30/11/2016
Il convitato di pietra del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici
Sabato 26 novembre è stato firmato il nuovo contratto nazionale dei
metalmeccanici, storicamente uno dei contratti collettivi più ostici per
il capitalismo italiano. Un accordo che sembra aver soddisfatto tutti i
contraenti: il governo, Confindustria, i sindacati confederali e anche
la Fiom, che dopo diversi anni torna a firmare un accordo nazionale nel
settore metalmeccanico dichiarandosi, per bocca di Landini, molto
soddisfatta. Esultano i sindacati gialli della Cisl e della Uil, ed
esulta Maurizio Sacconi, il proponente principale dell’accordo. “Questo
accordo è un miracolo”, dichiara Marco Bentivogli della Fim-Cisl, a cui
fa eco la Fiom: “un contratto pulito e senza scambi”, secondo Landini.
Confindustria dichiara estasiata: “l’accordo conferma l’idea che il
contratto nazionale diventa un contratto che ha una dimensione
regolatrice che spinge sui contratti aziendali, legandoli molto alla
produttività e spinge verso un modello che è di collaborazione per la
competitività interna alle fabbriche” (qui
una panoramica di dichiarazioni).
Col referendum alle porte era inevitabile che il governo cedesse piccoli oboli elettorali e non mettesse in piedi bracci di ferro con il mondo sindacale, soprattutto con la Fiom. Il problema è che il nuovo contratto spiana la strada alla contrattazione aziendale, alla “cogestione” sindacale dei profitti aziendali e allo scambio tra il welfare pubblico in drastica riduzione e il welfare aziendale che invece vede un’implementazione decisiva. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo? A chiarirlo sono le stesse testate padronali appagate dell’accordo raggiunto. Sul Corriere Dario Di Vico si incarica di analizzare i risultati strutturali dell’accordo, chiarendo sin dalle premesse lo scenario entro cui verrà incardinata la contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro:
“Al tavolo dei grandi contratti di lavoro dei paesi avanzati, accanto alle folte delegazioni di imprenditori e sindacalisti siede ormai fisso un solitario convitato di pietra: la globalizzazione. Se il risultato di quel tavolo alla fine è troppo sbilanciato a favore del lavoro c’è il rischio concreto che le imprese non riescano a sostenere più il ritmo della concorrenza internazionale e vadano fuori mercato. Viceversa se l’impresa stravince il round del negoziato e magari umilia il sindacato è facile che psicologicamente gli operai sconfitti si iscrivano nel novero dei perdenti della globalizzazione e finiscano per diventare l’esercito elettorale di riserva dei partiti populisti”.
L’editorialista del Corriere certifica il ricatto padronale e tenta di dargli patente di legittimità: con la “globalizzazione” di mezzo, o la contrattazione tiene conto delle esigenze padronali di produrre a orari, ritmi, salari e standard “cinesi”, o quegli stessi padroni prendono armi e bagagli e trasferiscono la produzione in Cina. E in effetti, secondo stringente logica liberista, il ragionamento non farebbe una piega.
Nella truffaldina descrizione degli interessi in causa manca però la politica, che dovrebbe avere il ruolo di garante contro ricatti di questo tipo. Infatti il problema non è tanto la “globalizzazione”, quanto la scomparsa della politica nella contrattazione sociale, che dovrebbe impedire tali “ricatti delocalizzanti”. E non perché, come teme Di Vico, poi quegli operai scontenti inizino a votare il Trump di turno, ma per una ragione di civiltà talmente palese da risultare retorica: le condizioni di vita del lavoratore non possono essere una variabile totalmente dipendente dalle possibilità di profitto dei datori di lavoro.
L’entusiasmo sindacale è però decisamente sospetto. Secondo Di Vico, l’accordo è “un’intesa equilibrata che fa sue le ragioni di aziende che ormai vivono nell’epoca del 4.0”. Non sappiamo cosa sia quest’epoca 4.0 dove vivrebbero “le aziende”, ma nel mondo 1.0 dove ancora vivono i lavoratori, un accordo che “fa sue le ragioni delle aziende” è un pessimo accordo, per nulla equilibrato, e che certifica semmai un rapporto di forze sociali completamente sbilanciato a favore del capitale. Non si tratta tanto di pesare i singoli “pro” e “contro” del nuovo contratto, quanto di valutarne la logica generale che lo sottintende e la direzione che imprime nelle relazioni produttive del paese. E in questo senso, l’accordo è una débâcle operaia: “Si comincia con lo spostare il baricentro della futura contrattazione sul livello aziendale che rappresenta comunque il punto di contatto più genuino tra mercato e lavoro”.
E’ questa la razionalità posta alla base dell’accordo: a livello nazionale si pongono unicamente generici paletti regolativi, mentre la contrattazione salariale avverrà a livello aziendale, svuotando di senso la contrattazione collettiva. Inoltre, il salario viene legato alla produttività, rafforzando il ricatto padronale per cui il lavoro è una variabile dipendente della produttività. “Nell’epoca del Grande Convitato di pietra ciò che unisce la comunità della fabbrica è molto più di ciò che la divide”, conclude l’editorialista del Corriere.
Ma cosa intende il giornalista con “comunità della fabbrica”? Il nuovo contratto istruisce il percorso della condivisione degli interessi aziendali tra datori e sindacati firmatari, facendo proprio il modello tedesco della “cogestione” del sindacato agli utili dell’impresa. Il sindacato si trasforma così in datore di secondo livello, che ha come obiettivo quello della massimizzazione dei profitti anche a scapito delle garanzie dei lavoratori, e questo scambio determina un mercato del lavoro a due livelli. Nel primo, una sempre più ristretta cerchia di vera e propria aristocrazia operaia ben remunerata e coperta dal welfare aziendale; nel secondo livello, la sempre più preponderante composizione operaia non sindacalizzata, senza diritti e sotto pagata, che non ha accesso alle garanzie contrattuali perché non legata direttamente all’azienda madre ma subappaltata alle aziende dell’indotto precarizzato. Il nuovo equilibrio raggiunto si rivela allora un clamoroso passo indietro per le condizioni generale dei lavoratori del paese, che polarizza i rapporti tra gli stessi lavoratori e regala alle aziende la possibilità della contrattazione locale invece di adeguarsi ai vincoli nazionali della contrattazione collettiva. Una débâcle, spacciata per “accordo pulito e senza scambi”.
Fonte
Col referendum alle porte era inevitabile che il governo cedesse piccoli oboli elettorali e non mettesse in piedi bracci di ferro con il mondo sindacale, soprattutto con la Fiom. Il problema è che il nuovo contratto spiana la strada alla contrattazione aziendale, alla “cogestione” sindacale dei profitti aziendali e allo scambio tra il welfare pubblico in drastica riduzione e il welfare aziendale che invece vede un’implementazione decisiva. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo? A chiarirlo sono le stesse testate padronali appagate dell’accordo raggiunto. Sul Corriere Dario Di Vico si incarica di analizzare i risultati strutturali dell’accordo, chiarendo sin dalle premesse lo scenario entro cui verrà incardinata la contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro:
“Al tavolo dei grandi contratti di lavoro dei paesi avanzati, accanto alle folte delegazioni di imprenditori e sindacalisti siede ormai fisso un solitario convitato di pietra: la globalizzazione. Se il risultato di quel tavolo alla fine è troppo sbilanciato a favore del lavoro c’è il rischio concreto che le imprese non riescano a sostenere più il ritmo della concorrenza internazionale e vadano fuori mercato. Viceversa se l’impresa stravince il round del negoziato e magari umilia il sindacato è facile che psicologicamente gli operai sconfitti si iscrivano nel novero dei perdenti della globalizzazione e finiscano per diventare l’esercito elettorale di riserva dei partiti populisti”.
L’editorialista del Corriere certifica il ricatto padronale e tenta di dargli patente di legittimità: con la “globalizzazione” di mezzo, o la contrattazione tiene conto delle esigenze padronali di produrre a orari, ritmi, salari e standard “cinesi”, o quegli stessi padroni prendono armi e bagagli e trasferiscono la produzione in Cina. E in effetti, secondo stringente logica liberista, il ragionamento non farebbe una piega.
Nella truffaldina descrizione degli interessi in causa manca però la politica, che dovrebbe avere il ruolo di garante contro ricatti di questo tipo. Infatti il problema non è tanto la “globalizzazione”, quanto la scomparsa della politica nella contrattazione sociale, che dovrebbe impedire tali “ricatti delocalizzanti”. E non perché, come teme Di Vico, poi quegli operai scontenti inizino a votare il Trump di turno, ma per una ragione di civiltà talmente palese da risultare retorica: le condizioni di vita del lavoratore non possono essere una variabile totalmente dipendente dalle possibilità di profitto dei datori di lavoro.
L’entusiasmo sindacale è però decisamente sospetto. Secondo Di Vico, l’accordo è “un’intesa equilibrata che fa sue le ragioni di aziende che ormai vivono nell’epoca del 4.0”. Non sappiamo cosa sia quest’epoca 4.0 dove vivrebbero “le aziende”, ma nel mondo 1.0 dove ancora vivono i lavoratori, un accordo che “fa sue le ragioni delle aziende” è un pessimo accordo, per nulla equilibrato, e che certifica semmai un rapporto di forze sociali completamente sbilanciato a favore del capitale. Non si tratta tanto di pesare i singoli “pro” e “contro” del nuovo contratto, quanto di valutarne la logica generale che lo sottintende e la direzione che imprime nelle relazioni produttive del paese. E in questo senso, l’accordo è una débâcle operaia: “Si comincia con lo spostare il baricentro della futura contrattazione sul livello aziendale che rappresenta comunque il punto di contatto più genuino tra mercato e lavoro”.
E’ questa la razionalità posta alla base dell’accordo: a livello nazionale si pongono unicamente generici paletti regolativi, mentre la contrattazione salariale avverrà a livello aziendale, svuotando di senso la contrattazione collettiva. Inoltre, il salario viene legato alla produttività, rafforzando il ricatto padronale per cui il lavoro è una variabile dipendente della produttività. “Nell’epoca del Grande Convitato di pietra ciò che unisce la comunità della fabbrica è molto più di ciò che la divide”, conclude l’editorialista del Corriere.
Ma cosa intende il giornalista con “comunità della fabbrica”? Il nuovo contratto istruisce il percorso della condivisione degli interessi aziendali tra datori e sindacati firmatari, facendo proprio il modello tedesco della “cogestione” del sindacato agli utili dell’impresa. Il sindacato si trasforma così in datore di secondo livello, che ha come obiettivo quello della massimizzazione dei profitti anche a scapito delle garanzie dei lavoratori, e questo scambio determina un mercato del lavoro a due livelli. Nel primo, una sempre più ristretta cerchia di vera e propria aristocrazia operaia ben remunerata e coperta dal welfare aziendale; nel secondo livello, la sempre più preponderante composizione operaia non sindacalizzata, senza diritti e sotto pagata, che non ha accesso alle garanzie contrattuali perché non legata direttamente all’azienda madre ma subappaltata alle aziende dell’indotto precarizzato. Il nuovo equilibrio raggiunto si rivela allora un clamoroso passo indietro per le condizioni generale dei lavoratori del paese, che polarizza i rapporti tra gli stessi lavoratori e regala alle aziende la possibilità della contrattazione locale invece di adeguarsi ai vincoli nazionali della contrattazione collettiva. Una débâcle, spacciata per “accordo pulito e senza scambi”.
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La ricerca umiliata dal poltronificio. Il caso dell’Ispra
Il ministro dell’ambiente Galletti appare in seria difficoltà nel piazzare i suoi protetti al Ministero dell'Ambiente e dintorni. E la scadenza referendaria aumenta le fibrillazioni.
È ormai risaputo che l’unico vero obiettivo degli inquilini del ministero in via Cristoforo Colombo – che magari avrebbero desiderato un ministero ben più “pesante” – è quello di nominare i membri del proprio entourage nei vari uffici ministeriali, società private ed enti pubblici controllati, commissioni, comitati e quant’altro, molto spesso in barba alle norme, sempre in sprezzo dell’etica.
Nonostante diversi scandali, denunce, indagini, arresti eccellenti, nel corso degli ultimi mandati ministeriali abbiamo assistito al perpetrarsi di abitudini degne non già della prima repubblica, ma piuttosto dei regimi dinastici settecenteschi.
Ma a volte qualcosa si mette di traverso e nell’agosto scorso l’intervento della Corte dei Conti1 boccia le nomine dei membri di due strategici organismi di competenza ministeriale, la Commissione per le valutazioni di impatto ambientale e le valutazioni ambientali strategiche (VIA-VAS) e quella per la Prevenzione e Limitazione Integrate dell'Inquinamento (IPPC), effettuate ex imperio dal Ministro Galletti. Con il pretesto degli “atti di alta amministrazione”, dal cilindro di Galletti erano spuntati personaggi dai curricola totalmente avulsi dalle materie in questione, ai quali evidentemente erano stati riconosciuti dal ministro alti meriti, decisamente non tecnici, ma sicuramente ritenuti più apprezzabili dal punto di vista politico e della possibilità di controllo delle decisioni delle commissioni.
Dovrà allora essere il dott. Stefano Laporta, attualmente direttore generale in scadenza di mandato dell'ISPRA (Ente di ricerca vigilato dal Ministero dell’ambiente), a dover risolvere, in qualità di presidente delle due commissioni di valutazione dei candidati, questo cruccio di Galletti. Lo stesso Laporta che è stato recentemente nominato alla Consulta dell’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la radioprotezione (ISIN), con funzioni di coordinamento organizzativo interno, in pratica il braccio destro di Maurizio Pernice, contestualmente nominato Direttore dell’ISIN.
La spirale si avviluppa. Infatti il dott. Pernice, attualmente dirigente di lungo corso del MATTM, è il risultato di un’altra nomina tribolata in capo a Galletti. Prevista entro 90 giorni dal 10 aprile 2014, ce ne sono voluti invece 943 (anzi, un po’ di più, visto che manca ancora il DPR dopo la decisione del Consiglio dei Ministri), passando per la trombatura del personaggio di “prima scelta”, l’attuale Segretario Generale del Ministero dell'Ambiente Antonio Agostini, la cui candidatura, attaccata da più parti per l’evidente mancanza delle competenze specifiche richieste dalla legge, fu silurata definitivamente da un avviso di garanzia. Il neo Direttore ISIN avrà quindi un curriculum allineato al dettato di legge2? "Ci pare proprio di no, a giudicare da quanto pubblicato sul sito del ministero3, ma, evidentemente, Galletti sa essere fedele alla linea, quando si tratta di nomine forzate" denuncia la USB che da tempo martella contro lo smantellamento della ricerca pubblica nel nostro paese.
Come prosegue la nostra spirale? Torna ora in “zona ISPRA”: da più parti si vociferava infatti che-dopo il tramonto di Agostini, il dott. Laporta ambisse alla carica poi assegnata a Pernice, ma a quanto pare si è dovuto accontentare del secondo posto. Essendo ancora in attesa della determinazione di compensi degli organi di vertice dell’ISIN, non siamo in grado di valutare quale livello di retrocessione economica si affiancherebbe a quella funzionale per il dott. Laporta quando terminerà il doppio incarico attuale (qualora ne venisse ratificata la compatibilità). Potrebbe finalmente voler scegliere di tornare al suo ruolo di viceprefetto al ministero degli interni? Pare proprio di no, tanto che si dice abbia richiesto un parere alla Funzione Pubblica sulla possibilità di essere nuovamente incaricato a DG dell'ISPRA grazie all'entrata in vigore della legge n. 132/2016 di “Istituzione del Sistema nazionale a rete per la protezione dell'ambiente e disciplina dell’ISPRA” che secondo lui ed i suoi sponsor consentirebbe di superare il vincolo dei due mandati. Non sarà che queste decisioni dovranno passare per il comportamento di Laporta nelle commissioni di nomina di cui sopra? Qualche domanda sulla serenità di giudizio di cui egli possa sentirsi dotato nella valutazione dei titoli di chi dovrà scegliere, per conto di Galletti, come commissario VIA-VAS o IPPC, sorge spontanea.
Il sospetto trova giustificazione nella storia dei rapporti fra il MATTM e l’ISPRA sin dalla sua istituzione, datata fine 2008, con la fusione dell’agenzia per la protezione ambientale e due istituti di ricerca (sul mare e sulla fauna selvatica). L’ISPRA doveva rappresentare il braccio operativo del Ministero, fornendo servizi altamente qualificati e soprattutto con quel grado di autonomia e terzietà tecnico-scientifica che sarebbe necessaria in tema di controlli ambientali, ma che evidentemente spaventa il “decisore politico” che riconosce come committenza non già la comunità dei contribuenti, ma qualche lobby o potentato economico o finanziario.
Ed ecco quindi che il Ministero (già prima di Galletti, in verità) intensifica i finanziamenti a SOGESID, società “in house”, privata nella gestione ma pubblica nelle spese, dove può piazzare vertici, dirigenti e personale senza l’alea del concorso pubblico, in barba alle limitazioni alle assunzioni della PA. Tutto ciò, a discapito dell’ISPRA e del suo personale (con circa 150 precari, la metà dei quali con alle spalle una storia ultradecennale di contratti di vario tipo).
Ma la SOGESID, pur avendo occupato abusivamente le stanze di via Colombo (tanto che ora che il MATTM ha dovuto dichiarare il numero dei propri dipendenti all’Agenzia del Demanio in vista di un cambio di sede, non ha certo potuto dire che ci sono 300 “esterni”, creando il panico fra i “miracolati” dirigenti e quadri SOGESID) e pur sovrapponendosi a molte competenze proprie dell’ISPRA, evidentemente non riesce a coprire tutte le necessità tecnico-scientifiche del Ministero ed allora Galletti che fa? Inserisce un “articolicchio” nella legge di stabilità 2016 con cui, invece di prevedere risorse per assunzioni all’ISPRA, con la stessa spesa è andato a “saccheggiare” le graduatorie dei concorsi espletati dall’ISPRA, assumendo 25 ricercatori e 15 tecnici o amministrativi, fra cui una ventina di precari ISPRA, che hanno sì avuto una trasformazione del proprio contratto a tempo indeterminato, ma hanno visto (per ora?) sfumare la possibilità di essere stabilizzati nell’ente per i quale avevano vinto un concorso e che nel corso degli anni ha investito nella loro formazione specifica.
