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30/06/2023

Cabin fever (2002) di Eli Roth - Minirece

Germania - Bufera sull’intelligence: non si è accorta di quanto avveniva in Russia

La consuetudine delle amministrazioni Usa di non fornire informazioni riservate alle intelligence dei paesi alleati, sta provocando un terremoto nei servizi segreti tedeschi.

Il Servizio federale per le informazioni (Bnd), ossia l’agenzia di intelligence tedesca per l’estero, è finito “sotto pressione” per essere stata colta di sorpresa dalla rivolta del gruppo paramilitare Wagner in Russia.

A riferirlo è il quotidiano tedesco Handelsblatt, evidenziando come lo stesso cancelliere Olaf Scholz abbia ammesso che il Bnd sia stato colto di sorpresa dalla rivolta dei mercenari di Evgenij Prigozhin.

Il servizio “ovviamente non sapeva” dell’insurrezione “prima” che iniziasse ha affermato il capo del governo tedesco durante un’intervista rilasciata all’emittente radiotelevisiva Ard.

Scholz ha aggiunto che, una volta iniziata la sollevazione del gruppo Wagner, il Bnd ha informato “sempre e di continuo” l’esecutivo federale su “quanto vi era da osservare”. Tuttavia, questa risposta non è sufficiente per il Comitato parlamentare di controllo sulle agenzie di intelligence (Pkgr).

Il presidente dell’organo del Bundestag, il deputato dei Verdi Konstantin von Notz, ha dichiarato che “Ora il Pkgr si occuperà intensamente delle questioni attuali del Bnd e della collaborazione con i servizi partner”.

Quest’ultimo problema infatti è emerso dal fatto che i servizi di intelligence Usa avevano saputo in anticipo di quanto stava accadendo in Russia, ma si sono ben guardati dall’informarne o dallo scambiare informazioni preziosi con i servizi segreti dei paesi europei.

Ralf Stegner, membro della Spd nel Comitato parlamentare di controllo sulle agenzie di intelligence (Pkgr) ha dichiarato che l’impreparazione del Bnd deve essere “approfondita piano politico” e “ciò vale anche nel caso di mancato scambio di informazioni con le agenzie di intelligence degli alleati” della Germania.

Il riferimento è alle indiscrezioni pubblicate dai quotidiani New York Times e Washington Post, secondo cui i servizi segreti degli Stati Uniti erano a conoscenza dei piani insurrezionali di Prigozhin da prima che venissero attuati. Al riguardo, durante l’intervista ad Ard, Scholz ha affermato che intende discutere del flusso delle informazioni di intelligence con gli alleati della Germania.

Diversamente, per Wolfgang Kubicki, deputato e vicepresidente del Partito liberaldemocratico (Fdp) la Cancelleria deve ora prendere provvedimenti “nel settore dei servizi di intelligence” e il fatto che altre agenzie siano state informate dei piani di Prigozhin prima del Bnd non deve essere un’opportunità per inviare “lettere di reclamo all’estero”.

Kubicki ha anche addossato la responsabilità dell’incapacità dell’intelligence tedesca agli anni di governo della Merkel.

Una esercitazione di servilismo atlantico, quella dei liberali tedeschi, che omette almeno due fattori: la Merkel, come noto, veniva spiata dall’intelligence statunitense, e anche in questa occasione, come già avvenuto in Afghanistan, le agenzie di sicurezza statunitensi non hanno fornito informazioni a quelle dei paesi europei alleati nella Nato.

Anche in quell’occasione, gli europei vennero “colti di sorpresa” dalla rapida fuga degli statunitensi da Kabul. Più che alleati questi sono “fratelli coltelli” e la Nato non è affatto una garanzia di relazioni leali tra gli alleati.

Fonte

[Contributo al dibattito] - La Russia verso la de-postmodernizzazione?

In un articolo su Sinistrainrete, Pierluigi Fagan ha affrontato l'affare Prigozhin dal punto di vista della Teoria della Complessità, di cui è specialista, suggerendo la possibilità che l'effimero tentativo di golpe di Evgenij Prigozhin sia connesso a lotte di potere per la successione di Vladimir Putin, il quale, ricordava Fagan, ha annunciato ben prima dell'inizio dell'Operazione Militare Speciale in Ucraina che non si sarebbe presentato alle elezioni presidenziali dell'anno prossimo [1].

In alcuni post personali io ho sostenuto che è difficile pensare che l'apparato di sicurezza russo non sapesse che stava bollendo qualcosa in pentola, anche perché erano mesi che il patron della PMC Wagner stava, diciamo così, dando istrionici segnali, accusando di incompetenza e malafede i vertici militari russi. E anche perché è fuori dal mondo pensare che l'intelligence russa non avesse occhi aguzzi nella e sulla Wagner. Il New York Time, citando fonti anonime, ci informa che ne era “accorta” persino l'intelligence statunitense, aggiungendo che anche Putin ne era al corrente [2].

E fin qui ci siamo.

Manca il resto.

Quindi, lasciando per il momento da parte gli Stati Uniti, la situazione era questa: Prigozhin stava ordendo qualcosa contro un settore chiave del governo russo, il Cremlino lo sapeva ma ha “lasciato fare”. Perché?

Il primo motivo più evidente è che si trovava di fronte una formazione armata fino ai denti composta da diverse migliaia di combattenti con grande esperienza guidati da un gruppo autoreferenziale, il Consiglio dei Comandanti della Wagner, che usava come “avanguardia PR” un signore con un passato criminale, ricchissimo, patologicamente egotico [3].

Non erano i 25.000 uomini vantati da Prigozhin, perché moltissimi combattenti della Wagner si erano rifiutati di seguirlo in questa avventura, ma erano comunque molte migliaia e armati di tutto punto. Non solo, dopo la battaglia di Bachmut/Artemovsk attorno a loro si era creata l'areola di eroi coraggiosi e indomiti. Una fama in parte legittima ma in gran parte montata, ad arte o per ignoranza, da uno stuolo di “commentatori” sia occidentali sia russi.

Excursus: La battaglia di Bachmut

È stata finora il più grande scontro militare del XXI secolo. Questa tremenda battaglia è durata quasi un anno, dal 1° agosto 2022 al 20 maggio 2023. Per tenere quella città Kiev ha impiegato lungo quei 293 giorni una forza militare straordinariamente grande: 37 brigate, 2 reggimenti e 18 battaglioni separati, oltre a “volontari” come la “Legione Georgiana”, per un totale di circa 160.000 uomini. Mosca ha gettato nella battaglia 50.000 combattenti della Wagner sostenuti dall'artiglieria, dall'aviazione e da poche e specifiche unità regolari.

È stata un'ecatombe. Né Kiev né la Wagner hanno mai reso conto delle proprie perdite (il Ministero della Difesa russo rende conto solo di quelle dei soldati regolari), tuttavia un incrocio delle stime e l'analisi dell'andamento della battaglia fa supporre che le perdite ucraine “irrecuperabili” siano state 45.000 con un margine d'errore di +/- 7.000.

Le perdite tra le forze regolari russe sarebbero attorno alle 5.000 mentre quelle della Wagner oscillerebbero attorno alle 17.000. Ma qui bisogna fare un importante distinguo: 13.000 di esse sarebbero detenuti che avevano accettato di aderire alla Wagner mentre solo 4.000 sarebbero mercenari professionisti [4].

Ne seguono due considerazioni.

La prima è che la Wagner era composta da una plebe e da un'aristocrazia segmentata a vari livelli, Una distinzione che riprenderemo.

La seconda si articola come segue. Come si sa ad un certo punto della battaglia di Bachmut, quando ormai era chiaro che Kiev l'avrebbe persa, si sono susseguite notizie, che promanavano dal Washington Post, ovvero dalla CIA, che affermavano che gli Stati Uniti da tempo avevano consigliato agli ucraini di ritirarsi fino al punto di accusare i comandanti di Kiev di incompetenza [5].

In realtà la tenuta di Bachmut era un obiettivo obbligato per i generali ucraini per poter stabilizzare il fronte e le critiche statunitensi rivelavano lo scontro tra due visioni distinte degli scopi della guerra dopo un anno. Per gli Stati Uniti si trattava di evitare perdite in vista della “controffensiva di primavera”, la controffensiva più preannunciata della storia. Per gli ucraini era evitare altre conquiste territoriali da parte dei russi.

L'obiettivo statunitense era puramente politico e PR: dimostrare al mondo, con la futura controffensiva, che l'Occidente collettivo reggeva e da questa posizione apparentemente di forza, di fatto un effetto speciale, arrivare a una trattativa con la Russia, trattativa ritenuta sempre più urgente dalla maggior parte del mondo.

Nessuno tuttavia si illudeva che Kiev avrebbe mai potuto recuperare tutto il Donbass e men che meno la Crimea. Tutti, anche a Kiev, sapevano che la controffensiva sarebbe costata enormemente e avrebbe raggiunto, eventualmente, solo successi limitati, come sanno anche che dalla trattativa di cui oggi si parla insistentemente e che probabilmente sarà inevitabile una volta che la controffensiva si sarà esaurita (non foss'altro per evitare una devastante offensiva russa) l'Ucraina uscirà, letteralmente, a pezzi.

Tutti tranne persone ideologizzate e di miserabile caratura come il generale neocon David Petraeus, ex direttore della CIA e uno dei brillanti artefici della sconfitta statunitense in Afghanistan (contro un avversario privo di aviazione, difesa aerea, artiglieria moderna, carri armati e satelliti spia).

E sicuramente nei settori dell'establishment statunitense oggi predominanti sopravvive il retropensiero che anche limitate sconfitte russe - che sarebbero esaltate ed esagerate sia in occidente sia nella stessa Russia, anche per ignoranza, pubblicità, protagonismo: non è necessario pensare sempre alla vendita dell'anima - possano destabilizzare il governo di Mosca, specialmente se combinate con un'azione interna. E qui si ritorna all'affare Prigozhin come vedremo tra un po'. Da qui l'insistenza per una controffensiva a tutti i costi “fino all'ultimo ucraino”.

Per i generali di Kiev invece l'obiettivo era classico, nel senso che era improntato a una classica “difesa della Patria” contro un invasore. Ma il benessere dell'Ucraina e degli Ucraini non è mai stato nelle preoccupazioni dell'Occidente collettivo.

Ritorniamo quindi al Cremlino nel momento in cui si trova di fronte a quell'enorme problema. La cosa più saggia che può fare per evitare un bagno di sangue, devastante non solo in termini militari, ma più ancora in termini politici interni e di prestigio internazionale, è prendere tempo. E così fa.

In quel tempo di sospensione ha modo di verificare chi tra le sfere militari e politiche sta col presidente e chi rema contro.

Il Consiglio dei Comandanti della Wagner, il cerchio superiore dell'aristocrazia della PMC, è formato da ex militari russi. Di sicuro hanno amicizie e conoscenze nell'apparato russo e di sicuro qualcuno avrà promesso un appoggio. Occorre che si scopra. I “Wagneriti” sono così sicuri che abbattono gratuitamente un elicottero militare uccidendo l'equipaggio (un fatto gravissimo) e forse altri velivoli militari. Vogliono far vedere che fanno sul serio e non hanno scrupoli.

E in quel tempo che il Cremlino si prende, una sterminata colonna di truppe cecene si apposta attorno a Rostov sul Don, la base del pronunciamento militare, in attesa di un ordine di attacco che fortunatamente non dovrà mai essere dato.

In quel tempo guadagnato dal Cremlino tutto l'apparato militare, politico e civile, più tutta la popolazione russa, si stringe attorno al presidente Putin. Si sa oggi che alcune personalità importanti anche se secondarie scapperanno dalla Russia, si dice verso la Georgia.

E gli ammutinati si trovano in mezzo al nulla: davanti nessun appoggio, dietro il sicuro disastro, l'annientamento. E si arrendono.

Grazie al sangue freddo e all'intelligenza del Cremlino quello che poteva finire in tragedia finisce in farsa. Un dilatato “Vogliamo i colonnelli” nei dilatati spazi russi [7].

Certo, per il Cremlino è un colpo d'immagine, molto grave alla vigilia del summit BRICS a Pretoria. Mostra tutta la debolezza dovuta ai problemi non risolti della de-sovietizzazione degli anni Novanta e dell'adesione a una concezione del mondo che chiamerò post-moderna (ci ritorneremo alla fine). Tuttavia mostra anche le grandi capacità politiche del gruppo dirigente russo e la coesione della società russa, che può sembrare straordinaria solo se non si conosce la storia di quell'immenso Paese.

