Presentazione


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26/12/2025

Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Tavani - Minirece

Lo sguardo obliquo del cinema per rappresentare l’irrappresentabile

di Gioacchino Toni

Pierre Dalla Vigna, Rappresentare l’irrappresentabile. Lo sguardo “obliquo” nel cinema sulla Shoah e in altre catastrofi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 120, € 14,00

Su come l’arte e il cinema possano o meno trattare l’enormità della Shoah si sono accumulate nel corso del tempo numerose e importanti riflessioni; diverse voci autorevoli hanno messo in guardia dai tentavi di illustrare, trattare, esprimere la Shoah nelle diverse forme artistiche in quanto destinate a dar luogo, loro malgrado, a forme di estetizzazione, banalizzazione, spettacolarizzazione, inverosimiglianza e voyeurismo. L’enormità della Shoah e le riflessioni che si sono generate attorno ad essa la rendono un ambito privilegiato per indagare come le manifestazioni artistiche e, in particolare, l’ambito cinematografico, abbiano finito per far ricorso a “visioni oblique” per affrontare quanto è stato ritenuto non direttamente rappresentabile.

È proprio alle visioni oblique a cui ha fatto ricorso il cinema per affrontare l’Olocausto nazista ed altri orribili crimini, nel tentativo di evitare di scivolare nella spettacolarizzazione e nel voyeurismo della violenza più estrema, che guarda il volume Rappresentare l’irrappresentabile (Mimesis 2025) di Pierre Dalla Vigna. La disamina proposta dallo studioso prende il via con alcune opere che, evitando di affrontare direttamente il genocidio, incentrano la narrazione su eventi che lo precedono ma che al tempo stesso lo fanno percepire come imminente: Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di Vittorio De Sica, derivato dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, a sua volta ispirato a vicende autentiche di una famiglia ferrarese sterminata ad Auschwitz; Cabaret (1972) di Bob Fosse, musical ambientato durante la Repubblica di Weimar in cui lo spettro dell’Olocausto è evocato da personaggi secondari; La nave dei folli (Ship of Fools, 1965) di Stanley Kramer, film in cui viene messo in scena l’atteggiamento vessatorio ed emarginante nei confronti di un ebreo e un nano da parte di un gruppo di tedeschi dalle esplicite simpatie naziste nel corso di una crociera del 1933.

Della Shoah, ricorda Dalla Vigna, esistono alcuni frammenti visivi e si ritrovano nelle fotografie scattate clandestinamente nel 1944 da appartenenti a un Sonderkommando operante ad Auschwitz-Birkenau e in alcune riprese aeree anglo-americane, oltre che nei documentari girati dalle truppe sovietiche e statunitensi al loro arrivo nei campi di sterminio. Proprio questi ultimi materiali visivi sono poi stati utilizzati da Alain Resnais nel suo docu-film Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1956), insieme a materiali audiovisivi dell’epoca nazista e sequenze a colori girate in Polonia sui luoghi che furono teatro dello sterminio con il commento di una voce fuori campo. «Il tutto è di estremo coinvolgimento e conduce il pubblico a ricostruire il genocidio senza spettacolarizzare l’orrore, ma imprimendo nella memoria il senso più profondo dell’evento» (p. 35).

Dalla Vigna si sofferma anche su Un vivo che passa (Un vivant qui passe, 1999) di Claude Lanzman, opera che riflette sull’ottundimento di quanti pur avendo visto qualcosa non sono stati in grado di comprendere quanto visto in riferimento al campo di Theresienstadt, in Boemia, allestito ad arte dai nazisti per mostrare le buone condizioni di prigionia dei detenuti per essere mostrato attraverso immagini documentarie girate dal regime e, in forma diretta, attraverso le visite pianificate per alcuni osservatori internazionali. Il ricorso a operazioni di mascheramento della realtà, che non di rado sfruttano il credito acritico che si tende a concedere alle immagini nonostante la consapevolezza della loro sempre più facile manipolabilità, caratterizza evidentemente anche la contemporaneità più stretta, ma al di là delle messe in scena esplicitamente truffaldine e delle immagini volutamente falsificanti la realtà, resta il difficile rapporto tra testimonianza-documentazione storica e verosimiglianza cinematografica.

Non potevano mancare riflessioni sul controverso Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, liberamente derivato da Se questo è un uomo scritto da Primo Levi tra il 1945 ed il 1947. Il  film è incentrato su una giovane ebrea francese disposta a tutto pur di sopravvivere al Lager che troverà modo di redimersi sacrificandosi per consentire la fuga di un gruppo di prigionieri. Il ricorso a scene particolarmente crude ha indotto cineasti e critici come Jacques Rivette e Serge Daney ad accusare il film di voyeurismo, ostentazione dell’orrore, estetizzazione della morte, mentre altri, come Alberto Moravia, hanno evidenziato come, a fronte di una corretta ricostruzione scenica, è come se Pontecorvo guardasse più allo spettatore che non al materiale su cui dovrebbe concentrarsi il film. La storia d’amore messa in scena nella seconda parte del film, scrive Dalla Vigna, «costruisce un artificio falsificante che contrasta con una realtà troppo orrorifica per essere rappresentata a freddo. Il divario tra il mettere in mostra l’indicibile di Auschwitz, che rischia di scivolare nel compiacimento dell’orrore, e le necessità di una trama cinematografica consolatoria per rendere più sopportabile l’orrore stesso, ha dunque come risultato una duplice insoddisfazione» (p. 38).

A modalità oblique di affrontare la Shoah ricorrono anche Il pianista (The Pianist, 2003) di Roman Polanski, derivato dall’autobiografia scritta nel 1946 del musicista ebreo-polacco Władysław Władek Szpilman scampato al genocidio, e Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes, che incentra il film su un membro di un Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau alla ricerca di un rabbino che possa recitare la preghiera funebre per il figlio che crede di aver riconosciuto tra i cadaveri. Sullo sfondo della vicenda messa in scena viene mostrato il tentativo di alcuni detenuti del Sonderkommando di lasciare una testimonianza fotografica degli eventi.

Ad essere preso in esame dallo studioso è anche il recente La zona d’interesse (The Zone of Interest, 2023) di Jonathan Glazer, film liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis che mostra l’ostinazione con cui la famiglia del comandante del Lager di Auschwitz desidera vivere come idilliaca la quotidianità che trascorre in una dimora confinante con il campo di sterminio non vedendo e non volendo vedere ciò che accade oltre le mura di cinta. Se la contiguità tra l’idillio della famiglia nazista e i prigionieri condannati alle camere a gas può rimandare alla “zona grigia” dei privilegiati all’interno dei lager di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati, scritto nel 1986, tuttavia, sottolinea Dalla Vigna, la “zona d’interesse” è di ben altra natura, essendo situata «nel campo dei carnefici meno consapevoli del proprio ruolo, dei parenti degli esecutori diretti, in diretto rapporto con la banalità del male che Hannah Arendt ha voluto riscontrare persino in uno degli artefici più significativi dell’Olocausto, Adolf Eichmann» (p. 42), tesi contrastata da quanti hanno invece preferito insistere sulla malvagità intrinseca del criminale nazista e sulla sua  spietata consapevolezza genocida. Evidentemente, scrive Dalla Vigna, «risulta più facile accogliere la tesi che vi possa essere un male assoluto, e quasi onnipotente, piuttosto che meditare sulla mediocrità di una malvagità più contraddittoria, ma capace di mostruosità illimitate proprio in ragione della sua miseria» (p. 42).

In L’uomo del banco dei pegni (The Pawnbroker, 1964) di Sidney Lumet, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Edward Lewis Wallant nel 1961, l’Olocausto viene evocato indirettamente attraverso i ricordi traumatici dei reduci dei Lager che continuano a manifestarsi anche a distanza di tempo. Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, invece, scrive Dalla Vigna,

può rappresentare in modo paradigmatico un’aporia in cui la verità storica s’infrange nella categoria estetica del bello. Il falso può esser seducente e ammiccante più di una ricostruzione autentica, e questo film, che Primo Levi, in I sommersi e i salvati, definì appunto come “bello e falso”, è una dimostrazione plateale dell’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz, non a causa di un limite estetico, ma proprio a causa della sua piena riuscita. Contro la messa in scena di una fiction sadomasochistica, Levi rivendicava il diritto a definirsi “vittima innocente” e confutava con veemenza l’equazione dell’intercambiabilità dei ruoli di carnefici e vittime (pp. 44-45).

Al film di Liliana Cavani è stato rimproverato di far riferimento all’esperienza dei Lager nazisti come pretesto per affrontare «le complessità dell’attrazione amorosa e delle sue contraddizioni» (p. 45). Susan Sontag individua ne Il portiere di notte una versione “di qualità” di quella erotizzazione dell’estetica nazista a cui fanno ricorso, sin dagli anni Settanta, i film del filone nazi-sploitation.

Dalla Vigna si sofferma su due produzioni hollywoodiane accusate di aver spettacolarizzato la Shoah: la miniserie televisiva Olocausto (Holocaust, 1978) di Marvin J. Chomsky e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg. A quest’ultimo film può essere contestato, tra le altre cose, anche di non aver concesso, del resto in linea con la tradizione hollywoodiana, il ruolo di protagonista a una vittima, preferendo assegnarlo a un tedesco “buono”.

Se opere come Kapò, Olocausto, Il pianista e Schindler’s List contribuiscono a trasformare la mera conoscenza dei fatti del pubblico in percezione intima, film come La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, Il bambino col pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, 2008) di Mark Herman e Il portiere di notte della Cavani, scrive Dalla Vigna,

introducono un regime del falso del tutto fuorviante, poiché anche nel richiamo producono una cesura di tipo negazionista, incentivando buoni sentimenti che azzerano i problemi, nel profluvio di lacrime, e possono convincere gli spettatori stessi di essere nel giusto e dalla parte del bene. Abbiamo quindi anche nel falso un doppio regime di verità, sotteso tra denuncia e consolazione, che non sempre è nettamente separabile. Per un verso c’è una società dello spettacolo che si sovrappone al reale fino a soffocarlo, come ipotizzava Jean Baudrillard, e che costruisce i simulacri ingannevoli di “un inferno costellato di buone intenzioni”. Dall’altro abbiamo il risveglio di una conoscenza epidermica, fisica, certamente l’invenzione di una rappresentazione, che però richiama alla memoria un evento che merita di essere tramandato per impedirne la ripetizione. Infine, come mediazione originata da percorsi altri ed esterni alla dicotomia, abbiamo la costruzione di mondi narrativi autonomi, che pur ricollegandosi alla storia, si sentono esentati dall’aderirvi (p. 50).

Con il venire meno dei testimoni delle atrocità e di quanti ne hanno raccolto il racconto, le immagini dell’Olocausto, anziché risultare funzionali al ricordo e alla denuncia, sono divenute un bacino da cui attingere liberamente per meri scopi narrativi. Tutto ciò, sottolinea Dalla Vigna, non solo è evidente nel filone nazi-splotation di bassa qualità, ma è ravvisabile anche in opere di maggiore spessore, come nel caso di Fuga da Sobibor (Escape from Sobibor, 1987) di Jack Gold (1987), in cui la specificità totalitaria dell’Olocausto è piegata alle esigenze del genere avventuroso.

In uno scenario in cui presidenti ebrei dirigono brigate naziste, oligarchi russi si proclamano eredi di Stalin o di Piero il grande, e il popolo erede della memoria dell’Olocausto finisce col giustificare o addirittura esaltare una strage di oltre duecentomila civili a Gaza, nel Libano e in Siria, con la complicità di buona parte dell’informazione democratica d’Occidente, ogni fiction, per quanto inverosimile e azzardata, finisce con l’apparire un format credibile (p. 52).