"All’ISPRA basterebbero 10 milioni in legge di stabilità (una goccia nell’oceano dei finanziamenti alla ricerca privata) per rendere perseguibili gli obiettivi di rilancio dell’Istituto e di stabilizzazione del proprio personale precario, ma nella bozza attuale non ce n’è neanche l’ombra" sottolinea l'USB. I finanziamenti passano per il Ministero dell’Ambiente ed evidentemente Galletti ha solo l’obiettivo (ed il relativo peso politico) di accontentare qualche amico o amico degli amici, tirando i fili di qualche burattino come Laporta. Sempre che faccia in tempo ad anticipare lo scenario che si potrebbe aprire dopo il referendum del prossimo 4 dicembre.
Note
1 http://www.corteconti.it/attivita/controllo/pa_enti_pubblici/personale/delibera_9_2016_prev/index.html
http://www.corteconti.it/attivita/controllo/pa_enti_pubblici/personale/delibera_10_2016_prev/index.html
2 D.Lgs 4 marzo 2014, n. 45; Art. 6 comma 5: “Il Direttore è scelto tra persone di indiscussa moralità e indipendenza, di comprovata e documentata esperienza e professionalità ed elevata qualificazione e competenza nei settori della sicurezza nucleare, della radioprotezione, della tutela dell'ambiente e sulla valutazione di progetti complessi e di difesa contro gli eventi estremi naturali o incidentali…”
3 http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/curriculum/Pernice.pdf
Fonte
È ormai risaputo che l’unico vero obiettivo degli inquilini del ministero in via Cristoforo Colombo – che magari avrebbero desiderato un ministero ben più “pesante” – è quello di nominare i membri del proprio entourage nei vari uffici ministeriali, società private ed enti pubblici controllati, commissioni, comitati e quant’altro, molto spesso in barba alle norme, sempre in sprezzo dell’etica.
Nonostante diversi scandali, denunce, indagini, arresti eccellenti, nel corso degli ultimi mandati ministeriali abbiamo assistito al perpetrarsi di abitudini degne non già della prima repubblica, ma piuttosto dei regimi dinastici settecenteschi.
Ma a volte qualcosa si mette di traverso e nell’agosto scorso l’intervento della Corte dei Conti1 boccia le nomine dei membri di due strategici organismi di competenza ministeriale, la Commissione per le valutazioni di impatto ambientale e le valutazioni ambientali strategiche (VIA-VAS) e quella per la Prevenzione e Limitazione Integrate dell'Inquinamento (IPPC), effettuate ex imperio dal Ministro Galletti. Con il pretesto degli “atti di alta amministrazione”, dal cilindro di Galletti erano spuntati personaggi dai curricola totalmente avulsi dalle materie in questione, ai quali evidentemente erano stati riconosciuti dal ministro alti meriti, decisamente non tecnici, ma sicuramente ritenuti più apprezzabili dal punto di vista politico e della possibilità di controllo delle decisioni delle commissioni.
Dovrà allora essere il dott. Stefano Laporta, attualmente direttore generale in scadenza di mandato dell'ISPRA (Ente di ricerca vigilato dal Ministero dell’ambiente), a dover risolvere, in qualità di presidente delle due commissioni di valutazione dei candidati, questo cruccio di Galletti. Lo stesso Laporta che è stato recentemente nominato alla Consulta dell’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la radioprotezione (ISIN), con funzioni di coordinamento organizzativo interno, in pratica il braccio destro di Maurizio Pernice, contestualmente nominato Direttore dell’ISIN.
La spirale si avviluppa. Infatti il dott. Pernice, attualmente dirigente di lungo corso del MATTM, è il risultato di un’altra nomina tribolata in capo a Galletti. Prevista entro 90 giorni dal 10 aprile 2014, ce ne sono voluti invece 943 (anzi, un po’ di più, visto che manca ancora il DPR dopo la decisione del Consiglio dei Ministri), passando per la trombatura del personaggio di “prima scelta”, l’attuale Segretario Generale del Ministero dell'Ambiente Antonio Agostini, la cui candidatura, attaccata da più parti per l’evidente mancanza delle competenze specifiche richieste dalla legge, fu silurata definitivamente da un avviso di garanzia. Il neo Direttore ISIN avrà quindi un curriculum allineato al dettato di legge2? "Ci pare proprio di no, a giudicare da quanto pubblicato sul sito del ministero3, ma, evidentemente, Galletti sa essere fedele alla linea, quando si tratta di nomine forzate" denuncia la USB che da tempo martella contro lo smantellamento della ricerca pubblica nel nostro paese.
Come prosegue la nostra spirale? Torna ora in “zona ISPRA”: da più parti si vociferava infatti che-dopo il tramonto di Agostini, il dott. Laporta ambisse alla carica poi assegnata a Pernice, ma a quanto pare si è dovuto accontentare del secondo posto. Essendo ancora in attesa della determinazione di compensi degli organi di vertice dell’ISIN, non siamo in grado di valutare quale livello di retrocessione economica si affiancherebbe a quella funzionale per il dott. Laporta quando terminerà il doppio incarico attuale (qualora ne venisse ratificata la compatibilità). Potrebbe finalmente voler scegliere di tornare al suo ruolo di viceprefetto al ministero degli interni? Pare proprio di no, tanto che si dice abbia richiesto un parere alla Funzione Pubblica sulla possibilità di essere nuovamente incaricato a DG dell'ISPRA grazie all'entrata in vigore della legge n. 132/2016 di “Istituzione del Sistema nazionale a rete per la protezione dell'ambiente e disciplina dell’ISPRA” che secondo lui ed i suoi sponsor consentirebbe di superare il vincolo dei due mandati. Non sarà che queste decisioni dovranno passare per il comportamento di Laporta nelle commissioni di nomina di cui sopra? Qualche domanda sulla serenità di giudizio di cui egli possa sentirsi dotato nella valutazione dei titoli di chi dovrà scegliere, per conto di Galletti, come commissario VIA-VAS o IPPC, sorge spontanea.
Il sospetto trova giustificazione nella storia dei rapporti fra il MATTM e l’ISPRA sin dalla sua istituzione, datata fine 2008, con la fusione dell’agenzia per la protezione ambientale e due istituti di ricerca (sul mare e sulla fauna selvatica). L’ISPRA doveva rappresentare il braccio operativo del Ministero, fornendo servizi altamente qualificati e soprattutto con quel grado di autonomia e terzietà tecnico-scientifica che sarebbe necessaria in tema di controlli ambientali, ma che evidentemente spaventa il “decisore politico” che riconosce come committenza non già la comunità dei contribuenti, ma qualche lobby o potentato economico o finanziario.
Ed ecco quindi che il Ministero (già prima di Galletti, in verità) intensifica i finanziamenti a SOGESID, società “in house”, privata nella gestione ma pubblica nelle spese, dove può piazzare vertici, dirigenti e personale senza l’alea del concorso pubblico, in barba alle limitazioni alle assunzioni della PA. Tutto ciò, a discapito dell’ISPRA e del suo personale (con circa 150 precari, la metà dei quali con alle spalle una storia ultradecennale di contratti di vario tipo).
Ma la SOGESID, pur avendo occupato abusivamente le stanze di via Colombo (tanto che ora che il MATTM ha dovuto dichiarare il numero dei propri dipendenti all’Agenzia del Demanio in vista di un cambio di sede, non ha certo potuto dire che ci sono 300 “esterni”, creando il panico fra i “miracolati” dirigenti e quadri SOGESID) e pur sovrapponendosi a molte competenze proprie dell’ISPRA, evidentemente non riesce a coprire tutte le necessità tecnico-scientifiche del Ministero ed allora Galletti che fa? Inserisce un “articolicchio” nella legge di stabilità 2016 con cui, invece di prevedere risorse per assunzioni all’ISPRA, con la stessa spesa è andato a “saccheggiare” le graduatorie dei concorsi espletati dall’ISPRA, assumendo 25 ricercatori e 15 tecnici o amministrativi, fra cui una ventina di precari ISPRA, che hanno sì avuto una trasformazione del proprio contratto a tempo indeterminato, ma hanno visto (per ora?) sfumare la possibilità di essere stabilizzati nell’ente per i quale avevano vinto un concorso e che nel corso degli anni ha investito nella loro formazione specifica.
"All’ISPRA basterebbero 10 milioni in legge di stabilità (una goccia nell’oceano dei finanziamenti alla ricerca privata) per rendere perseguibili gli obiettivi di rilancio dell’Istituto e di stabilizzazione del proprio personale precario, ma nella bozza attuale non ce n’è neanche l’ombra" sottolinea l'USB. I finanziamenti passano per il Ministero dell’Ambiente ed evidentemente Galletti ha solo l’obiettivo (ed il relativo peso politico) di accontentare qualche amico o amico degli amici, tirando i fili di qualche burattino come Laporta. Sempre che faccia in tempo ad anticipare lo scenario che si potrebbe aprire dopo il referendum del prossimo 4 dicembre.
Note
1 http://www.corteconti.it/attivita/controllo/pa_enti_pubblici/personale/delibera_9_2016_prev/index.html
http://www.corteconti.it/attivita/controllo/pa_enti_pubblici/personale/delibera_10_2016_prev/index.html
2 D.Lgs 4 marzo 2014, n. 45; Art. 6 comma 5: “Il Direttore è scelto tra persone di indiscussa moralità e indipendenza, di comprovata e documentata esperienza e professionalità ed elevata qualificazione e competenza nei settori della sicurezza nucleare, della radioprotezione, della tutela dell'ambiente e sulla valutazione di progetti complessi e di difesa contro gli eventi estremi naturali o incidentali…”
3 http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/curriculum/Pernice.pdf
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Referendum costituzionale: il capro espiatorio di una politica fallimentare
L’università italiana, come del resto il
paese stesso, si trova in una situazione sempre più critica non solo
per il suo presente ma soprattutto per quello che potrà essere il suo
futuro. E’ sufficiente valutare le prospettive di carriera
di un giovane laureato per toccare con mano la profondità del disastro:
solo pochissimi hanno qualche possibilità di continuare l’attività di
ricerca o trovare un’occupazione al livello della loro preparazione. Si
tratta di un’ecatombe generazionale e dell’interruzione di quella catena che assicura il ricambio e dunque la sopravvivenza del sapere. Una petizione,
promossa e firmata dai maggiori scienziati di questo paese, che ha
raccolto in pochi mesi più di 70.000 firme, ha chiesto a grande voce di
riportare il finanziamento della ricerca a un livello accettabile, cioè a
quello antecedente i tagli del duo Tremonti-Gelmini, poi “stabilizzati”
e aggravati dai governi successivi. Questi tagli hanno, di fatto,
eliminato il 20% dei docenti dell’università e, soprattutto, azzerato le speranze di varie generazioni di studiosi:
si tratta di decine di migliaia di ricercatori che, a volte, riescono a
trovare una possibilità all’estero ma che più spesso si devono
contentare di lavori sottopagati e dequalificanti.
Qual è la risposta del Governo? Trovare il capro espiatorio, il nemico, tanto semplice quanto indefinito, nei baroni universitari (e non è una nuova idea!),
e dunque istituire 500 cattedre di “eccellenza” sottratte alla nefasta
influenza dei “baroni” ma sottoposte al controllo del Governo per
“aprire il sistema” e portarvi dentro “l’eccellenza”. Se lo sviluppo
della discussione sulle “cattedre Natta” sta però registrando una rara e inedita convergenza di posizioni a priori lontane contro il provvedimento,
la questione cruciale è che l’iniziativa del Governo non tenta neppure
di affrontare i reali problemi dell’università e della ricerca di questo
paese ma è guidata da una ideologia insensata e sorda a ogni istanza
del mondo reale. Nello stesso tempo la “sperimentazione” governativa
consiste sicuramente in un solo punto chiaro: una pesante intromissione
della politica nella ricerca e nell’università, una ingerenza così
vistosa che bisogna risalire al tempo del fascismo
per trovare un provvedimento che limitasse in maniera analoga
l’autonomia e l’indipendenza della ricerca e dell’università ponendo “il
sapere accademico al servizio della mutevole e contingente volontà
politica dei governi che si succederanno negli anni a venire” come spiega molto chiaramente Umberto Izzo su questo sito.
Infatti, nella proposta di revisione dell’articolo 117 si identifica
una competenza esclusiva della Stato in tema di “istruzione universitaria
e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica”.
Il richiamo esplicito alla didattica universitaria permette di
giustificare l’idea che il governo abbia titolo a dettare l’agenda
strategica della ricerca scientifica e tecnologica condotta
dall’Università anche investendo sulla didattica.
Sarà davvero questa la riforma che farà
ripartire l’università? C’è da dubitarne viste le tante riforme fatte
dal governo in questi anni (dal Jobs Act alla Buona Scuola), approvate senza mai incontrare particolari ostacoli istituzionali che non hanno fatto recuperare al paese il suo ritardo
rispetto ai paesi dell’Unione Europea. Anche per il ristagno
dell’economia, ci vuole dunque un altro capro espiatorio su cui
dirottare il dibattito e l’attenzione pubblica: in questo caso la
Costituzione. L’idea è semplice: la “semplificazione costituzionale” dovrebbe infatti accorciare i tempi delle decisioni che favoriscono l’ingresso nel nostro Paese di investimenti e capitali esteri rilanciando finalmente lo sviluppo.
Per inquadrare la riforma è necessario
partire da un punto chiaro: lo stravolgimento della Costituzione nasce
da un parlamento illegittimo, per l’incostituzionalità della legge
elettorale con cui è stato eletto, e da una maggioranza improbabile
costruita a elezioni avvenute. La Costituzione del 1948 fu votata dal
90% del Parlamento sebbene il paese fosse diviso tra partiti con
ideologie e riferimenti contrastanti come i comunisti, i democristiani
insieme con i liberali, e i fascisti. L’averla votata tutti insieme
consentì alla democrazia italiana di superare prove difficili. Nel 2016, non è neppure noto da chi è stata scritta la riforma costituzionale anche se sappiamo essere stata ispirata dalla banca d’affari J.P. Morgan
e portata avanti dal Governo. Ci troviamo dunque di fronte ad uno
scenario sudamericano: mentre la Costituzione servirebbe a controllare
il Governo la modifica della Costituzione è stata proposta dal Governo
stesso.
La classe dirigente e i governi che si
sono succeduti negli ultimi dieci anni almeno hanno dovuto trovare un
capro espiatorio dei loro fallimenti e l’Università, la ricerca e il
sistema educativo in generale hanno avuto proprio questo ruolo. Tuttavia c’è anche una convergenza d’interessi molto nitida e pericolosa.
Da una parte, gli interessi di chi vede nell’Università e nella ricerca
un modo per formare quadri aziendali gratis e avere un ufficio studi a
costo zero. Dall’altra, quelli di chi vede nell’istruzione di qualsiasi
grado praterie per fare affari. Infine, ed è questo il profilo forse più
inquietante, c’è anche chi vuole silenziare il pensiero critico e
libero. Mettendo sotto osservazione i settori più sensibili da un punto
di vista politico – come economia, diritto costituzionale o del lavoro, o
anche sociologia – si assiste al dispiegarsi di sottili ma efficaci
manovre ideologiche che mirano all’annientamento (accademico) di chi la
pensa in modo diverso. L’affermazione del pensiero unico nelle accademie
fa sì che quando il politico o il legislatore avrà bisogno di
determinate competenze, potrà trovarle solo se allineate al paradigma di
riferimento. Non è un caso se le politiche economiche degli ultimi
dieci anni (almeno) abbiano una marcata impronta neo-liberista e se i
principali economisti cooptati o ascoltati dalla politica siano stati
reclutati dall’università Bocconi.
Il problema vero è che dopo 4 dicembre avremo di fronte gli stessi problemi che affliggono il paese da molti anni:
il debito pubblico e la disoccupazione crescenti, la perdita di
competitività, una forza lavoro sempre meno qualificata e a costo sempre
più basso, la dismissione del sistema industriale, la mancanza
d’innovazione, la mortificazione dell’università e della ricerca, un
sistema bancario sempre più in bilico, la rottamazione delle nuove
generazioni, tenute attentamente ai margini del dibattito pubblico, ecc..
Il tutto con una legge elettorale che distorce il risultato del voto,
dando vantaggi grandissimi a chi ha avuto solo marginalmente più voti e
con una Costituzione più lasca che cede il campo alla “mutevole e contingente volontà politica dei governi”:
una situazione foriera di pericolose instabilità visto che dovrebbe
essere proprio la Costituzione a limitare la concentrazione del potere. La ricerca del capro espiatorio come asse portante della politica del governo non può che generare disastri.
Analisi condivisibile, tuttavia se "la ricerca del capro espiatorio come asse portante della politica del governo non può che generare disastri", l'incapacità d'identificare l'origine materiale di determinate operazioni non sarà certamente foriera di successi strategici.
Le riforme di questi anni, infatti, non sono mai state finalizzate a far recuperare all'Italia il proprio ritardo nei confronti degli altri Paesi dell'Unione - ammesso che abbia senso valutare con una sola scala sistemi sociali, politici ed economici tanto diversi come quelli in oggetto.
Semmai, hanno avuto l'obiettivo specifico e dichiarato di rendere l'Italia strutturalmente in ritardo rispetto al nocciolo duro dell'UE, in quanto nella divisione comunitaria dello sviluppo e quindi delle filiere produttive e del lavoro, al Bel Paese è stata relegato il ruolo di villaggio vacanze e bacino di mano d'opera e produzioni a basso valore aggiunto.
Vita dura per i nazisti del Texas
Un gruppo comunista chiamato “Guardie Rosse Austin” ha suscitato grande scalpore, nello stato americano del Texas dopo la posizione contro una manifestazione del movimento razzista "White Lives Matter", portando bandiere comuniste e fucili, con il volto coperto e mostrando cartelli con scritto lo slogan "Fai impaurire di nuovo il razzista" ("Make racist afraid again"), per parafrasare lo slogan della campagna di Donald Trump,"Make America great Again"(Rendere di nuovo grande l’America).