I “contorni” dell'affare Prigozhin

Una delle domande automatiche che giravano e girano tuttora era: “Chi ha pagato Prigozhin?”. In fondo un mercenario si fa pagare dal miglior offerente. Posto che il signor Prigozhin non è un mercenario ma una persona avida e senza scrupoli, io non lo so. Non è nemmeno necessario che sia stato “pagato”. Ci possono essere stati altri accordi, espliciti o impliciti. Promesse di reciproci favori politici. Utilizzi di terze parti tollerati, suggeriti o invocati, coerenti o incoerenti tra loro [8]. C'è tutta una varietà di sfumature di cui il “pagamento” è solo la più immediata, la più capibile, la più spettacolare.

A golpe evaporato (in 24 ore) gli Stati Uniti, per bocca dell'ambasciatrice a Mosca, Lynne Tracy, fanno sapere con nettezza e con insistenza che loro non c'entrano assolutamente nulla [9]. Diniego ripetuto anche da Biden: “È solo un affare interno alla Russia”.

Ovviamente sarebbe stupido aspettarsi qualcosa di diverso. Ci si può credere, così come legittimamente ci si può non credere data l'interminabile scia di menzogne e inganni a cui gli Stati Uniti ci hanno abituato e dato che, come ha sottolineato Sergei Lavrov, “gli Stati Uniti spalleggiano ogni colpo di stato che gli viene comodo”.

Tuttavia io ritengo che la preoccupazione degli USA (per lo meno della sua parte senziente, pragmatica e razionale) riguardo all'incertezza nel controllo dell'immenso arsenale nucleare russo sia genuina, così come è genuino il timore russo che gli Stati Uniti finiscano nel caos. Perché tutti sanno che le armi atomiche non sono propriamente armi, ma qualcos'altro.

Questo dovrebbe chiarire l'inconsistenza e l'inadeguatezza di pensiero di chi evoca l'uso delle armi nucleari. Ad esempio di chi negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta premeva per il bombardamento atomico del Vietnam del Nord [10], di chi oggi in Occidente “prevede” che la Russia userà armi atomiche in Ucraina (e perché, visto che le bastano quelle convenzionali?) [11] e infine di chi oggi in Russia invoca l'uso delle armi nucleari contro l'Ucraina [12].

Ci salviamo ancora grazie all'equilibrio del terrore. Quell'equilibrio che l'espansione della Nato a est (con programmato inglobamento dell'Ucraina) voleva distruggere e che è stato ristabilito con le nuove armi ipersoniche, i nuovi sottomarini atomici e i nuovi sistemi di difesa aerea russi che hanno reso obsolete le dottrine belliche statunitensi (persino quelle navali, pur essendo sotto altri parametri la Marina statunitense quella più potente al mondo).

Equilibrio nucleare, disequilibrio convenzionale

Un equilibrio nucleare che rende operativo il disequilibrio delle forze convenzionali in cui invece la Russia predomina. Ed è questo il muro contro cui i neo-liberal-con statunitensi rischiano di andare a scontrarsi in modo drammatico trascinando con sé tutta l'Europa e forse tutto l'emisfero Nord.

Ora il punto è proprio questo: di sicuro una parte dell'establishment statunitense è consapevole delle forze in campo, della posta in gioco e delle linee rosse che non possono essere oltrepassate. Ma un'altra parte, quella predominante a Washington per quanto è dato vedere, ragiona in termini ideologici e vive in un universo alternativo a quello reale.

Un atteggiamento psicopatico spinto però da enormi interessi reali, che non vuol dire “concreti” ma, al contrario, in massima parte “virtuali”, generati dai giochi finanziari, ma non per questo inermi.

Questa parte politica, a cui probabilmente si aggrappano gli ormai irrilevanti UK, può aver giocato un ruolo nella vicenda Prigozhin. Le prove, se ci sono, le scoverà l'FBS, il Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa. D'altra parte la CNN non fa mistero che qualcuno negli Stati Uniti “si aspettava molto più spargimento di sangue”, dove non è difficile sostituire “aspettava” con “sperava” [13]. Ma questo non vuole necessariamente dire che l'ambasciatrice Lynne Tracy sia in mala fede, ma solo che gli Stati Uniti non hanno una politica coerente e univoca, cosa che li rende “Not Agreement Capable” (недоговороспособны) come già si espresse Lavrov durante il secondo mandato Obama: una parte dei decisori Usa sigla un accordo e un'altra lo boicotta, una parte punta verso una direzione e un'altra parte in una direzione differente.

E la direzione criminale è quella metodicamente intrapresa dai neo-liberal-con.

Instabilità russa

Questo negli Usa. Ma in Russia, quanto è coerente la politica estera (e quella interna)?

Diversi membri del Consiglio dei Comandanti della Wagner professano idee uguali e contrarie a quelli dei neo-liberal-con statunitensi. In Occidente vengono accusati di essere neonazisti sulla base di labili indizi, come ad esempio un'aquila tatuata (strana accusa, visto che si nega che le migliaia di ucraini con svastiche tatuate dappertutto siano neonazisti), ma in realtà sono degli “eccezionalisti panslavisti”, il corrispettivo russo dell'eccezionalismo statunitense. Hanno ad ogni modo un'ideologia totalitaria, cosa che non dovrebbe sorprendere. E rispecchiano sentimenti presenti nella società russa: quelli iper-nazionalisti. La differenza con la situazione statunitense è che, per fortuna, questa ideologia e questi sentimenti sono minoritari e soprattutto non intaccano la compagine governativa. E questo grazie a Putin. Sono invece bandiera di formazioni politiche e di media che qualcuno ha definito “sesta colonna”: se la “quinta colonna” alla Navalny (screditata e sostanzialmente priva di seguito in Russia) critica Putin per quel che fa, la sesta colonna (con più seguito) lo critica per quel che non fa, per la sua prudenza, per il suo realismo.

È in questo interstizio tra quinta e sesta colonna (che è quella su cui gli Usa punterebbero di più) che si è inserita la “protesta” (come ora la definisce Prigozhin dalla Bielorussia) dei caporioni della Wagner?

I frutti del collasso sovietico

Questa formazione militare privata, così come i famosi “oligarchi” è frutto del collasso sovietico.

Nella ex Unione Sovietica aggredita dalle ricette di shock therapy imposte dai vincitori della Guerra Fredda nacquero i cosiddetti “oligarchi”, tra i quali personaggi come il citato super ricco riciclatore e frodatore fiscale Michail Khodorkovsky, beniamino dell'Occidente e di Amnesty, e Evgenij Prigozhin, il “signor Wagner”, già in galera per sfruttamento della prostituzione minorile, per aggressione e altre cosucce, poi chef di successo apprezzato al Cremlino, poi ancora imprenditore di guerra. Si noti che Khodorkovsky contesta Putin “da sinistra” e Prigozhin contesta il governo russo da posizioni “anticorruzione” populiste. Non è una novità: ad esempio i piani di Edgardo Sogno negli anni Settanta prevedevano un golpe di destra con un programma “di sinistra”.

Similmente i golpisti mancati e i “dissidenti” russi combinati ripropongono un bel frullato di ipocrisia, adatto a far eccitare il generoso, privo di memoria e straordinariamente ingenuo pubblico occidentale.

Il Cremlino ha aspettato per opportunità e altre ragioni, più nobili e meno nobili, troppo a lungo: ora dovrebbe finalmente fare un grande sforzo per pulire le stalle di Augia che si sono riempite di letame con l'implosione dell'URSS e le scorrerie sugli ex beni pubblici sovietici [14].

Uno sforzo e un'autocritica radicali.

Dopo il primo impatto devastante della shock therapy sotto la presidenza Yeltsin, che causò milioni di morti, Putin rimise in sesto la Russia, controllò le esagerazioni e “nazionalizzò” gli oligarchi, così che i ricconi che non erano d'accordo col governo si autoproclamarono “dissidenti” e lasciarono la Russia accolti tra i martiri (multimiliardari) della libertà. Ma oggi l'affare Prigozhin mostra chiaramente che è il sistema di rapinoso crony capitalism (si veda oltre) succeduto all'Urss ad essere un pericolo mortale, politico e sociale, e che sono richieste misure radicali di pulizia e di trasformazione sociale. Non basta mandare in dorati esili gli oligarchi “dissidenti”.

Verso una de-postmodernizzazione?

Ora che l'ammutinamento di Prigozhin è finito immagino che cadranno alcune teste che avevano concesso troppo potere e troppo credito alla Wagner e verrà chiusa dal Cremlino la stagione post-sovietica della privatizzazione della guerra, almeno nei teatri principali.

Tuttavia lo smantellamento della Wagner in Russia, già deciso dal ministro della Difesa, Sergei Shoigu, ben prima dell'ammutinamento e parziale motivo dello stesso, potrebbe collegarsi allo smantellamento di altri centri di potere privati e a un ampliamento della divergenza tra l'economia russa e quella finanziarizzata occidentale. Gli interessi in gioco tuttavia sono enormi e la resistenza sarà accanita. La guerra e le sanzioni hanno consentito a Putin di fare alcuni passi importanti relativamente al controllo statale di rami industriali strategici, protetto anche dal consenso popolare. Il fallito golpe potrebbe generare un nuovo spunto. Un cambiamento di rotta da inserire nel ruolo che la Russia dovrà e vorrà giocare nel mondo multipolare che sta nascendo nei dolori del parto.

In altri termini si può azzardare l'ipotesi che la crisi verrà superata con una nuova dose di “risovietizzazione” di alcune istituzioni russe. La rinazionalizzazione di buona parte dei combattenti della Wagner è un passo in questa direzione. Il primo ed esplicito passo è stato l'abbandono, nel campo dell'istruzione superiore, del “processo di Bologna” e il ritorno al sistema di studi sovietico (simile a quello che da noi ha preceduto la Riforma Berlinguer).

In realtà sarebbe più appropriato parlare di “de-postmodernizzazione”, se mi si passa il termine un po' circonvoluto. Ovvero un ritorno a modi di organizzare, di pensare e di progettare che hanno preceduto l'era del neoliberismo finanziarizzato.

L'origine materiale del post-modernismo

Con l'avvento del Reaganismo-Thatcherismo, che si impose 10 anni dopo l'inizio “ufficiale” della crisi sistemica (il Nixon shock del 1971) e con l'accelerazione della lotta di classe dall'alto e della finanziarizzazione che seguì la vittoria reaganiana nella Guerra Fredda, i referenti europei dell'Alta Finanza anglosassone ricevettero l'ordine di vendere o svendere i gioielli del dominio pubblico e semi-pubblico, dalle aziende ai servizi, ai capitali privati che essendosi enormemente sovraccumulati nei decenni precedenti avevano bisogno di trovare nuovi investimenti. In realtà non erano investimenti nuovi in senso proprio, non creavano nuova ricchezza, ma si trattava dell'accaparramento privato di settori e di ricchezza già esistenti, statali o parastatali. In altre parole i capitali erano alla ricerca di giugulari con sangue fresco a cui attaccarsi e i frutti della Ricostruzione postbellica erano, in tutta Europa, bocconi appetiti. Iniziò la stagione delle “mergers and acquisitions” e delle famose “privatizzazioni” la cui massima sacerdotessa in Italia fu la “sinistra” che a tutti gli effetti si trasformò in sinistra neo-liberal. Prese vita un misto di “accumulation by dispossession” (David Harvey) e di “crony capitalism”, cioè di “capitalismo dei compari, degli amichetti”, perché le amicizie politiche erano decisive, mentre la retorica narrava che le privatizzazioni avrebbero relegato in secondo piano la corrotta politica. In realtà i politici corrotti divennero degli “assets” chiave del processo di privatizzazione.

Oggi sta avvenendo una cosa analoga allo smantellamento dell'economia mista e di quella statale che seguì la vittoria reaganiana nella Guerra Fredda e il dispiegamento della finanziarizzazione. La differenza è che sta per essere smantellato un intero continente: l'Europa. In primo luogo il Vecchio Continente deve tenersi pronto per fare la guerra alla Russia on behalf of the USA. In secondo luogo, qualcuno ha stabilito che l'Europa deve deindustrializzarsi a favore degli USA.