Anche la fantascienza, nelle sue varianti distopiche, fantapolitiche e ucroniche, ha strutturato modalità oblique con cui rappresentare la Shoah. In particolare, concentrandosi sul solo ambito audiovisivo, Dalla Vigna fa riferimento al film Delitto di stato (Fatherland, 1994) di Christopher Menaul, liberamente derivato dall’omonimo romanzo del 1992 di Robert Harris, in cui si ipotizza il compimento della soluzione finale hitleriana. Scenari futuri in cui a trionfare sono state le forze naziste si ritrovano anche nelle serie televisive L’uomo nell’alto castello (The Man in the High Castle, 2015-2019) di Frank Spotnitz, derivata dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (titolato inizialmente in italiano La svastica sul sole) e Il complotto contro l’America (The Plot Againist America, 2020) di Minkie Spiro e Thomas Schlamme, serie ispirata all’omonimo romanzo del 2004 di Philip Roth. Mantenendo un finale tutto sommato aperto, le tre opere citate, scrive Dalla Vigna, «malgrado le evidenti differenze di stile, hanno un effetto in qualche modo consolatorio: l’orrore evocato nell’ucronia di una vittoria del male, lascia spazio all’effetto catartico che nella realtà il bene abbia trionfato, ripristinando il corso di una progressione storica positiva» (p. 55).

Se è pur vero che le ucronie citate, proprio in quanto tali, dovrebbero indurre a un sospiro di sollievo, visto che si presentano come l’alternativa che, fortunatamente, non si è data, si potrebbe paradossalmente affermare, scrive Dalla Vigna, che

la vittoria postuma del nazismo, con il suo obiettivo di espellere l’ebraismo dall’Europa, si sia compiuta, infettando le coscienze degli eredi delle vittime, distorcendo la storia e assuefacendo le coscienze occidentali a un crescendo di orrore. Inoltre, com’è stato da più parti sottolineato, la politica di sterminio israeliana, che viene comunque tollerata e sotterraneamente favorita dalle democrazie occidentali, con la fornitura di armi e appoggi diplomatici, produce una ripulsa nel resto del mondo e finirà col provocare nuove ondate di antisemitismo che il movimento sionista voleva combattere (p. 60).

Lo studioso evidenzia come anche la Nakba manifesti problematiche di irrappresentabilità, tanto che il cinema che se ne è occupato lo ha fatto adottando visioni oblique. Tra le diverse produzioni audiovisive che hanno affrontato la questione israelo-palestinese lo studioso ricorda: No Other land (2024), documentario incentrato sulla resistenza araba alle distruzioni dei coloni israeliani realizzato da un collettivo comprendente gli arabi Basel Adra e Hamdan Ballal e gli ebrei Rachel Szor e Yuval Abraham; Israelism (2024), opera documentaria realizzata dai registi ebrei-americani Erin Axelman e Sam Eilertsen che hanno fatto ricorso a interviste di personalità della cultura e attivisti per i diritti umani, diversi dei quali ebrei; Paradise Now (2005) del palestinese cittadino israeliano Hany Abu-Assad, fiction incentrata sulla preparazione di un attentato sucida palestinese che termina prima che questo venga portato a termine lasciando così il dubbio circa la decisione finale presa dal protagonista; Valzer con Bashir (Waltz with Bashir, 2008) di Ari Folman, opera d’animazione che narra delle ferite psichiche di alcuni militari israeliani attivi nei massacri di Sabra e Shatila del 1982; Il giardino dei limoni (Lemon Tree, 2008) dell’israeliano Eran Riklis, film incentrato sulla controversia legale tra le autorità israeliane e una donna palestinese caparbiamente decisa a difendere il suo limoneto sventuratamente confinante con la dimora di un ministro.

A sguardi obliqui hanno fatto ricorso anche i film che hanno voluto occuparsi delle torture statunitensi nella prigione di Abu Ghraib, divenute note grazie alle fotografie scattate e diffuse dai torturatori stessi. Boys of Abu Ghraib (2014) di Luke Moran evita di affrontare direttamente i fatti preferendo imbastire una storia basata su di essi che può dirsi, per certi versi, autoassolutoria. Ne Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021) di Paul Schraderi i tragici eventi compaiono a distanza di tempo e in maniera sfumata nei ricordi di chi vi ha preso parte. Anche in questo caso, sottolinea Dalla Vigna, manca il punto di vista delle vittime: che si tratti dello sterminio dei nativi americani o di quello dei vietnamiti, anche le pellicole mosse da sincero spirito di denuncia non mancano di filtrare gli eventi attraverso il punto di vista, per quanto critico possa essere, degli invasori.

Il documentario I fantasmi di Abu Ghraib (Ghosts of Abu Ghraib, 2007) di Rory Kennedy, che ricorre a interviste sia di vittime che di militari implicati nei soprusi, denuncia come le torture siano derivate, oltre che da precise politiche adottate dalle autorità militari e governative, dal clima di caos e paura regnante nella prigione. Per certi versi, scrive Dalla Vigna, il documentario di Kennedy ricalca il cinema di Lanzmann, con la differenza che in questo caso le immagini sono presenti e sono quelle scattate dagli aguzzini.

Abbiamo qui l’autodenuncia dei torturatori, presi dall’enfasi del loro ruolo e divenuti inconsapevolmente, essi stessi, prove provate delle loro atrocità. I segreti che i capi delle SS si sforzavano di nascondere, distruggendo documentazioni, edifici e financo gli ordini di sterminio, nell’epoca della società dello spettacolo globale sono misfatti rivelati in modo plateale, trasformando i più modesti esecutori nelle incarnazioni del male. Naturalmente, i canali d’informazione, per lo meno quelli dei vincitori, cercheranno poi di raccontare la fiaba di poche “mele marce” intorno a un sistema di per sé sano e democratico, occultando le responsabilità dei mandanti e di un intero sistema (pp. 66-67).

La parte finale del volume si concentra su come anche i film che hanno affrontato i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki e più in generale il rischio dell’olocausto nucleare, si siano trovati a fare i conti con le categorie dell’indicibile e dell’irrappresentabile, dunque alla necessità di ricorrere a visioni oblique. Non a caso, sottolinea Dalla Vigna, tra coloro che si sono cimentati sul disastro atomico nipponico, o sul rischio dell’olocausto nucleare, si trovano registi che come Alain Resanis, con il suo Hiroshima mon amour (1959), e Sidney Lumet, con A prova di errore (Fail-Safe, 1964), che si erano precedentemente occupati dei campi di sterminio nazisti. Se Resnais ricorre a una storia d’amore ambientata alcuni decenni dopo la catastrofe nipponica per far affiorare le terribili memorie dell’evento, Lumet mostra come possa generarsi un conflitto nucleare a partire da una serie di fraintendimenti. Se quest’ultimo film rappresenta la versione drammatica di come un conflitto nucleare possa essere generato da un concatenamento di errori, Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick rappresenta invece la versione comico-grottesca di come si possa giungere al disastro. Entrambi i film, evidenzia Dalla Vigna, trattano l’olocausto nucleare limitandosi ad evocare le vittime senza mostrarle.

A modalità oblique di trattare la tragedia nucleare ricorrono anche i film Vivere nella paura (Ikimono no kiroku, 1955) e Rapsodia in agosto (Hachigatsu no kyōshikyoku, 1991) di Akira Kurosawa. Godzilla (1954) di Ishirō Honda inaugura invece un fortunato filone di b-movie giapponesi e americani incentrato su mostri generati o risvegliati dalle esplosioni nucleari. Riferimenti agli ordigni atomici sul Giappone si ritrovano in L’impero del Sole (Empire of the Sun, 1987) di Steven Spielberg, derivato dall’omonimo romanzo parzialmente autobiografico di James G. Ballard, per poi tornare centrale, dopo un periodo di oblio, nel film Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan che, nuovamente, come da tradizione hollywoodiana, evita il punto di vista delle vittime. Dalla Vigna ricorda anche il docu-drama La morte è scesa a Hiroshima (The Beginning or the End, 1947) di Norman Taurog che ricorre all’espediente del ritrovamento di immagini e filmati storici riguardanti la preparazione, l’esplosione e gli effetti degli ordigni. Tornando alle opere di pura fiction, altre modalità oblique di trattare il disastro nucleare si ritrovano in numerosi film hollywoodiani, di qualità decisamente variabile, incentrati sul “dopobomba”, quando davvero i sopravvissuti potrebbero trovarsi a invidiare i morti.

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Il Natale violento del capitale

Perché ogni anno, Una poltrona per due (Trading Places, 1983), di John Landis, viene puntualmente trasmesso dalla televisione italiana in occasione della vigilia di Natale? E perché ogni anno raggiunge altissimi livelli di ascolto tali da superare, come leggiamo nella pagina Wikipedia dedicata al film, la messa di mezzanotte trasmessa quasi contemporaneamente? La visione di questo film, almeno da noi, è diventata un classico natalizio, ancora più natalizio della messa di Natale. Si potrebbe pensare che esso venga associato al Natale perché è una facile commedia che, tra l’altro, si svolge nel periodo natalizio e perché, alla fine, trionfano i buoni sentimenti. Eppure, se lo analizziamo attentamente, si scopre che si tratta di una storia che racconta un feroce spaccato di una altrettanto feroce guerra, quella finanziaria. Due ricchi capitalisti, i fratelli Duke, per una scommessa, decidono di sostituire il loro agente di cambio, il benestante Louis Winthorpe III (Dan Aykroid), con il povero senzatetto Billy Ray Valentine (Eddie Murphy). Winthorpe e Valentine, inizialmente rivali, si alleeranno contro i Duke. Tutto il film è incentrato sul desiderio di arricchirsi a tutti i costi, sull’odio e sulla gelosia che si prova per chi gode una qualsiasi situazione di privilegio, sull’aspirazione al benessere e ai comfort che si possono acquistare con il denaro. In questo senso, si tratta di un film in linea con l’ideologia reaganiana degli anni Ottanta americani ma anche di quelli italiani. Non è un caso che ogni anno a Natale venga programmato da Italia 1 o, comunque, da una rete Mediaset, fondata da Berlusconi, il personaggio simbolo della “Milano da bere” anni Ottanta.

Altro che storia natalizia sui buoni sentimenti. Protagonista assoluta è una guerra fra poveri, fra poveri e ricchi e fra ricchi e ricchi: i Duke vogliono annientare Whintorpe e Valentine, Winthorpe vuole eliminare Valentine e Valentine Winthorpe; infine, entrambi, insieme a una giovane prostituta e al maggiordomo di Winthorpe, si coalizzeranno contro i Duke con l’unico scopo di vendicarsi e di arricchirsi. Su tutta la vicenda narrata dal film campeggia quindi un’atroce guerra all’ultimo sangue: quella della finanza e della borsa; le scene clou si ambientano infatti alla borsa di futures e opzioni sulle materie prime di Chicago. Non è un caso che mentre camminano dirigendosi alla borsa, Whintorpe dica a Valentine: “Qui o uccidi o sei ucciso”. Evidentemente, al pubblico natalizio piace un film di guerra mascherato da fiaba natalizia. Un film sorretto da un’unica ideologia: è terribile e vergognoso essere poveri mentre è bellissimo e appagante essere ricchi. I buoni sentimenti equivalgono alla vendetta e la felicità equivale alla ricchezza. Più anni Ottanta di così si muore.