Si tratta di un collettivo che ha deciso di affrontare le ondate di razzismo che si sono verificati negli Stati Uniti dopo la vittoria di Donald Trump nelle ultime elezioni, convinto che sia necessario sottolineare e combattere il fascismo.
Il confronto per le strade, che non ha ancora raggiunto episodi di violenza, si è anche spostato ai social network, con commenti arrabbiati e minacce.
Al momento non si registrano incidenti, però la presenza armata nelle strade è un segno dell’escalation di tensioni sociali che si vive dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti.
Il comunicato delle Red Guards di Austin
*****
Come i fascisti stanno cercando di organizzarsi e creare una presenza fissa qui, ad Austin, i comunisti e le persone con una mente rivoluzionaria hanno aumentato gli sforzi in un’ottica antifascista. Oltre ad appellarsi all’organizzazione e all’unità antifascista tra organizzazioni già esistenti, sono riusciti a formare una coalizione di antifascisti, indispensabile e necessaria in questo particolare momento storico. Questa coalizione è servita come nesso tra antifascisti di tutte le tradizioni ideologiche (anche se la stragrande maggioranza di loro sono comunisti rivoluzionari) per unirsi in uno sforzo per evitare che il fascismo ottenga un qualunque tipo di supporto e perché eviti di riuscire ad organizzarsi. La coalizione è stato formata come una risposta diretta a una protesta pianificata da "White Lives Matter", un fronte neonazista che aveva annunciato l'intenzione di protestare nella capitale dello stato del Texas, il 19 novembre 2016. Gli antifascisti hanno immediatamente risposto, riunendo le masse di Austin in una contro-protesta unitaria contro questa dimostrazione pubblica di supremazia bianca. Questo terreno si è rivelato fruttuoso, dal momento che coloro i quali hanno cercato di soffocare i fascisti, superando la loro inferiorità numerica con centinaia di persone, hanno effettivamente circondato da tutti i lati la manifestazione neo nazista, impedendogli di essere visti, di poter parlare e annegando i loro pietosi tentativi nel raccogliere visibilità.
Questa contro protesta era legittimamente più militante e arrabbiata di quelle viste nelle ultime settimane dopo la vittoria elettorale di Trump. Dal momento che questa contro-protesta è stata organizzata dai rivoluzionari e non dai liberali, i quali, a quanto pare hanno perso forza dopo una settimana di protesta, potrebbe raggiungere anche quei settori della comunità che non sono organizzate e non sono così liberali. Organizzazioni come “Servir el Pueblo – Austin” (Servire il popolo), il Fronte Rivoluzionario Studentesco, l’Alleanza Rivoluzionaria delle persone Trans contro il Capitalismo (RATPAC), il comitato di Solidarietà con la Palestina e membri del collettivo socialista di Austin sono stati tra i contro-manifestanti più attivi e militanti.
Fin dall’inizio, gli antifascisti superavano in numero i fascisti. Chiunque si avvicinasse alla strada non poteva né vedere né sentire i suprematisti bianchi, bloccati sul marciapiede e circondati da tutti i lati dai manifestanti. Questa tattica è stata pianificata per evitare che la polizia tenesse i fascisti su un lato e i manifestanti dall’altro lato della strada dividendoli. Come la situazione si è fatta più tesa la polizia ha iniziato a mettere agenti in assetto antisommossa su e giù per l’undicesima strada, preparandosi a quello che sembrava l’inizio di un disastro totale. I manifestanti antifascisti cercavano di attirare i suprematisti fuori dalle barriere protettive della polizia. I nazisti sembravano visibilmente scossi, ed, a questo punto, i maiali a cavallo sono stati chiamati per cercare di allargare lo spazio intorno ai nazisti. Ad un certo punto, la polizia ha usato i cavalli per spingere le persone, in modo da creare spazio attorno ai nazisti e cercando di spingere i manifestanti verso un cordone poliziesco e nel farlo hanno calpestato con i cavalli alcuni manifestanti.
I fascisti se ne sono andati prima del previsto, chiedendo agli sbirri di accompagnarli e proteggerli dalle masse che intanto intonavano lo slogan “Fuck a nazi up!” Come i suprematisti si sono presentati uno ad uno con la loro scorta di maiali, i contro manifestanti si sono ammassati lungo il cordone cercando di passare la linea di sbirri in tenuta antisommossa, i quali hanno cercato di creare una barriera tra le masse arrabbiate e gli spaventati fascisti. Gli antifascisti hanno seguito per diversi isolati i fascisti e la loro scorta, rompendo i cordoni e riuscendo ad acciuffare un paio di nazisti, i quali, si sono dovuti rifugiare nel sotterraneo del campidoglio, riempito e difeso immediatamente da dipartimento di polizia di Austin che ha riempito e circondando l’edificio di porci in divisa e a cavallo per evitare il contatto e l’intonazione di altri slogan.
E nostro dovere di comunisti, e in particolare come maoisti, portare avanti la lotta contro i fascisti dopo che così tanti nostri predecessori sono morti combattendo. Noi non crediamo nella libertà di espressione dell’odio, e ci saremo sempre ad affrontare e chiudere la bocca a questi scarafaggi quando cercheranno di fare una qualche comparsa. Come maoisti, crediamo fermamente che i suprematisti bianchi debbano essere affrontati e sopraffatti da una forza più grande. Ecco perché abbiamo organizzato un’unità armata partigiana sotto il nostro comando. I militanti sono fermamente dalla parte del popolo nella sua sua lotta contro il fascismo ed esistono per garantirne la sopravvivenza. Non vogliamo più un’altra strage di Greensboro, dove il Ku Klux Klan ha ucciso dei comunisti per aver urlato “morte al Klan!” e il nostro sangue non sarà l’unico sangue che scorrerà se cercheranno di pugnalarci come fatto dal Traditional Workers Party (Twp, un partito di estrema destra, ndt) agli antifascisti in California. Combatteremo e risponderemo ogni singola volta!
(Per un’analisi teorica più profonda sul movimento fascista in aumento a Austin, Stati Uniti e nel mondo, si prega di leggere e condividere il nostro recente documento "Non cadrà a men che tu non lo colpisca: un’analisi sul crescente trend fascista negli USA”https://redguardsaustin.wordpress.com/2016/11/09/it-will-not-fall-unless-you-hit-it/)
https://redguardsaustin.wordpress.com/
https://redguardsaustin.wordpress.com/2016/11/21/a-red-guards-reflection-on-the-recent-white-lives-matter-protest/
http://redguardsla.org/
https://redguardsphiladelphia.wordpress.com/
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Fonte
Il “furto di cervelli” è solo la punta di un iceberg
E' cominciato con un incontro a Roma il giro di presentazioni dell'ultimo numero della rivista Contropiano. Questo numero è dedicato ad una questione che riteniamo strategica: la destrutturazione e riorganizzazione dell'istruzione e ricerca pubblica in funzione della logica di impresa e del furto di cervelli. I contenuti sono le relazioni del convegno tenutosi a Bologna nell'aprile scorso, un lavoro che possiamo definire di qualità e utile anche per chi interviene nelle scuole o nelle università come studente, docente, ricercatore che sia. Alla libreria Odradek la Rete dei Comunisti ha invitato a discutere su questo numero della rivista Contropiano Patrizia Serafini (Usb scuola), Stefano D'Errico (Unicobas), Alvise Tassel (Noi Restiamo), Giacomo (Militant) e Marina Boscaino (campagna LIP contro la Buona Scuola). La discussione è stata introdotta da Massimiliano Piccolo (RdC), autore di uno dei saggi contenuti nella rivista.
Inevitabilmente il dibattito si è incrociato con il contesto determinato dalla madre di tutte le controrifome: quella sulla Costituzione su cui domenica siamo chiamati a esprimerci nel referendum/plebiscito voluto dal governo Renzi. Un contesto richiamato esplicitamente sia nella presentazione che anticipato nelle relazioni pubblicate sulla rivista. Ma il contesto strategico al quale è stato reso subalterno tutto il sistema dell'istruzione pubblica, della formazione e della ricerca, è stato individuato in più interventi (Piccolo, Serafini, D'Errico,Tossel, Boscaino) nelle direttive elaborate e imposte dall'Unione Europea. Marina Boscaino le fa risalire proprio a due articoli del Trattato di Maastricht del 1992, Patrizia Serafini ha sottolineato la famigerata Dichiarazione di Bologna del 1999 dei ministri europei che introduceva il concetto di "impiegabilità" e di "competitività internazionale" del sistema di istruzione europeo, mentre Stefano D'Errico vede il male originario nel documento della European Round Table del 1984 dove si introduceva il concetto di "mente d'opera" e rifiuto del sapere critico. Tutti concordi nel definire la "Buona Scuola" del governo Renzi come la quadratura del cerchio di un progetto avviato da tempo teso a destrutturare l'istruzione pubblica e renderla del tutto subalterna alla logica di impresa. In tal senso nel sistema di istruzione sono stati introdotti concetti che vengono dal mondo delle imprese come competenze, valutazione con criteri quantitativi, competitività, logiche che nulla a che vedere con la funzione universale dell'istruzione.
Una parentesi importante è stata quella sulla dimensione universitaria aperta da Tossel (Noi restiamo) e dal collettivo Militant. Il nesso tra crescente selezione sociale nell'accesso e nella conclusione degli studi universitari, un mercato del lavoro ormai deregolamentato e fondato su precarietà, lavoro gratuito, basse e bassissime retribuzioni ed infine il boom dell'emigrazione italiana all'estero (soprattutto nei paesi forti del centro e nord Europa), fanno dire che siamo in presenza di un "furto di cervelli" e non una fuga come viene semplicisticamente detto. Le migliori risorse umane se ne vanno dal paese e convergono in quei paesi in cui la divisione europea del lavoro concentra industrie, tecnologie, ricerche. Ne deriva l'impoverimento sociale, intellettuale e scientifico dei paesi più deboli ed in cui gli standard dell'istruzione e della ricerca pubblica sono stati brutalmente abbassati. Nelle università la ricerca è ormai completamente orientata e dominata dagli interessi privati e dalle esigenze delle aziende. Con una struttura piramidale dei team di ricerca al cui apice c'è un docente ammanicato con le aziende che reperisce e distribuisce finanziamenti. Finiti i finanziamenti privati, finisce la ricerca perchè lo Stato ormai se ne è completamente deresponsabilizzato.
Insomma quella sull'ultimo numero di Contropiano si è rivelata una discussione estremamente interessante, e non solo per il valore aggiunto rappresentato dalla passione che ci mette chi ancora lavora e crede in una scuola alla quale la Costituzione affida il compito di rimuovere gli ostacoli all'emancipazione delle persone. Un motivo di più per votare No domenica 4 dicembre, ma anche per rimettere in campo una controffensiva generale sui temi dell'istruzione, formazione e ricerca che fanno la "differenza di sistema" in qualsiasi paese e in qualsiasi società. Un problema questo che non può darsi solo nella dimensione sindacale ma che comporta quasi naturalmente un ragionamento sulla politica e la lotta ideologica tra classi dominanti e classi subalterne, per ora.
Fonte
Inevitabilmente il dibattito si è incrociato con il contesto determinato dalla madre di tutte le controrifome: quella sulla Costituzione su cui domenica siamo chiamati a esprimerci nel referendum/plebiscito voluto dal governo Renzi. Un contesto richiamato esplicitamente sia nella presentazione che anticipato nelle relazioni pubblicate sulla rivista. Ma il contesto strategico al quale è stato reso subalterno tutto il sistema dell'istruzione pubblica, della formazione e della ricerca, è stato individuato in più interventi (Piccolo, Serafini, D'Errico,Tossel, Boscaino) nelle direttive elaborate e imposte dall'Unione Europea. Marina Boscaino le fa risalire proprio a due articoli del Trattato di Maastricht del 1992, Patrizia Serafini ha sottolineato la famigerata Dichiarazione di Bologna del 1999 dei ministri europei che introduceva il concetto di "impiegabilità" e di "competitività internazionale" del sistema di istruzione europeo, mentre Stefano D'Errico vede il male originario nel documento della European Round Table del 1984 dove si introduceva il concetto di "mente d'opera" e rifiuto del sapere critico. Tutti concordi nel definire la "Buona Scuola" del governo Renzi come la quadratura del cerchio di un progetto avviato da tempo teso a destrutturare l'istruzione pubblica e renderla del tutto subalterna alla logica di impresa. In tal senso nel sistema di istruzione sono stati introdotti concetti che vengono dal mondo delle imprese come competenze, valutazione con criteri quantitativi, competitività, logiche che nulla a che vedere con la funzione universale dell'istruzione.
Una parentesi importante è stata quella sulla dimensione universitaria aperta da Tossel (Noi restiamo) e dal collettivo Militant. Il nesso tra crescente selezione sociale nell'accesso e nella conclusione degli studi universitari, un mercato del lavoro ormai deregolamentato e fondato su precarietà, lavoro gratuito, basse e bassissime retribuzioni ed infine il boom dell'emigrazione italiana all'estero (soprattutto nei paesi forti del centro e nord Europa), fanno dire che siamo in presenza di un "furto di cervelli" e non una fuga come viene semplicisticamente detto. Le migliori risorse umane se ne vanno dal paese e convergono in quei paesi in cui la divisione europea del lavoro concentra industrie, tecnologie, ricerche. Ne deriva l'impoverimento sociale, intellettuale e scientifico dei paesi più deboli ed in cui gli standard dell'istruzione e della ricerca pubblica sono stati brutalmente abbassati. Nelle università la ricerca è ormai completamente orientata e dominata dagli interessi privati e dalle esigenze delle aziende. Con una struttura piramidale dei team di ricerca al cui apice c'è un docente ammanicato con le aziende che reperisce e distribuisce finanziamenti. Finiti i finanziamenti privati, finisce la ricerca perchè lo Stato ormai se ne è completamente deresponsabilizzato.
Insomma quella sull'ultimo numero di Contropiano si è rivelata una discussione estremamente interessante, e non solo per il valore aggiunto rappresentato dalla passione che ci mette chi ancora lavora e crede in una scuola alla quale la Costituzione affida il compito di rimuovere gli ostacoli all'emancipazione delle persone. Un motivo di più per votare No domenica 4 dicembre, ma anche per rimettere in campo una controffensiva generale sui temi dell'istruzione, formazione e ricerca che fanno la "differenza di sistema" in qualsiasi paese e in qualsiasi società. Un problema questo che non può darsi solo nella dimensione sindacale ma che comporta quasi naturalmente un ragionamento sulla politica e la lotta ideologica tra classi dominanti e classi subalterne, per ora.
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Spread e borsa. il referendum non c’entra
La stampa italiana – lo ripetiamo tutti i giorni, perché è assolutamente necessario – è forse la peggiore dell'occidente capitalistico. Servile verso tutti i poteri, sia economici che politici, tanto nazionali che sovranazionali, impossibilitata culturalmente e soprattutto moralmente a esaminare criticamente la realtà. Nei giorni scorsi i ripetuti crolli di borsa, specie quella di Milano (oberata da banche in crisi di nervi), e i rialzi abbastanza rapidi dello spread sui titoli di Stato, erano stati “spiegati” alla popolazione con l'incertezza sull'esito del referendum. Un modo di spargere il panico sulle “catastrofi” che attenderebbero il paese in caso di vittoria del NO. Nonostante la stessa strategia mediatica sia risultata clamorosamente fallimentare ogni volta che è stata messa in atto – di recente con la Brexit e ancor peggio con Trump – i media non sanno evidentemente fare di meglio...
Come sempre, però, anche in quella fogna bisogna saper distinguere chi fa seriamente il proprio mestiere di giornalista. Che ovviamente, in questo caso specifico, significa andare a guardare cosa sta effettivamente accadendo sui mercati finanziari, controllare diversi indici, analizzare chi è che vende e chi è che compra, e solo dopo dare indicazioni sulle “ragioni” o le cause dei movimenti finanziari.
Per questo vi proponiamo, qui di seguito, l'ottima analisi di Morya Longo, apparsa su IlSole24Ore di oggi, che riporta per l'appunto le “cause” in un mix di “speculazione internazionale e di indifferenza italiana”. Un'analisi che potrebbe essere estesa anche alla vendita di pezzi decisivi dell'industria manifatturiera di questo paese e che descrive plasticamente l'ignavia degli “imprenditori” di questo paese, preoccupati solo di “liberarsi” della fatica del produrre e di sopravvivere – ognun per sé – di speculazione finanziaria, appalti e subappalti pubblici, “concessioni” in regime di monopolio (Benetton che controlla Autostrade, ecc).
Che sia il quotidiano di Confindustria a smontare la vulgata di regime non deve sorprendere. Da un lato, il quotidiano è compulsato soprattutto da addetti ai lavori (operatori finanziari, proprietari di aziende, giornalisti economici, ecc), quindi abbastanza marginale rispetto alla grande platea degli elettori. Dall'altra, proprio perché giornale “dell'impresa”, deve dare notizie certe per chi deve decidere – su quella base – strategie di investimento.
Morya Longo
Un misto di speculazione internazionale e di indifferenza italiana. Di hedge fund ribassisti e di investitori nazionali ormai meno nazionalisti. C’è un po’ di tutto dietro la turbolenza dello spread. Il Sole 24 Ore, incrociando testimonianze e dati, è in grado di rivelare i retroscena dell’attacco all’Italia.
Il referendum è solo il pretesto: nella realtà lo spread si è allargato fino a quota 190 (e ieri bruscamente ristretto) per una concomitanza di motivi. La Bce, con i suoi acquisti di BTp, è riuscita solo a mitigare la speculazione. Ma – per la prima volta da quando Draghi ha avviato il quantitative easing – non ad annullarla. Ecco, numeri e testimonianze alla mano, perché.
Hedge fund ribassisti
A pesare sui BTp è innanzitutto la speculazione internazionale, ad opera principalmente degli hedge fund. I gestori di questi fondi hanno infatti individuato nel debito pubblico italiano (e nelle banche) la gallina dalle uova d’oro con cui fare un po’ di utili in vista del referendum: basta puntare sul ribasso dei prezzi e sul rialzo dei rendimenti sfruttando l’incertezza generale. E così, soprattutto attraverso i futures, il tiro a segno sui BTp è diventato di moda almeno da ottobre.