Uno dei maggiori veicoli di questo processo è la questione energetica.

Tutto iniziò con Al Gore e il suo IPCC ed ha avuto un'impennata con la costruzione del personaggio Greta.

Non voglio discutere della parte di verità contenuta nella cosiddetta “questione climatica”. Esiste, è importante, va affrontata, ma non è questo il punto. Il punto è l'elaborazione Davos-like di questa questione, indifferente ai risultati concreti ma tutta tesa a sfruttarla per fornire nuovi spazi d'intervento alla finanza, nuovi settori agli investimenti e per penalizzare industrialmente l'Europa e i cosiddetti Paesi emergenti/concorrenti a vantaggio degli USA (pratica che spinge qualcuno, per reazione, a negare ogni aspetto serio e veritativo della questione in oggetto - una cosa analoga è avvenuta col Covid; in entrambi i casi si tende a trasformare i contenuti scientifici dell'argomento in atti di fede contrapposti).

La guerra in Europa, la distruzione del Nordstream e le sanzioni hanno fatto il resto.

Siegfried Russwurm, il presidente della Confindustria tedesca, ha affermato che la situazione energetica in Germania è così grave che diverse aziende stanno considerando seriamente una ricollocazione [15].

Oggi è ecocompatibile (e a buon mercato negli USA, ma a un prezzo da strozzino in Europa) il gas liquefatto americano ottenuto con la tecnica del fracking (una delle più distruttive per l'ambiente). Oppure lo yacht di Bill Gates che funziona con tonnellate di idrogeno liquido a meno 253 gradi o i nuovi grattacieli, con o senza decorazioni arboree.

In definitiva è solo il mondo non occidentale a non essere ecocompatibile. Chi comanda impone il senso delle parole, regola il loro stesso utilizzo. La sintassi e la semantica sono funzioni del Potere come non lo sono mai state prima.

Persino la cosiddetta “Ricostruzione dell'Ucraina” deve essere ecosostenibile, cosa che pone diverse domande sui tempi e le risorse [16]. Ma anche in questo caso l'Ucraina è un esperimento a nostro beneficio, allo stesso modo in cui i suoi poveri soldati devono sperimentare con la propria vita le incoscienti teorie militari della Nato, elaborate con simulazioni dove i parametri immessi sono idiozie politiche, scemenze PR: i soldati russi sono male addestrati, il loro morale è basso, le loro armi sono penose, il loro sistema di ISR (intelligence, control, reconnaissance) inesistente.

Così nelle war games si vince facile.

Purtroppo i soldati ucraini non vivono negli universi alternativi dei neo-liberal-con e dei loro generali. Muoiono nell'universo vero.

Note

[1] https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/25807-pierluigi-fagan-l-inquietante-azione-a-distanza.html

[2] https://www.nytimes.com/2023/06/24/world/europe/us-intel-prigozhin-warning.html

[3] Evgenij Prigozhin si è fatto costantemente ritrarre in tenuta da battaglia. Tuttavia non ha mai servito nell'esercito e non sa assolutamente nulla di cose militari. Nonostante le scemenze che ci propinano i media mainstream, Progozhin non comandava la Wagner per il semplice motivo che non saprebbe comandare nemmeno la più piccola delle unità militari, figurarsi migliaia di persone che combattono una guerra la cui scala e i conseguenti problemi di comando e controllo hanno colto di sorpresa e sconcertato i generali Nato (https://www.businessinsider.com/ukraine-war-scale-out-of-proportion-with-nato-planning-cavoli-2023-2?r=US&IR=T).

[4] https://bigserge.substack.com/p/the-battle-of-bakhmut-postmortem. È anche ormai noto che i comandanti della Wagner usano metodi brutali nei confronti delle proprie truppe.

[5] https://www.washingtonpost.com/world/2023/04/20/bakhmut-ukraine-war-leaked-documents/

[6] https://www.washingtonpost.com/opinions/2023/06/09/petraeus-ukraine-russia-counteroffensive-war/. Il generale Petraeus è uno capace di affermare che l'offensiva ucraina di Karchov lo scorso autunno è stata “impressive”, mentre in realtà la città era stata abbandonata dalle forze russe e quelle ucraine, pensando a un tranello russo, vi entrarono ben due giorni dopo senza sparare un solo colpo. Veramente “impressive”. Da un venditore di fumo così, con in più le fette di salame eccezionaliste sugli occhi, non è sorprendente sentire affermare «It is entirely possible that Russian units — now composed increasingly of poorly trained, poorly equipped, and poorly led individual replacements who have been in tough combat for many months — will prove to be quite brittle and collapse over broad areas».

Le truppe “poorly trained” mobilitate in ottobre stanno ancora completando il loro addestramento, dopo ben otto mesi. Che dire invece di qui poveracci di giovani e non più giovani ucraini rapiti per strada a Odessa e altrove, addestrati per due settimane e mandati a morire in fronti come Bachmut dove il tempo medio di sopravvivenza era quattro ore? (https://nypost.com/2023/02/23/life-expectancy-on-frontline-in-ukraine-4-hours-soldier/).

[7] https://youtu.be/Dtwo-eB4EEc

[8] È stato detto che l'ammutinamento della Wagner avrebbe dovuto sincronizzarsi con azioni di successo della controffensiva ucraina (che non ci sono state). Può essere, ma io non sono sicuro che i favori della Russia si sarebbero spostati verso Prigozhin se centinaia se non migliaia di ragazzi russi fossero caduti a causa o in concomitanza del suo ammutinamento. Penso, al contrario, che la Russia avrebbe chiesto una punizione esemplare, mentre successi militari anche importanti di Kiev, ma pur sempre limitati, è difficile che si traducano in una crisi istituzionale russa, come i successi ucraini dello scorso autunno dimostrano.

[9] https://tass.com/politics/1638653

[10] https://warontherocks.com/2018/10/how-close-did-the-united-states-actually-get-to-using-nuclear-weapons-in-vietnam-in-1968/

[11] https://kyivindependent.com/biden-threat-of-russia-using-nuclear-weapon-is-real/

[12] «Usando le sue armi nucleari, la Russia potrebbe salvare l'umanità da una catastrofe globale. Una decisione dura ma necessaria costringerebbe probabilmente l'Occidente a fare marcia indietro, consentendo una conclusione anticipata della crisi ucraina e impedendole di espandersi ad altri stati». Così Sergei Karaganov, vicedirettore dell'Accademia Russa delle Scienze (https://www.rt.com/russia/578042-russia-nuclear-weapons/).

Una provocazione? Incredibilmente stupida sia da un punto di vista tecnico sia da quello politico. In Occidente questo signore passa per “consigliere” di Putin. Alcuni ammettono che sia un “ex consigliere”. In realtà è una persona che aveva in testa un quadro politico ragionevole, anche se non originale (la Russia che trae la sua forza come potenza eurasiatica e non europea). Ma in politica, e specialmente in geopolitica, non si può sragionare nemmeno una sola volta. È un po' come se si scalasse in montagna una parete di mille metri: se scivoli e cadi anche solo all'ultimo metro è una catastrofe e c'è poca consolazione essere stati bravi per gli altri 999. Questo “consigliere” di Putin, così scriveva nel 2002 rispetto all'uomo che “consigliava”: «Nessuno capisce cosa vuole veramente [Putin] in politica estera e questo è un enorme svantaggio». «Coloro che sostengono la politica estera del presidente tra le élite sono una piccola minoranza»

(https://web.archive.org/web/20050426213350/http://www.eng.yabloko.ru/Publ/2002/papers/moscow-times-020402.html). Sembrerebbe che questo strano e influente personaggio, già membro della Commissione Trilaterale e dell'International Advisory Board del Council on Foreign Relations, due organizzazioni statunitensi, non fosse ascoltato proprio come un oracolo. Mi sbaglierò, ma sembra che sia diventato “ex consigliere” già prima di diventare “consigliere”. Succedono cose strane al Cremlino.

Ad ogni modo sulla rivista del Concilio per gli Affari Internazionali Russi è comparso un articolo chiaro fin dal titolo: “A Preemptive Nuclear Strike? No!”

https://russiancouncil.ru/en/analytics-and-comments/analytics/a-preemptive-nuclear-strike-no/

[13] «US expected “a lot more bloodshed” in Russia, official says» (https://edition.cnn.com/europe/live-news/russia-ukraine-war-news-06-25-23/h_10ca74299a2b2f940854c485d4092f34).

[14] In Italia gli oligarchi che si arricchivano con gli ex beni pubblici non venivano chiamati così, bensì “capitani coraggiosi” (copyright Massimo D'Alema). Il loro coraggio risiedeva nel comprare aziende ex pubbliche facendo debiti che sarebbero stati pagati dalle stesse aziende acquisite. Leveraged buyout si chiama questa tecnica, un termine altisonante per un'operazione da bassofondo: compro un'azienda non coi soldi miei ma con quelli dell'azienda da comprare. Non era una novità: la Corona inglese comprò l'India dalla Compagnia delle Indie Orientali coi soldi dell'India stessa. Stava dando il buon esempio.

[15] (https://oilprice.com/Energy/Energy-General/Sky-High-Energy-Prices-Propel-German-Corporate-Flight.amp.html).

[16] (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/B-9-2023-0270_IT.html). Secondo il canale “euronews” a lato di un intervento di un intervento di ricostruzione con pannelli fotovoltaici di un ospedale che era rimasto senza energia elettrica per una granata russa che aveva distrutto l'impianto le due associazioni ambientaliste Greenpeace e Victory for Ukraine hanno concordato che “ricostruire velocemente l'Ucraina non è un'opzione sostenibile, sia per l'ambiente che per le generazioni future che vivranno in un'Ucraina libera” (https://it.euronews.com/my-europe/2023/04/12/ucraina-le-ong-puntano-alla-ricostruzione-sostenibile-dellucraina).

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Perù - La ex premier Betssy Chávez arrestata per ribellione e cospirazione

La polizia nazionale peruviana ha arrestato alcuni giorni fa l’ex primo ministro Betssy Chávez per i presunti reati di ribellione e cospirazione contro lo Stato. Chávez è stata arrestata nella sua casa nella città di Tacna dopo che la Corte Suprema aveva ordinato 18 mesi di detenzione preventiva per lei.

Le accuse contro Chávez derivano dal tentativo dell’ex presidente spodestato Pedro Castillo di sciogliere il Congresso e di governare per decreto nel dicembre 2022, di fronte a un attacco coordinato della destra.

Il giudice César San Martín, capo della Camera Penale Nazionale della Corte Suprema, ha emesso il mandato d’arresto per Chávez dopo aver accettato la richiesta di detenzione preventiva presentata dalla Procura per la sua presunta partecipazione all’annuncio di Castillo sullo scioglimento del Congresso.

Betssy Chávez ha ripetutamente negato di aver partecipato o di essere a conoscenza della decisione di Castillo, così come altri ex ministri indagati. Mercoledì 21 giugno, il team legale della Chávez ha annunciato che farà ricorso alla Corte Costituzionale per revocare la detenzione preventiva.

Dopo la sentenza, Chávez ha parlato in livestream sul suo account TikTok, affermando di non essere sola “ma accompagnata da milioni di persone“.

Giovedì 22 giugno, Chávez ha condannato il suo arresto come un tentativo di mettere a tacere chi critica il governo de facto di Dina Boluarte.

“Oggi è Betssy Chávez, domani potrebbe essere lei. Quello che non dobbiamo permettere è l’uso del ‘sistema giudiziario’ per mettere a tacere quelli di noi che sono a disagio con il regime al potere, quello che lavora in collusione con la Procura, il Potere Giudiziario e la stampa servile“, ha scritto in un tweet.

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Sciamano e Prigozhin figure del golpe circoscritto

Chi ricorda lo sciamano, figura iconica dell’assalto a Capitol Hill di due anni fa? Si trattava di un personaggio molto vicino al ruolo svolto da Prigozhin durante la crisi russa di inizio estate: quello dell’attore principale del golpe circoscritto a basso, o nullo, spargimento di sangue, dai caratteri ambigui (tra golpe, simulazione di golpe, messaggio in codice tra parti in conflitto) e con soluzione degli eventi teatrale quanto sostanzialmente incruenta. Il golpe circoscritto, con miriadi di immagini di prima mano, come negli Usa, o con poche come in Russia, contiene una grossa componente di simulazione, un uso della forza ristretto che alimenta, nella dissoluzione di ogni reale informazione sui fatti che accadono, complottismo e propaganda.

