano d’azione già esistente cui tutte le parti possono aderire”.

L’ex-presidente della Bce ha affermato che “oggi, per la prima volta in forse 30 anni, tutti e tre i fattori sono presenti di nuovo. Dal 2020 abbiamo perso il nostro modello di crescita, il nostro modello energetico e il nostro modello di difesa. Gli europei avvertono in modo acuto il senso di crisi”.

In maniera complementare, Mattarella ha dichiarato solennemente che “stare fermi non è più un’opzione”, rivelando poi quello che è alle fondamenta del progetto europeo: egli ha infatti invitato a “progredire senza indugi e con efficacia proprio sulla strada della competitività, condizione indispensabile all’ulteriore approfondimento del progetto d’integrazione continentale”.

“I rischi dell’immobilismo – ha continuato – sono ben identificati nel Rapporto Draghi come in quello Letta, sul futuro del mercato interno: le ipotetiche conseguenze per l’Europa, ad esempio in termini di arretramento nelle condizioni materiali di benessere diffuso o di un allontanamento irreversibile dalla frontiera tecnologica, ne accrescerebbero anche le vulnerabilità sui piani strategico e geopolitico”.

Il benessere diffuso è in caduta libera già da tempo nella UE, e viene tirato fuori solo in maniera strumentale. Non è la riduzione delle disuguaglianze, non è la pace e la promozione dello sviluppo la ragione d’esistere della UE, ma lo è la capacità dell’imperialismo continentale di stare al passo degli altri grandi attori globali.

Mentre Israele porta a compimento il genocidio dei palestinesi, mentre appena al di là del mare la Libia torna a infiammarsi, mentre da oltre tre anni l’Occidente usa gli ucraini come carne da cannone, un presidente della Repubblica guerrafondaio parla di “ingiustificate ritrosie” rispetto al piano di riarmo, difesa comune ed economia di guerra licenziato da Bruxelles.

Insomma, il binomio Draghi-Mattarella ha tracciato i possibili scenari futuri della UE. O un salto di qualità nell’integrazione, a partire dal diventare una realtà politica armata fino ai denti, o la condanna a giocare un ruolo minore nello scenario internazionale. Ovviamente, sempre finché il nodo rimarrà quello di come garantire il profitto di pochi sulla vita di molti.

Per chiunque voglia invece intraprendere una strada alternativa, per un modello fondato sui bisogni popolari e su relazioni internazionali pensate non come una questione di dominio, ma di sviluppo complementare con altri paesi, la rottura della gabbia europea è la parola d’ordine da agitare.

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USA - I tagli alla spesa piegano il Pil

Dare soluzioni sbagliate a problemi non compresi porta al disastro. Sembra questa la sentenza adatta alla trumpnomics, quel vortice di decreti presidenziali che ha imposto dazi sulle merci importate da tutto il mondo e giganteschi tagli alla spesa pubblica degli Stati Uniti.

Non che la spesa Usa sia molto orientata al “sociale”, anzi... Ma comunque era ed è una massa di spesa rilevante che, come spiegava un liberale conservatore come Keynes, comunque entra nel Pil con effetti “moltiplicati” (3 dollari di Pil per ogni dollaro di spesa, in media).

L’esatto opposto di quanto prescritto dall’astinenza neoliberista, secondo cui la massima efficienza del mercato si ha quando la spesa pubblica viene tagliata e il debito pubblico ridotto (anche se la riduzione, di fatto, non c’è mai stata per nessun paese, anzi...).

Sta di fatto che i dati relativi ai primi mesi di amministrazione Trump sembrano proprio confermare che il problema della crisi Usa ha ricevuto lì una diagnosi sbagliata e quindi una “cura” che aggrava il problema invece di risolverlo.

Il Levy Institute – non certo un tempio del “progressismo” – si è messo a ragionare sui dati trimestrali, peraltro parecchio perturbati dalle iniziative trumpiane, ed ha scoperto quel che anche da lontano si poteva intuire (se si ha qualche cognizione di critica dell’economia politica).