Secondo Alok Modi, capo della sala di trading di bond governativi di Morgan Stanley, su una scala da uno a 10 gli hedge fund sono ribassisti sui BTp ad un livello di nove. O meglio: questa era la loro posizione fino a settimana scorsa. Ieri è verosimile – come ipotizza Mattia Nocera che segue i fondi del gruppo Banca del Ceresio – che siano scattate un po’ di ricoperture: per questo il mercato è rimbalzato così velocemente. Ma il trend resta quello ribassista: come si vede nel grafico a fianco, è da ottobre che gli hedge fund montano posizioni «corte» (cioè ribassiste) sui BTp.
Alla speculazione opportunistica del momento, poi, si è associato un tono prudente degli altri investitori internazionali. Anche quelli non speculativi: banche, assicurazioni, fondi di lungo termine. Nell’incertezza pre-referendaria (incertezza, non attesa di catastrofi), in tanti hanno ridotto o limato l’esposizione sull’Italia. «In fondo il mondo è grande, non abbiano alcun motivo per esporci sui titoli di Stato italiani in un momento così delicato...» confessa il responsabile mercati di una grande banca internazionale. Morale: dall’estero tanti speculano contro i BTp e tanti altri si tengono alla finestra. Il saldo finale è quindi negativo per i nostri titoli di Stato.
Manca il sostegno domestico
Nelle passate crisi dello spread, a partire da quella del 2011, a fronte di una forte speculazione internazionale aveva fatto da contrappeso una altrettanto forte risposta da parte del sistema finanziario italiano. Tutti, cioè banche, assicurazioni e risparmiatori, avevano comprato BTp a quei tempi. Dal novembre 2011 (quando scoppiò la crisi dello spread) all’ottobre 2012 le banche italiane hanno per esempio acquistato titoli di Stato italiani per un ammontare di circa 140 miliardi di euro. E un comportamento analogo l’avevano avuto le assicurazioni.
Ora, invece, le banche italiane non sono più così interventiste. Anzi: gli ultimi dati di Bankitalia (aggiornati solo a settembre) dimostrano che stanno lievemente vendendo: se a giugno 2016 avevano in bilancio titoli di Stato italiani per 414 miliardi, a settembre la posizione era stata ridimensionata a 394 miliardi. Secondo le testimonianze che arrivano dal mercato, anche le assicurazioni italiane sono oggi meno disposte a sostenere i BTp. Per molteplici motivi. E un discorso analogo si può fare per i piccoli risparmiatori, ormai – a causa di tassi d’interesse bassi – disaffezionati ai titoli di Stato. Le loro scelte si stanno dirottando più sui fondi, che investono sempre più su mercati esteri. Bene inteso: gli investitori italiani restano “stabilizzatori” fondamentali per i BTp. Ma sono meno interventisti di un tempo. E questo pesa.
A confermarlo è Target 2, cioè il grande “registratore di cassa” che monitora i movimenti di capitali tra un Paese e l’altro dell’area euro. L’Italia ha infatti su Target 2 un passivo record di 354 miliardi di euro. Il motivo principale è tecnico, perché legato alle modalità di esecuzione del «quantitative easing». Ma secondo molti esperti, dietro il tecnicismo c’è anche una reale uscita di capitali dall’Italia ad opera principalmente di investitori italiani: «I soldi stampati da Draghi con il Qe sono stati usati dagli italiani per comprare soprattutto titoli all’estero», spiega Fabio Balboni, economista di Hsbc, osservando Target 2. Morale: la speculazione internazionale è arrivata in un momento in cui gli investitori italiani – per vari motivi – non sostengono più i titoli di Stato della Penisola come facevano un tempo.
Il possibile rimbalzo
Gli acquisti della Bce hanno ovviamente mitigato la speculazione. Infatti lo spread è ben lontano dai livelli del 2011 e del 2012. Eppure, per la prima volta da quando esiste il quantitative easing, Draghi non è riuscito ad annullarla del tutto. Questo deve far riflettere. E, forse, anche far bene sperare: perché la speculazione ribassista non può durare in eterno, soprattutto – come accaduto ieri – se la Bce fa sentire la voce più forte.
Molti addetti ai lavori non sarebbero infatti sorpresi se dopo il referendum, anche in caso di vittoria del «no», dopo un’iniziale turbolenza il mercato dei BTp rimbalzasse: perché, seguendo il motto «buy on rumor sell on news», molti hedge fund potrebbero chiudere o ridimensionare le loro posizioni ribassiste. Ieri già c’è stato un assaggio di rimbalzo. Certo, il «day after» dipenderà molto dall’aumento del Montepaschi e da cosa farà la Bce l’8 dicembre. Ma Brexit e Trump una cosa l’hanno insegnata: la speculazione è mutevole.
Fonte
Come sempre, però, anche in quella fogna bisogna saper distinguere chi fa seriamente il proprio mestiere di giornalista. Che ovviamente, in questo caso specifico, significa andare a guardare cosa sta effettivamente accadendo sui mercati finanziari, controllare diversi indici, analizzare chi è che vende e chi è che compra, e solo dopo dare indicazioni sulle “ragioni” o le cause dei movimenti finanziari.
Per questo vi proponiamo, qui di seguito, l'ottima analisi di Morya Longo, apparsa su IlSole24Ore di oggi, che riporta per l'appunto le “cause” in un mix di “speculazione internazionale e di indifferenza italiana”. Un'analisi che potrebbe essere estesa anche alla vendita di pezzi decisivi dell'industria manifatturiera di questo paese e che descrive plasticamente l'ignavia degli “imprenditori” di questo paese, preoccupati solo di “liberarsi” della fatica del produrre e di sopravvivere – ognun per sé – di speculazione finanziaria, appalti e subappalti pubblici, “concessioni” in regime di monopolio (Benetton che controlla Autostrade, ecc).
Che sia il quotidiano di Confindustria a smontare la vulgata di regime non deve sorprendere. Da un lato, il quotidiano è compulsato soprattutto da addetti ai lavori (operatori finanziari, proprietari di aziende, giornalisti economici, ecc), quindi abbastanza marginale rispetto alla grande platea degli elettori. Dall'altra, proprio perché giornale “dell'impresa”, deve dare notizie certe per chi deve decidere – su quella base – strategie di investimento.
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Dietro le quinte dello spread: ecco chi specula contro l’Italia
Morya Longo
Un misto di speculazione internazionale e di indifferenza italiana. Di hedge fund ribassisti e di investitori nazionali ormai meno nazionalisti. C’è un po’ di tutto dietro la turbolenza dello spread. Il Sole 24 Ore, incrociando testimonianze e dati, è in grado di rivelare i retroscena dell’attacco all’Italia.
Il referendum è solo il pretesto: nella realtà lo spread si è allargato fino a quota 190 (e ieri bruscamente ristretto) per una concomitanza di motivi. La Bce, con i suoi acquisti di BTp, è riuscita solo a mitigare la speculazione. Ma – per la prima volta da quando Draghi ha avviato il quantitative easing – non ad annullarla. Ecco, numeri e testimonianze alla mano, perché.
Hedge fund ribassisti
A pesare sui BTp è innanzitutto la speculazione internazionale, ad opera principalmente degli hedge fund. I gestori di questi fondi hanno infatti individuato nel debito pubblico italiano (e nelle banche) la gallina dalle uova d’oro con cui fare un po’ di utili in vista del referendum: basta puntare sul ribasso dei prezzi e sul rialzo dei rendimenti sfruttando l’incertezza generale. E così, soprattutto attraverso i futures, il tiro a segno sui BTp è diventato di moda almeno da ottobre.
Secondo Alok Modi, capo della sala di trading di bond governativi di Morgan Stanley, su una scala da uno a 10 gli hedge fund sono ribassisti sui BTp ad un livello di nove. O meglio: questa era la loro posizione fino a settimana scorsa. Ieri è verosimile – come ipotizza Mattia Nocera che segue i fondi del gruppo Banca del Ceresio – che siano scattate un po’ di ricoperture: per questo il mercato è rimbalzato così velocemente. Ma il trend resta quello ribassista: come si vede nel grafico a fianco, è da ottobre che gli hedge fund montano posizioni «corte» (cioè ribassiste) sui BTp.
Alla speculazione opportunistica del momento, poi, si è associato un tono prudente degli altri investitori internazionali. Anche quelli non speculativi: banche, assicurazioni, fondi di lungo termine. Nell’incertezza pre-referendaria (incertezza, non attesa di catastrofi), in tanti hanno ridotto o limato l’esposizione sull’Italia. «In fondo il mondo è grande, non abbiano alcun motivo per esporci sui titoli di Stato italiani in un momento così delicato...» confessa il responsabile mercati di una grande banca internazionale. Morale: dall’estero tanti speculano contro i BTp e tanti altri si tengono alla finestra. Il saldo finale è quindi negativo per i nostri titoli di Stato.
Manca il sostegno domestico
Nelle passate crisi dello spread, a partire da quella del 2011, a fronte di una forte speculazione internazionale aveva fatto da contrappeso una altrettanto forte risposta da parte del sistema finanziario italiano. Tutti, cioè banche, assicurazioni e risparmiatori, avevano comprato BTp a quei tempi. Dal novembre 2011 (quando scoppiò la crisi dello spread) all’ottobre 2012 le banche italiane hanno per esempio acquistato titoli di Stato italiani per un ammontare di circa 140 miliardi di euro. E un comportamento analogo l’avevano avuto le assicurazioni.
Ora, invece, le banche italiane non sono più così interventiste. Anzi: gli ultimi dati di Bankitalia (aggiornati solo a settembre) dimostrano che stanno lievemente vendendo: se a giugno 2016 avevano in bilancio titoli di Stato italiani per 414 miliardi, a settembre la posizione era stata ridimensionata a 394 miliardi. Secondo le testimonianze che arrivano dal mercato, anche le assicurazioni italiane sono oggi meno disposte a sostenere i BTp. Per molteplici motivi. E un discorso analogo si può fare per i piccoli risparmiatori, ormai – a causa di tassi d’interesse bassi – disaffezionati ai titoli di Stato. Le loro scelte si stanno dirottando più sui fondi, che investono sempre più su mercati esteri. Bene inteso: gli investitori italiani restano “stabilizzatori” fondamentali per i BTp. Ma sono meno interventisti di un tempo. E questo pesa.
A confermarlo è Target 2, cioè il grande “registratore di cassa” che monitora i movimenti di capitali tra un Paese e l’altro dell’area euro. L’Italia ha infatti su Target 2 un passivo record di 354 miliardi di euro. Il motivo principale è tecnico, perché legato alle modalità di esecuzione del «quantitative easing». Ma secondo molti esperti, dietro il tecnicismo c’è anche una reale uscita di capitali dall’Italia ad opera principalmente di investitori italiani: «I soldi stampati da Draghi con il Qe sono stati usati dagli italiani per comprare soprattutto titoli all’estero», spiega Fabio Balboni, economista di Hsbc, osservando Target 2. Morale: la speculazione internazionale è arrivata in un momento in cui gli investitori italiani – per vari motivi – non sostengono più i titoli di Stato della Penisola come facevano un tempo.
Il possibile rimbalzo
Gli acquisti della Bce hanno ovviamente mitigato la speculazione. Infatti lo spread è ben lontano dai livelli del 2011 e del 2012. Eppure, per la prima volta da quando esiste il quantitative easing, Draghi non è riuscito ad annullarla del tutto. Questo deve far riflettere. E, forse, anche far bene sperare: perché la speculazione ribassista non può durare in eterno, soprattutto – come accaduto ieri – se la Bce fa sentire la voce più forte.
Molti addetti ai lavori non sarebbero infatti sorpresi se dopo il referendum, anche in caso di vittoria del «no», dopo un’iniziale turbolenza il mercato dei BTp rimbalzasse: perché, seguendo il motto «buy on rumor sell on news», molti hedge fund potrebbero chiudere o ridimensionare le loro posizioni ribassiste. Ieri già c’è stato un assaggio di rimbalzo. Certo, il «day after» dipenderà molto dall’aumento del Montepaschi e da cosa farà la Bce l’8 dicembre. Ma Brexit e Trump una cosa l’hanno insegnata: la speculazione è mutevole.
Fonte
L’Avana ricorda Fidel
Non ci sembra necessario dover aggiungere molte parole, oltre a sottolineare come la luce cambi, dal giorno alla notte, senza che le strade si svuotino.
Ma è giusto ricordare come neppure gli inviati della Rai, scelti accuratamente tra i più servizievoli, siano riusciti a cavar fuori una sola dichiarazione "anti" dalla strada. O sono stati sfortunati, oppure Fidel era amato. Molto più di qualsiasi "leader" da queste parti...
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Ma è giusto ricordare come neppure gli inviati della Rai, scelti accuratamente tra i più servizievoli, siano riusciti a cavar fuori una sola dichiarazione "anti" dalla strada. O sono stati sfortunati, oppure Fidel era amato. Molto più di qualsiasi "leader" da queste parti...
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La fuga di Janukovic di fronte a majdan
Si è tenuto ieri a Minsk l'ennesimo incontro del cosiddetto Quartetto normanno, a livello di Ministri degli esteri di Francia, Germania, Russia e Ucraina. Ancora una volta, la discussione tra Jean-Marc Ayrault, Frank-Walter Steinmeier, Sergej Lavrov e Pavel Klimkin, a proposito della road map per una soluzione pacifica nel Donbass, è finita in un vicolo cieco.
Nelle stesse ore, l'ex presidente ucraino Viktor Janukovič teneva una conferenza stampa presso la sede della Tass di Rostov sul Don, per illustrare le linee essenziali delle sei ore di videoconferenza durante le quali aveva esposto, ai “giudici” di Kiev, la sua versione su quanto avvenuto a majdan, prima e dopo il febbraio 2014, fino alla sua fuga dall'Ucraina, per sfuggire a una fine quasi certa, sua e della sua famiglia.
Inizialmente prevista per il 25 novembre, l'udienza era stata rinviata a causa dei gruppi neonazisti che assediavano il tribunale, minacciando di “farla finita” con i miliziani del Berkut che, agli arresti, avrebbero dovuto esservi condotti per il processo. Proprio a proposito del Berkut, che i golpisti accusano per i morti di majdan, Janukovič ha dichiarato che, al contrario, i primi a incitare al ricorso alle armi furono gli attuali caporioni di Kiev. Ma non ha fatto nomi durante il processo (li ha fatti solamente dopo, durante la conferenza stampa: Parubij, Turčinov, Pašinskij, Parasjuk, Kličkò, Škirjak, Navajličenko, il generale Gvozd e, primo tra i primi, l'attuale procuratore capo ucraino Jurij Lutsenko) e così l'elettrotecnico Jurij Lutsenko è immediatamente passato all'attacco e ieri l'altro ha accusato Janukovič di “tradimento, complicità con le autorità russe allo scopo di cambiare i confini ucraini e scatenare una guerra di aggressione". L'ex presidente ha anche ribadito di non aver mai rinunciato all'idea della “eurointegrazione”: anzi, nel corso della successiva conferenza stampa, ha tenuto a precisare che “noi abbiamo condotto una politica di eurointegrazione forse più attivamente di qualsiasi altro governo in tutti gli anni dell'indipendenza”!
Chiamato a testimoniare sui fatti del febbraio 2014, Janukovič ha dichiarato di non essersi mai svestito dei poteri presidenziali, che la risoluzione della Rada del 22 febbraio 2014 sulla "volontaria dismissione dei poteri presidenziali", è illegale, perché egli, a quel tempo, si trovava ancora in territorio ucraino; inoltre, le sparatorie a piazza Indipendenza nel febbraio 2014 furono un'operazione pianificata per rovesciare il governo legittimo e in esse furono coinvolti i partiti ultradestri e oligarchici, con Pravyj Sektor e Svoboda che si inserirono nella cosiddetta “autodifesa di majdan” e dettero il via alle violenze. Ma, soprattutto, l'ex presidente ha detto di non aver dato l'ordine di sparare e, casomai, il Berkut può essere accusato di eccesso di potere, anche se egli non è d'accordo a indicare la milizia, come fanno ora i “giudici” di Kiev, quale unica responsabile per quegli avvenimenti.
Proprio nell'incolpare il Berkut di eccesso di potere, scriveva però ieri Oleg Tsarëv su news-front.info, Janukovič ha definitivamente dimostrato la propria “disutilità e io ho provato vergogna” per il suo comportamento durante l'udienza. Al contrario, afferma Tsarëv, “lui, come testimone per la difesa, avrebbe dovuto fare una dichiarazione in difesa dei ragazzi che proteggevano non solo il paese, ma lui personalmente. Mi sono vergognato per lui, che ha chiesto perdono all'indirizzo sbagliato. Avrebbe dovuto chiedere perdono alle famiglie dei Berkut morti, a cui non furono date le armi, nemmeno dopo che erano stati assaltati i depositi di armi nelle caserme del Servizio di sicurezza e del Ministero degli interni. Avrebbe dovuto chiedere perdono a tutti coloro che sono morti dopo la vittoria di majdan, ai bruciati vivi nella Casa dei sindacati a Odessa, al Donbass bombardato, alle migliaia di prigionieri politici. Doveva chiedere perdono a dio e al popolo per non aver stabilito l'ordine nel paese: e avrebbe potuto farlo, come Allende o Assad”.
Dunque, dice Tsarëv, invano a Kiev si temeva il processo: si temeva non che Janukovič sarebbe stato interrogato, ma che egli avrebbe interrogato i suoi accusatori, che avrebbe fatto i nomi dei responsabili di majdan, portando alle estreme conseguenze la lotta a coltello per il potere che, appena poche settimane fa, faceva temere Porošenko per un nuovo golpe contro di lui. E invece Janukovič si è limitato a balbettare che “dei cecchini che sparavano dagli edifici controllati dall'opposizione io lo appresi dai media... non ho prove... non posso fare nessun nome concreto... le azioni del Berkut furono per me una completa sorpresa...”.
Il processo, che poteva trasformarsi “in un giudizio sul governo di Kiev, è sprofondato invano. Janukovič vi è apparso non come un capo di stato che condanna impostori, ladri e assassini, ma come un piccolo criminale, che fa di tutto per proteggere se stesso. La cosa peggiore è che, con il suo comportamento, ha dimostrato serietà e rispetto verso il tribunale delle nuove autorità ucraine”.