In una situazione di crisi di questo genere, negli Usa ieri come in Russia oggi, vince chi, nella simulazione dello scontro, è in grado di far valere la propria capacità di pressione sull’avversario. Questo ci spiega la mutata natura del golpe nella nostra modernità: ad alto potere distruttivo nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli più poveri, specialmente in Africa e in Asia, con spargimento di sangue ma con esito immediato in paesi a ridosso dell’Occidente come nel 2016 in Turchia, e circoscritto, più simulato che combattuto, nelle società moderne e complesse del nord del Mondo quali sono, in modi diversi, gli Usa e la Russia ma anche in paesi come il Brasile di inizio gennaio.

Le società del nord del mondo nei golpe hanno regole fondamentali, specie nelle crisi più gravi, che tendono a rispettare: risparmiare vite per evitare paralisi sociali ben più devastanti dello scontro politico, intralciare il meno possibile la vita economica e le transazioni finanziarie, vedere meno gente possibile nelle piazze per evitare il pericoloso spettacolo dell’effetto disordine, accumulare tensione e lotta di potere piuttosto che nel confronto armato nello svolgimento dello spettacolo, componente egemone degli eventi del golpe. Chi segue queste regole, e sa far valere la propria capacità di pressione sull’avversario, vince la lotta per il potere. E, guarda caso, la vince se le borse sono tranquille, come quelle Usa nel gennaio 2021 e quelle legate al prezzo del petrolio russo in questi giorni. Il golpe è circoscritto, e quindi accettabile nei suoi esiti, proprio quando rimane entro i propri processi di “specializzazione” riguardando solo l’ambito di potere nel quale vi è crisi di comando, senza effetto contagio sulla società (che lo guarda sui social e sui media).

In questo senso la società russa è molto cambiata dal 1993 quando lo scontro tra Eltsin e il parlamento si risolse con il cannoneggiamento di quest’ultimo. Oggi, nonostante la guerra in Ucraina, le regole del golpe circoscritto sono state rispettate. Segno che la società russa è antropologicamente più vicina all’Occidente di quanto oggi si voglia ammettere. Ma quando incide la vicenda Wagner sulla guerra in Ucraina? Come si sta dipanando una situazione classica, tentativo di golpe e guerra in corso, nel nuovo contesto bellico che vede la guerra sul campo sempre necessaria in un conflitto quanto meno decisiva per vincere la contesa tra nazioni?

La decisione del governo russo di mettere il gruppo Wagner, nella catena di comando dedicata alla guerra in Ucraina, alla dipendenze del ministero della difesa è stata sicuramente il fatto scatenante della rivolta comandata da Prigozhin. Il conflitto però avviene in un momento in cui la controffensiva ucraina non ha dato sostanziali risultati. Segno che la lotta per il potere a Mosca ha mostrato una certa razionalità anche nelle modalità di scontro. E, nelle ore di assoluta confusione sulla situazione russa, l’Ucraina non ha saputo, o potuto, approfittarne. Allo stesso tempo però quello che è accaduto in questi giorni ha rafforzato il partito della guerra del fronte occidentale. Un flop, come sta accadendo, della controffensiva ucraina unito ad un atteggiamento granitico del potere russo avrebbe potuto consigliare, alle forze della Nato, un disimpegno verso una chiusura diplomatica del conflitto russo-ucraino per mancanza di soluzioni militari.

Quello che sta per accadere è praticamente già scritto: da una parte la controffensiva ucraina è destinata a impantanarsi dall’altra quello che è accaduto in Russia favorisce il partito dei falchi della Nato, quelli che pensano come possibile la disgregazione, durante il conflitto, del potere moscovita. Il problema è che sta accadendo il contrario: un nuovo assetto di potere, attorno alla centralità del ministero della Difesa, emerge a Mosca e, anche se negli analisti della stessa Nato si crede sempre meno alla possibile sconfitta militare russa, la posizione operativa degli occidentali è ancora quella del sostegno incessante all’Ucraina.

Nel frattempo, come abbiamo visto, riemerge il fenomeno del golpe circoscritto, stavolta a Mosca, entro la dimensione di guerra ibrida della quale è ancora difficile vedere la fine. Lo sciamano ieri e Prigozhin oggi sono gli spettri di questo genere di golpe, un processo di specializzazione della violenza, e di confinamento degli effetti devastanti dello scontro politico, che ci rivelano la mutata natura della lotta per il potere.

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Francia - Le ragioni della collera

“È il nostro modo di essere perché ci hanno tolto tutto”.

Non si placa la reazione popolare in seguito alla morte di Nahel M., il 17enne ucciso la mattina di martedì 27 luglio a Nanterre, nella periferia parigina nord-occidentale, da un agente di polizia che gli ha sparato “a bruciapelo” durante un controllo.

Il quotidiano Le Figaro ha rivelato che l’agente in questione – ora in detenzione provvisoria – era stato premiato più volte nella sua carriera, l’ultima delle quali (nel 2020) per il “coraggio” dimostrato durante le mobilitazioni dei Gilets Jaunes.

Il Ministro dell’Interno Darmanin ha mobilitato per la notte di giovedì ben 40 mila agenti su tutto il territorio nazionale, di cui 5 mila nella sola Parigi, senza che per ora sia stato dichiarato “l’etat d’urgence”, come richiesto a gran voce tra l’altro dal leader dei gollisti di LR, E. Ciotti, e dall’estrema destra di Zemmour.

Valérie Pécresse, presidente della regione di L’Ile-de-France (di fatto l’area metropolitana parigina) ha dichiarato che tram e bus resteranno fermi dalle 21 in poi, circolerà solo la RER e la metro.

Lo “stato di emergenza” era stato promulgato nel 2005 a seguito della morte di due ragazzi – Zeyd Benna e Bouna Traoré – a Clichy-sous-Bois, rimasti folgorati in una cabina elettrica in cui si erano nascosti nel tentativo di sfuggire alla polizia che li inseguiva.

L’Esagono allora conobbe alcune settimane caratterizzate da continui scontri notturni nelle periferie di diverse città. Un avvenimento che ha marcato profondamente la coscienza degli abitanti dei quartieri popolari, facendo emergere una profonda spaccatura ad oggi non ricomposta con l’establishment politico, e che dopo 18 anni ha visto peggiorare le proprie condizioni di esistenza.

L’estensione e l’intensità dlele rivolte, già dalla seconda notte, fanno presagire uno scenario simile a quello del 2005 ma in un contesto diverso, perché il corpo sociale (non solo gli abitanti delle periferie) ha conosciuto sulla propria pelle la repressione nei vari movimenti di lotta che si sono succeduti, almeno dalla fine del quinquennio Hollande in poi.

Il processo di delegittimazione del potere politico e delle istituzioni della V Repubblica è ulteriormente avanzato a causa delle blindature che le élite continentali “con passaporto francese” hanno imposto sulle scelte strategiche della Francia che hanno impattato ed impatteranno pesantemente sulle condizioni di vita della popolazione.

Ci riferiamo all’ennesima riforma pensionistica, il precedente stravolgimento dell’istituto dell’assurance-chomage, e recentemente, una legge che mina in profondità il diritto all’abitare stabilendo pene carcerarie e pecuniarie esorbitanti per chi occupa un alloggio, o semplicemente agita l’occupazione come strumento di lotta.

Non ultimo, siamo in un contesto di guerra sia sul fronte esterno – in Ucraina ma non solo – che interno, dove i margini di azione politica vengono annichiliti a colpi di provvedimenti dell’esecutivo, come dimostra lo scioglimento del collettivo ecologista Les soulèvements de la terre.

L’inflazione in Francia, proprio come in Italia, continua a mordere ed è attorno alle due cifre, senza che a questa sia corrisposto un adeguamento salariale consistente. Una situazione in cui anche lo SMIC, ossia il salario minimo intercategoriale, può poco per arginare l’impoverimento crescente di una fetta sempre più ampia della popolazione.

In questo contesto assistiamo sempre più ad una polarizzazione netta del campo politico con i conservatori che vanno a braccetto con l’estrema destra, influenzando in profondità la Macronie.

Il neofascismo prende sempre più spazio, banalmente comprandosi testate giornalistiche di rilievo, come è accaduto con il quotidiano sportivo Paris-Match e quello domenicale JDD, acquistati dal gruppo Vivendi, di proprietà di Bolloré, il magnate che ha di fatto creato il fenomeno Zemmour, cometa neo-fascista riapparsa nei cieli della politica dopo le elezioni presidenziali proprio in questi giorni.

Dall’altra parte abbiamo il campo della sinistra radicale della NUPES che, nonostante le differenze al suo interno ed alcuni posizionamenti “ballerini” sulla politica internazionale – comunque la LFI rimane per l’uscita dalla NATO della Francia e critica l’operato della UE “da sinistra” – sa da che parte stare.

Ovvero nei picchetti degli operai in sciopero sgomberati dalla polizia durante le mobilitazioni contro la riforma delle pensioni, nei commissariati quando vengono arrestati gli attivisti nel corso delle manifestazioni, al fianco dei manifestanti anche quando si mettono in campo pratiche di azione diretta come per esempio a Sainte-Soline contro il progetto di megabacini idrici, nella marche blanche lanciata dalla madre del 17-enne ucciso, e così via, oltre a fare una opposizione reale e non di facciata in Parlamento.

È sempre bene ricordarlo: la NUPES ha fatto incetta di voti proprio nelle periferie, tra i giovani e la “knowledge class”, senza però riuscire ad arginare l’astensionismo.

Insomma niente a che spartire sul piano della pratica, qui in Italia, con l’inconsistenza della dirigenza del M5S o dell’Alleanza Verdi-Sinistra.

Ciò che colpisce in questi giorni, nelle varie interviste uscite sui diversi organi di informazione che fanno “inchiesta” tra gli abitanti di Nanterre, è il livello di coscienza che fa emergere quanto la Francia in alcune suoi territori sia di fatto uno “Stato Fallito” non più in grado di assicurare un granché ai propri cittadini.

Non esiste più un’istruzione di qualità, non più un impiego, non più un alloggio dignitoso, e nemmeno il diritto alla vita.

Una Francia dove l’ascensore sociale si è rotto da tempo e nessuno vuole o sa ripararlo, con un razzismo strutturale dove la linea del colore determina se in caso di mancato stop ad un controllo di polizia vieni “freddato” o meno, oltre ad essere ancora uno stigma determinando una sorta di “colonia interna”.

Una Francia dove sta riemergendo uno zoccolo duro reazionario – chiamiamolo “fascismo plurale” – non relegato ai margini della politica, ma che ha una sorta di potere di veto sulle scelte di fondo dell’esecutivo, comunque ascrivibili motu proprio ad una versione molto autoritaria del neo-liberalismo e del “neo-colonialismo interno”.

L’imponente marcia a Nanterre – più di 6mila secondo le sottostimate cifre ufficiali – svoltasi ieri pomeriggio precede una notte di sommosse che è l’unico linguaggio che rende visibili gli esclusi.

Come ha affermato un ragazzo di Nanterre intervistato da Mediapart: “I media hanno cercato di infangare la memoria di Nahel cercando di accollargli dei precedenti giudiziari inesistenti. Senza il video registrato da un testimone, la versione dei poliziotti che hanno affermato di essere stati investiti dall’auto, avrebbe avuto la meglio.
E così, perché delle celebrità come Omar Sy hanno preso la sua difesa, che è “buono” venire a farne il suo ritratto.
Voi cercate tutti di fare degli scoop su di un morto. Giocate ad avere un’ informazione che un altro non avrà. Forse si sarebbe dovuti venire a vedere prima a capire come è cresciuto, come lo Stato ci ha trattato nelle nostre cités, come la polizia ci maltratta“
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Omogenitorialità, l’Agenzia delle Entrate discrimina una lavoratrice sui congedi parentali

Una collega di una Direzione Provinciale, unita civilmente alla sua compagna, madre biologica della loro figlia, regolarmente iscritta all’anagrafe del Comune di appartenenza e all’anagrafe nazionale della popolazione residente del Ministero dell’Interno, nelle quali le due donne risultano a tutti gli effetti genitrici della bambina, si è vista negare, prima dalla Direzione Regionale e poi dalla Direzione Centrale delle Risorse Umane, il pieno diritto ai congedi parentali richiesti, così privando la minore del diritto di ricevere cure da entrambe le genitrici.