Ma cosa c’entra il Natale con tutto ciò? C’entra, eccome se c’entra. Il Natale, sotto le parvenze dei buoni sentimenti e della bontà, non è altro che il momento culminante e più feroce della società capitalistica. È il momento in cui si acuisce il divario tra chi ha possibilità economiche e chi non le ha: acquisti, regali, cenoni, feste più o meno sfarzose. È il momento in cui gli individui fanno a gara per accaparrarsi più merce a qualsiasi costo ed è quello in cui i poveri sono ancora più poveri. I buoni sentimenti e la generosità, nel mondo dominato dal capitale, sono soltanto messinscene per creduloni; sono materia da fiaba e da favoletta, né più né meno. Sotto la maschera della bontà e della generosità, il periodo natalizio rappresenta, ogni anno, la guerra mondiale imposta dal capitale. Una guerra che gli stessi paesi ricchi e occidentali dichiarano a quelli più poveri. Se nel ricco Occidente, milioni di individui paffuti e benestanti affollano le strade disposti a massacrarsi a vicenda per un parcheggio dove posteggiare il loro Suv o per accaparrarsi l’ultimo ritrovato tecnologico in vendita presso un superstore, nei paesi emarginati dell’est e del sud del mondo altri milioni di individui stanno morendo di fame o vengono massacrati dalle bombe di governi filo-occidentali, come nella Striscia di Gaza. Quello stesso capitale che produce il Natale, le feste e i regali produce anche le armi da esportare nelle guerre e utilizzate per massacrare popolazioni inermi. Nell’universo capitalistico non c’è nessuna differenza fra produrre un panettone, uno smartphone, una bottiglia di spumante per brindare alle festività e produrre bombe, missili e droni.

Non è un caso che il Natale sia stato sempre al centro dello sguardo della società capitalistica fin dai suoi primordi. Il Canto di Natale (A Christmas Carol) di Charles Dickens esce nel 1843 e racconta la conversione alla bontà di un ricco banchiere e capitalista, Ebenezer Scrooge. Sotto l’involucro dei buoni sentimenti si nasconde l’indicibile violenza della corsa alla ricchezza imposta dal capitale e le orribili condizioni in cui versano gli strati più poveri della società londinese dell’Ottocento. Banche e capitali sono alla base anche di un’altra storia natalizia edificante che rappresenta quasi una rilettura del racconto di Dickens: ci riferiamo al film La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life, 1946) di Frank Capra, in cui la bontà e le buone azioni avvengono sullo sfondo di una furiosa guerra finanziaria (nel film compare anche la crisi di Wall Strett del 1929) fra ricchi e poveri emarginati. Sotto Natale, nel momento dell’euforia degli acquisti, sono ambientate anche alcune sequenze di un altro film, Rapporto confidenziale (Confidential Report, 1955) di Orson Welles: siamo a Monaco di Baviera e il mio omonimo Guy Van Stratten incontra Jakob Zouk, ormai ridotto in miseria, uno degli ultimi a conoscere il segreto del misterioso miliardario Gregory Arkadin (Orson Welles). Fra i fasti natalizi, mentre Van Stratten cerca invano del paté d’oca, cibo di lusso per soddisfare il desiderio dell’ex galeotto Zouk, il potente capitalista Arkadin elimina lo stesso Zouk, piantandogli un coltello nella schiena, in un fatiscente appartamento del centro. Dietro i canti natalizi, la neve e l’atmosfera della festa, il capitale celebra ancora una volta le sue vendette. Ma, in questo grande film, nell’atmosfera natalizia, il capitalista spaccone e prepotente viene inchiodato a una dimensione buffonesca e carnevalesca: Arkadin, pur di prendere l’ultimo aereo in partenza da Monaco ormai già completo, in aeroporto grida ai passeggeri che è disposto ad offrire qualsiasi cifra per un biglietto ma Van Stratten lo tratta come un pazzo esaltato dal Natale. Il tragico potere del capitale, che pretende di comprare qualsiasi individuo per soddisfare i propri capricci, viene in tal modo scoronato e ricondotto a una dimensione funereamente carnevalesca.

Piace così tanto Una poltrona per due sotto Natale, allora, forse perché inconsciamente rappresenta lo status di guerra cui sono sottoposti gli individui asserviti in tutto e per tutto alle dinamiche capitalistiche; uno status che, come abbiamo visto, raggiunge sotto le feste i suoi momenti culminanti. Non ci sono buoni sentimenti che tengono, non ci sono conversioni alla Scrooge che possano proteggere dalla guerra fintamente piacevole che il capitale impone ogni giorno. Perché nessuno proverà un qualsiasi dolore o fastidio se, per sbaglio, cambiando canale per pochi attimi dalla visione natalizia di Italia 1, si troverà di fronte immagini di guerra dalla Striscia di Gaza. Perché nell’irrealtà che ci circonda tutto diventa irreale, illusorio, mediaticamente finto. Tutto una grande favola mediatica e digitale, anche la guerra, la distruzione e la morte. Buona guerra e felice nuova distruzione.

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Guerra in Ucraina - Volevano 210 miliardi per farli combattere altri due anni

di Fulvio Scaglione

Fare pronostici è sempre un azzardo. Lo sanno bene tutti quelli che, dalle stelle alle stalle, da Mario Draghi a Il Foglio passando per tutti i gradi intermedi, hanno via via pronosticato un colpo di Stato contro Putin, la sconfitta sul campo della Russia, il rapido crollo dell’economia russa e via dicendo.

Quindi so bene di rischiare, ora che un pronostico voglio azzardarlo anch’io: dei famosi 210 miliardi di beni russi congelati in Europa, che parte della Ue (Germania, Paesi del Nord e dell’Est, la von der Leyen) voleva trasferire all’Ucraina, sentiremo di nuovo parlare, anche se il Consiglio Europeo ha nei giorni scorsi deciso di lasciarli congelati in banca e destinare all’Ucraina un prestito da 90 miliardi finanziato dal bilancio Ue.

Ne risentiremo parlare, secondo me, per due ragioni. La prima è che gli Usa, in questa fase contrari allo scongelamento pro-Ucraina, potrebbero cambiare idea se non riuscissero a convincere Putin ad arrivare a un accordo di pace.

La seconda è questa: i 90 miliardi del prestito Ue sono una boccata d’ossigeno per l’Ucraina, ma non molto di più.

Se uno si mette nei panni di quelli che, in Europa, pensano che finanziare a oltranza la resistenza ucraina sia la scelta giusta, lo scongelamento con esproprio aveva un sacco di ragioni valide: danneggiava la Russia e le mandava un messaggio molto forte sulla solidarietà Ue all’Ucraina; finanziava le forze armate ucraine che, come si dice spesso, “combattono per noi”, ovvero contribuiscono alla nostra sicurezza; prolungando la resistenza ucraina logorava la Russia e dava modo al riarmo europei di guadagnare tempo; mostrava agli Stati Uniti che molto si può fare anche senza di loro.

In generale si diceva: con quei 210 miliardi garantiamo all’Ucraina la possibilità di combattere per almeno altri due anni. O di arrivare alla famosa “pace giusta” i cui contorni cambiano di settimana in settimana e che comunque, per come viene solitamente descritta, non ha alcuna possibilità di essere accettata dai russi.

Non è un caso, quindi, se molti rimpiangono l’esito del Consiglio europeo e ne definiscono l’esito un errore. È la tesi del premier polacco Donald Tusk: “O i soldi ora o il sangue domani”.

Da quel punto di vista, lo ripetiamo, tante valide ragioni. Però... Mi piacerebbe che i sostenitori di questa linea rispondessero a una domanda: siete sicuri che all’Ucraina (non a noi, a loro che vanno in prima linea) convenga combattere altri due anni? O addirittura: siete sicuri che l’Ucraina possa combattere altri due anni?

Proviamo a guardare un po’ di dati.

Primo tema: più la guerra si prolunga, più l’Ucraina deve fare i conti con la crescente scarsità di uomini atti al combattimento. Secondo un’inchiesta del Telegraph, almeno 650 mila uomini in età di leva sono fuggiti dal Paese; secondo la deputata ucraina Anna Skorokhod sono almeno 400 mila i disertori o gli AWOL (soldati assenti senza permesso); nel solo 2024, scrive il Financial Times, i procuratori militari ucraini hanno aperto 60 mila casi per diserzione o assenza ingiustificata, più di quanti ne erano stati aperti nei due anni precedenti; e secondo il Military Watch Magazine il tasso di diserzione nel 2025 ha raggiunto i 40 mila uomini al mese.

Secondo: oltre ai circa 8 milioni di ucraini che si trovano all’estero (circa 6 milioni nella Ue), ci sono attualmente 1,8 milioni di sfollati interni generati dalla guerra nel Donbass (2014-2022) e altri 5,7 milioni di sfollati interni generati dall’invasione russa del 2022. Ne ho già parlato qui: e anche in questo caso, i dati raccolti dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ci dicono che il fenomeno è in crescita: tra aprile 2024 e febbraio 2025 la percentuale degli sfollati interni sulla popolazione totale dell’Ucraina è cresciuta dal 10,7% all’11,9%.

Terzo: l’Ucraina è in bancarotta. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, nel 2026 e nel 2027 avrà bisogno di almeno 137 miliardi di euro (160 miliardi di dollari), che dovranno esserle consegnati entro la prossima primavera. Come sappiamo, l’Ue si è risolta a un prestito di 90 miliardi, che a questi ritmi basteranno per meno di un anno, mentre la guerra e le sue distruzioni avanzano.

Quarto: il sistema energetico dell’Ucraina (fino al 2021 integrato con quello di Russia e Bielorussia, per passare pochi giorni dopo l’invasione del 2022 a collegarsi alla rete European ENTSO-E) viene colpito dai russi senza sosta. Secondo i dati del Center for European Policy Analysys (CEPA), l’80% degli impianti ucraini di produzione di energia è stato distrutto o danneggiato dai bombardamenti russi.

La centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, è sotto il controllo dei russi, che hanno inflitto colpi durissimi anche alle centrali idroelettriche, a partire da quella di Kakhovka. Altri due elementi: l’Ucraina importa il 44% dell’energia elettrica (e il 58% del gas) da un Paese non certo amico come l’Ungheria. E i recenti scandali corruttivi del “caso Mindich” ci dicono che il settore soffre di clamorosi problemi di governance.

Qualcuno pensa che i russi smetteranno di colpire le centrali ucraine? O che la guerra girerà in modo che i russi non possano più farlo? E non è difficile immaginare che cosa significhi tutto questo per la popolazione.

Siamo davvero sicuri che l’Ucraina possa andare avanti altri due anni a combattere in queste condizioni? Siamo, anzi, siete sicuri che in altri due anni, con quei problemi già drammatici con ogni probabilità destinati a crescere, l’Ucraina nella sua resistenza e assistita in ogni modo da tutto l’Occidente, riesca a non disgregarsi e a non subire danni maggiori di quelli, indubbi, che subirebbe in caso di un accordo più rapido?

Noi certezze non ne abbiamo. È a quelli ultrasicuri, e ultrasicuri da quattro anni, che chiediamo una risposta.

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Il governo cerca di bloccare il gemellaggio tra Riace e Gaza

Incredibile da credersi, eppure il governo – tramite il ministro degli Affari Regionali Calderoli – sta cercando di bloccare l’attuazione del gemellaggio tra il Comune di Riace e Gaza.

Il gemellaggio era stato firmato dal sindaco Mimmo Lucano lo scorso agosto con il sindaco di Gaza City Yahya Sarraj intervenuto in videocollegamento.

Lo schema di gemellaggio con Gaza era poi stato inviato al ministero per gli Affari regionali e le autonomie ma dal ministero è arrivata una risposta negativa in quanto questo gemellaggio potrebbe “arrecare un grave pregiudizio alla politica estera italiana” a causa del “legame esistente tra consigli locali e sindaci di Gaza e l’organizzazione terroristica Hamas, sottoposta a sanzioni da parte dell’Unione europea”.

Nella sua lettera inviata al sindaco di Riace Mimmo Lucano, il ministro Calderoli spiega che “a conclusione dell’istruttoria esperita presso le amministrazioni interessate, si rappresenta che il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale ha espresso parere negativo alla sottoscrizione del gemellaggio”.