Ha rincarato la dose il segretario del CC del Partito Comunista della DNR, Boris Litvinov, secondo cui è una vergogna che l'ex capo dello stato abbia scaricato la responsabilità per le azioni delle forze di sicurezza solo su di esse e il loro comando ed è stato “disgustoso ascoltare le spiegazioni biascicate dell'ex presidente”. Il Berkut stava adempiendo ai propri doveri, ha detto Litvinov a Novorosinform, ma “quella pappa gelatinosa che abbiamo udito da Janukovič durante l'interrogatorio, ha suscitato disgusto”. Anche l'ex Ministro degli interni “Vitalij Zakharčenko, nella deposizione, ha ricordato come il Berkut, a volte senza cibo, sotto pressione, nelle condizioni più difficili, avesse fatto il proprio dovere. E il fatto che invece sia stato così tradito dall'ex presidente, è una vergogna per l'Ucraina. Oggi, nessuno lo considera più presidente: nemici o alleati, nessuno". Litvinov ha portato l'esempio di Fidel: “ecco un presidente! Anche Allende, quando i colonnelli neri iniziarono il golpe, egli, insieme ai difensori dell'ordine costituzionale, prese il mitra e si difese. Anche oggi, Allende rimane presidente. Janukovič ha perso il diritto di chiamarsi presidente".
Ma Njura Berg, su Antifascist, sposta un po' i termini della questione. Alcuni odiano Janukovič “per non aver disperso majdan, per esser fuggito” scrive; “altri perché personificava gli aspetti da essi più odiati, anche se proprio essi lo dovrebbero adorare, per non aver gettato olio sul fuoco, non averli dispersi con la spada, esser scappato e aver donato loro il paese”. Ma, a ben guardare, scrive Berg, “l'ideologia di trasformare l'Ucraina nell'Antirussia era stata coltivata abilmente, per radicarla tra le masse. Avrebbe potuto Janukovič far girare indietro il tritacarne? Sì, avrebbe potuto liquidare qualche manager, spostarne altri, ma le radici erano già solide e quella ideologia si era già impiantata nelle menti”. E, per quanto riguarda majdan, “avrebbe potuto disperderla, come ci si aspettava, con mano ferma, con la forza, con le armi. Ma, e poi? Pensate davvero che tutto si sarebbe calmato e i radicali sarebbero pacificamente andati a disegnare svastiche sui loro cuscini? Poteva egli fermare il tutto, quando in Galizia già si saccheggiavano i depositi di armi? In teoria, sì, introducendo là l'Azione antiterrorismo. Ma, gli erano fedeli le forze di sicurezza? E i suoi compagni, erano con lui? Conoscete le risposte. Anche quando accettò di tenere elezioni nel dicembre 2014, maidan non fu annullata. Cartagine doveva essere distrutta, e fu distrutta. I legami con la Russia dovevano essere spezzati e lo furono. L'Ucraina doveva diventare un vassallo assoluto dell'Ovest e lo divenne. La gravidanza durava da 25 anni e si concluse con un mostro chiamato majdan. E' accaduto esattamente ciò che doveva accadere; e il fatto che Janukovič si sia comportato come un codardo avido, è solo un dettaglio; che, tuttavia, non lo rende migliore di un millimetro”. Il progetto “Antirussia”, conclude Berg, è stato “scritto in paesi lontani. I suoi ideatori vi si erano ben preparati e, per anni, avevano alimentato a sazietà i direttori esecutivi e la massa degli esecutori. Avrebbe potuto resistere la nostra Cartagine? Qualcuno avrebbe potuto infrangere questo piano gigantesco?”.
Se il quadro così disegnato da Berg ha fondamento per la parte oggettiva della questione, rimane però la constatazione che, per molti versi e con atteggiamenti diversi nella leadership ucraina di allora, la tragedia poi toccata in sorte al Donbass avrebbe potuto essere evitata e decine di migliaia di civili non cadere sotto il piombo dei battaglioni neonazisti. Anche per questo, la quasi totalità degli abitanti della DNR, secondo un'indagine di dnr-news.com, ha solo un'opinione negativa dell'ex presidente, che non ha armato il Berkut per disperdere i nazisti di majdan, è poi fuggito lasciando il Donbass alla mercé di quei nazisti e oggi parla di una riunione del Donbass all'Ucraina.
Una riunione che, certo, a Kiev intendono alla loro maniera; alla maniera dell'ex deputato Eduard Leonov, che propone di isolare in speciali campi di concentramento gli abitanti del Donbass che simpatizzano per le Repubbliche popolari, per “rieducarli”.
Alla faccia della eurodemocrazia.
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Nelle stesse ore, l'ex presidente ucraino Viktor Janukovič teneva una conferenza stampa presso la sede della Tass di Rostov sul Don, per illustrare le linee essenziali delle sei ore di videoconferenza durante le quali aveva esposto, ai “giudici” di Kiev, la sua versione su quanto avvenuto a majdan, prima e dopo il febbraio 2014, fino alla sua fuga dall'Ucraina, per sfuggire a una fine quasi certa, sua e della sua famiglia.
Inizialmente prevista per il 25 novembre, l'udienza era stata rinviata a causa dei gruppi neonazisti che assediavano il tribunale, minacciando di “farla finita” con i miliziani del Berkut che, agli arresti, avrebbero dovuto esservi condotti per il processo. Proprio a proposito del Berkut, che i golpisti accusano per i morti di majdan, Janukovič ha dichiarato che, al contrario, i primi a incitare al ricorso alle armi furono gli attuali caporioni di Kiev. Ma non ha fatto nomi durante il processo (li ha fatti solamente dopo, durante la conferenza stampa: Parubij, Turčinov, Pašinskij, Parasjuk, Kličkò, Škirjak, Navajličenko, il generale Gvozd e, primo tra i primi, l'attuale procuratore capo ucraino Jurij Lutsenko) e così l'elettrotecnico Jurij Lutsenko è immediatamente passato all'attacco e ieri l'altro ha accusato Janukovič di “tradimento, complicità con le autorità russe allo scopo di cambiare i confini ucraini e scatenare una guerra di aggressione". L'ex presidente ha anche ribadito di non aver mai rinunciato all'idea della “eurointegrazione”: anzi, nel corso della successiva conferenza stampa, ha tenuto a precisare che “noi abbiamo condotto una politica di eurointegrazione forse più attivamente di qualsiasi altro governo in tutti gli anni dell'indipendenza”!
Chiamato a testimoniare sui fatti del febbraio 2014, Janukovič ha dichiarato di non essersi mai svestito dei poteri presidenziali, che la risoluzione della Rada del 22 febbraio 2014 sulla "volontaria dismissione dei poteri presidenziali", è illegale, perché egli, a quel tempo, si trovava ancora in territorio ucraino; inoltre, le sparatorie a piazza Indipendenza nel febbraio 2014 furono un'operazione pianificata per rovesciare il governo legittimo e in esse furono coinvolti i partiti ultradestri e oligarchici, con Pravyj Sektor e Svoboda che si inserirono nella cosiddetta “autodifesa di majdan” e dettero il via alle violenze. Ma, soprattutto, l'ex presidente ha detto di non aver dato l'ordine di sparare e, casomai, il Berkut può essere accusato di eccesso di potere, anche se egli non è d'accordo a indicare la milizia, come fanno ora i “giudici” di Kiev, quale unica responsabile per quegli avvenimenti.
Proprio nell'incolpare il Berkut di eccesso di potere, scriveva però ieri Oleg Tsarëv su news-front.info, Janukovič ha definitivamente dimostrato la propria “disutilità e io ho provato vergogna” per il suo comportamento durante l'udienza. Al contrario, afferma Tsarëv, “lui, come testimone per la difesa, avrebbe dovuto fare una dichiarazione in difesa dei ragazzi che proteggevano non solo il paese, ma lui personalmente. Mi sono vergognato per lui, che ha chiesto perdono all'indirizzo sbagliato. Avrebbe dovuto chiedere perdono alle famiglie dei Berkut morti, a cui non furono date le armi, nemmeno dopo che erano stati assaltati i depositi di armi nelle caserme del Servizio di sicurezza e del Ministero degli interni. Avrebbe dovuto chiedere perdono a tutti coloro che sono morti dopo la vittoria di majdan, ai bruciati vivi nella Casa dei sindacati a Odessa, al Donbass bombardato, alle migliaia di prigionieri politici. Doveva chiedere perdono a dio e al popolo per non aver stabilito l'ordine nel paese: e avrebbe potuto farlo, come Allende o Assad”.
Dunque, dice Tsarëv, invano a Kiev si temeva il processo: si temeva non che Janukovič sarebbe stato interrogato, ma che egli avrebbe interrogato i suoi accusatori, che avrebbe fatto i nomi dei responsabili di majdan, portando alle estreme conseguenze la lotta a coltello per il potere che, appena poche settimane fa, faceva temere Porošenko per un nuovo golpe contro di lui. E invece Janukovič si è limitato a balbettare che “dei cecchini che sparavano dagli edifici controllati dall'opposizione io lo appresi dai media... non ho prove... non posso fare nessun nome concreto... le azioni del Berkut furono per me una completa sorpresa...”.
Il processo, che poteva trasformarsi “in un giudizio sul governo di Kiev, è sprofondato invano. Janukovič vi è apparso non come un capo di stato che condanna impostori, ladri e assassini, ma come un piccolo criminale, che fa di tutto per proteggere se stesso. La cosa peggiore è che, con il suo comportamento, ha dimostrato serietà e rispetto verso il tribunale delle nuove autorità ucraine”.
Ha rincarato la dose il segretario del CC del Partito Comunista della DNR, Boris Litvinov, secondo cui è una vergogna che l'ex capo dello stato abbia scaricato la responsabilità per le azioni delle forze di sicurezza solo su di esse e il loro comando ed è stato “disgustoso ascoltare le spiegazioni biascicate dell'ex presidente”. Il Berkut stava adempiendo ai propri doveri, ha detto Litvinov a Novorosinform, ma “quella pappa gelatinosa che abbiamo udito da Janukovič durante l'interrogatorio, ha suscitato disgusto”. Anche l'ex Ministro degli interni “Vitalij Zakharčenko, nella deposizione, ha ricordato come il Berkut, a volte senza cibo, sotto pressione, nelle condizioni più difficili, avesse fatto il proprio dovere. E il fatto che invece sia stato così tradito dall'ex presidente, è una vergogna per l'Ucraina. Oggi, nessuno lo considera più presidente: nemici o alleati, nessuno". Litvinov ha portato l'esempio di Fidel: “ecco un presidente! Anche Allende, quando i colonnelli neri iniziarono il golpe, egli, insieme ai difensori dell'ordine costituzionale, prese il mitra e si difese. Anche oggi, Allende rimane presidente. Janukovič ha perso il diritto di chiamarsi presidente".
Ma Njura Berg, su Antifascist, sposta un po' i termini della questione. Alcuni odiano Janukovič “per non aver disperso majdan, per esser fuggito” scrive; “altri perché personificava gli aspetti da essi più odiati, anche se proprio essi lo dovrebbero adorare, per non aver gettato olio sul fuoco, non averli dispersi con la spada, esser scappato e aver donato loro il paese”. Ma, a ben guardare, scrive Berg, “l'ideologia di trasformare l'Ucraina nell'Antirussia era stata coltivata abilmente, per radicarla tra le masse. Avrebbe potuto Janukovič far girare indietro il tritacarne? Sì, avrebbe potuto liquidare qualche manager, spostarne altri, ma le radici erano già solide e quella ideologia si era già impiantata nelle menti”. E, per quanto riguarda majdan, “avrebbe potuto disperderla, come ci si aspettava, con mano ferma, con la forza, con le armi. Ma, e poi? Pensate davvero che tutto si sarebbe calmato e i radicali sarebbero pacificamente andati a disegnare svastiche sui loro cuscini? Poteva egli fermare il tutto, quando in Galizia già si saccheggiavano i depositi di armi? In teoria, sì, introducendo là l'Azione antiterrorismo. Ma, gli erano fedeli le forze di sicurezza? E i suoi compagni, erano con lui? Conoscete le risposte. Anche quando accettò di tenere elezioni nel dicembre 2014, maidan non fu annullata. Cartagine doveva essere distrutta, e fu distrutta. I legami con la Russia dovevano essere spezzati e lo furono. L'Ucraina doveva diventare un vassallo assoluto dell'Ovest e lo divenne. La gravidanza durava da 25 anni e si concluse con un mostro chiamato majdan. E' accaduto esattamente ciò che doveva accadere; e il fatto che Janukovič si sia comportato come un codardo avido, è solo un dettaglio; che, tuttavia, non lo rende migliore di un millimetro”. Il progetto “Antirussia”, conclude Berg, è stato “scritto in paesi lontani. I suoi ideatori vi si erano ben preparati e, per anni, avevano alimentato a sazietà i direttori esecutivi e la massa degli esecutori. Avrebbe potuto resistere la nostra Cartagine? Qualcuno avrebbe potuto infrangere questo piano gigantesco?”.
Se il quadro così disegnato da Berg ha fondamento per la parte oggettiva della questione, rimane però la constatazione che, per molti versi e con atteggiamenti diversi nella leadership ucraina di allora, la tragedia poi toccata in sorte al Donbass avrebbe potuto essere evitata e decine di migliaia di civili non cadere sotto il piombo dei battaglioni neonazisti. Anche per questo, la quasi totalità degli abitanti della DNR, secondo un'indagine di dnr-news.com, ha solo un'opinione negativa dell'ex presidente, che non ha armato il Berkut per disperdere i nazisti di majdan, è poi fuggito lasciando il Donbass alla mercé di quei nazisti e oggi parla di una riunione del Donbass all'Ucraina.
Una riunione che, certo, a Kiev intendono alla loro maniera; alla maniera dell'ex deputato Eduard Leonov, che propone di isolare in speciali campi di concentramento gli abitanti del Donbass che simpatizzano per le Repubbliche popolari, per “rieducarli”.
Alla faccia della eurodemocrazia.
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Ultime 72 ore di follia, poi le urne daranno il loro verdetto. La sensazione di oppressione scomparirà, facendo finire un tam tam bulimico dei renziani su tutte le televisioni principali e sui giornali di regime. Nel crescendo di endorsement per il “sì”, comunque, non si può evitare di sottolineare gli autentici autogol. Sorvoliamo su quello a fondo boccaccesco del povero “Rapo” Elkann, che alla fine sarà il meno dannoso per gli eversori della Costituzione. Più illuminante è invece il convinto sostegno esibito anche ieri dai maggiorenti tedeschi (il luciferino ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble e quello degli esteri Frank-Walter Steinmeier). Avevamo scritto nelle scorse settimane che le sortite “antieuropee” di Renzi (vedi qui e qui) intorno alla legge di stabilità erano tutta manfrina, nella speranza di guadagnare qualche consenso in campo leghista, forzitaliota o pentastellato. In realtà a Bruxelles sanno benissimo di avere il pieno controllo su quel che il governo italiano va facendo, fin nei dettagli. Sanno, insomma, che fino a domenica Renzi dovrà promettere mari e monti, la pioggia insieme al sole, l'abbondanza e i conti in ordine. Ma a loro – al contrario dei servi della stampa “locale” – non sfugge che – per esempio – per coprire gli strombazzati “85 euro” di aumento salariale per il pubblico impiego (un rinnovo contrattuale dopo sette anni, con una cifra ridicola, dal punto di vista dei lavoratori) non è stato inserito niente in bilancio per il 2017. Quei soldi, insomma, non sono previsti. Vedremo dopo domenica se scompariranno del tutto o se l'aumento verrà eventualmente fatto scattare solo nel 2018, ma al momento si tratta solo di chiacchiere. Così come i “30 o 50 euro” per le pensioni più basse, buttati lì per raggirare ancora meglio l'unica fascia di elettori in cui il “sì” risulta leggermente in testa nei sondaggi. Stabilito questo, non è secondario leggere attentamente quanto ha detto Schaeuble. "Se fossi italiano lo voterei, anche se non appartiene alla mia famiglia politica; spero in un successo di Renzi". Una conferma dello schema in vigore un po' in tutta Europa, con le “grösse koalition” tra popolari e “socialdemocratici”, per sostenere governi in linea con le direttive dell'Unione Europea. Una dimostrazione palese di come il termine “sinistra” non significhi letteralmente più nulla. Più precisamente: Renzi "dà l'idea più di altri di poter fare le riforme". E "anche se dovesse andar male, spero che continuerà a cercare altre vie per far avanzare l'Italia. Se perdesse, non vuol dire che si ritirerà dalla vita politica. Continuerà comunque a impegnarsi per migliorare l'Italia". Una investitura piena come terminale della Troika, banale burattino teleguidato per “fare le riforme” indicate a suo tempo – agosto 2011 – nella ormai famosa lettera della Bce firmata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet. Interessante anche il fatto che Schaeuble consideri non transitoria la presenza del contafrottole fiorentino nella politica italiana anche se dovesse trionfare il “NO”, segno della difficoltà di trovare qualcuno in grado di sostituirlo. Non certo per competenza in qualcosa, ma proprio in quanto contafrottole (tecnicamente, in base al banale calcolo dei tempi, Renzi non governa; è sempre impegnato in interviste, taglio di qualche nastro, spettacolini autopubblicitari, dichiarazioni televisive, ecc; a dare disposizioni operative ci deve per forza essere qualcun altro…). In fondo, qualcosa di utile per la Troika l'ha fatto davvero, tra Jobs Act, “buona scuola”, tagli alla sanità, riduzione degli spazi di democrazia rappresentativa, ecc. Una conferma, dal nostro punto di vista, di quanto sia stata corretta e lungimirante la scelta del Coordinamento per il NO sociale di chiudere venerdì sera la campagna referendaria manifestando sotto l'ambasciata tedesca, a Roma, e davanti al consolato di Napoli.
Ultime 72 ore di follia, poi le urne daranno il loro verdetto. La sensazione di oppressione scomparirà, facendo finire un tam tam bulimico dei renziani su tutte le televisioni principali e sui giornali di regime.
Nel crescendo di endorsement per il “sì”, comunque, non si può evitare di sottolineare gli autentici autogol.