Nel caso di specie, la collega, che in qualità di genitrice aveva fatto richiesta di 10 giorni di congedo di paternità per dedicarsi alle cure della figlia, non ne ha potuto godere in quanto l’Agenzia delle Entrate ne ha concesso la fruizione sospensivamente condizionata al parere della Funzione Pubblica, mettendo in atto un comportamento che non concede l’immediato e pieno godimento del diritto alla cura né lo nega esplicitamente attraverso l’emanazione di un provvedimento a cui potersi opporre nelle sedi giudiziarie opportune.

A seguito di denuncia del caso all’interno del Comitato Unico di Garanzia dell’Agenzia delle Entrate, valutata la gravità del diritto negato alla collega, USB attraverso la sua componente del CUG ha preso una posizione in favore del riconoscimento del diritto rivendicato dalla collega, trasmettendo un documento con il quale vengono argomentate, con puntuali riferimenti normativi e giurisprudenza in materia, le ragioni che rendono la posizione di Agenzia Entrate, non solo pretestuosa perché non costituisce soggetto giuridico deputato a prendere posizioni in materia, ma inaccettabile rispetto ad un riconoscimento pieno della genitorialità delle due mamme nei confronti della minore.

Riteniamo assolutamente discriminatorio l’atteggiamento dell’Agenzia Entrate che contribuisce, con il suo comportamento, ad alimentare nel nostro Paese un clima sempre più irrespirabile e restrettivo in tema di riconoscimento dei diritti.

Continueremo a sostenere i diritti della collega e delle coppie omosessuali presso il CUG e presso la Direzione Centrale di Agenzia Entrate, esercitando la massima pressione anche nei confronti della Funzione Pubblica.

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Guerra in Ucraina - Il Cremlino prova a “normalizzare” la crisi. Kiev delegittima Putin sui negoziati

Per l’ex capo della Cia “Putin deve guardarsi le spalle”

Il presidente russo Vladimir Putin "ora deve guardarsi le spalle”. È quanto afferma l’ex capo del Pentagono e poi della Cia Leon Panetta in una intervista a Repubblica Sulle conseguenze della tentata insurrezione di Prigozhin, Panetta osserva che: “Non bisogna mai sottovalutare Putin, perché è un ex colonnello del KGB, è stato a lungo al potere e sa come sopravvivere, però credo che ora debba guardarsi le spalle”. Come prima cosa, “ha evidenziato spaccature molto gravi all’interno del regime. Poi Putin ha detto che Prigozhin è un traditore, ma almeno finora non lo ha punito, perché evidentemente non si sente pronto a farlo o non lo ritiene conveniente. Questo è un grave segnale di debolezza, che in una monarchia assoluta invita i suoi avversari ad approfittarne per attaccare il re”.

Lukashenko. “L’Occidente colpirà i nostri punti dolenti”

Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha affermato che il tentativo di ammutinamento della compagnia militare privata Wagner darà l’opportunità all’Occidente di colpire nei punti dolenti Russia e Bielorussia. “Affrontiamo il peggio, stiamo attraversando tempi difficili”, riferisce l’agenzia di stampa bielorussa BelTA. “I funzionari occidentali trarranno sicuramente alcune conclusioni dalla marcia di Wagner su Mosca” – ha affermato Lukashenko – “Coordineranno il loro lavoro, si concentreranno e colpiranno nei punti più dolenti”.

Il presidente bielorusso intanto ha firmato la legge sulla ratifica del protocollo all’accordo con la Russia sul gruppo di forze militare regionale.

Il protocollo è stato firmato dai ministri della difesa dei due paesi, Viktor Khrenin della Bielorussia e Sergey Shoigu della Russia. Il documento è volto ad adeguare il quadro giuridico per la cooperazione bilaterale in ambito militare. Specifica la procedura di pianificazione e le misure finanziarie per garantire il funzionamento del gruppo di forze regionale.

Il 10 ottobre 2022, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko aveva annunciato la formazione di un gruppo di forze regionale composto al suo interno da militari bielorussi, in base al suo accordo con Mosca. Le prime unità russe sono arrivate in Bielorussia a metà ottobre. Dopo i colloqui con Lukashenko a Minsk il 19 dicembre 2022, il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che Mosca e Minsk continueranno la pratica delle esercitazioni congiunte, anche all’interno del gruppo di forze regionale. All’inizio di gennaio, il ministero della Difesa bielorusso ha affermato che il gruppo regionale era rafforzato e pronto a difendere lo Stato dell’Unione.

Il Cremlino al lavoro per normalizzare la compagnia Wagner

Secondo il Wall Street Journal, che cita funzionari anonimi e “disertori” della milizia russa, nelle ore successive alla rivolta di Progozhin il viceministro degli Esteri russo, Andrej Rudenko, è volato a Damasco per consegnare personalmente un messaggio al presidente siriano Bashar al Assad: le forze del gruppo Wagner nel Paese non opereranno più in quel Paese in maniera indipendente. Il ministero degli Esteri russo avrebbe riferito telefonicamente lo stesso messaggio al presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin-Archange Touadera, Mosca avrebbe inoltre assicurato al presidente che la crisi dello scorso sabato non arresterà l’espansione della presenza russa in Africa. Nei giorni scorsi – prosegue il Wall Street Journal – aerei governativi russi hanno fatto la spola dalla Siria al Mali, un altro dei teatri internazionali della presenza della compagnia Wagner.

Il Wall Street Journal stima che circa 6mila mercenari e dipendenti del gruppo Wagner operino attualmente al di fuori del territorio di Russia e Ucraina, svolgendo una molteplicità di funzioni più o meno legali e regolamentate: da servizi di protezione e difesa di siti minerari, petroliferi e industriali, a operazioni militari contro gruppi islamisti a fianco delle forze armate siriana e di diversi Paesi africani.

Negoziati di pace. Il Cremlino apre, Kiev chiude

Il cardinale Zuppi, segretario della CEI, sta lavorando ad una “missione di pace” facendo la spola tra Kiev e Mosca. Finora non è trapelato molto sui risultati di questa visita. L’inviato speciale del Papa, il cardinale Matteo Zuppi, ha visitato la Russia con proposte per risolvere il conflitto ucraino, riporta l’agenzia russa Ria Novosti, sebbene non siano stati raggiunti risultati concreti dalle parti, “gli esperti ritengono che questa e altre iniziative simili costituiranno alla fine la base per una cessazione delle ostilità”.

In un’intervista al network Russia Today, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che la Russia era e rimane pronta a discutere qualsiasi iniziativa di pace.

Ha osservato che diversi paesi hanno espresso la loro intenzione di agire come mediatori per risolvere la crisi ucraina, comprese le iniziative della Cina, del Vaticano e dei paesi africani. Peskov, riferendosi alle parole di Putin, ha affermato che ora si stanno formulando iniziative specifiche e la Russia rimane aperta a discutere eventuali proposte.

Dall’Ucraina arriva l’ennesima doccia gelata sulle possibilità di un negoziato

“Abbiamo già ripetuto che non ha senso prendere iniziative che non portino alla fine della guerra a condizioni eque, bensì congelino il conflitto. Ciò condurrebbe alla ripresa della guerra nel futuro. Ecco il motivo per cui sosteniamo unicamente i passi di chi non va oltre la formula della pace avanzata da Zelensky” ha dichiarato Il consigliere presidenziale ucraino Podolyak, vera e propria anima nera dello staff di Zelenski.

“L’Ucraina – aggiunge – non ha bisogno di essere persuasa a porre fine alla guerra, non l’abbiamo iniziata noi, le chiavi si trovano al Cremlino e le mediazioni devono partire da lì: occorre che i russi abbandonino le terre occupate. Credo che il Vaticano possa coordinare il monitoraggio delle condizioni di detenzione e di ritorno dei prigionieri ucraini e dei bambini deportati in Russia”.

Quanto a Putin, secondo Podolyak “Emerge un leader debole a capo di un sistema di potere fragile e questo stravolge la tesi di chi pensava che la guerra dovesse finire con la sconfitta russa. Ciò per il fatto che sono a rischio gli arsenali nucleari di un Paese dove diversi attori oscuri stanno già pensando alla redistribuzione del potere. Ormai è iniziato il caos interno. Putin ha perso il controllo, il re è nudo. Dunque, il mondo democratico dovrebbe comprendere che non è più lui il partner con cui negoziare”.

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29/06/2023

Glass (2019) di M. Night Shyamalan - Minirece

Biden avvia la guerra dei chip, l’industria Usa protesta

Guerra e affari non sempre vanno d’accordo. O meglio, la guerra non è un affare per ogni tipo di industria. E se è fin troppo scontato che lo sia per le industrie di armamenti (in senso anche lato, dai mezzi di trasporto pesante all’elettronica), per altre può trasformarsi in un mezzo incubo.

Questo articolo apparso sulla statunitense CNN mostra che persino alcuni fabbricanti di chip prevedono “perdite permanenti di opportunità” dai divieti di esportazione che l’amministrazione Biden ha appena approvato.

Durante la fase della cosiddetta “globalizzazione” si erano create almeno due condizioni che hanno strutturato il mercato mondiale: la possibilità di produrre e vendere in qualsiasi paese del mondo e una forte specializzazione produttiva nei settori tecnologici di punta.

Due fenomeni normalmente in contraddizione, ma che non lo erano più in quelle condizioni.

La tendenza “normale” della produzione capitalistica va infatti verso l’eliminazione della concorrenza, specie in quei settori dove non c’è spazio per start up “create in garage”. La produzione di chip richiede infatti investimenti multimiliardari in macchinari e ricerca, con innovazioni continue che rendono rapidamente obsoleti gli “stampi” usati.

E in effetti Intel, AMD, nVidia e pochi altri si sono spartiti sia il mercato mondiale che le diverse nicchie di specializzazione, senza che questo fosse un problema. I chip poi finivano in ogni tipo di prodotto industriale (dalle lavatrici ai computer, dalle navi agli aerei, dai carri armati agli apparecchi elettromedicali, ai missili, ecc.).

Ma se un sistema – in questo caso l’imperialismo statunitense – decide di puntare sul conflitto pur di mantenere la sua periclitante egemonia, allora questa “libertà di commercio universale” entra di nuovo in contraddizione con la “necessità” di recintare rigidamente ampie zone del mercato mondiale secondo le regole del friendly shoring.

In parole povere: i prodotti che consideriamo strategici li diamo soltanto ai nostri alleati e fino a quando lo restano.

La Cina, dunque, è stata elevata a “prossimo nemico” degli Stati Uniti (era ed è il principale, nella visione di Trump e di una parte dell’industria yankee), e la dotazione tecnologica di punta le deve essere preclusa.

La mossa di Biden, però, crea problemi seri proprio a una delle poche “eccellenze” industriali rimaste con base negli States (oltre al complesso militare-industriale). Il resto, ormai da decenni, è stato delocalizzato ovunque.

Oltretutto si tratta di una mossa ad effetto temporalmente limitato, perché le avvisaglie di questa “guerra commerciale sui prodotti hi tech” sono presenti da parecchi anni.

Tanto da convincere Pechino ad investire pesantemente nella ricerca per arrivare al più presto a raggiungere una “indipendenza tecnologica” anche e soprattutto nella produzione di chip. E non si può certo negare che la Cina abbia dimostrato di saper raggiungere questo tipo di obiettivi...

Sembra insomma un altro capitolo di quella saga in cui “i reazionari alzano pietre al cielo e poi se le lasciano cadere sui piedi”.

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nVidia afferma che i limiti imposti dagli Stati Uniti alle vendite di chip AI alla Cina potrebbero causare una “perdita permanente di opportunità”.

Laura He, CNN

Il direttore finanziario di nVidia ha avvertito mercoledì che se gli Stati Uniti dovessero imporre nuove restrizioni all’esportazione di chip AI in Cina, ciò comporterebbe una “perdita permanente di opportunità” per l’industria statunitense.

Il dirigente, Colette Kress, ha tuttavia dichiarato di non prevedere alcun “impatto materiale immediato” sull’azienda tecnologica in caso di introduzione delle restrizioni.