Il parere negativo arrivato dalla Farnesina, ha voluto sottolineare che “sussistono rilevanti motivi ostativi, connessi al legame esistente tra consigli locali e sindaci di Gaza e l’organizzazione terroristica Hamas. Pertanto, ove effettivamente concluso, il gemellaggio in questione sarebbe suscettibile di arrecare un grave pregiudizio alla politica estera italiana. L’Italia, infatti, sostiene senza ambiguità la necessità di escludere Hamas da qualsivoglia futuro politico e securitario nella Striscia”.

Dopo la lettera di Calderoli, Mimmo Lucano ha replicato che la lettera ricevuta è “gravissima perché, senza alcuna spiegazione nel merito, il ministero degli Esteri accusa il sindaco di Gaza di essere legato ad Hamas. Come la nostra iniziativa possa arrecare danno alla politica estera italiana dovrebbe chiarirlo il ministro Antonio Tajani che, assieme a tutto il governo, sembra più interessato a capire cosa accade a Riace, piuttosto che impegnarsi in un reale percorso di pace in Palestina”.

Ci auguriamo che il sindaco di Riace proceda sulla sua strada infischiandosene dei diktat del governo e dando materialità al gemellaggio con Gaza.

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Gli USA sanzionano Breton, ex Commissario UE. Si allarga la frattura tra le sponde dell’Atlantico

Se la UE ha raggiunto il proprio punto di non ritorno, riguardo alla trasformazione in una democratura in cui vige la legge della guerra, l’amministrazione Trump ha fatto un passo avanti con le ultime sanzioni da “caccia alle streghe” nella transizione verso una fase nuova della competizione globale, in cui lo scontro è ormai esplicito tra aree macroeconomiche con interessi contrastanti.

Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a cinque personalità europee. Non si tratta di provvedimenti economici, né di sanzioni ad personam devastanti come quelle decise dalla UE contro chi considera “amico di Putin”, ma del divieto di ingresso sul territorio statunitense. Tutti i colpiti sono in un qualche modo legati al campo della cosiddetta “lotta alla disinformazione” e/o alla regolazione delle attività dei giganti del web. Ma il caso assume un peso particolare, poiché tra i sanzionati c’è l’ex Commissario UE Thierry Breton.

Responsabile per il Mercato interno e i Servizi del primo mandato von der Leyen, Breton è considerato l’architetto del Digital Services Act (DSA), che ha definito il quadro entro cui operano le Big Tech del digitale. Il politico francese è stato anche protagonista delle indagini su X, Meta e TikTok, per la presunta diffusione di “notizie false” e “discorsi di odio”.

Per Marco Rubio si è invece trattato di una serie di operazioni progettate per danneggiare gli States. Il Segretario di Stato USA ha scritto su X: “per troppo tempo, gli ideologi europei hanno condotto azioni concertate per costringere le piattaforme americane a sanzionare le opinioni americane alle quali si oppongono”.

La sanzione appare in maniera evidente una ritorsione immediata alla multa da 120 milioni di euro comminata proprio a X, che è anche la prima decisione di non conformità adottata sotto il DSA. Sempre a X anche Breton ha affidato la sua risposta: dopo aver ricordato che il 90% del Parlamento Europeo ha votato quella normativa, si è chiesto se fosse “tornata la caccia alle streghe di McCarthy”. Dimenticando che quella era una “caccia ai comunisti”, mentre questo scontro è tra banditi ex complici...

Von der Leyen e un portavoce di Londra hanno difeso la “libertà di parola”, mentre Macron ha parlato “di intimidazione e coercizione nei confronti della sovranità digitale europea”. Ma altri commenti sono il sintomo dell’estrema difficoltà con cui le capitali europee stanno affrontando questa accelerazione delle tensioni internazionali, anche nel fu campo euroatlantico.

Il ministro degli Esteri tedesco ha scritto su X che l’obiettivo deve essere “chiarire le divergenze di opinione con gli USA nel quadro del dialogo transatlantico, al fine di rafforzare la nostra partnership”, mentre il suo omologo spagnolo ha parlato del provvedimento contro Breton come di una “misura inaccettabile tra partner e alleati”.

Alcuni vertici europei continuano a invocare una parità con gli USA che Washington non intende affatto permettere neanche a parole, come la seconda amministrazione Trump ha chiarito esplicitamente, ma che nei fatti era già evidente, ad esempio sulla questione ucraina, sul Nord Stream, e così via, anche ai tempi di Biden. O si è vassalli piegati in due, o si è avversari. In un mondo multipolare, non c’è interesse ad avere un alleato che rappresenta solo una spesa, e che tenta persino di diventare un competitor alla pari in alcuni settori.

Difatti, la preoccupazione per la “libera informazione” non è davvero nell’agenda né di Washington né di Bruxelles, come dimostra anche la recente stretta sulla libertà di parola che è stata osservata in Europa sia ai livelli nazionali sia a quello comunitario. È pura e semplice propaganda per legittimare la specificità del modello europeo nella sua aspirazione a diventare un impero retoricamente “al servizio di buoni propositi”, come ebbe a dire un altro ex ministro francese, Bruno Le Maire.

È da anni che la UE tenta di limitare lo strapotere delle Big Tech statunitensi, non per bontà di privacy e libertà di pensiero, ma perché è uno di quei settori su cui davvero non c’è nessuno che possa competere. La burocrazia e l’estrema inflazione di regolamentazione tipica della UE è stata quindi usata come arma per limitare in qualche misura le operazioni delle grandi piattaforme nel Vecchio Continente.

La negazione del visto a Breton, per quanto non possa avere risvolti politici immediati su questo quadro regolatorio, è un segnale molto duro rispetto al fatto che i vassalli europei hanno raggiunto il limite, anche in questo ambito. Il messaggio è “fatela finita”, in vista del Digital Omnibus e del pacchetto Cloud, AI and Development Act, che è previsto in arrivo nel 2026. Altrimenti, le ritorsioni potrebbero essere peggiori.

L’insegnamento che però va tratto da queste sanzioni è uno soltanto: siamo in una fase storica completamente nuova, in cui l’illusione euroatlantica è finita. UE e USA hanno interessi contrastanti, ed esprimono linee strategiche che fanno sempre più fatica a procedere in maniera complementare. Nel multipolarismo, sarà una corsa in cui non verrà risparmiato nessun colpo per affermare la propria egemonia. La UE, però, è ancora un vaso di coccio tra vasi di ferro.

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Iraq - La sinistra a un bivio: rinnovamento, unità e riconquista dell’azione dal basso

1. La sinistra irachena: una crisi di strumenti, non una crisi di valori

Questo articolo arriva in un momento critico che la sinistra irachena (1) sta attraversando. I risultati delle recenti elezioni di novembre 2025 non possono essere letti come una semplice sconfitta elettorale passeggera, né come una conseguenza diretta della legge elettorale scorretta e del dominio del denaro sulla politica. Questi fattori esterni sono corretti e influenti, a cui si aggiungono le sfide ancora più dure della restrizione sistematica e del restringimento, e della corruzione strutturale. Tuttavia, concentrarsi solo sulle influenze esterne trascura l’essenza del problema.

Ciò che è successo è un’espressione concentrata di una crisi più profonda che ha influenzato le forme di organizzazione, il metodo di lavoro e il discorso all’interno di tutta la sinistra irachena in generale. È una crisi che tocca il rapporto disfunzionale tra l’idea corretta e i suoi strumenti sbagliati. È la relazione tra un discorso radicale e trasformativo e il modo in cui viene presentato all’interno di un “mercato politico” altamente complesso e brutale. Nonostante questo chiaro declino, la sinistra irachena rimane la vera speranza e l’alternativa più seria per il cambiamento sociale.

Partendo da questa doppia diagnosi, la vera domanda diventa: perché, nonostante la cattiva situazione delle masse e il potere delle cricche della tirannia e della corruzione, il cambiamento sociale non si è trasformato in una scelta popolare chiara e convincente? Perché il progetto della Sinistra è rimasto sparso, in conflitto, molteplici nel nome, simile negli slogan e diverso nei meccanismi di lavoro, tanto che le masse non hanno visto un’unica alternativa coerente? (2)

2. Beneficiamo della metodologia capitalista?

Per comprendere questo difetto, diventa necessario guardare la questione da un’angolazione non convenzionale. La logica del capitalismo, basata sulla scienza e sulla misurazione piuttosto che sull’ideologia, presenta un modello pratico rigoroso su come affrontare il declino e la debolezza. Dove la crisi della sinistra irachena può essere letta come la crisi di un buon “prodotto” trasformativo, con politiche che sembrano teoricamente corrette ma che non hanno ancora trovato le forme ottimali per tradurle praticamente, e con una gestione e un marketing che necessitano di sviluppo, all’interno di un mercato politico con una grande concorrenza da parte di forze religiose, nazionaliste e borghesi.

Il capitalismo tratta la società come mercato, e le idee come merci. Quando un gruppo di “aziende” con un nome simile entra e vende un prodotto che è “cambiamento sociale”, senza armonia o coordinamento, la qualità stessa si trasforma in un problema.

Questo è ciò che è realmente accaduto alla sinistra irachena nelle recenti elezioni. Non era solo organizzativamente dispersa, ma anche politicamente divisa tra partecipazione e boicottaggio. Non apparve una posizione unificata, né un discorso chiaro, né una tattica collettiva compresa. Le masse non vedevano un “prodotto” con caratteristiche chiare, ma piuttosto una serie di prodotti simili che competevano tra loro invece di affrontare i veri concorrenti.

In questo caso, il mercato stesso punisce il prodotto incoerente. La pluralità caotica, il discorso conflittuale e la confusione sono tutti fattori che fanno perdere fiducia nelle masse, non perché rifiutino l’idea di cambiamento, ma perché esso le raggiunge in modo sparso ed elitario teorico, difficile da comprendere rispetto allo sviluppo della società e ai suoi bisogni quotidiani.

3. La sinistra deve affrontare il declino e la debolezza

Con il declino e la debolezza, appare la differenza fondamentale tra la logica del capitalismo e quella di molte forze della sinistra. Il capitalismo non torna a ogni crisi dai suoi teorici classici per cercare se i loro testi fossero pienamente applicati. Come sistema pratico, tratta il declino come segnale tecnico misurabile e trattabile. Cambia strumenti, discorsi, facciate e meccanismi di lavoro rapidamente, senza senso di colpa e senza santificare nomi e storia. Utilizza la ricerca scientifica: raccoglie dati, analizza numeri, studia il comportamento, distribuisce moduli, utilizza tecnologie avanzate e intelligenza artificiale, e testa ipotesi. Chiede in modo semplice e rigoroso: Perché il prodotto non ha avuto successo? E in base alle risposte, ricostruisce le sue politiche.

Al contrario, alcune forze della Sinistra tendono, di fronte al declino, a tornare ai loro teorici classici alla ricerca di risposte, e alla brillante storia dei loro partiti decenni fa, anche se la vera domanda deve essere: perché il nostro messaggio non è arrivato oggi? Il problema non sta nel tornare all’eredità di sinistra come metodo critico vivente, ma piuttosto quando questa eredità e i vecchi meccanismi organizzativi si trasformano in uno standard rigido che si eleva oltre la realtà.

4. Riappropriamoci del metodo scientifico che è sempre stato l’essenza del pensiero di sinistra

La lezione qui non è glorificare il capitalismo né adottarne i valori, ma trarre beneficio dal suo metodo scientifico. La sfida fondamentale sta nel “prendere in prestito lo strumento” (la metodologia scientifica) rifiutando allo stesso tempo lo “spirito” (profitto individuale e dominio di classe).