Sorvoliamo su quello a fondo boccaccesco del povero “Rapo” Elkann, che alla fine sarà il meno dannoso per gli eversori della Costituzione. Più illuminante è invece il convinto sostegno esibito anche ieri dai maggiorenti tedeschi (il luciferino ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble e quello degli esteri Frank-Walter Steinmeier). Avevamo scritto nelle scorse settimane che le sortite “antieuropee” di Renzi (vedi qui e qui) intorno alla legge di stabilità erano tutta manfrina, nella speranza di guadagnare qualche consenso in campo leghista, forzitaliota o pentastellato. In realtà a Bruxelles sanno benissimo di avere il pieno controllo su quel che il governo italiano va facendo, fin nei dettagli. Sanno, insomma, che fino a domenica Renzi dovrà promettere mari e monti, la pioggia insieme al sole, l'abbondanza e i conti in ordine.
Ma a loro – al contrario dei servi della stampa “locale” – non sfugge che – per esempio – per coprire gli strombazzati “85 euro” di aumento salariale per il pubblico impiego (un rinnovo contrattuale dopo sette anni, con una cifra ridicola, dal punto di vista dei lavoratori) non è stato inserito niente in bilancio per il 2017. Quei soldi, insomma, non sono previsti. Vedremo dopo domenica se scompariranno del tutto o se l'aumento verrà eventualmente fatto scattare solo nel 2018, ma al momento si tratta solo di chiacchiere. Così come i “30 o 50 euro” per le pensioni più basse, buttati lì per raggirare ancora meglio l'unica fascia di elettori in cui il “sì” risulta leggermente in testa nei sondaggi.
Stabilito questo, non è secondario leggere attentamente quanto ha detto Schaeuble.
"Se fossi italiano lo voterei, anche se non appartiene alla mia famiglia politica; spero in un successo di Renzi". Una conferma dello schema in vigore un po' in tutta Europa, con le “grösse koalition” tra popolari e “socialdemocratici”, per sostenere governi in linea con le direttive dell'Unione Europea. Una dimostrazione palese di come il termine “sinistra” non significhi letteralmente più nulla.
Più precisamente: Renzi "dà l'idea più di altri di poter fare le riforme". E "anche se dovesse andar male, spero che continuerà a cercare altre vie per far avanzare l'Italia. Se perdesse, non vuol dire che si ritirerà dalla vita politica. Continuerà comunque a impegnarsi per migliorare l'Italia". Una investitura piena come terminale della Troika, banale burattino teleguidato per “fare le riforme” indicate a suo tempo – agosto 2011 – nella ormai famosa lettera della Bce firmata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet.
Interessante anche il fatto che Schaeuble consideri non transitoria la presenza del contafrottole fiorentino nella politica italiana anche se dovesse trionfare il “NO”, segno della difficoltà di trovare qualcuno in grado di sostituirlo. Non certo per competenza in qualcosa, ma proprio in quanto contafrottole (tecnicamente, in base al banale calcolo dei tempi, Renzi non governa; è sempre impegnato in interviste, taglio di qualche nastro, spettacolini autopubblicitari, dichiarazioni televisive, ecc; a dare disposizioni operative ci deve per forza essere qualcun altro...). In fondo, qualcosa di utile per la Troika l'ha fatto davvero, tra Jobs Act, “buona scuola”, tagli alla sanità, riduzione degli spazi di democrazia rappresentativa, ecc.
Una conferma, dal nostro punto di vista, di quanto sia stata corretta e lungimirante la scelta del Coordinamento per il NO sociale di chiudere venerdì sera la campagna referendaria manifestando sotto l'ambasciata tedesca, a Roma, e davanti al consolato di Napoli.
Fonte
Nel crescendo di endorsement per il “sì”, comunque, non si può evitare di sottolineare gli autentici autogol.
Sorvoliamo su quello a fondo boccaccesco del povero “Rapo” Elkann, che alla fine sarà il meno dannoso per gli eversori della Costituzione. Più illuminante è invece il convinto sostegno esibito anche ieri dai maggiorenti tedeschi (il luciferino ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble e quello degli esteri Frank-Walter Steinmeier). Avevamo scritto nelle scorse settimane che le sortite “antieuropee” di Renzi (vedi qui e qui) intorno alla legge di stabilità erano tutta manfrina, nella speranza di guadagnare qualche consenso in campo leghista, forzitaliota o pentastellato. In realtà a Bruxelles sanno benissimo di avere il pieno controllo su quel che il governo italiano va facendo, fin nei dettagli. Sanno, insomma, che fino a domenica Renzi dovrà promettere mari e monti, la pioggia insieme al sole, l'abbondanza e i conti in ordine.
Ma a loro – al contrario dei servi della stampa “locale” – non sfugge che – per esempio – per coprire gli strombazzati “85 euro” di aumento salariale per il pubblico impiego (un rinnovo contrattuale dopo sette anni, con una cifra ridicola, dal punto di vista dei lavoratori) non è stato inserito niente in bilancio per il 2017. Quei soldi, insomma, non sono previsti. Vedremo dopo domenica se scompariranno del tutto o se l'aumento verrà eventualmente fatto scattare solo nel 2018, ma al momento si tratta solo di chiacchiere. Così come i “30 o 50 euro” per le pensioni più basse, buttati lì per raggirare ancora meglio l'unica fascia di elettori in cui il “sì” risulta leggermente in testa nei sondaggi.
Stabilito questo, non è secondario leggere attentamente quanto ha detto Schaeuble.
"Se fossi italiano lo voterei, anche se non appartiene alla mia famiglia politica; spero in un successo di Renzi". Una conferma dello schema in vigore un po' in tutta Europa, con le “grösse koalition” tra popolari e “socialdemocratici”, per sostenere governi in linea con le direttive dell'Unione Europea. Una dimostrazione palese di come il termine “sinistra” non significhi letteralmente più nulla.
Più precisamente: Renzi "dà l'idea più di altri di poter fare le riforme". E "anche se dovesse andar male, spero che continuerà a cercare altre vie per far avanzare l'Italia. Se perdesse, non vuol dire che si ritirerà dalla vita politica. Continuerà comunque a impegnarsi per migliorare l'Italia". Una investitura piena come terminale della Troika, banale burattino teleguidato per “fare le riforme” indicate a suo tempo – agosto 2011 – nella ormai famosa lettera della Bce firmata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet.
Interessante anche il fatto che Schaeuble consideri non transitoria la presenza del contafrottole fiorentino nella politica italiana anche se dovesse trionfare il “NO”, segno della difficoltà di trovare qualcuno in grado di sostituirlo. Non certo per competenza in qualcosa, ma proprio in quanto contafrottole (tecnicamente, in base al banale calcolo dei tempi, Renzi non governa; è sempre impegnato in interviste, taglio di qualche nastro, spettacolini autopubblicitari, dichiarazioni televisive, ecc; a dare disposizioni operative ci deve per forza essere qualcun altro...). In fondo, qualcosa di utile per la Troika l'ha fatto davvero, tra Jobs Act, “buona scuola”, tagli alla sanità, riduzione degli spazi di democrazia rappresentativa, ecc.
Una conferma, dal nostro punto di vista, di quanto sia stata corretta e lungimirante la scelta del Coordinamento per il NO sociale di chiudere venerdì sera la campagna referendaria manifestando sotto l'ambasciata tedesca, a Roma, e davanti al consolato di Napoli.
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Hillary, Obama e il ricorso controvoglia
di Michele Paris
Nei prossimi giorni, in almeno due o forse tre stati americani partirà un riconteggio dei voti espressi nelle presidenziali dell’8 novembre scorso in conseguenza dei ricorsi presentati dalla candidata alla Casa Bianca per i Verdi, Jill Stein, a cui si è unita in maniera riluttante anche Hillary Clinton. La revisione delle schede e la verifica dell’integrità delle apparecchiature per il voto elettronico non dovrebbero modificare il risultato finale favorevole a Donald Trump, ma la vicenda appare ugualmente interessante per via della reazione alle richieste di riconteggio manifestata dai vertici del Partito Democratico, a cominciare dal presidente uscente Obama.
Già il fatto che l’idea di contestare il risultato del voto in stati come Wisconsin, Michigan e Pennsylvania non sia scaturita da un’iniziativa del Partito Democratico è piuttosto significativo. Infatti, non solo sarebbe ovviamente Hillary a beneficiare di un ipotetico ribaltamento dei risultati, ma l’esiguità del margine di vantaggio nei tre stati rende del tutto legittima una richiesta di riconteggio.
Ancor più, la vigilia delle presidenziali era stata animata da ripetuti avvertimenti al limite dell’isteria da parte della squadra di Hillary e dei suoi sostenitori circa il pericolo di un’intrusione nei sistemi informativi elettorali americani di hacker al servizio del governo russo che avrebbero potuto alterare l’esito del voto a favore di Trump.
Queste preoccupazioni hanno invece lasciato spazio alla conciliazione nei confronti del presidente eletto all’indomani dell’8 novembre, a conferma che la retorica anti-russa delle settimane precedenti serviva soltanto ad alimentare un clima da caccia alle streghe, utile per preparare il campo a nuove provocazioni nei confronti di Mosca.
In ogni caso, le pratiche per il riconteggio delle schede sono state avviate in Wisconsin e in Michigan, dove, secondo i dati ufficiali, Trump ha ottenuto rispettivamente circa 22 mila e 10 mila voti in più di Hillary Clinton su 2,9 milioni e 4,8 milioni di consensi espressi. In entrambi gli stati, tradizionalmente orientati a votare per il candidato Democratico alle presidenziali, il governatore e il procuratore generale sono Repubblicani.
In Pennsylvania, Trump ha invece un vantaggio relativamente più consistente – 68 mila voti su 6 milioni – ma proprio in questo stato sono da tempo segnalati i maggiori rischi di brogli o errori di conteggio, visto che le macchine elettroniche utilizzate non stampano, come altrove, una copia cartacea che riporti il voto espresso dagli elettori. A livello puramente teorico, un ribaltamento dei risultati in tutti e tre gli stati e la consegna dei loro “voti elettorali” a Hillary Clinton sarebbe sufficiente a cambiare l’esito delle presidenziali.
Dubbi sulla regolarità del voto in questi stati erano stati sollevati da un docente di informatica dell’Università del Michigan, Alex Halderman, il quale, pur sostenendo di non disporre di alcuna prova di brogli o manipolazioni, in Wisconsin aveva rilevato uno schema anomalo nei risultati. Nelle contee di questo stato che utilizzano macchine per il voto elettronico, Hillary Clinton aveva infatti ricevuto il 7% di consensi in meno rispetto a quelle dove sono previste schede cartacee e scanner ottici.
Mentre in Wisconsin e in Michigan sono già state completate le procedure per l’attivazione del riconteggio, così come sono stati depositati i fondi per il pagamento delle spese a esso connesse, a carico di coloro che fanno ricorso, in Pennsylvania le norme previste sono più complesse, tanto da mettere in dubbio la possibilità di ottenere una verifica complessiva del voto. Secondo la legge americana, qualsiasi riconteggio deve comunque essere ultimato entro 35 giorni dalle elezioni, in questo caso il 13 dicembre, poiché sei giorni più tardi i “grandi elettori”, che negli USA votano materialmente per il presidente, si riuniscono nei rispettivi stati per ratificare la decisione popolare.
Come già anticipato, l’aspetto più rilevante dal punto di vista politico della questione dei ricorsi è legato però all’atteggiamento dei leader Democratici. Hillary e il suo staff avevano inizialmente ignorato le richieste di riconteggio promosse dalla candidata alla presidenza dei Verdi. La decisione di prendere parte al procedimento è stata presa solo dopo che la vicenda ha assunto carattere nazionale ed è stata ripresa con una certa frequenza dai principali media.
In sostanza, Hillary e i suoi si sono visti quasi costretti a unire le forze con quelle dei sostenitori di Jill Stein per evitare che il movimento popolare anti-Trump, ovviamente favorevole a un riconteggio delle schede negli stati più equilibrati, sfuggisse di mano al Partito Democratico, con il rischio di incanalarsi verso un percorso di protesta alternativo.
Anche se formalmente gli avvocati di Hillary avranno un ruolo nelle pratiche legali in atto, l’ex segretario di Stato e il suo entourage continuano a mostrare freddezza nei confronti della vicenda. Le prese di posizione dell’ormai ex candidata alla Casa Bianca sono affidate per lo più a dichiarazioni stringate, spesso espresse sui social media, del consulente legale, Marc Elias, mentre ciò che prevale negli ambienti Democratici, come ha scritto lunedì la testata on-line Politico, è un senso di “irritazione” nei confronti di Jill Stein e dei Verdi.
Ancora più indicativa, e per certi versi sconcertante, è stata poi la reazione del presidente uscente. Attraverso un esponente della sua amministrazione, Obama qualche giorno fa ha di fatto condannato i ricorsi in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, per affermare la fermezza con cui la Casa Bianca intende accettare “i risultati delle elezioni”, i quali “riflettono accuratamente la volontà del popolo americano”.
Quest’ultima dichiarazione è particolarmente straordinaria, sia per la manciata di voti che separa Trump da Hillary in alcuni stati decisivi sia per il fatto che, in definitiva, solo un quarto degli elettori americani ha alla fine votato per il candidato Repubblicano. Soprattutto, però, la dichiarazione del portavoce di Obama legittima l’agenda di estrema destra del presidente eletto malgrado la sua rivale abbia ottenuto qualcosa come 2,2 milioni di voti in più su scala nazionale.
Un dato simile è decisamente senza precedenti nella storia elettorale americana. Anzi, il margine di vantaggio di Hillary nel voto popolare risulta addirittura superiore a quello fatto registrare da sette candidati vincenti a partire dal 1900 (McKinley nel 1900, Taft nel 1908, Wilson nel 1912 e 1916, Truman nel 1948, Kennedy nel 1960, Nixon nel 1968 e Carter nel 1976).
Se il sistema elettorale americano – antiquato e innegabilmente antidemocratico – consente un esito di questo genere, visto che a decidere sono i “voti elettorali” assegnati da ogni singolo stato, con il risultato di penalizzare quelli più popolosi, un divario simile a favore del candidato perdente dovrebbe quanto meno spingere il partito di quest’ultimo a chiedere al presidente eletto di tenere in seria considerazione la volontà di quella che, a tutti gli effetti, è la volontà della maggioranza numerica degli elettori.
Al contrario, i vertici Democratici si sono affrettati a garantire piena legittimità all’agenda ultra-reazionaria di Trump, a sua volta sentitosi libero di nominare individui di estrema destra a cariche importanti nella sua nuova amministrazione.
Il comportamento di Obama, in particolare, è tanto più incredibile se si considera che solo all’inizio di ottobre l’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale e il Dipartimento della Sicurezza Interna avevano preso la decisione senza precedenti di accusare ufficialmente un governo straniero – quello russo – di interferire in maniera deliberata nel processo elettorale americano per favorire un candidato alla presidenza (Trump).
L’indifferenza e l’ostilità verso le richieste di riconteggio mostrata dai leader Democratici, anche senza entrare nel merito delle effettive possibilità di successo, rivela dunque un aspetto fondamentale che caratterizza la classe dirigente americana, vale a dire la paura di favorire un qualche movimento di opposizione nel paese diretto contro il sistema politico di Washington.
Un timore che, come dimostra il voltafaccia di Obama sulla possibile manipolazione delle elezioni, supera di gran lunga quello di vedere insediarsi alla Casa Bianca un’amministrazione con chiare tendenze fasciste. Obama, d’altra parte, alla chiusura delle urne ha fatto di tutto per garantire una transizione senza scosse, mentre in una conferenza stampa aveva definito lo scontro pre-elettorale tra Democratici e Repubblicani, considerato dai media americani tra i più duri della storia, come una mera “disputa tra le mura domestiche”.
Nelle considerazioni post-voto di Obama, ma anche della stessa Hillary, fermo restando lo shock per una sconfitta che in pochi si attendevano, sugli scrupoli democratici ha prevalso così la necessità di garantire la continuità e la salvaguardia dei grandi interessi che rappresentano l’unico riferimento della politica americana, al di là degli schieramenti.
Le prove di questa realtà sono state molteplici nelle ultime settimane, a cominciare dalle parole della responsabile della campagna elettorale di Trump, Kellyanne Conway, la quale in una recente intervista alla CNN ha rivelato come Trump e Obama stiano “discutendo regolarmente su svariate questioni”.
Ancora più significative sono inoltre due iniziative prese nei giorni scorsi dal presidente uscente per garantire al suo successore fondamenta più solide nella costruzione di uno stato autoritario e la facoltà di espandere l’impegno militare americano all’estero senza troppi vincoli.
Nel quasi disinteresse generale, Obama ha da un lato assegnato maggiore libertà d’azione alle Forze Speciali, svincolandole dal controllo dei vari comandi regionali delle Forze Armate e trasformandole di fatto in squadre clandestine della morte al servizio diretto del Pentagono, e dall’altro ha scartato l’ipotesi di adottare regole più stringenti per l’utilizzo dei droni, consegnando in maniera intatta a Trump uno strumento ben collaudato per proseguire la campagna di assassini mirati virtualmente in ogni angolo del pianeta, incluso il territorio americano.
Fonte
Nei prossimi giorni, in almeno due o forse tre stati americani partirà un riconteggio dei voti espressi nelle presidenziali dell’8 novembre scorso in conseguenza dei ricorsi presentati dalla candidata alla Casa Bianca per i Verdi, Jill Stein, a cui si è unita in maniera riluttante anche Hillary Clinton. La revisione delle schede e la verifica dell’integrità delle apparecchiature per il voto elettronico non dovrebbero modificare il risultato finale favorevole a Donald Trump, ma la vicenda appare ugualmente interessante per via della reazione alle richieste di riconteggio manifestata dai vertici del Partito Democratico, a cominciare dal presidente uscente Obama.
Già il fatto che l’idea di contestare il risultato del voto in stati come Wisconsin, Michigan e Pennsylvania non sia scaturita da un’iniziativa del Partito Democratico è piuttosto significativo. Infatti, non solo sarebbe ovviamente Hillary a beneficiare di un ipotetico ribaltamento dei risultati, ma l’esiguità del margine di vantaggio nei tre stati rende del tutto legittima una richiesta di riconteggio.