Secondo quanto riportato da diversi media, tra cui il Wall Street Journal e il Financial Times, i funzionari statunitensi intendono inasprire i limiti alle esportazioni annunciati a ottobre per limitare la vendita di alcuni chip di intelligenza artificiale alla Cina.

Washington ha intensificato gli sforzi per escludere la Cina dalle tecnologie chiave che possono supportare le sue forze armate.

Le regole potrebbero rendere più difficile per aziende come nVidia vendere chip avanzati alla Cina. Alimentata dal boom della domanda dei suoi chip di intelligenza artificiale, l’azienda ha in breve raggiunto una capitalizzazione di mercato di 1.000 miliardi di dollari a fine maggio.

“Siamo a conoscenza delle notizie secondo cui il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti starebbe valutando ulteriori controlli che potrebbero limitare le esportazioni dei nostri prodotti A800 e H800 in Cina“, ha dichiarato Kress durante una conferenza di investitori.

“A lungo termine, le restrizioni che vietano la vendita delle nostre GPU per data center in Cina, se attuate, comporterebbero una perdita permanente di opportunità per l’industria statunitense di competere e di essere leader in uno dei mercati più grandi del mondo e avrebbero un impatto sulla nostra attività futura e sui nostri risultati finanziari“, ha dichiarato.

Le GPU si riferiscono alle unità di elaborazione grafica, che sono chip o circuiti elettronici in grado di eseguire il rendering della grafica per la visualizzazione su dispositivi elettronici.

“Data la forza della domanda dei nostri prodotti in tutto il mondo, non prevediamo che tali ulteriori restrizioni, se adottate, abbiano un impatto materiale immediato sui nostri risultati finanziari“, ha aggiunto Kress.

Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti non ha risposto a una richiesta di commento della CNN.

Lo scorso ottobre, l’amministrazione Biden ha presentato un’ampia serie di controlli sulle esportazioni che vietano alle aziende cinesi di acquistare chip avanzati e attrezzature per la produzione di chip senza una licenza.

La nuova mossa è rivolta in particolare al chip A800 di nVidia, che l’azienda statunitense ha creato dopo l’introduzione delle restrizioni dello scorso anno per continuare a vendere in Cina, come riporta Bloomberg.

La Cina è un mercato chiave per nVidia. Secondo il bilancio dell’azienda, l’anno scorso i ricavi provenienti dalla Cina continentale e da Hong Kong hanno rappresentato il 22% del fatturato dell’azienda.

Mercoledì le azioni di nVidia sono crollate fino al 3,2%, prima di recuperare parte delle perdite. La flessione è stata dell’1,8%.

Anche i titoli cinesi dell’intelligenza artificiale sono crollati in seguito alle notizie di ulteriori limitazioni da parte degli Stati Uniti.

Inspur Electronic Information Industry è scesa del 10%, il massimo consentito, mercoledì a Shenzhen. Giovedì è scesa ancora dell’8,5%.

Chengdu Information Technology of Chinese Academy of Sciences ha perso il 12% mercoledì. Giovedì ha recuperato parte delle perdite e ha chiuso le contrattazioni in rialzo dell’1,6%.

Baidu è scesa del 3,4% giovedì a Hong Kong.

La Cina ha fortemente criticato le restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle esportazioni di tecnologia, dichiarando all’inizio dell’anno di “opporsi fermamente” a tali misure.

A maggio, Pechino ha vietato agli operatori cinesi di infrastrutture informatiche critiche di acquistare prodotti di Micron Technology (MU), come apparente ritorsione alle sanzioni imposte da Washington e dai suoi alleati al settore dei chip del Paese.

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Che succede in Kosovo? Intervista a Zivadin Jovanovic

Intervista esclusiva di Enrico Vigna a Zivadin Jovanovic, presidente del Forum Belgrado per un Mondo di Eguali, ex Ministro esteri RFJ ed ex ambasciatore della Repubblica Federale Jugoslava

D: La situazione in Kosovo Metohija è considerata forse la più difficile dall’aggressione Nato del 1999. Qual è la sua opinione/valutazione su quali passi concreti e realistici si potrebbero fare per trovare una “giusta” via d’uscita?

R: È passato un mese dall’escalation della situazione in Kosovo e Metohija. È stata innescata dal sequestro forzato delle cariche di sindaco municipale in quattro Comuni a maggioranza serba, da parte di nuovi sindaci, di origine albanese, recentemente eletti alle elezioni comunali locali.

Le elezioni si sono svolte sulla scia dell’abbandono generale dei serbi dalle istituzioni, comprese quelle municipali, sotto le istituzioni gestite da albanesi a Pristina, che affermavano di appartenere al cosiddetto Kosovo. Questo è stato un gesto politico collettivo del popolo serbo, perché Pristina ha negato loro di vivere una vita normale.

In secondo luogo, a quelle elezioni ha partecipato circa meno del 5% dell’elettorato, quasi esclusivamente di etnia albanese.

I serbi hanno boicottato queste elezioni, protestando, tra molte altre questioni, per la militarizzazione dell’area, la confisca dei loro terreni privati e municipali per la costruzione di basi speciali delle forze albanesi, per l’insicurezza legale e fisica, per gli attacchi quotidiani e l’incarcerazione arbitraria di serbi, il mancato rispetto degli accordi del 2013 e degli Accordi di Bruxelles del 2015 sull’istituzione della Comunità dei comuni serbi.

Quindi, i sindaci albanesi neoeletti sono stati effettivamente imposti ai serbi che popolano esclusivamente o prevalentemente quei comuni. Per evitare il peggio, le cause di questa situazione devono essere rimosse.

Nel concreto, è necessario liberare tutti i serbi ingiustamente imprigionati, ritirare le forze speciali e chiudere le loro basi nei distretti popolati dai serbi a nord del Kosovo, ritirare i sindaci albanesi illegittimi e istituire la Comunità dei comuni serbi come concordato e firmato a Bruxelles nel 2015.

La causa principale della crisi prolungata, tuttavia, è che i leader albanesi a Pristina non hanno interesse ad altro, se non al riconoscimento della cosiddetta “Repubblica del Kosovo” da parte della Serbia.

Mentre la Provincia è ancora sotto mandato delle Nazioni Unite, la leadership albanese, sostenuta dai suoi promotori occidentali, ignora semplicemente la risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e qualsiasi accordo precedentemente firmato, continuando a provocare i serbi, violando i loro diritti umani fondamentali come la sicurezza personale, la libertà di movimento, la proprietà privata.

Circa 130.000 serbi nella provincia sono trattati come ostaggi nei ghetti, mentre altri 250.000 espulsi dalla provincia più di 20 anni fa, non hanno ancora il permesso di tornare alle loro case e proprietà. Sfortunatamente, i paesi occidentali, in primis Stati Uniti, Regno Unito e Germania, continuano a ignorare una realtà così inquietante.

Apparentemente, non sono pronti a intraprendere passi concreti per far sì che la leadership albanese si conformi alla risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, agli accordi di Bruxelles e al rispetto dei diritti umani fondamentali nei confronti dei serbi.

La loro politica dei doppi standard sembra ora punire la Serbia e i serbi per procura, per non aver riconosciuto la secessione illegale unilaterale del Kosovo e Metohija, per essere rimasti militarmente neutrali e per non aver adottato sanzioni contro la Russia.

D: Da più parti sia nel Kosovo Mettohija che fuori, si parla di una possibile guerra. Qual è il suo punto di vista?

R: Tutto quello che posso dire ora è che la Serbia e i serbi sono decisamente impegnati per la pace, una soluzione pacifica basata sui principi universali del diritto internazionale e sulla risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Nessuno dovrebbe aspettarsi che la Serbia riconosca la rapina della sua sovranità e integrità territoriale. È estremamente pericoloso che quegli stessi Paesi che hanno condotto l’aggressione nel 1999 e imposto il riconoscimento della secessione criminale nel 2008, stiano ora cercando di costringere la Serbia a legalizzare tutto ciò, convertendo così retroattivamente le loro azioni in azioni presumibilmente morali, orientate alla pace e libere dall’espansionismo e dall’egemonismo.

Pertanto, le provocazioni di Pristina, chiunque possa esserci dietro, devono cessare, i diritti umani dei serbi devono essere rispettati, gli accordi di Bruxelles firmati, devono essere attuati nella loro formulazione originale e il dialogo sulla normalizzazione deve essere ripreso.

D: In Serbia continuano le manifestazioni di alcune forze politiche contro il governo. Sono tentativi di una “rivoluzione colorata”?

R: Manifestazioni settimanali sono iniziate alcuni giorni dopo i tragici eventi dello scorso maggio in una scuola di Belgrado e nella città di Mladenovac, all’insegna del moto “Stop alla violenza”.

Dopo Belgrado, ora circa 10 altre città tengono manifestazioni pacifiche simultanee chiedendo le dimissioni del ministro dell’Interno e del direttore dell’Agenzia per la sicurezza (BIA), la sostituzione dei membri del consiglio dell’Autorità di regolamentazione per i media elettronici, la sostituzione della direzione della TV pubblica RTS e altro.

Non c’è dubbio che le forze politiche di opposizione dietro le manifestazioni mirano a cambiare l’intero governo. Insistono nell’installare un governo ad interim, prima, e poi tenere le elezioni.

Il governo sembra pronto a indire elezioni anticipate ma rifiuta l’idea di un governo ad interim. Tutto questo coincide con le crescenti pressioni delle maggiori potenze occidentali sul leader serbo, rivolte a far riconoscere la secessione illegale unilaterale della provincia del Kosovo e Metohija, ad abbandonare la politica di neutralità militare e ad introdurre sanzioni alla Russia.

Mentre continuano le manifestazioni antigovernative, gli ambasciatori di alcune potenze occidentali a Belgrado continuano a dichiarare pubblicamente che i serbi sanno che la Serbia appartiene completamente all’Occidente.

È sconcertante che nessuno dell’attuale governo abbia ricordato loro che l’85% della popolazione serba è contro la NATO, che circa la stessa percentuale è addirittura contraria all’adesione all’UE se condizionata dal riconoscimento della secessione del Kosovo e Metohija.

Oppure, per chiedere a tali ambasciatori se credono davvero che i serbi abbiano dimenticato chi aveva imposto loro negli anni ’90, le sanzioni più severe mai subite, chi aveva lanciato un’aggressione criminale nel 1999 che ha causato circa 4.000 vittime, ferito circa 10.000 persone, gettato 15 tonnellate di uranio impoverito, e così via?

D: Ricevo quotidianamente dalla Provincia del Kosovo e Metohija molte critiche, dubbi, perplessità e anche attacchi sull’operato del presidente serbo A. Vucic. Cosa ne pensa?

R: Sono d’accordo che ci sono ragioni per criticare la politica dell’attuale governo. Ad esempio, penso che sia necessario che la leadership serba sia esplicita nel chiedere la piena attuazione e il rispetto della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che obbliga tutti i membri delle Nazioni Unite, compresi i membri dell’UE e della NATO, a rispettare l’integrità territoriale della Serbia. Il governo dovrebbe essere molto più attivo nelle sedi internazionali al fine di garantire una reale sicurezza e libertà per i serbi in Kosovo e Metohija.

Parallelamente, c’è la necessità di un’iniziativa persistente per garantire il diritto al ritorno libero e sicuro di circa 250.000 serbi e altri non albanesi alle loro case e alle loro terre nella Provincia.

Chi ha bisogno ora delle esercitazioni militari della Serbia con la NATO, nonostante la moratoria ufficiale? Da notare, però, che solo un anno fa Aleksandar Vucic è stato eletto Presidente della Repubblica al primo turno, per la seconda volta consecutiva.

Anche il suo partito (SNS) ha vinto agevolmente tutte le elezioni dal 2012 ad oggi. Dovremmo essere consapevoli e imparare lezioni dalle esperienze storiche.

Mentre tentiamo di risolvere problemi socioeconomici reali, migliorare gli standard di vita e democratizzare il governo, non dobbiamo ripetere gli errori di trascurare le posizioni dubbie di alcune forze di opposizione sul futuro status del Kosovo e Metohija, l’adesione alla NATO o le sanzioni contro la Russia.