La sinistra irachena ora ha bisogno di questo tipo di valutazione e rigore scientifico. Condurre veri sondaggi nei quartieri popolari e tra le donne e i lavoratori maschili della mano e del pensiero, non per concedere il proprio orizzonte di classe, ma per capire come arriva il suo messaggio, come viene compreso e dove si rompe. Ha bisogno di studiare e misurare l’impatto delle sue politiche, misurare la sua presenza sul campo e nello spazio digitale, e misurare il linguaggio del suo discorso.

Per chiedere chiaramente: perché non arriviamo? E perché non influenziamo? Solo dopo di ciò si possono prendere decisioni politiche e organizzative coraggiose basandosi sui risultati.

5. La sinistra nell’era della rivoluzione digitale

Nel contesto della rivoluzione digitale, questa necessità aumenta in urgenza e in modo senza precedenti. Viviamo in un’epoca in cui le idee non si misurano più solo per la solidità del loro punto di partenza teorico, ma per la loro capacità di raggiungere, influenzare, interagire e trasformarsi in un’azione collettiva tangibile, criteri che le giovani generazioni comprendono e con cui si confrontano quotidianamente nella loro vita digitale e sociale.

La giovane generazione di lavoratrici e lavoratrici di mano e pensiero non riceve la politica attraverso lunghi discorsi né attraverso testi teorici pesanti, ma attraverso piattaforme digitali, brevi video, discussioni aperte, campagne di solidarietà rapide e forme di organizzazione orizzontale flessibile che permettono la partecipazione diretta e il processo decisionale dal basso verso l’alto. Ignorare queste trasformazioni non significa neutralità, ma lasciare questo spazio interamente agli avversari della Sinistra, che sono più organizzati e capaci di investire in strumenti digitali.

Da qui, affrontare lo spazio digitale come un vero e proprio campo di lotta di classe diventa una necessità politica e organizzativa, non una questione tecnica o mediatica secondaria. Per l’organizzazione, la mobilitazione, la costruzione della fiducia, la formulazione del discorso e la misurazione dell’impatto, sono tutti arrivati oggi per attraversare questo spazio tanto quanto per strada e luoghi di lavoro.

E senza che la Sinistra possieda degli strumenti di organizzazione, mobilitazione e valutazione scientifica in questo campo, non è in grado di trasformare la grande rabbia sociale in una forza organizzata capace di continuità e influenza. La Sinistra contemporanea è quella che è capace di collegare la giustizia del proprio progetto sociale a un uso consapevole e sistematico degli strumenti dell’epoca, permettendole di riconquistare il proprio ruolo come vera forza di cambiamento in una società che sta cambiando rapidamente.

6. Perché abbiamo bisogno di un quadro di sinistra ampio e unificato?

La sinistra irachena ha svolto un ruolo storico importante nella lotta per i diritti delle donne e degli uomini lavoratori della mano e del pensiero. Ma questa storia onorevole ci porta oggi con una responsabilità più grande: non accontentarci di celebrare il passato, ma affrontare la realtà così com’è. La sinistra irachena vive una situazione difficile manifestata in un declino continuo, un crescente isolamento popolare e una netta distanza dalle giovani generazioni. L’età media delle attuali leadership varia principalmente tra i sessanta e i settant’anni, con il mio apprezzamento per il loro grande ruolo di lotta e sacrifici, che richiedono di fare spazio alle energie delle giovani generazioni che vivono una realtà diversa.

Di fronte a questa realtà, non è più possibile accontentarsi di diagnosticare la crisi. Perché se il nostro avversario di classe si ricostruisce costantemente attraverso analisi, sperimentazioni e correzioni, allora i nostri rimanenti sparsi e prigionieri delle nostre forme antiche indeboliscono le nostre possibilità di influenza. Da qui, parlare di un quadro di sinistra ampio e unificato diventa una risposta pratica a una crisi e a una necessità storica.

7. Lezioni di unità e lavoro frontale: come hanno riconquistato la loro efficacia le forze globali di sinistra?

In molte esperienze nel mondo, le forze di sinistra hanno dimostrato che uscire dalla marginalizzazione e dal declino non si è ottenuto attenendosi alle vecchie forme organizzative, ma attraverso l’unità, il lavoro congiunto e la costruzione di quadri flessibili capaci di assorbire la pluralità.

In Portogallo, il Blocco di Sinistra ha presentato un modello di riferimento per unire diverse correnti di sinistra all’interno di un unico quadro che rispetta il pluralismo, il che gli ha permesso di diventare un numero difficile nella formazione di governi e di acquisire una capacità negoziale non disponibile ai singoli partiti.

In Cile, l’alleanza “Approva la Dignità” è stata formata tra il Partito Comunista e le organizzazioni giovanili che hanno guidato ampie proteste e portato Gabriel Boric come il presidente più giovane del paese nel 2021, e nonostante le battute d’arresto delle elezioni del 2025, l’alleanza è rimasta salda come blocco di opposizione organizzato che ha impedito la frammentazione delle forze del cambiamento.

In Danimarca, la fusione di tre piccoli partiti marxisti in un’organizzazione multipiattaforma, l’Alleanza Rosso-Verde, ha portato alla transizione della sinistra da marginale a una forza politica che ha raccolto il 7,1% dei voti nelle elezioni del 2025 ed è emersa come una delle principali forze municipali nella capitale. In Colombia, il Patto Storico è riuscito come coalizione che includeva marxisti, ambientalisti e femministe nel rompere il monopolio tradizionale del potere e nel portare Gustavo Petro alla presidenza nel 2022 attraverso un discorso pragmatico radicale che tocca la vita quotidiana delle persone.

In Germania, l’unificazione delle correnti di sinistra provenienti da Est e Ovest nel partito Die Linke ha raggiunto un solido quadro che ha rappresentato per anni la sinistra sociale ed elettorale nonostante le variazioni intellettuali.

Per quanto riguarda la Spagna, Podemos ha utilizzato l’organizzazione orizzontale e strumenti digitali per spostare la sinistra dalle piazze della protesta al cuore del Parlamento in tempi record, sfidando le strutture tradizionali dei partiti.

In Brasile, il “Fronte della Speranza” ha riconquistato il potere nel 2022 attraverso ampie alleanze che hanno prodotto slogan ideologici sintetici e con l’uso professionale dello spazio digitale per affrontare il dominio dell’estrema destra.

Ciò che unisce queste esperienze moderne, nonostante la differenza di contesto, è la consapevolezza che la sinistra non è più capace di agire e influenzare come partiti individuali chiusi, ma piuttosto come alleanze ampie, flessibili e multipiattaforma, capaci di gestire le differenze e collegare la politica a richieste sociali dirette. Queste lezioni non possono essere trasferite letteralmente all’Iraq, ma aprono un orizzonte pratico per pensare alla costruzione di un quadro di sinistra iracheno ampio e unificato, capace di superare la frammentazione e trasformare la giustizia del progetto di sinistra in una forza sociale organizzata ed efficace.

8. Fondamenti e meccanismi del quadro unificato della sinistra

Si può proporre una tabella di marcia per stabilire un quadro unificato di sinistra irachena, basato sul radunare tutte le forze di sinistra e progressiste su punti di incontro e un programma minimo concordato, attraverso questo:

- Tenere una conferenza generale per tutte le fazioni e figure della sinistra irachena e curda, discutendo la costruzione di un quadro organizzativo unificato multipiattaforma, inclusi partiti, correnti, e sindacati, e permettendo l’adesione individuale di attivisti donne e uomini.

- Formulare un programma minimo unificato incentrato su ciò che è possibile ottenere nel breve termine; un programma breve, chiaro e diretto che si concentra sugli interessi delle lavoratrici e lavoratori di mano e pensiero, e sullo sviluppo dei servizi di base, la giustizia sociale e la creazione di opportunità di lavoro. Il programma adotta le questioni dei pieni diritti delle donne, della neutralizzazione della religione dallo stato e della protezione delle libertà. Questo programma è formulato in un linguaggio moderno, compreso e pratico, lontano dalle complessità ideologiche.

- Scegliere un nome semplice come “Bread and Freedom Alliance o Union”, lontano dal tradizionale uso di nomi di sinistra.

- Il quadro si basa su una leadership collettiva rotazionale, su regole organizzative flessibili e su forme di appartenenza diverse e flessibili. Soprattutto, le entità fondatrici di sinistra devono essere pronte a ristrutturare i loro quadri e ad allentare il centralismo tradizionale del partito.

- Concentrandosi su una decentralizzazione ampia secondo province e regioni, affinché ogni unità diventi capace di guidare efficacemente il proprio lavoro all’interno di una linea politica generale unificata.

- L’uso attivo delle scienze moderne nella leadership, nella gestione, nell’organizzazione, nei media e nella digitalizzazione, e nella valutazione periodica delle politiche, con l’adozione del feedback delle masse come meccanismo di base.

- Rafforzare il ruolo dei giovani nella leadership attraverso regole organizzative vincolanti, come i tassi di rappresentanza per giovani e donne negli organi di leadership con veri poteri.

- Costruire una politica digitale efficace che affronti lo spazio digitale come un vero e proprio campo di lotta di classe, includendo molteplici piattaforme mediatiche, programmi di formazione digitale, l’uso dell’intelligenza artificiale e veri strumenti scientifici di misurazione.

La condizione decisiva è che il quadro unificato sia in grado di funzionare secondo i punti di incontro e il programma concordato, contenendo positivamente la differenza senza trasformarsi in un’arena di conflitti.

9. Continueremo a interpretare il mondo mentre i nostri nemici continueranno a cambiarlo?

La domanda centrale oggi non riguarda le intenzioni, ma piuttosto l’azione: la sinistra propone alternative partendo da ciò che è possibile socialmente e di classe e raggiungibile all’interno degli equilibri esistenti, e con la logica del cambiamento graduale cumulativo? O si accontenta di alzare slogan senza alcun cambiamento reale e tangibile nella vita delle masse che ne derivi?

In conclusione, la crisi della sinistra irachena non è una crisi di sincerità o di storia, ma piuttosto una crisi di strumenti e forme di lavoro. Lo sviluppo scientifico e le trasformazioni digitali hanno ridisegnato gli spazi di influenza, e chiunque li ignori esce automaticamente dall’equazione. Non abbiamo bisogno di una Sinistra nuova nei suoi valori, ma piuttosto di una Sinistra nuova nel suo discorso, nelle sue azioni e nei suoi meccanismi organizzativi; una sinistra che traduce il pensiero in cambiamenti tangibili sul campo, senza abbandonare l’essenza del suo progetto socialista.

Da qui, l’audacia richiesta oggi è il coraggio di smantellare strutture rigide e abbandonare i centralismi ristretti, a favore di un quadro ampio e flessibile che accolga tutti e riconnetta l’organizzazione con la realtà vivente. Davanti a noi ci sono due scelte e nessuna terza. O prendiamo la via del rinnovamento e dell’unità pratica e rivendichiamo il nostro ruolo di vera forza di cambiamento, oppure continuiamo sulla strada attuale e rischiamo che il movimento della storia ci sfugga. Le esperienze globali dimostrano chiaramente che l’unità non è solo possibile, ma anche fattibile, anche nelle condizioni più dure.

Note:

(1) La Sinistra irachena è composta da un gruppo di partiti e organizzazioni, tra cui le più importanti sono: il Partito Comunista Iracheno, il Partito Comunista del Kurdistan, il Partito Comunista dei Lavoratori dell’Iraq, il Partito Comunista del Kurdistan, l’Organizzazione Alternativa Comunista, il Partito della Sinistra Comunista, oltre ad altre organizzazioni.

(2) Tutte le liste di sinistra e progressiste in Iraq che hanno partecipato alle elezioni non hanno ottenuto alcun seggio nel Parlamento iracheno nelle elezioni di novembre 2025.