Ancor più, la vigilia delle presidenziali era stata animata da ripetuti avvertimenti al limite dell’isteria da parte della squadra di Hillary e dei suoi sostenitori circa il pericolo di un’intrusione nei sistemi informativi elettorali americani di hacker al servizio del governo russo che avrebbero potuto alterare l’esito del voto a favore di Trump.
Queste preoccupazioni hanno invece lasciato spazio alla conciliazione nei confronti del presidente eletto all’indomani dell’8 novembre, a conferma che la retorica anti-russa delle settimane precedenti serviva soltanto ad alimentare un clima da caccia alle streghe, utile per preparare il campo a nuove provocazioni nei confronti di Mosca.
In ogni caso, le pratiche per il riconteggio delle schede sono state avviate in Wisconsin e in Michigan, dove, secondo i dati ufficiali, Trump ha ottenuto rispettivamente circa 22 mila e 10 mila voti in più di Hillary Clinton su 2,9 milioni e 4,8 milioni di consensi espressi. In entrambi gli stati, tradizionalmente orientati a votare per il candidato Democratico alle presidenziali, il governatore e il procuratore generale sono Repubblicani.
In Pennsylvania, Trump ha invece un vantaggio relativamente più consistente – 68 mila voti su 6 milioni – ma proprio in questo stato sono da tempo segnalati i maggiori rischi di brogli o errori di conteggio, visto che le macchine elettroniche utilizzate non stampano, come altrove, una copia cartacea che riporti il voto espresso dagli elettori. A livello puramente teorico, un ribaltamento dei risultati in tutti e tre gli stati e la consegna dei loro “voti elettorali” a Hillary Clinton sarebbe sufficiente a cambiare l’esito delle presidenziali.
Dubbi sulla regolarità del voto in questi stati erano stati sollevati da un docente di informatica dell’Università del Michigan, Alex Halderman, il quale, pur sostenendo di non disporre di alcuna prova di brogli o manipolazioni, in Wisconsin aveva rilevato uno schema anomalo nei risultati. Nelle contee di questo stato che utilizzano macchine per il voto elettronico, Hillary Clinton aveva infatti ricevuto il 7% di consensi in meno rispetto a quelle dove sono previste schede cartacee e scanner ottici.
Mentre in Wisconsin e in Michigan sono già state completate le procedure per l’attivazione del riconteggio, così come sono stati depositati i fondi per il pagamento delle spese a esso connesse, a carico di coloro che fanno ricorso, in Pennsylvania le norme previste sono più complesse, tanto da mettere in dubbio la possibilità di ottenere una verifica complessiva del voto. Secondo la legge americana, qualsiasi riconteggio deve comunque essere ultimato entro 35 giorni dalle elezioni, in questo caso il 13 dicembre, poiché sei giorni più tardi i “grandi elettori”, che negli USA votano materialmente per il presidente, si riuniscono nei rispettivi stati per ratificare la decisione popolare.
Come già anticipato, l’aspetto più rilevante dal punto di vista politico della questione dei ricorsi è legato però all’atteggiamento dei leader Democratici. Hillary e il suo staff avevano inizialmente ignorato le richieste di riconteggio promosse dalla candidata alla presidenza dei Verdi. La decisione di prendere parte al procedimento è stata presa solo dopo che la vicenda ha assunto carattere nazionale ed è stata ripresa con una certa frequenza dai principali media.
In sostanza, Hillary e i suoi si sono visti quasi costretti a unire le forze con quelle dei sostenitori di Jill Stein per evitare che il movimento popolare anti-Trump, ovviamente favorevole a un riconteggio delle schede negli stati più equilibrati, sfuggisse di mano al Partito Democratico, con il rischio di incanalarsi verso un percorso di protesta alternativo.
Anche se formalmente gli avvocati di Hillary avranno un ruolo nelle pratiche legali in atto, l’ex segretario di Stato e il suo entourage continuano a mostrare freddezza nei confronti della vicenda. Le prese di posizione dell’ormai ex candidata alla Casa Bianca sono affidate per lo più a dichiarazioni stringate, spesso espresse sui social media, del consulente legale, Marc Elias, mentre ciò che prevale negli ambienti Democratici, come ha scritto lunedì la testata on-line Politico, è un senso di “irritazione” nei confronti di Jill Stein e dei Verdi.
Ancora più indicativa, e per certi versi sconcertante, è stata poi la reazione del presidente uscente. Attraverso un esponente della sua amministrazione, Obama qualche giorno fa ha di fatto condannato i ricorsi in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, per affermare la fermezza con cui la Casa Bianca intende accettare “i risultati delle elezioni”, i quali “riflettono accuratamente la volontà del popolo americano”.
Quest’ultima dichiarazione è particolarmente straordinaria, sia per la manciata di voti che separa Trump da Hillary in alcuni stati decisivi sia per il fatto che, in definitiva, solo un quarto degli elettori americani ha alla fine votato per il candidato Repubblicano. Soprattutto, però, la dichiarazione del portavoce di Obama legittima l’agenda di estrema destra del presidente eletto malgrado la sua rivale abbia ottenuto qualcosa come 2,2 milioni di voti in più su scala nazionale.
Un dato simile è decisamente senza precedenti nella storia elettorale americana. Anzi, il margine di vantaggio di Hillary nel voto popolare risulta addirittura superiore a quello fatto registrare da sette candidati vincenti a partire dal 1900 (McKinley nel 1900, Taft nel 1908, Wilson nel 1912 e 1916, Truman nel 1948, Kennedy nel 1960, Nixon nel 1968 e Carter nel 1976).
Se il sistema elettorale americano – antiquato e innegabilmente antidemocratico – consente un esito di questo genere, visto che a decidere sono i “voti elettorali” assegnati da ogni singolo stato, con il risultato di penalizzare quelli più popolosi, un divario simile a favore del candidato perdente dovrebbe quanto meno spingere il partito di quest’ultimo a chiedere al presidente eletto di tenere in seria considerazione la volontà di quella che, a tutti gli effetti, è la volontà della maggioranza numerica degli elettori.
Al contrario, i vertici Democratici si sono affrettati a garantire piena legittimità all’agenda ultra-reazionaria di Trump, a sua volta sentitosi libero di nominare individui di estrema destra a cariche importanti nella sua nuova amministrazione.
Il comportamento di Obama, in particolare, è tanto più incredibile se si considera che solo all’inizio di ottobre l’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale e il Dipartimento della Sicurezza Interna avevano preso la decisione senza precedenti di accusare ufficialmente un governo straniero – quello russo – di interferire in maniera deliberata nel processo elettorale americano per favorire un candidato alla presidenza (Trump).
L’indifferenza e l’ostilità verso le richieste di riconteggio mostrata dai leader Democratici, anche senza entrare nel merito delle effettive possibilità di successo, rivela dunque un aspetto fondamentale che caratterizza la classe dirigente americana, vale a dire la paura di favorire un qualche movimento di opposizione nel paese diretto contro il sistema politico di Washington.
Un timore che, come dimostra il voltafaccia di Obama sulla possibile manipolazione delle elezioni, supera di gran lunga quello di vedere insediarsi alla Casa Bianca un’amministrazione con chiare tendenze fasciste. Obama, d’altra parte, alla chiusura delle urne ha fatto di tutto per garantire una transizione senza scosse, mentre in una conferenza stampa aveva definito lo scontro pre-elettorale tra Democratici e Repubblicani, considerato dai media americani tra i più duri della storia, come una mera “disputa tra le mura domestiche”.
Nelle considerazioni post-voto di Obama, ma anche della stessa Hillary, fermo restando lo shock per una sconfitta che in pochi si attendevano, sugli scrupoli democratici ha prevalso così la necessità di garantire la continuità e la salvaguardia dei grandi interessi che rappresentano l’unico riferimento della politica americana, al di là degli schieramenti.
Le prove di questa realtà sono state molteplici nelle ultime settimane, a cominciare dalle parole della responsabile della campagna elettorale di Trump, Kellyanne Conway, la quale in una recente intervista alla CNN ha rivelato come Trump e Obama stiano “discutendo regolarmente su svariate questioni”.
Ancora più significative sono inoltre due iniziative prese nei giorni scorsi dal presidente uscente per garantire al suo successore fondamenta più solide nella costruzione di uno stato autoritario e la facoltà di espandere l’impegno militare americano all’estero senza troppi vincoli.
Nel quasi disinteresse generale, Obama ha da un lato assegnato maggiore libertà d’azione alle Forze Speciali, svincolandole dal controllo dei vari comandi regionali delle Forze Armate e trasformandole di fatto in squadre clandestine della morte al servizio diretto del Pentagono, e dall’altro ha scartato l’ipotesi di adottare regole più stringenti per l’utilizzo dei droni, consegnando in maniera intatta a Trump uno strumento ben collaudato per proseguire la campagna di assassini mirati virtualmente in ogni angolo del pianeta, incluso il territorio americano.
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L’abuso economico contro vittime di violenza di genere
Sto tentando di raccogliere, tra i tanti messaggi che arrivano ogni
giorno all’indirizzo di Abbatto i Muri, quelli che parlano di violenza
di genere aggravata o indotta da dipendenza economica. Inizio una minima
carrellata, qui, invitandovi a continuare a raccontare, perché
è ascoltando i vostri racconti che si capisce anche quale tipo di
prevenzione forse è più necessaria contro la violenza di genere.
Licia:
Licia:
“ho 22 anni e abito ancora con i miei. ho provato a cercare lavoro ma non so cosa fare. da un lato voglio continuare a studiare per finire prima possibile e dall’altro sono stanca del comportamento di mio padre che è possessivo e violento e non ce la faccio più. come faccio a non subire violenza se non posso mantenermi da sola?”R.:
“tutti discutono della violenza nella famiglia e io ho paura di essere fraintesa. io non subisco violenza perché mio padre è “straniero”, ma subisco violenza perché lui ha la stessa opinione sulle donne che ha il cretino del bar all’angolo, italiano, che tiene la moglie come schiava in cucina perché non vuole che i clienti la vedano. e prima che si aggiunga pregiudizio a pregiudizio dico che io sono immigrata di seconda generazione e il barista è veneto. si vede che quando si parla di donne sono tutti d’accordo.”Matteo:
“sono andato via da casa a 21 anni perché mio padre e mia madre non potevano sopportarmi per come sono, gay, pacifista e pure vegetariano. forse avrebbero sopportato il gay, e anche il pacifista ma al vegetariano è andato il morso di traverso a tutta la famiglia. ovviamente scherzo ma la mia situazione è pessima. non ho completato gli studi e dopo una veloce ricerca di lavoro mi sono reso conto che l’unica scelta era la prostituzione. non è stato bello, all’inizio, perché ancora dovevo trovare la mia dimensione sessuale e fare pompini a pagamento non era l’idea che avevo del sesso appagante. poi non so cosa ne pensate voi ma ho le mie preferenze e ho preferito soddisfarne uno, con i soldi, che mi manteneva dandomi un tetto e da mangiare, invece che aspettarne cento. però non dura mai a lungo e io sono stato stupido perché non ho mai messo da parte niente. ora mi trovo senza un soldo e non so cosa inventarmi. dover essere così precario perché sono gay vale come violenza di genere?”G.
“mi sono trasferita da un anno in una città diversa, dopo che ho lasciato un violento, stalker, che mi ha rubato fino all’ultimo euro dal conto che avevamo in comune. non c’era molto ma in parte erano soldi anche miei e non ho potuto farci niente perché lui ha sfilato i soldi col bancomat e li ha messi in un altro conto. non mi ero resa conto di niente. gli ho lasciato i mobili, ho faticato per disdire le utenze per bollette che ancora arrivano a me, oggi, nonostante io mi sia trasferita. ho chiesto come fare ma in questi casi tutti sembrano cadere dal pero. se io mi trasferisco perché lui è violento la banca, le compagnie del gas, elettricità e telefono dovrebbero accogliere la mia richiesta in fretta invece di crearmi difficoltà. invece tutti vogliono guadagnare, nessuno è responsabile di niente e io sono considerata una comune consumatrice che al massimo può, appunto, chiedere la disdetta dei contratti non senza però aver pagato quello che nel frattempo ha consumato lui in mia assenza. possibile che non ci sia niente che tuteli una donna nelle mie condizioni? mi hanno detto di denunciarlo per stalking ma sarebbe stata un’altra spesa per me che non avrebbe facilitato affatto. sono comode quelle che dicono che non devi prostituirti ma se non sai come vivere che cosa puoi fare?”Simona:
“sono una donna, trans, e sono stata picchiata più volte dal mio ex compagno che mi ha lasciata povera, depressa e senza risorse. ho avuto la fortuna di non dover subire indifferenza dalla mia famiglia e per questo ho potuto continuare gli studi mentre portavo avanti la transizione. ho trovato un lavoro, sono andata a vivere da sola ed ero molto orgogliosa di me. poi è arrivato lui e mi ha intenerita, all’inizio, perché mi sembrava un uomo buono. non lo è. quando chiamavo aiuto, le notti in cui mi picchiava, i vicini dicevano di fare silenzio e dato che io sono trans pensavano che a casa mia si facessero le orge. un giorno avevo un livido in faccia e stavo stendendo i panni sul balcone. la vicina disse che non era bello che io mi affacciassi perché avrebbero potuto vedermi i bambini. non solo ho dovuto sopportare la violenza ma anche i pregiudizi perché se sanno che sei trans pensano che sei una prostituta e che ricevi clienti che se ti picchiano è colpa tua. una volta sono andata con l’intenzione di denunciarlo ma quando arrivai lì c’era un ragazzo giovane alla porta che si mise a ridere. chiese che cosa dovessi fare e quando dissi che volevo denunciare un uomo per violenza disse che per queste cose avrei dovuto parlare con “apposite associazioni per quellI come te”. il mio ex mi ha provocato una forte depressione e sono rimasta senza lavoro perché ci sono tante persone che hanno bisogno e la depressione non è nemmeno vista come una malattia. a chi può chiedere un aiuto economico una persona come me? ve lo dico io: ai genitori, se li hai, o niente.”F.
“mi limito a dirti rapidamente quello che mi è successo durante gli ultimi sei mesi. non mi rinnovano il contratto, io inseguo un medico per farmi prescrivere la pillola del giorno dopo anche se so che posso averla senza prescrizione (per legge è così, no?); temo di dovermi rivolgere a qualcuno per un eventuale aborto e so che i non obiettori stanno nella città a 200 chilometri da dove sto io. reperisco la pillola, a pagamento, e se una è povera non si capisce perché dovrebbe pagare per una pillola del giorno dopo. penso che mi è andata di lusso perché ormai sono abituata a pensare che non mi spetta nessun diritto e solo perché leggo pagine come la tua mi rendo conto che mi spettano eccome anche se non so a chi chiedere. con chi mi incazzo se non ho lavoro e se devo pagare la pillola del giorno dopo? un antiabortista direbbe che sono fatti miei e io penso che se mi trovassi davanti a un antiabortista mi tratterrei a stento dal mandarlo a fare in culo. volevo rinnovare l’iscrizione all’università per quest’anno ma senza soldi non ho potuto farlo. pagherò con gli interessi tra un anno, se ho fortuna. detto con estrema calma: quando i governanti dicono che stanno facendo il bene del popolo di quale minchia di popolo stanno parlando?”Fonte
“Rapo” Elkann
Lapo Elkann è stato arrestato e poi rilasciato dalla polizia di New York per aver simulato un sequestro allo scopo di ottenere dalla famiglia 10mila dollari dopo aver speso tutto insieme a un escort con cui avrebbe fatto due giorni di bagordi a Manhattan, consumando alcol e droga: lo scrivono tre testate Usa, citando fonti di polizia. L'accusa è di falsa denuncia.
Il nipote di Gianni Agnelli e imprenditore nel mondo della moda sarebbe sbarcato a New York giovedì per la festa del Thanksgiving, contattando un escort di 29 anni (una donna transgender, secondo il New York Daily News) e trascorrendo con lui due giorni di eccessi tra alcol e droga (marijuana e cocaina).
Finiti i soldi, l'escort avrebbe pagato per altra droga ed Elkann avrebbe promesso di restituire i soldi. Poi, sempre secondo i media Usa che citano fonti della polizia, avrebbe escogitato il piano del falso sequestro, raccontando ai propri famigliari di essere trattenuto contro la sua volontà da una donna che gli avrebbe fatto del male se non gli avessero fatto pervenire 10mila dollari.
Secondo la ricostruzione dei giornali americani, un rappresentante della famiglia si sarebbe quindi rivolto alla polizia, che avrebbe organizzato la finta consegna del denaro bloccando la coppia. Gli investigatori avrebbero accertato che l'idea era stata di Lapo, chiudendo il caso per il suo accompagnatore, ma non per il 39enne imprenditore, al quale e' stata consegnato una citazione davanti ad una corte.
Fin qui la notizia, su cui diciamo poche ma sentite parole.
Dei gusti di Lapo Elkann non ce ne frega niente. La famiglia Agnelli, compresi i suoi manager (da Valletta a Romiti, fino a Marchionne) si è guadagnata l'odio e il disprezzo dei lavoratori per motivi decisamente più seri. Tant'è che il movimento operaio italiano non ha mai rimproverato neanche al nonno – che notoriamente sapeva "gestire" meglio anche certi vizi – l'analoga frequentazione delle piste... di coca.
Semmai Lapo, nei suoi momenti di lucidità, si è dimostrato migliore degli altri componenti pari-età, se non altro in fatto di creatività (pare proprio che la "500" rivisitata sia stata una sua idea; una delle poche a funzionare anche sul mercato del marchio Fiat, da oltre 30 anni a questa parte...).
In famiglia, però, non devono avergli reso la vita facile, se per trovare la miseria di 10.000 dollari in contanti non ha saputo fa altro che inventarsi un sequestro.
Ecco, sul piano finanziario "Rapo" Elkann ha dimostrato di aver capito l'idea generale del fare "imprenditoria all'italiana", ma il know how ancora gli sfugge...
Fonte
Il nipote di Gianni Agnelli e imprenditore nel mondo della moda sarebbe sbarcato a New York giovedì per la festa del Thanksgiving, contattando un escort di 29 anni (una donna transgender, secondo il New York Daily News) e trascorrendo con lui due giorni di eccessi tra alcol e droga (marijuana e cocaina).