Credo che la Serbia debba continuare a bilanciare le sue relazioni politiche, economiche e culturali con tutti i paesi e perseguire le integrazioni che la accettano come un partner alla pari, difendendo costantemente il proprio interesse legittimo basato sui principi universali e sul diritto internazionale, e rimanere neutrale.

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Il Guatemala che non t’aspetti. Al ballottaggio va la sinistra

Si era dato da fare con largo anticipo il Tribunale supremo elettorale (ben prima dell’arrivo degli osservatori internazionali) per riservare arbitrariamente alle destre la contesa di questo primo turno di elezioni presidenziali in Guatemala, inibendo con pretesti vari la partecipazione di tre candidati della sinistra (o comunque democratici).

A cominciare dalla indigena maya Thelma Cabeza del Movimiento para la Liberación de los Pueblos, in un paese dove almeno la metà della popolazione è originaria.

E invece al ballottaggio del 20 agosto prossimo a sfidare Sandra Torres (della conservatrice Unidad Nacional de la Esperanza, che ha ottenuto il 15,8 %) ci sarà un outsider progressista di lusso che i sondaggi davano ampiamente perdente fra i ben 22 pretendenti: Bernardo Arévalo del Movimiento Semilla (seme) affermatosi, soprattutto nelle città, con l’11,8%. Nello stupore dei suoi stessi contendenti.

Semilla sorse nel 2015 dalle manifestazioni spontanee in tutto il paese contro la povertà e soprattutto la tremenda corruzione che caratterizzò il mandato dell’allora presidente (ex generale) Otto Perez Molina, che infatti dovette dimettersi. E guidò pure le proteste di piazza del 2021.

Ma in particolare Bernardo è figlio di Juan José Arévalo, eletto presidente del Guatemala durante il decennio della Rivoluzione Democratica d’Ottobre del 1944, ispirata da giovani ufficiali che si ribellarono al dittatore Jorge Ubico.

Una rivoluzione che seguì quella messicana del 1910 (la prima dopo quella francese e precedente alla bolscevica) imperniandosi entrambe sulla necessità di una riforma agraria emancipatrice dall’atavico schema colonial/oligarchico della conquista spagnola.

Quell’esperienza (che anticipò lo stesso castrismo a Cuba) fu rovesciata dal golpe ordito dalla bananiera United Fruit Co. (e dalla Cia) nel 1954. Il Che Guevara ne fu testimone sul posto. Successivamente nell’esilio Juan José fu pure tra i promotori del semiclandestino Partito Guatemalteco del Lavoro.

Va da sé che Bernardo Arévalo (nato in Uruguay, dove la sua famiglia era riparata) non avrà pressoché alcuna chance nella disputa finale con Sandra Torres. Ma almeno è riuscito a sconfiggere i concorrenti destri più titolati che ovviamente ora convergeranno sulla sua avversaria.

A partire da Manuel Conde, candidato dal partito Vamos del capo di stato uscente Alejandro Giammattei, che prima di uscire di scena ha fatto chiudere ElPeriodico (l’unico quotidiano indipendente) e condannare a 6 anni per presunto riciclaggio il suo direttore Ruben Zamora (che lo aveva messo sotto inchiesta).

Ma soprattutto Zury Rios del partito Valorunionista, anche lei figlia (all’inverso) del generale genocida Efraín Rios Montt, dittatore fra l’82 e ’83 nonché fra gli apripista delle sette fondamentaliste in America Latina (in chiave anti Teologia della Liberazione) essendo egli stesso “pastore della Iglesia del Verbo” (con suo fratello Mario Enrique che era invece vescovo cattolico).

In ogni caso fra il 60% dei potenziali votanti che si sono recati alle urne, il primo partito è stato il voto nullo col 17,4%. Mentre con il 7% le schede bianche hanno di fatto conteso il quarto posto sia a Conde che a Zury Rios.

Come a dire che il malcontento è assai profondo e l’affermazione parziale del partito Semilla ha costituito un disperato sussulto di resistenza in un paese che non vuole arrendersi e che dopo il colpo di stato del ’54 ha vantato la guerriglia più antica del subcontinente latinoamericano (quanto quella colombiana); ma dove la sinistra (al di là dei propri stessi limiti) è stata via via estromessa d’autorità.

In particolare dopo l’azzeramento della Commissione internazionale contro l’impunità (gestita dalle Nazioni unite) da parte del predecessore di Giammattei, l’ex presentatore e comico televisivo Jimmy Morales. Un’entità scaturita dagli storici accordi di pace del ’96 che posero fine alla sanguinosa guerra civile.

Cui seguì il rapporto della Commissione della Verità dell’Onu che certificò il genocidio di 190mila indigeni (già ampiamente documentato dal vescovo Juan Gerardi, assassinato a Città del Guatemala nel ’98).

Dal canto suo Sandra Torres è alla terza candidatura presidenziale, giungendo anche stavolta al ballottaggio. Primera Dama del presidente moderato Àlvaro Colom (2008/2012), non esitò a divorziare formalmente dal marito per ovviare al veto costituzionale che impediva la candidatura di familiari di ex capi di stato. È stata in carcere per qualche mese nel 2019 per finanziamenti elettorali illeciti, risultando poi assolta.

Sarebbe la prima donna ad assurgere alla massima carica in Guatemala (ci aveva provato pure nel 2011 la Nobel per la pace Rigoberta Menchù, estraniatasi poi dalla scena politica). Nel paese più grande e popolato, più bianco e al contempo indigeno, più ricco e diseguale, più narco/criminale e impunito (perlomeno) dell’istmo centroamericano. Ma tragicamente sprofondato nella più totale indifferenza della comunità internazionale.

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Accordi di Abramo, l’inizio della fine?

Il Marocco ha annullato un vertice chiave nel quadro del processo di normalizzazione dei rapporti con lo stato ebraico a seguito dell'annuncio israeliano di espandere gli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati. Si tratta dell'ultima battuta d'arresto per i cosiddetti Accordi di Abramo, lanciati da Trump nel 2020, nonostante gli sforzi per promuoverli ed espanderli da parte degli Stati Uniti.

Gli Accordi di Abramo compiranno durante l’estate il loro terzo anno di vita. L'accordo tra uno stato di apartheid e alcune delle dittature più autocratiche del mondo era inizialmente basato su preoccupazioni condivise riguardo alla sicurezza, in particolare per quanto riguarda l'Iran, ma da qualche tempo è in corso un tentativo di spostarne l’asse sul piano economico. I risultati in questo ambito appaiono però contraddittori.

Per gli Stati Uniti e ancora di più per Israele, gli Accordi sono stati un modo per promuovere i propri interessi in Medio Oriente senza dovere affrontare la questione dei diritti del popolo palestinese. Anche questo esperimento si sta rivelando molto più difficile di quanto si aspettassero Donald Trump e Joe Biden, che erano e sono ugualmente entusiasti degli Accordi e della possibilità di calpestare impunemente i diritti dei palestinesi.

Martedì, il Marocco ha così annunciato l'annullamento della riunione del cosiddetto Forum del Negev, l'arena negoziale chiave per Stati Uniti, Israele e gli stati arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele, ad eccezione della Giordania, in risposta all'annuncio israeliano di accelerare ed espandere la costruzione di insediamenti. L’evento era già stato rinviato in precedenza a causa delle provocazioni israeliane. La decisione di Rabat rappresenta anche il più recente segnale di difficoltà per gli Accordi di Abramo, anche se gli Stati Uniti continuano ad affannarsi per rinvigorirli e consolidarli.

Biden sta lavorando con i membri del Congresso americano di entrambi i partiti per cercare di dare vita a questi accordi moribondi. L'espansione di essi fino ad includere l'Arabia Saudita sarebbe il risultato più ambito sia per Biden sia per il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Tuttavia, il valore di un simile accordo, di per sé, è per l'Arabia Saudita molto inferiore rispetto ai vantaggi che comporterebbe per Israele e Stati Uniti. Quindi, i reali sauditi hanno fissato un prezzo molto salato per la loro potenziale partecipazione.

Biden ha proposto, con l’approvazione della Camera dei Rappresentanti di Washington, la nomina di un inviato a livello di ambasciatore come rappresentante speciale per gli Accordi di Abramo. A essere stato scelto per questo ruolo è l'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Dan Shapiro. La rinnovata spinta per espandere gli Accordi e il probabile contributo di Shapiro potrebbero aiutare gli Stati Uniti a trovare un modo per ottenere il consenso all’adesione dell'Arabia Saudita o, se l’obiettivo massimo non dovesse essere raggiunto, quanto meno per espandere gli Accordi ad altri paesi africani. Ciò significherebbe poco per gli interessi militari o economici di Israele, ma avrebbe maggior peso dal punto di vista politico e gli Stati Uniti vedrebbero il risultato come un modo per arginare la crescente influenza di Cina e Russia in Africa.

Questa settimana anche il Congresso USA si è mosso in soccorso degli Accordi, avanzando un disegno di legge che istituirebbe uffici della Food and Drug Administration (FDA) nei paesi che hanno aderito agli Accordi. Si tratta in effetti di un'altra mossa intesa a contrastare la Cina, riducendo potenzialmente la dipendenza degli Stati Uniti da Pechino come “hub” di approvvigionamento per i prodotti farmaceutici.

La scorsa settimana, gli Emirati Arabi Uniti e Israele hanno concluso due accordi per la cooperazione nei settori della tecnologia e della salute, nel quadro del clima creato dagli Accordi di Abramo che ha fatto salire, per i primi mesi del 2023, a quasi un miliardi di dollari il volume totale degli scambi commerciali bilaterali. E, naturalmente, Israele rivendica con orgoglio anche il record stabilito nel 2022 per le esportazioni di armi, grazie in parte proprio alle vendite negli Emirati Arabi Uniti, in Bahrein e in Marocco, tutti firmatari degli Accordi.

Mentre alcuni stanno cercando di dipingere un quadro roseo per gli Accordi sulla base di questi sviluppi, dopo quasi tre anni essi non sono sbocciati come speravano i suoi architetti e propagandisti, sia a Washington sia a Tel Aviv. Il principio della paura su cui si basavano gli Accordi ha infatti iniziato a svanire rapidamente. L'impulso iniziale, dichiarato o meno, era quello di creare un'alleanza regionale che riunisse Israele e gli stati arabi del Golfo Persico per far fronte all'Iran.

Questa teoria è sempre stata errata. Sebbene ci sia stata a lungo una contesa tra ognuna delle monarchie arabe del Golfo e l'Iran, essa ha avuto diversi gradi di intensità nel corso del tempo e tra i diversi stati arabi. Alcuni, come il Qatar e l'Oman, intrattengono tradizionalmente buoni rapporti con l'Iran, anche se non mancano problemi seri. Altri, come l'Arabia Saudita e il Bahrein, avevano differenze di vedute più nette, ma non escludevano e, anzi, cercavano un modo per coesistere evitando che lo scontro potesse precipitare. L'Iraq, infine, appartiene a una categoria a parte per quanto riguarda la complessità dei rapporti con l'Iran.

Sia gli Stati Uniti sia soprattutto Israele hanno scelto al contrario una rotta totalmente conflittuale con la Repubblica Islamica, non vedendo né un percorso né incentivi particolari a individuare una via diplomatica per risolvere le divergenze. Il confronto militare e il cambio di regime costituiscono l’opzione preferita di Israele, così come della gran parte dei membri dei partiti Repubblicano e Democratico negli Stati Uniti.

Ma per gli stati arabi confinanti con l'Iran, la guerra è sempre stata uno scenario da incubo, una potenziale conflagrazione che si concluderebbe solo con perdenti e nessun vincitore, nonché con la distruzione della regione mediorientale. Con l'accordo tra Arabia Saudita e Iran, mediato da Iraq e Cina, è stata aperta una via migliore per il futuro. Gli Stati Uniti e Israele, al contrario, continuano a ingigantire la "minaccia" iraniana e a promuovere accordi commerciali “dal vertice alla base” come fondamento delle relazioni con i possibili candidati alla firma degli Accordi di Abramo.

Il governo di Israele è preoccupato perché sia il Bahrein che gli Emirati Arabi Uniti si stanno muovendo per rafforzare i rapporti con l'Iran. Le due monarchie del Golfo sono state le prime a normalizzare le relazioni con Israele nell'ambito degli Accordi di Abramo. Il terzo paese a farlo – il Sudan – ha sospeso il processo a causa dello scoppio del conflitto interno tuttora in corso, ma vale la pena ricordare che la sospensione è arrivata dopo mesi di riluttanza da parte dei sudanesi a finalizzare l'accordo a causa dell’opposizione della società civile.