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Il “Project Sunrise” statunitense delinea il futuro di una Gaza colonizzata

Mentre nuove colonie vengono costruite in Cisgiordania, per mettere una croce sulla possibile nascita di uno stato palestinese (come in pratica rivendicato dal governo di Tel Aviv), la colonizzazione della Striscia di Gaza è progettata dagli Stati Uniti. Il Wall Street Journal ha rivelato il contenuto di 32 slides che, sotto la menzogna della “ricostruzione”, ridefiniscono il futuro di Gaza come un parco giochi per speculatori e turisti. I diritti del popolo palestinese rimangono non pervenuti.

“Project Sunrise” – è questo il nome affibbiato al piano USA per la Striscia – sarebbe stato messo a punto da Jared Kushner, immobiliarista e genero di Donald Trump, insieme all’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, al membro dello staff della Casa Bianca Josh Gruenbaum, e altri alti funzionari stelle-e-strisce.

La presentazione sarebbe stata etichettata come “sensibile ma non classificata”, e il fatto che il Dipartimento di Stato abbia diffuso una smentita sui costi che dovrebbero caricarsi gli Stati Uniti, ma non sul resto, conferma, in sostanza, che il contenuto delle slide è davvero sul piatto delle discussioni sul futuro della Striscia.

Nel dettaglio, viene presentata l’idea di una “vetrina” sul Mar Mediterraneo: grattacieli e resort, avanzate reti energetiche, treni ad alta velocità, una presenza diffusa dell’intelligenza artificiale. 112 miliardi di dollari di investimenti da qui a dieci anni, su cui viene stimato un ritorno pari a circa 55 miliardi. Gli States coprirebbero almeno il 20% dei costi attraverso prestiti, per poi trarne profitto.

Non ci sono però ulteriori indicazioni su chi dovrebbero essere gli altri finanziatori. Stando alle indiscrezioni raccolte da alcuni funzionari statunitensi, il progetto sarebbe stato mostrato ad altri paesi, tra cui alcuni governi del Golfo, Turchia ed Egitto. Ovviamente, ciò rimanda immediatamente all’incontro avvenuto a Miami venerdì 19 dicembre, che si è concluso con un nulla di fatto per quanto riguarda la fase 2 della “pace trumpiana”.

Israele vuole trasformare la “linea gialla” in un nuovo confine dentro la Striscia, mentre continua a uccidere centinaia di palestinesi (400 dal “cessate il fuoco”). Di fronte alla continuazione del massacro, è evidente che qualsiasi ipotesi di completa smilitarizzazione di Hamas non ha alcuna concretezza, anche se è stata posta come clausola dagli USA per il “Project Sunrise”. Si tratta di un auspicio più che di una possibilità reale, dato che non c’è riuscita Israele con due anni di genocidio indiscriminato.

Per concludere la disamina dei problemi legati al progetto, inizialmente la popolazione verrebbe concentrata intorno alla futura “New Rafah”, una capitale amministrativa della regione costruita da zero. Mezzo milione di abitanti, 100.000 unità abitative, 200 scuole e 180 moschee. Una città che, sul lungo periodo, andrebbe a sostentarsi per mezzo dell’industria locale e del turismo.

Un’operazione che sembra più una deportazione di massa mascherata da programmazione urbanistica. Senza considerare che vengono completamente ignorati i diritti al ritorno alle proprie case, così come non c’è nessun accenno a danni di guerra, riparazioni, e così via.

Eppure, è tramite questa promessa che l’alleanza tra Washington e Tel Aviv vuole vendere al mondo intero la propria idea di “ricostruzione”, che getta una colata di cemento sopra l’eredità storica e culturale dei quartieri distrutti dai bombardamenti israeliani. E soprattutto, seppellisce sotto una parvenza di futuro la cancellazione dei diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione.

Il tentativo è quello di usare la propaganda della “ricostruzione” per aprire una nuova fase di gestione del conflitto, capace di nasconderlo sotto il lusso, ma incapace di garantire una vera stabilità. Del resto, il problema rimane: quello dei diritti dei popoli calpestati da un’ideologia e da un esercito coloniale e suprematista. La principale ragione di destabilizzazione del Vicino Oriente continuerà a operare, fino a che al sionismo verrà lasciata mano libera.

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25/12/2025

Frusciante al Cinema: Predator: Badlands (2025) di Dan Trachtenberg

Bulgaria, una crisi senza uscita (seconda prima). Lukoil, sanzioni e sovranità limitata

di Francesco Dall'Aglio

Alle elezioni il DPS-NN ottenne l’11,13% e l’APS il 7,24, ma nessuno dei partiti che componevano la coalizione GERB-BPS-ITN intendeva governare con Peevdki, e fu all’APS che si rivolsero per ottenere appoggio che fu prontamente concesso. La formazione del Governo fu caotica e lunghissima e fu resa ancora più caotica dal ricorso di uno dei partiti della destra nazionalista, Velichie, che chiese un riconteggio perché si era fermato al 3,99%, mancando lo sbarramento del 4% per poche migliaia di voti: il riconteggio confermò che lo sbarramento era stato passato, il partito fu ammesso in Parlamento e fu necessario rivedere l’assegnazione dei seggi. C’erano inoltre molti malumori di fronte all’idea che Borisov tornasse a occupare la carica di Primo Ministro, e alla fine ci si accordò per Rosen Zhelyazkov, sempre di GERB, per cui il governo si insediò solo il 16 gennaio 2025.

Ad aprile, viste le difficoltà che il governo affrontava nelle votazioni, Peevski dichiarò che era disposto, se necessario, a sostenerlo; l’APS dichiarò a sua volta che in questo caso si sarebbero ritirati, ma dato che Peevski aveva più deputati dell’APS il governo riuscì comunque a metter su una maggioranza minimamente più stabile al costo però di assestare un duro colpo alla sua credibilità per via dell’associazione a una figura così controversa, con la quale avevano in passato giurato di non voler mai governare. I due partiti di opposizione approfittarono della situazione iniziando subito a lavorare contro il governo, seguendo ognuno la sua strada: PP-DB scagliandosi contro Peevski e contro le forze politiche che lo avevano accolto, Vazrazhdane continuando la sua campagna di manifestazioni contro l’Euro, che si mantennero sostanzialmente pacifiche tranne il 22 febbraio, quando la sede della Commissione UE a Sofia fu fatta oggetto di lanci di vernice e bombe-carta e vi furono feriti e arresti.[1] Il 9 maggio la campagna anti-Euro ricevette un insperato aiuto dal Presidente Radev che in un discorso alla nazione propose di indire un referendum sull’adozione dell’Euro nel 2026, formalizzato con una proposta ufficiale fatta in Parlamento il 12.[2] Il Parlamento non approvò e costituzionalmente non era possibile che lo facesse, per cui è ovvio che la mossa di Radev era politica, per colpire sia il governo e l’opposizione liberale, che per una volta compatti si schierarono a favore della moneta unica, che l’opposizione nazionalista togliendole l’esclusiva delle proteste anti-Euro.

In questo clima di guerra per bande il Governo era alle battute finali della preparazione della legge di bilancio per il 2026, e dalle prime indiscrezioni pareva certo che anche in quel caso si sarebbe profilata, come in effetti è stato, una decisa opposizione, quando inaspettatamente l’amministrazione Trump decise, il 22 ottobre, di sanzionare la Rosneft e soprattutto la Lukoil, incluse le loro sussidiarie tra le quali vi è la Litasco SA, con sede in Svizzera e che dal 1999 detiene l’89,97% delle quote azionarie della raffineria Lukoil Neftochim di Burgas. L’impatto di una simile decisione per l’economia bulgara minacciava di essere letteralmente catastrofico: la Neftochim è una delle più importanti imprese del paese e prima dell’inizio del conflitto processava circa tre milioni di barili di greggio russo al mese, il che faceva della Bulgaria il quarto acquirente mondiale dopo India, Cina e Turchia. Forniva, e fornisce tuttora (anche se il greggio che arriva adesso a Burgas non è più russo) l’80% del diesel e della benzina venduta in Bulgaria, oltre alla quasi totalità del carburante per aerei, e contribuisce al PIL bulgaro per il 10%, impiegando tra la raffineria e il vicino terminale di Rosenets, anch’esso gestito da Litasco, circa 5000 persone senza considerare l’indotto e senza contare la rete di distributori di benzina Lukoil che costellano il paese.

A queste condizioni è facile immaginare che il peso economico di Lukoil si è spesso tradotto in peso politico, il che spiega anche la riluttanza, da parte dei governi che in questi anni si sono succeduti in Bulgaria, ad affrontare la questione del destino ultimo della raffineria. Pur aderendo subito sia ai meccanismi sanzionatori contro la Russia che all’invio di armi e materiale all’Ucraina, anche le coalizioni più accesamente liberali e atlantiste, come quella guidata da Petkov (PP) fino all’agosto 2022, hanno provato a minimizzare le ricadute sulla raffineria e sul rapporto privilegiato tra Bulgaria e Lukoil. Asen Vasilev, dello stesso partito liberista ed “europeista” di Petkov e all’epoca vice-primo ministro, aveva chiesto con insistenza a Bruxelles una deroga al bando del 5 dicembre 2022, che vietava le importazioni di greggio russo, arrivando a minacciare il veto bulgaro all’intero pacchetto di sanzioni, e l’aveva ottenuta fino al dicembre 2024.[3]

Oltre alla minaccia di affondare le sanzioni, deve aver giocato a suo favore il fatto che nel 2022, senza che la cosa fosse pubblicizzata, la Bulgaria aveva esportato in Ucraina gasolio proveniente proprio dalla raffineria Lukoil per 700 milioni di €, pagati in larga parte da USA e Gran Bretagna, e fornito sempre in segreto un gran numero di munizioni. La notizia era stata resa di dominio pubblico solo nel gennaio 2023 in un’intervista di Petkov, Vasilev e dell’allora Ministro degli esteri ucraino Kuleba a Die Welt, quando il governo Petkov, che aveva approvato l’operazione, era già caduto da qualche mese e aveva bisogno di un po’ di pubblicità positiva per le prossime elezioni (Petkov e Vasiliev, a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate al giornale, avevano convinto da soli l’intera Unione Europea che bisognava aiutare l'Ucraina, ma al tempo stesso avevano dovuto tenerlo nascosto in patria per timore degli elementi filorussi).[4]

Nel novembre 2023 però un’indagine condotta congiuntamente dalla associazione non-profit Global Witness, dal CREA (Centre for Research on Energy and Clean Air) e dal CSD (Center for the Study of Democracy) riportava che il volume delle importazioni di greggio russo a Burgas era cresciuto dopo l’invasione dell’Ucraina dal 70 al 93%;[5] soprattutto, stando ai risultati dell’indagine, era stato per buona parte esportato dopo la raffinazione e non più in Ucraina ma sia fuori che all’interno dei confini dell’Unione Europea, sfruttando alcune clausole relative al bando sui prodotti raffinati russi entrato in vigore il 5 febbraio 2023, soprattutto quella che consentiva alla Bulgaria di esportare prodotti raffinati, anche provenienti da greggio russo, in caso non fosse possibile conservarli sul territorio bulgaro senza rischi per l’ambiente perché la produzione eccedeva le capacità di stoccaggio nelle cisterne bulgare.[6] Stando all’indagine questo avrebbe portato a ricavi per la Russia per circa un miliardo di dollari.