Le importazioni non sono la causa della bassa crescita Usa (scesa dello 0,28%), anche se c’è stato un aumento straordinario (+41,3%) dovuto paradossalmente proprio all’annuncio di dazi mostruosi contro tutti. In pratica, le aziende che utilizzavano beni o componenti cinesi (e non solo) si sono affrettate a fare scorta ai vecchi prezzi prima che raddoppiassero a causa dei dazi. Ma, appunto, si tratta di un effetto temporaneo che scomparirà “a regime” (semmai ci sarà una fase “normale” sotto la gestione di The Donald).

Il peso negativo sul Pil, invece, ce l’hanno i tagli alla spesa pubblica. Ma guarda un po’...

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La Prossima Recessione: le Importazioni sono il Vero Colpevole?

Le stime preliminari sulla crescita del PIL reale nel primo trimestre del 2025 mostrano un tasso di contrazione annualizzato dello 0,28%, accompagnato da un aumento straordinario delle importazioni del 41,3%.

La maggior parte dei commentatori si è affrettata a indicare che la contrazione fosse dovuta all’aumento delle importazioni, come nel recente titolo di Reuters che dichiarava: “La contrazione del PIL è guidata dal record del deficit commerciale a causa del boom delle importazioni”.

È vero che le importazioni sono aumentate vertiginosamente, soprattutto approfittando dell’esenzione de minimis per i beni cinesi, terminata alla mezzanotte di venerdì 2 maggio 2025. L’esenzione de minimis consente a merci del valore di 800 dollari o meno di entrare negli Stati Uniti quasi senza dazi, senza ispezioni e con pochissima burocrazia.

Queste piccole spedizioni, coperte dall’esenzione de minimis, hanno rappresentato oltre 1,36 miliardi di spedizioni nell’anno fiscale 2024, più del doppio rispetto a quattro anni prima, secondo l’agenzia doganale statunitense. Secondo The Guardian, questo tipo straordinario di importazioni rappresenta “oltre il 90% di tutto il carico che entra negli USA. Circa il 60% di questi pacchi proviene dalla Cina”.

È ben noto che le componenti della domanda del PIL includono consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni meno importazioni. Quel contributo negativo delle importazioni potrebbe portare chi non conosce bene la contabilità nazionale a presupporre un legame negativo diretto e uno a uno tra importazioni e PIL.

Una visione più informata smentisce questa conclusione, poiché il valore delle merci importate si riflette anche nei consumi, negli investimenti e nella spesa pubblica, quindi un aumento delle importazioni ha un effetto negativo sulla produzione interna solo quando il settore domestico passa da beni prodotti internamente a beni esteri, cosa che non sta accadendo attualmente negli Stati Uniti.

Certamente, il picco delle importazioni è legato all’incertezza legata all’introduzione dei dazi di Trump, che, come indicato sopra, hanno spinto le aziende ad accumulare prodotti esteri prima che i dazi entrassero in vigore. Ciò è corroborato dal legame tra la variazione delle importazioni di beni e la variazione delle scorte dimostrato nella Figura 1. Tuttavia, la ragione del (lieve) calo del PIL reale nel primo trimestre del 2025 dovrebbe essere ricercata altrove.


I commenti sulla crescita del PIL si concentrano solitamente sui tassi di crescita annualizzati, che spesso esagerano i movimenti a breve termine. Se osserviamo, ad esempio, la variazione annuale del PIL reale nel primo trimestre del 2025, notiamo una crescita positiva del 2% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente.

Esaminando il tasso di crescita trimestrale di ciascuna componente della domanda, l’unica che mostra un segno negativo (Figura 2) è la spesa pubblica, diminuita dello 0,4% (1,45% su base annualizzata).


Il responsabile del rallentamento del PIL è quindi principalmente lo shock derivante dal calo delle spese del governo federale e, dati i tagli proposti dall’amministrazione alle spese discrezionali non di difesa di oltre 163 miliardi di dollari a partire dal prossimo anno fiscale, la contrazione del PIL sarà in definitiva molto più forte.

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