La cancellazione da parte del Marocco del Forum del Negev è ora un ostacolo ancora più grave. L'evento era già stato rinviato più volte a causa delle preoccupazioni non solo a Rabat ma anche in molti degli stati arabi partecipanti per l'escalation dei crimini che Israele commette in Cisgiordania. L'ultimo assalto a Jenin, unito allo spudorato annuncio israeliano del via libera alla costruzione di migliaia di nuove unità abitative nei territori occupati, è stato alla fine troppo per il Marocco.

L’annuncio ha fatto seguito anche alla ferma condanna dell'Arabia Saudita dell'attacco israeliano a Jenin e altrove in Cisgiordania. Martedì il regno wahhabita ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna “... l'escalation israeliana nei territori palestinesi occupati, l'ultima delle quali è stata l'aggressione alla città di Jenin”. La dichiarazione proseguiva sostenendo che “Il Ministero (degli affari esteri) afferma il totale rifiuto da parte del Regno delle gravi violazioni commesse dalle forze di occupazione israeliane...”.

Queste parole non si addicono decisamente a un paese in procinto di firmare un accordo di normalizzazione con Israele. Piuttosto, esse ricordano da vicino gli avvertimenti rivolti dagli USA a Israele poco prima delle operazioni a Jenin. Gli Emirati Arabi Uniti, da parte loro, si sono detti anch’essi “imbarazzati da Israele” e il Marocco ha espresso la stessa opinione all’amministrazione Biden nei giorni scorsi, prima cioè della cancellazione della riunione del Forum del Negev.

L'assistente del segretario di Stato americano per gli affari del Vicino Oriente, Barbara Leaf, che era in visita in Israele quando il governo di Netanyahu ha deciso di lanciare l'attacco a Jenin, aveva ribadito l'avvertimento dell'amministrazione Biden, secondo cui gli Stati Uniti stavano affrontando seri ostacoli nell'espansione degli accordi di Abramo a causa del comportamento di Israele. Netanyahu, tuttavia, ha proceduto con la più massiccia operazione a Jenin degli ultimi vent'anni. Il tutto mentre Barbara Leaf si trovava in Israele, trasformando l’operazione in un affronto diretto e deliberato al Dipartimento di Stato americano.

La debolezza e l’inettitudine dell'amministrazione Biden fanno in modo che Washington continuerà a sopportare gli insulti israeliani e a lavorare a beneficio dello stato ebraico nonostante tutto. Con buone ragioni, Israele crede di potere agire liberamente e la Casa Bianca si assicurerà comunque i risultati della normalizzazione tra Tel Aviv e il mondo arabo. Israele può avere ragione in merito agli Stati Uniti, ma il proprio comportamento ha già spento gran parte dell'entusiasmo degli stati arabi per la normalizzazione dei rapporti. Questi ultimi comprendono, a differenza di Stati Uniti e Israele, che i palestinesi non potranno essere ignorati.

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Edilizia, il boom è già finito

di Guido Salerno Aletta

L'Istat non ha dubbi: l'indice destagionalizzato della produzione nelle costruzioni, che ha come campo di osservazione tutta l'attività delle costruzioni, riferita sia alla produzione di nuovi manufatti sia alla manutenzione di quelli esistenti, ad aprile scorso ha registrato una marcata flessione mensile (-3,8%) che si è riflessa in un risultato congiunturale negativo anche nel complesso del trimestre febbraio–aprile 2023 (-0,8%).

In termini tendenziali, rispetto allo stesso mese del 2022, ad aprile scorso è emerso un netto peggioramento, con la terza flessione consecutiva, sia nella serie grezza (-9,5%) sia in quella corretta per gli effetti di calendario (-6,3).

Sono in rallentamento anche i prezzi delle abitazioni: i dati provvisori del primo trimestre del 2023 relativi all'indice dei prezzi delle abitazioni (IPAB) acquistate dalle famiglie, per fini abitativi o per investimento, mostrano un aumento dello 0,1% rispetto all'ultimo trimestre del 2022 e dell'1,1% nei confronti del primo trimestre del medesimo anno, in contrazione rispetto al +2,7% registrato nel quarto trimestre 2022.

L'aumento tendenziale dell'IPAB, rispetto allo stesso trimestre del 2022, è da attribuire soprattutto ai prezzi delle abitazioni nuove che sono aumentati del 5,4% (in accelerazione rispetto al +4,5% del trimestre precedente) e in misura minore ai prezzi delle abitazioni esistenti la cui crescita decelera, passando dal +2,3% del quarto trimestre 2022 al +0,4%.

Su base congiunturale, rispetto al trimestre precedente, il leggero aumento dell'IPAB (+0,1%) è imputabile ai prezzi delle abitazioni nuove che crescono dell'1,6% mentre quelli delle abitazioni esistenti diminuiscono dello 0,2%.

Questi andamenti, conclude l'Istat, si manifestano in un contesto di rallentamento dei volumi di compravendita: -8,3% la flessione tendenziale registrata nel primo trimestre 2023 dall'Osservatorio del mercato immobiliare dell'Agenzia delle entrate per il settore residenziale, dopo il -2,1% del trimestre precedente.

Si è dunque esaurito completamente l'impulso dato dai bonus fiscali, sia a livello di attività nel settore delle costruzioni per le manutenzioni sia in termini di valorizzazione complessiva del patrimonio immobiliare esistente.

Il crollo del potere di acquisto delle famiglie italiane, cui si è aggiunto il peso dell'IMU sulle seconde case, ha distrutto valore patrimoniale: fatto pari a 100 il valore degli immobili rilevato nel 2010, quello rilevato nel primo trimestre di quest'anno, quindi tredici anni dopo, è salito intorno a quota 116 per le case di nuova costruzione mentre per le abitazioni esistenti è calato ancora, scendendo verso quota 82. La media dei prezzi arriva complessivamente attorno a quota 90 visto il maggior peso che hanno sul mercato le case esistenti, pari a circa l'80%.

Se si prende come anno di riferimento il 2015 (sempre con base =100), il valore tendenziale delle abitazioni nuove è arrivato a quota 117,8 mentre quello delle case esistenti è salito solo a 104,6. Il valore del patrimonio edilizio esistente non cresce come i prezzi al consumo ma, come i redditi da lavoro, si svaluta.

L'aumento dei costi di finanziamento dei mutui ha influito a loro volta sull'andamento dei prezzi degli immobili esistenti: secondo l'Abi, il tasso di interesse medio ponderato sulle nuove operazioni per le famiglie è passato dall'1,92% del maggio 2022 al 4,24% del maggio scorso. Inoltre, nel primo trimestre di quest'anno la quota degli acquisti finanziati con mutuo è scesa al 64,1% rispetto al 65,3% dell'ultimo trimestre del 2022, mentre il rapporto tra la somma finanziata ed il valore dell'immobile è passato dal 77,3% al 76,6%.

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Guerra in Ucraina - La controffensiva langue. Polonia e Baltici preoccupati per la Wagner in Bielorussia

Qui di seguito un aggiornamento delle notizie dal fronte di guerra basato su fonti russe, ucraine e statunitensi.

L’esercito russo ha respinto un attacco delle truppe ucraine nella direzione di Zaporozhye. Lo ha detto a RIA Novosti Oleg Cechov, capo del centro stampa del gruppo Vostok. “Nella direzione di Zaporozhye, le unità avanzate del gruppo di truppe Vostok, con il supporto dell’artiglieria, hanno respinto un attacco nemico nell’area di Malaya Tokmachka. Il fuoco dell’artiglieria ha distrutto i veicoli ucraini che hanno cercato di attaccare con forze fino a un plotone in direzione Novodanilovka e Lugovoi”, ha riferito la fonte.

Sempre secondo quanto riporta RIA Novosti le truppe ucraine stanno cercando di avanzare sulla sporgenza Vremevsky e hanno anche lanciato una nuova offensiva vicino al villaggio di Rabotino in direzione Orekhovsky. L’aviazione russa ha bombardato i concentramenti ucraini nella direzione di Orekhovsky.

A Melitopol, sempre nella regione di Zaporozhye, il sistema di difesa aerea russo è dovuto entrare in funzione per incursioni ucraine dal cielo, riferiscono le autorità cittadine sul canale Telegram. Una “serie di esplosioni” si sono verificate nella città di Melitopol occupata dai russi, secondo Vladimir Rogov, un collaboratore dell’amministrazione dell’oblast di Zaporizhzhia.

Il portavoce del comando orientale ucraino, Serhii Cherevatyi, riferisce che le forze armate ucraine sono avanzate fino a 1.400 metri in vari settori della linea del fronte nell’ultimo giorno, ma Cherevatyi non ha nominato le aree esatte. Nel frattempo, il 27 giugno il vice ministro della Difesa Hanna Maliar ha riferito che le forze ucraine sono gradualmente avanzate sui fianchi di Bakhmut negli ultimi quattro giorni.

In una intervista al Financial Times il ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov ha affermato che “I recenti e modesti successi ucraini contro le forze russe sono solo una ”anteprima” di una controffensiva molto più grande: l’evento principale dell’attacco deve ancora arrivare e quando accadrà, lo vedrete tutti… Tutti vedranno tutto”.

Intanto l’agenzia ucraina Unian – su fonte dello Stato Maggiore ucraino – riferisce che le forze armate russe hanno tentato ieri senza successo di attaccare cinque insediamenti ucraini in quattro direzioni. “Il nemico continua a concentrare i suoi sforzi principali nelle direzioni Lymansk, Bakhmut e Marynka, dove continuano pesanti battaglie. Durante la giornata (di ieri, ndr) si sono verificati oltre 30 scontri”, si legge nel rapporto. In particolare, in direzione Lyman, i russi hanno effettuato azioni offensive senza successo nella direzione di Belogorovka. Inoltre, nella direzione di Bakhmut hanno effettuato operazioni offensive senza successo nell’area di Orekhovo-Vasilyevka.

Il think thank statunitense Institute for the Study of War così sintetizza la situazione sul campo: “Fonti ucraine e russe hanno riferito che le forze ucraine hanno continuato le operazioni di controffensiva sui fianchi settentrionale e meridionale di Bakhmut. Il portavoce dello stato maggiore ucraino Andriy Kovalev ha dichiarato che le forze ucraine hanno condotto con successo operazioni offensive a sud di Velyka Novosilka vicino al confine amministrativo dell’oblast di Donetsk-Zaporizhia e a sud di Orikhiv nell’oblast di Zaporizhia occidentale. Fonti russe hanno affermato che le forze ucraine hanno condotto attacchi di terra a sud e sud-est di Velyka Novosilka, e un importante milblogger ha affermato che le forze ucraine hanno ottenuto ulteriori guadagni a sud di Rivnopil (10 km a sud-ovest di Velyka Novosilka) dopo aver catturato l’insediamento il 26 giugno. Il funzionario dell’occupazione dell’oblast di Zaporizhia Vladimir Rogov ha affermato che le forze ucraine hanno condotto contrattacchi a sud di Orikhiv per riconquistare le posizioni perse”.

Dalla sintesi di queste notizie dal fronte, sia di fonte russa che ucraina e statunitense, emerge che le forze armate russe non si stanno solo difendendo ma attaccano, nel contempo la controffensiva ucraina ottiene solo successi marginali.

Polonia e Repubbliche Baltiche preoccupate dalla Wagner in Bielorussia

Il presidente polacco Andrzej Duda ha affermato che è necessario rafforzare il fianco orientale della NATO negli Stati baltici e in Polonia a causa del dispiegamento delle truppe Wagner in Bielorussia.

“È in corso il ridispiegamento de facto delle forze russe, il Gruppo Wagner, in Bielorussia, insieme al suo capo Yevgeny Prigozhin. Questi sono segnali molto negativi per noi”, ha detto Duda il 27 giugno.

Anche la Lettonia e la Lituania hanno espresso preoccupazione per il ridispiegamento della Wagner, poiché entrambe confinano con la Bielorussia.

Il gruppo di monitoraggio bielorusso Belarusian Hajun ha confermato che l’aereo privato di Prigozhin era atterrato all’aeroporto militare di Machulishchy vicino a Minsk.

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