La risposta di Lukoil Bulgaria era arrivata già il giorno dopo, affidata alle dichiarazioni del vicepresidente Aleksander Veličkov che aveva respinto tutte le accuse di esportazioni illegali, anche se i sospetti perduravano e anzi un articolo di Euractiv aggiungeva altri dettagli.[7] Anche Vasilev, che nel 2023 era passato a reggere il Ministero delle Finanze (carica occupata per tre volte tra il 2021 e il 2024) aveva difeso l’operato di Lukoil e ammesso che la Bulgaria aveva guadagnato, nel 2023, circa 250 milioni di € in tasse da queste vendite, che giudicava assolutamente legali e ossequiose del regime di sanzioni.[8] Ad aprile del 2023 il governo bulgaro multava Lukoil Bulgaria per 195 milioni di leva, poco meno di 100 milioni di Euro, per abuso di posizione dominante,[9] ma si trattava di un procedimento avviato già nel 2021, prima quindi della guerra e delle sanzioni, e ad agosto trasferiva il controllo del terminale di Rosenets dalla Lukoil alla compagnia statale delle infrastrutture portuali.[10]

La situazione si faceva caotica tra ottobre e dicembre 2023, con l’aumento delle pressioni europee per risolvere la questione che ormai, come abbiamo visto, era diventata di dominio pubblico e minacciava di mettere in cattiva luce l’intero meccanismo sanzionatorio. Il governo bulgaro annunciava improvvisamente una tassa di 20 leva a megawatt-ora sul transito del gas russo (mossa che riguardava quindi Gazprom e non Lukoil), che ne avrebbe aumentato il costo finale di circa il 20%: la mossa provocava una reazione molto dura da parte della Serbia e dell’Ungheria, destinatarie finali del gas che transita dalla Bulgaria attraverso il gasdotto Turkstream, oltre che della Russia. Alla fine la tassa veniva revocata ma, in una sorta di compensazione, veniva annunciato tra novembre e dicembre che le importazioni di greggio russo sarebbero cessate il 1 marzo 2024, quindi ben prima della data di scadenza negoziata nel 2022.[11] Visto anche che dal gennaio 2024 le importazioni di greggio russo si riducevano, per essere sostituite da greggio kazako, tunisino e iracheno, Lukoil dichiarava la sua intenzione di mettere in vendita la raffineria. Il governo bulgaro dichiarava una disponibilità di massima ad acquistarla ma senza finalizzare alcuna offerta (a seconda delle valutazioni il costo di acquisto si aggirerebbe tra 1 e 2 miliardi di Euro), mentre varie voci riferivano dell’interesse della compagnia petrolifera statale azera SOCAR, della KazMunayGas kazaka e dell’ungherese MOL.

Nonostante l’urgenza, il governo non sembrava curarsi troppo della faccenda, che si trascinava senza sostanziali novità fino appunto alle sanzioni dell’Office of Foreign Assets Control (OFAC) statunitense, la cui entrata in vigore era stata fissata per il 21 novembre: un mese per risolvere una situazione di cui per tre anni nessuno si era mai occupato veramente. Mentre il paese rimaneva attonito, la risposta iniziale del governo fu di provare a rassicurare l’opinione pubblica ma senza annunciare una linea di condotta, come testimoniato dall’intervista rilasciata a caldo dal premier Zhelyazkov, raggiunto dalla notizia a Bruxelles dove si trovava per un vertice UE e apparso sinceramente stupito della novità.[12] Fu subito evidente che al di là di annunciare vaghi progetti di nazionalizzazione o vendita non esisteva nessun piano, e che la preoccupazione principale era rassicurare la popolazione che c’erano scorte di carburante sufficienti per almeno un paio di mesi senza ipotizzare cosa sarebbe successo in caso non si fosse riusciti a vendere la raffineria. La strategia più percorribile, ma che non dava nessuna garanzia di riuscita, era quella di richiedere una proroga, ed è in quella direzione che si orientò il governo.

Il 27 ottobre, mentre qualcuno calcolava che lo stop alla produzione della raffineria di Burgas avrebbe aumentato i prezzi del carburante del 50% e in molti cominciavano a fare scorte, la Lukoil annunciava di avere messo in vendita i suoi asset internazionali, che ovviamente non comprendevano solo la Neftochim,[13] e il 30 ottobre comunicava di avere ricevuto una formale proposta da parte della Gunvor per l’acquisto del 100% delle quote della Lukoil International, specificando che la vendita era subordinata al parere positivo dell’OFAC.[14] L’entusiasmo fu di breve durata. La Gunvor Group Ltd., registrata a Cipro e con sede a Ginevra, era stata fondata nel 2000 da Torbjörn Törnqvist e Gennadii Timchenko; entrambi possedevano originariamente il 43,5% delle azioni a testa, ma Timchenko aveva venduto la sua quota a Törnqvist il 19 marzo 2014, letteralmente il giorno prima che gli USA lo sanzionassero per la sua ‟prossimità” a Putin.[15] Törnqvist possedeva dunque l’87% delle azioni e presiedeva il consiglio d’amministrazione ma il sospetto che Timchenko non avesse realmente abbandonato il suo ruolo nel gruppo rimaneva forte, tanto che la stampa bulgara presentò immediatamente la proposta di acquisto come fatta ‟da un amico di Putin” con interessi in Bank Rossiya.[16] Il giorno successivo all’annuncio, 31 ottobre, la Bulgaria dichiarò la sua volontà di chiedere una proroga alle sanzioni paventando scenari di crisi, soprattutto politica: i partiti populisti, era la tesi, avrebbero potuto approfittare della scarsità di petrolio (scarsità che, nota bene, era stata precedentemente esclusa in maniera netta dal governo) e fomentare disordini.[17] Il 6 novembre gli USA diedero parere negativo alla cessione, con un tweet insolitamente duro e nient’affatto diplomatico del Dipartimento del Tesoro che definiva senza mezzi termini la Gunvor ‟un pupazzo del Cremlino”, concludendo che finché ‟Putin non porrà fine alle uccisioni insensate” non le sarebbe stata concessa alcuna autorizzazione;[18] lo stesso giorno la Gunvor ritirava la sua offerta,[19] e 7 novembre il Parlamento bulgaro approvava in tutta fretta un disegno di legge che consentiva al Governo di nominare un manager esterno che avesse il pieno controllo della raffineria, inclusa la possibilità di venderla o nazionalizzarla anche senza il consenso del proprietario, con decisioni non soggette a revisione giudiziaria.[20] L’opposizione, sia quella liberale che quella nazionalista, protestò per quello che definì un piano pessimo e scritto senza riflettere, con tratti chiaramente incostituzionali e, come al solito, col timore che il tutto sarebbe stato gestito da Peevski, presentato ormai coma una sorta di novello Rasputin che manovrava l’intero governo. Dalla Russia, intanto, Peskov faceva sapere che gli interessi della Lukoil andavano tutelati, e che la Russia non sarebbe stata a guardare in caso di irregolarità nella vendita.

Note

[1] https://www.euronews.com/my-europe/2025/02/22/bulgarian-nationalists-vandalise-eu-building-in-protest-against-plans-to-join-eurozone

[2] https://www.reuters.com/markets/europe/bulgarian-president-proposes-referendum-euro-zone-entry-2025-05-12/

[3] https://www.newbalkanslawoffice.com/new-bulgarian-act-implements-eu-sanctions-on-russian-oil-and-petroleum-products/

[4] https://www.welt.de/politik/ausland/plus243262783/Bulgarien-Das-Land-das-heimlich-die-Ukraine-rettete.html; https://www.politico.eu/article/bulgaria-volodymyr-zelenskyy-kiril-petkov-poorest-country-eu-ukraine/; https://www.euractiv.com/news/investigation-ukraine-buys-huge-amounts-of-russian-fuels-from-bulgaria/

[5] https://energyandcleanair.org/russian-oil-on-eu-soil-bulgarian-refinery-skirts-sanctions-and-buys-russian-crude/

[6] https://www.newbalkanslawoffice.com/new-bulgarian-act-implements-eu-sanctions-on-russian-oil-and-petroleum-products/

[7] https://www.euractiv.com/news/lukoil-bulgaria-claims-it-can-legally-export-fuels-to-the-eu/

[8] https://www.politico.eu/article/how-russia-made-e1b-from-an-eu-sanctions-loophole-for-bulgaria/

[9] https://www.cpc.bg/en/news-317

[10] https://www.mtc.government.bg/en/category/1/procedure-transfer-port-terminal-rosenets-state-has-started

[11] https://www.enerdata.net/publications/daily-energy-news/bulgaria-revokes-tax-russian-gas-transit-hardens-stance-russian-oil.html

[12] https://www.24chasa.bg/biznes/article/21561369

[13] https://www.lukoil.com/PressCenter/Pressreleases/Pressrelease/on-international-assets-of-lukoil-group

[14] https://www.lukoil.com/PressCenter/Pressreleases/Pressrelease/lukoil-receives-offer-from-gunvor-to-purchase

[15] https://home.treasury.gov/news/press-releases/jl23331

[16] https://www.24chasa.bg/biznes/article/21609885

[17] https://www.politico.eu/article/bulgaria-lukoil-burgas-refinery-donald-trump-oil-sanctions-fuel-shortages/

[18] https://x.com/ustreasury/status/1986536068410405305?s=46

[19] https://www.mediapool.bg/gunvor-ottegli-ofertata-za-lukoil-sled-kato-be-narechena-marionetka-na-kremal-news376998.html

[20] https://www.mediapool.bg/praven-chobanizam-za-7-chasa-parlamentat-prie-natsionalizatsiyata-na-lukoil-news377007.html

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Da Panama a Caracas: l’aggressione al Venezuela alla luce di 36 anni di interventi Usa

L’escalation contro il Venezuela non è un fatto isolato né un’improvvisa deriva della politica estera statunitense. È l’ultimo capitolo di una lunga sequenza di interventi, aggressioni e strategie di destabilizzazione che attraversano la storia recente dell’America Latina.

Per comprenderne la portata, occorre guardare indietro: a Cuba, sottoposta da oltre sessant’anni al Bloqueo economico, ma anche a Panama, invasa militarmente dagli Stati Uniti nel dicembre del 1989, esattamente trentasei anni fa.

Secondo Luciano Vasapollo, storico decano di economia alla Sapienza di Roma e consulente dei governi di L’ Avana e Caracas, «Panama rappresenta uno spartiacque fondamentale. L’operazione “Just Cause” non fu solo un’invasione militare, ma un laboratorio di legittimazione dell’intervento armato unilaterale nel continente, giustificato con la retorica della lotta al narcotraffico e la “difesa della democrazia”. Uno schema che ritroviamo oggi, con linguaggi diversi, contro il Venezuela».

L’invasione di Panama causò oltre 200 vittime civili, la distruzione di interi quartieri popolari e l’imposizione di un nuovo assetto politico sotto tutela statunitense. «Fu un messaggio chiarissimo a tutta Nuestra América», sottolinea Vasapollo, «chi non si allinea può essere colpito militarmente, senza mandato internazionale e senza conseguenze per l’aggressore».

Oggi, contro il Venezuela, la guerra assume forme differenti ma non meno violente. Sequestri di petroliere, blocchi navali di fatto, sanzioni finanziarie, campagne mediatiche di criminalizzazione e, infine, la designazione statunitense di Caracas come “organizzazione terroristica straniera”. Un atto che Cuba ha denunciato come arbitrario, fraudolento e politicamente motivato, avvertendo del grave pericolo che rappresenta per la pace regionale.

«La definizione di uno Stato sovrano come “terrorista” – osserva Vasapollo – non è un atto giuridico ma una costruzione politica funzionale all’aggressione. È lo stesso meccanismo usato contro Panama nel 1989, contro Cuba per decenni e oggi contro il Venezuela: si crea il nemico, lo si isola, lo si strangola economicamente e poi si prepara l’opinione pubblica all’uso della forza».

Il parallelo con Cuba è inevitabile. Da più di sessant’anni l’isola resiste al Bloqueo, una guerra economica che ha provocato danni enormi alla popolazione civile ma non è riuscita a piegare la sovranità del paese. «Cuba ha dimostrato», afferma Vasapollo, «che la resistenza è possibile. Non è solo resistenza materiale, ma politica, culturale e morale. È la prova che l’imperialismo può essere contrastato se esiste un progetto collettivo e una solidarietà internazionale reale».

La solidarietà tra Cuba e Venezuela si inserisce in questa storia comune. L’Avana ha condannato con fermezza le nuove misure statunitensi contro Caracas, ricordando che colpire il Venezuela significa colpire l’intero equilibrio dell’America Latina e dei Caraibi. «Gli Stati Uniti sanno bene», continua Vasapollo, «che il Venezuela rappresenta un nodo strategico, energetico e politico. Come Panama nel 1989, come Cuba dal 1962, oggi Caracas è un bersaglio perché difende la propria autonomia».

Dall’attacco a Panama alla guerra economica contro Cuba, fino all’assedio multilivello al Venezuela, emerge una continuità storica che non può essere ignorata. «Cambiano i presidenti, cambiano i pretesti», conclude Vasapollo, «ma la logica resta la stessa: mantenere l’America Latina in una condizione di subordinazione. Per questo la difesa del Venezuela oggi non è solo una questione nazionale, ma una battaglia per la sovranità di tutti i popoli della regione».

A trentasei anni dall’invasione di Panama, la lezione resta drammaticamente attuale. Di fronte alla nuova offensiva contro Caracas, la memoria storica diventa uno strumento di resistenza. Come dimostra Cuba, resistere è possibile. E come insegna Panama, dimenticare il passato significa prepararsi a riviverlo.

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Dopo il riarmo l’Unione Europea vuole una “Schengen militare”

Motivandolo con la necessità di attrezzare il continente allo scopo di far fronte ad un’eventuale aggressione militare russa, dopo aver lanciato nelle scorse settimane uno storico piano di riarmo il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede il via libera alla circolazione in tutto il territorio dell’Unione delle truppe e dei mezzi militari delle varie forze armate statali e della Nato sul modello del “Trattato di Schengen”.

A favore della risoluzione formalmente “non vincolante”, esaminata lo scorso 17 dicembre, si sono espressi ben 493 eurodeputati, mentre solo 127 si sono detti contrari e 38 si sono astenuti.

L’ok dell’assemblea europea è giunto mentre i deputati tedeschi approvavano un pacchetto di 50 miliardi di euro in equipaggiamenti per l’esercito nazionale, portando a 83 miliardi lo stanziamento totale di Berlino per il suo esercito nell’ottica di elevarlo a 150 miliardi annui entro il 2029.

Il giorno precedente i capi di stato e di governo dei paesi che compongono il cosiddetto Fianco Orientale dell’Alleanza Atlantica, riuniti nel “Eastern Flank Watch”, avevano già esortato l’UE a «concedere priorità ai fondi difensivi da destinare al confine orientale della Nato».

La “Schengen militare”, la cui istituzione viene chiesta alla Commissione Europea e agli Stati membri, prevede di fatto la rimozione delle frontiere interne all’Unione per facilitare il movimento di truppe e potenziare la circolazione degli equipaggiamenti militari sulle ferrovie e le strade di tutta l’Europa.

Il co-relatore del testo, il liberale lituano Petras Auštrevičius, ha spiegato che «la mobilità di truppe e mezzi non costituisce un mero asset militare ma rappresenta un elemento essenziale di deterrenza nei confronti di possibili azioni ostili verso l’Unione Europea (...) Per mantenere la forza e la capacità dell’Europa di scoraggiare gli aggressori, è fondamentale dimostrare la nostra prontezza ad agire. Ciò include la capacità di dispiegare rapidamente truppe e attrezzature in tutta l’Ue».

Il testo approvato elenca una serie di misure considerate necessarie per superare le attuali limitazioni alla mobilità militare nel continente europeo.

In primo luogo, la risoluzione chiede l’incremento ad almeno 17 miliardi di euro dei fondi destinati ad adeguare circa 500 infrastrutture ritenute strategiche – tra ferrovie, ponti e gallerie – e di quelli destinati alla mobilità militare nell’ambito del “Multiannual Financial Framework (MFF)” per il 2028-2032. Il testo invita i singoli governi ad astenersi dal ridimensionare le previsioni di spesa come è invece accaduto nella precedente legislatura con un taglio del 75%.

Il documento cita poi espressamente l’istituzione di un’area “Schengen militare” tramite l’adozione di soluzioni digitali e l’accelerazione delle autorizzazioni dei movimenti militari transfrontalieri all’interno dell’UE. In quest’ottica, il Parlamento ha proposto anche un rafforzamento del coordinamento a livello europeo, attraverso l’istituzione di una task force ad hoc, incaricata di seguire l’attuazione delle misure e di facilitare la cooperazione tra i diversi stati membri.

La maggioranza dei deputati europei chiede investimenti mirati lungo i quattro corridoi prioritari di mobilità militare – Nord, Est, Centro Sud e Centro Nord – e ricorda che più del 94% di questi tracciati coincide con la rete Ten-T, il grande sistema europeo dei trasporti. L’obiettivo è duplice: rendere le infrastrutture civili utilizzabili anche dalle forze armate ed eliminare i “colli di bottiglia” che bloccano interi corridoi. Un grosso ostacolo è attualmente rappresentato dalla differenza di scartamento tra i sistemi ferroviari di diversi paesi che rallentano la mobilità dei convogli militari sulle vie ferrate.

La risoluzione insiste sulla necessità di rafforzare anche tutti gli aspetti logistici funzionali alla mobilità militare, a partire dalla manutenzione, dallo stoccaggio, dal rifornimento e dalle riparazioni.

Gli estensori della mozione hanno anche citato la necessità di un maggiore coordinamento con l’Alleanza Atlantica, la cui infrastruttura viene ritenuta essenziale per garantire il rapido movimento delle truppe in caso di crisi. L’obiettivo prefissato è quello di assicurare un limite massimo di tre giorni per la circolazione delle forze armate in tempo di pace e di sole 24 ore in situazioni di emergenza.

D’altronde l’idea di un’area “Schengen militare” risale alle proposte dell’ex comandante delle truppe statunitensi schierate in Europa, Ben Hodges. Già nel 2018 l’UE avviò un primo “Piano d’azione sulla mobilità militare” all’interno del quadro di cooperazione strutturata permanente. Ora però la risoluzione dell’Eurocamera intende dare un nuovo impulso agli sforzi per aumentare il coordinamento tra le forze armate dei diversi paesi allo scopo di aumentare la mobilità di mezzi e truppe che nonostante i passi avanti rispetto al passato soffre ancora di notevoli ostacoli amministrativi, finanziari e infrastrutturali.

Dopo il voto del Parlamento Europeo l’iniziativa passa ai membri delle commissioni Trasporti e Difesa, a cui spetta il compito di avviare i lavori legislativi sul pacchetto sulla mobilità militare presentato a novembre dalla Commissione europea.

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Siria - Stallo nelle trattative e combattimenti tra FDS e qaedisti

Si avvicina la scadenza di fine anno, fissata per l’implementazione del cosiddetto “accordo del 10 marzo”, che prevede l’integrazione delle Forze Democratiche Siriane (FDS) nelle strutture centrali delle autoproclamate autorità qaediste, eppure non sembra si vada verso passi risolutivi.

Anzi, nei giorni scorsi vi sono stati pesanti scontri fra le parti nelle due enclavi controllate dalla FDS ad Aleppo, ovvero i quartieri a maggioranza curda Ashrafieh e Sheikh Maqsoud, con un bilancio arrivato a 5 morti e 23 feriti.

Questi scontri hanno coinciso con la visita nel paese del Ministro degli Esteri Turco Fidan, il quale ha affermato che le FDS “non mostrano nessuna intenzione di voler fare sostanziali progressi” nel processo di integrazione in quanto starebbero “agendo in coordinamento con Israele”.

Secondo Reuters, recentemente, la autorità di Damasco hanno inviato alle FDS una proposta scritta di implementazione dell’accordo del 10 marzo, al fine di giungere ad una forma di accordo, anche parziale, per la scadenza di fine anno; ciò consentirebbe di prendere ulteriore tempo nell’attesa di sciogliere tutti gli altri nodi, fissando una nuova scadenza.

Tale proposta consiste nel riorganizzare i circa 50.000 miliziani delle FDS in 3 divisioni più grandi e alcune brigate più piccole all’interno delle forze armate di Damasco, concedendo loro di rimanere nel nord-est; in cambio, queste divisioni dovrebbero aprire in parte le loro catene di comando ad ufficiali di altre divisioni e, in generale, anche all’esercito centrale dovrebbe essere garantita la possibilità di dispiegarsi nel nord-est: in ballo ci sono i territori agricoli più fertili del paese, nonché lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi.

Il Ministro degli Esteri delle autorità di Damasco ha dichiarato, durante la conferenza stampa con Fidan, che le FDS hanno risposto alla proposta scritta e che tale risposta è attualmente al vaglio.

Finora, effettivamente le FDS non si sono dimostrate disposte ad effettuare alcun compromesso né sulla loro strutturazione interna – pretendendo che le catene di comando rimangano intatte – né a livello territoriale – rifiutandosi di cedere il controllo anche delle aree a maggioranza sunnita.

Ciò è dovuto in parte agli appoggi delle potenze straniere (Pentagono in primis, naturalmente, ma anche da Israele arrivano segnali continui), ma soprattutto alla debolezza del Governo centrale, il quale si è ripetutamente dimostrato incapace di controllare realmente il territorio e, soprattutto, inviso alle minoranze, fatte oggetto di persecuzioni e crimini vari da parte di membri di esercito e polizia. Pertanto, le FDS hanno guadagnato prestigio e sostegno anche presso drusi, alawiti e sunniti non legati ad ideologie salafite.

Dalla Turchia, intanto, organi di stampa filogovernativi fanno sapere che Ocalan avrebbe chiesto al capo militare delle FDS Mazloum Abdi di rimuovere dai propri ranghi tutti i combattenti non siriani, che sarebbero circa 8000, molti dei quali di nazionalità turca. Con la promessa che questi ultimi avrebbero, poi, modo di godere dei benefici derivati dalle leggi speciali da emanare nell’ambito del processo di pace con il PKK, ovvero possibilità di ritorno a casa e pene lievi.

Su questa richiesta, definita irrinunciabile dalla Turchia per evitare una nuova operazione militare, già in passato Abdi si era dimostrato aperto.

Sempre le stesse fonti giornalistiche vicine ad Ankara hanno anche dato delle scadenze su quando tali leggi speciali potrebbero essere emanate ed applicate, ovvero fra la fine di febbraio 2026 e la primavera.

Per fine febbraio, infatti, si dovrebbe compiere lo smantellamento delle basi operative del PKK poste a Zap e Metina, comprendente la distruzione di armamenti e munizioni presenti in grotte e tunnel. Durante la primavera, poi, toccherà alle basi operative di Hakurk e Gara.

A quel punto, fra i miliziani, presumibilmente tutti raggruppati presso i rifugi del quartier generale dei monti Qandil, dovrebbe cominciare una traumatica selezione individuale fra chi potrà tornare a casa e accedere ai benefici legislativi e chi dovrà ottenere asilo da paesi terzi. Questi ultimi sarebbero circa 300, fra dirigenti dell’organizzazione e persone con gravi condanne a carico, secondo alcune analisi.

È, dunque, per quel periodo che presumibilmente si giungerà ad una svolta degli eventi anche in Siria, o nel senso di un nuovo conflitto militare o nel senso del raggiungimento di una mediazione generale.

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