Finiti i soldi, l'escort avrebbe pagato per altra droga ed Elkann avrebbe promesso di restituire i soldi. Poi, sempre secondo i media Usa che citano fonti della polizia, avrebbe escogitato il piano del falso sequestro, raccontando ai propri famigliari di essere trattenuto contro la sua volontà da una donna che gli avrebbe fatto del male se non gli avessero fatto pervenire 10mila dollari.
Secondo la ricostruzione dei giornali americani, un rappresentante della famiglia si sarebbe quindi rivolto alla polizia, che avrebbe organizzato la finta consegna del denaro bloccando la coppia. Gli investigatori avrebbero accertato che l'idea era stata di Lapo, chiudendo il caso per il suo accompagnatore, ma non per il 39enne imprenditore, al quale e' stata consegnato una citazione davanti ad una corte.
Fin qui la notizia, su cui diciamo poche ma sentite parole.
Dei gusti di Lapo Elkann non ce ne frega niente. La famiglia Agnelli, compresi i suoi manager (da Valletta a Romiti, fino a Marchionne) si è guadagnata l'odio e il disprezzo dei lavoratori per motivi decisamente più seri. Tant'è che il movimento operaio italiano non ha mai rimproverato neanche al nonno – che notoriamente sapeva "gestire" meglio anche certi vizi – l'analoga frequentazione delle piste... di coca.
Semmai Lapo, nei suoi momenti di lucidità, si è dimostrato migliore degli altri componenti pari-età, se non altro in fatto di creatività (pare proprio che la "500" rivisitata sia stata una sua idea; una delle poche a funzionare anche sul mercato del marchio Fiat, da oltre 30 anni a questa parte...).
In famiglia, però, non devono avergli reso la vita facile, se per trovare la miseria di 10.000 dollari in contanti non ha saputo fa altro che inventarsi un sequestro.
Ecco, sul piano finanziario "Rapo" Elkann ha dimostrato di aver capito l'idea generale del fare "imprenditoria all'italiana", ma il know how ancora gli sfugge...
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Weather Underground. Incontro con Bill Ayers e Bernardine Dohrn
Non c'è bisogno di un meteorologo per capire da quale parte sta soffiando il vento
La Weather Underground Organization, o più brevemente Weathermen, è stata una delle organizzazioni rivoluzionarie più rappresentative del panorama politico della sinistra radicale degli anni sessanta in USA. Scelsero da subito la lotta armata e colpirono siti eccellenti fra cui il comando della Polizia di New York, il Campidoglio ed il Pentagono (i loro attentati colpirono però solo edifici pubblici, “simboli” del sistema e non fecero alcuna vittima). Il loro slogan “portiamo la guerra a casa loro” fa capire che la loro lotta cominciò come ribellione all’intervento americano nella guerra in Vietnam; come avrà a dire Mark Rudd, un altro degli appartenenti al gruppo, “quella guerra aveva fatto impazzire tutti... ma non potevamo restarcene in silenzio, non reagire a quella violenza che esportavamo in Vietnam, ce ne saremmo sentiti complici...”. Nata da una costola dell’SDS (Students for Democratic Society), l’organizzazione, pur operando in completa clandestinità, è stata l’unica esperienza a tentare il connubio fra organizzazione strettamente politica e mondo della controcultura; altri movimenti sorsero in quegli anni, movimenti ed organizzazioni che nascono da rivendicazioni razziali, ma soprattutto contro la guerra e per il diritto alla parola, (il Free Speech Movement di Mario Savio), ma nessuno di loro ebbe lo stesso seguito per così breve tempo.
In questo incontro avvenuto nello spazio della biblioteca “Moby Dick” alla Garbatella, due dei membri fondatori dei Weathermen, si raccontano e ci presentano i nuovi movimenti che operano adesso negli States, dandoci degli strumenti preziosi per leggere la realtà statunitense post elettorale. Durante l’incontro è stato presentato il libro di Bill Ayers “Fugitive days... memorie dai WUO”:
“Il libro non è una ricostruzione storica, né un testo accademico, è soprattutto un ripensamento di una coscienza a distanza di quasi mezzo secolo. Il movimento doveva fare di più... ribadisce però le ragioni di fondo di una ribellione... quando ti rendi conto di non riuscire ad andare avanti, di essere in una posizione di stallo, non ci si tira indietro, non si smette, né ci si pente; si cerca e si trova un’altra strada. I W.U.O. hanno rotto ad un certo momento con gli altri gruppi che facevano azione non violenta, per fare un salto di qualità: il loro motto era... “PORTIAMO LA GUERRA A CASA LORO...” che significava facciamoli sentire in guerra... facciamogli provare le stesse sensazioni che provano in Vietnam le vittime della guerra... rimanere inattivi mentre la propria nazione compiva azioni di una tale violenza, voleva dire rendersi complici di quella violenza, fare violenza a nostra volta.”
Di seguito gli interventi introduttivi di Bernardine Dohrn e Bill Ayers.
BERNARDINE DOHRN. Il mio nome è Bernardine Dohrn e sono una dei protagonisti del documentario* che ora vedremo insieme; sono stata un’attivista per tutta la mia vita e a suo modo, lo sono ancora adesso (la Dohrn opera nei tribunali per i diritti civili delle minoranze, delle donne e dei minori, ndr); vi invito a venire anche al prossimo incontro, che si svolgerà il prossimo venerdì 25 novembre, per poter incontrare Alicia Garza, un’altra attivista e fondatrice del movimento “Black Lives Matter”... Farò solo una nota introduttiva riguardo chi e cosa sono stati i WUO, poi a seguire, ci sarà un dibattito e potrete farci qualsiasi tipo di domanda... Questo documento è stato realizzato da due giovani registi... Beh, per me ormai tutti quanti in realtà sembrano giovani, però quando è stato girato questo documentario i due registi erano veramente giovani, e hanno scoperto il nostro movimento, durante le loro ricerche per produrre il film; durante la lavorazione, si sono domandati come mai nulla fosse mai uscito allo scoperto riguardo questa importantissima corrente che si era venuta a creare... Sam Green e Bill Siegel hanno girato questo documentario prima dell’9/11 e tutte le interviste sono avvenute prima degli attentati al World Trade Center del 2001, quindi prima di un momento che ha segnato una svolta, ed ha cambiato completamente la vita della popolazione americana; di conseguenza è stato uno snodo anche per quella che è stata una crisi della politica e della società americana...
Bill e Sam hanno montato il film dopo il 9/11e quello che viene fuori dal film è una visione molto “dark”, un periodo molto grigio per la vita americana, dal punto di vista della politica... Il film poi usci all’inizio del 2003, proprio prima che cominciasse la guerra con l’Iraq (la seconda guerra del Golfo conclusa in tre settimane dall’amministrazione Bush jr., ndr), e la reazione a questa guerra portò una nuova energia ai movimenti antimilitaristi. Per queste ragioni di impegno sociale il documentario è stato insignito del premio dell’Academy Award nella sezione documentari... Ultima cosa da dire è che QUESTO film non è il nostro film, non è il film che IO avrei fatto o che Bill avrebbe fatto, questo è il LORO film, la LORO lettura degli avvenimenti. Magari dopo parleremo anche di questo, di quello che non ci piace nel film, ma sicuramente è una testimonianza per farvi capire quello che è successo; è per questo che vi invito a guardarlo con occhio critico...
BILL AYERS. Buonasera, è meraviglioso essere qui, siamo qui da sole 24 ore, e siamo stati letteralmente rincorsi da una marea di compagni... Siamo stati abbracci ovunque per Roma... Quello che voglio dire è che siamo molto felici di essere qui e che dobbiamo essere veramente grati a tutti quelli che si sono impegnati per noi, per farci sentire a nostro agio. Ho una richiesta da farvi: se qualcuno potesse ospitarci qui, altrimenti dovremmo tornare subito da Trump, in USA, e non sarebbe proprio il massimo... Comunque volevo dirvi che nonostante l’orrore che ha suscitato la recente elezione di Trump, e il male e l’amarezza che ci sta dietro e che fa soffrire la società americana, la sollevazione a quello che sta succedendo sta diventando sempre più dura, si stanno risvegliando nuovi movimenti associativi, ed è anche fonte di gioia; e rassicura sapere che ci sono anche altre persone che come noi vogliono farsi sentire. Ok grazie per la partecipazione e ci aggiorniamo alla discussione, dopo la visione del documentario.
Dopo la visione del film Bill e Bernardine hanno risposto ad una serie di domande poste dagli studenti dell’università e di alcuni giovani che hanno partecipato all’iniziativa.
B.D.: In primo luogo vorrei ringraziare i compagni del CSOA “La strada” e “La casetta Rossa” per aver organizzato tutto questo, e voglio ringraziare anche tutti quelli che hanno partecipato allo sforzo e alla lotta fatti per conquistare questo spazio occupato, per farne una biblioteca, per gli studenti dell’Università. C’è un argomento che mi preme molto ricordare ed è questo: durante gli anni ’60 e fino ai primi ’70, in Vietnam venivano uccise circa 6.000 persone a settimana. Noi pensavamo che la guerra americana in Vietnam fosse ingiusta e completamente immorale e anche quando, dopo la fine della guerra, i soldati rientrarono in patria raccontando gli orrori di quella guerra, non si raggiunse lo scopo: quello cioè di allontanare il nostro paese dal concetto della guerra. Si trattava di una crisi globale. La guerra in Vietnam non era la sola guerra... nel mondo c’erano altri due o tre Vietnam; in Africa si combatteva per sovvertire il regime portoghese, in Sud Africa si lottava contro l’apartheid, poi c’era Cuba, i Tupamaros in Uruguay che combattevano per la loro indipendenza, e noi ci sentivamo parte integrante di questo movimento e volevamo far parte in qualche modo di quella rivoluzione. Alla fine abbiamo deciso di mettere il Paese davanti al fatto compiuto, agli orrori della guerra ed abbiamo coniato uno slogan che abbiamo inserito nel nostro primo comunicato: “PORTIAMO LA GUERRA A CASA LORO”. E questa è stata la nostra esperienza. Senza fare vittime, abbiamo colpito i loro “simboli”, abbiamo fatto sentire il sistema aggredito...
B.A.: Ringraziamenti anche a Sandro (Portelli professore di letteratura americana all'Università La Sapienza, ndr) ed a tutti... Come diceva poco fa Sandro, questo non è un momento accademico, ma soprattutto un momento di riflessione, per capire qual è il momento storico in cui ci troviamo e come reagire a quello che ci sta succedendo intorno. Questo dobbiamo comunque farlo tutti insieme. Dobbiamo sentire ciascuno la propria responsabilità nei confronti dell’essere umano, dobbiamo guardarci l’un l’altro; nelle ultime due settimane, dopo la tornata elettorale USA, la gente si è riunita spontaneamente ovunque, non solo per protestare, ma anche solo per parlare in incontri pubblici, per affermare l’esistenza della propria comunità e per insistere che combatteremo per affermare i diritti della nostra comunità. Nessuno di noi ha nostalgia degli anni ’60, anzi trovo sia molto penoso che dei “vecchi”, come ci considerano alcuni, pensino al passato con forte nostalgia. Non ci piace pensare a noi come delle imbarcazioni lasciate alla deriva... Per fare un esempio: la nostra tessera dell’SDS diceva che noi eravamo persone della nostra generazione, che cresceva in un mondo che ci dava facilmente qualsiasi comfort, se te lo guadagnavi. Gente che guardava ad un mondo che li avrebbe accolti facilmente, se avessero lottato... Sapete, io ho ancora la mia tessera e sono ancora una persona della mia generazione, ed è proprio per questo che mi rifiuto sia di essere spinto fuori, da parte, di guardare dolorosamente al passato. Il futuro è davanti a noi... Poco fa parlavo dei ’60, i cosiddetti anni ’60, voglio ricordare che purtroppo questo periodo è stato mitizzato... I sessanta sono un mito ed un simbolo. Ma non conosco nessuno che vive solo “per decadi” e che quando per esempio si accorge che è il 31 dicembre 1969 esclama: “oh merda, gli anni sessanta stanno quasi per finire”. Questo per dire che l’essere umano “trascende” le decadi, vive nel futuro. Ricordo di una volta in cui un giornalista francese chiese a Chou En- Lai (premier della Repubblica Popolare Cinese dal 1949 al gennaio 1976, ndr) quale fosse stato, secondo lui, l’influsso che la rivoluzione francese aveva avuto nei confronti di quella cinese, che era appena all’inizio; il premier rispose che “era troppo presto per dirlo”. Qualsiasi cosa siano stati i ‘60 essi sono il preludio all’oggi, sono stati il preludio a quello che oggi dobbiamo fare. Noi dobbiamo seguire il ritmo dell’attivismo, tuttavia mi accorgo che anche per me dirlo è facile, ma il difficile, come per tutti, è metterlo in pratica. Giorno dopo giorno, quello che dobbiamo fare è riassunto in tre step: fare attenzione, aprire gli occhi ed andare avanti. Questo è quello che BLM dice... Dobbiamo svegliarci e poi dobbiamo essere colpiti, stupiti, dobbiamo essere stupefatti dalla bellezza e dall’estasi che l’umanità è capace di produrre, di ciò che ci circonda, ma anche dalla crudeltà, consapevoli della sofferenza... Perché c’è sofferenza in giro... Terzo step è l’azione; aggiungerei un quarto step: è il dubbio, la riflessione, il ripensare ciò che si è compiuto. Questo è anche il ritmo della cittadinanza, il ritmo della lotta morale. E' semplice: fare attenzione, essere stupiti, agire, dubbio... Sandro ha riferito di alcuni errori , agli albori, dei WUO, di alcuni eccessi, e secondo me un profondo errore è nel quarto passaggio, il dubbio... Puoi fare attenzione, agire, meravigliarti di quello che ti succede intorno tutti i giorni, ma, se non dubiti, fai l’errore di diventare settario... e potresti fallire. Abbiamo intenzione di portare negli States, la settimana prossima, la nostra esperienza qui, con i compagni incontrati. Sarà nostra responsabilità tornare in patria ed aprire gli occhi su quello che è la nostra realtà al momento, stupirci di questa realtà e della sofferenza che crea, poi il nostro compito sarà agire ed infine ci troveremo ad affrontare... il dubbio. Vi ringrazio per avermi dato questa possibilità.
DOMANDE:
Avete mai avuto rapporti con movimenti analoghi in Europa, in quel periodo, o avete basato la vs. analisi, pur avendo rapporti con altri movimenti, solo sulla situazione negli States...
Io faccio video e mi chiedo... il documentario termina con la “consegna” da parte dei compagni dei WUO alle forze di polizia... il compagno con il quale lavoro notava come il “sistema” sia riuscito così facilmente ad instillare il dubbio di aver sbagliato anche in questi compagni... questo può ricollegarsi a quello che si diceva poc’anzi sul dubbio?
Grazie per averci portato la memoria storica dell’altra America degli anni ’60 qui... cosa pensate dell’“altra America” di questi giorni, di D.J. Trump, cosa pensate dei BLM o del movimento attorno a Sanders...
Il prossimo 26/11 ci sarà una grande manifestazione delle donne contro la violenza maschile... A Bernardine vorrei chiedere cosa ne pensa adesso del movimento femminista, anche alla luce della recente campagna elettorale che ha visto contrapposta una donna a Trump, candidato con una carica fortemente maschilista...
B.D. In breve... Dobbiamo innanzitutto scusarci per essere degli stupidi americani che capiscono poco l’italiano... Voi parlate tre/quattro lingue e tutti parlate l’inglese. Noi, da perfetti americani ignoranti, non parliamo neanche un po’ l’italiano... Per prima cosa risponderò riguardo gli altri movimenti degli anni ‘60. Quando sono stata eletta leader nazionale dell’SDS, e poi segretario generale del movimento, noi eravamo consapevoli che la mia era una carica di unificazione, che avrebbe dovuto intessere rapporti internazionali, con movimenti, non solo negli States, ma in tutto il mondo, movimenti di tutti i tipi... Movimenti contro la guerra, per l’eguaglianza sociale e razziale, movimenti femministi, culturali... Avendo viaggiato molto per analizzare la crisi del Vietnam, mi sono resa conto di quanto sia stato importante il ruolo che ha giocato quello Vietnamita, nei movimenti... Parlo in special modo agli studenti qui presenti... Quello vietnamita ha giocato un ruolo di “ponte” fra tutte le lotte in corso in quel periodo, ha unificato tutte le lotte contro l’imperialismo dilagante... Nel 1968, durante i nostri viaggi in Europa, abbiamo incontrato delegazioni di attivisti da molte parti del mondo: Jugoslavia (anche ex-Jugoslavia, dopo lo smembramento dovuto alla guerra), giovani di Budapest (dopo i fatti d’Ungheria), attivisti Cecoslovacchi, subito dopo l’invasione russa, compagni dalla Germania, dalla Francia nel periodo del maggio francese, dalla Spagna, ed anche dall’Italia... Ed indubbiamente siamo stati fortemente influenzati da tutti, ma in special modo da voi italiani e dai tedeschi... Ci siamo resi conto che voi italiani siete maggiormente radicati nella storia del marxismo di noi americani, soprattutto se parliamo di materialismo dialettico... Soltanto una parola, per sottolineare e ricordare l’importanza del ruolo che le donne hanno avuto, dai movimenti degli anni ’60 a quelli odierni, un ruolo centrale in tutte le lotte sociali che non deve essere assolutamente sottovalutato... Per esempio Alicia Garza, che sarà qui la prossima settimana e porterà l’esperienza del BLM. Sarà interessante ascoltare... BLM è un’esperienza che ha basi nei movimenti LGBTQ. Oggi più di prima ci si è resi conto dell’importanza delle donne nella leadership dei movimenti... Negli anni ’60 non era così scontato, anche per i movimenti underground... Ed il ruolo delle donne è anche molto più chiaro ora, che negli anni ’60, forse anche per l’esistenza di questi movimenti di autocoscienza...
B.A. Inizierò rispondendo a due domande specifiche. La prima è perché ci siamo consegnati alle autorità. Anche se lo abbiamo fatto con riluttanza, non è stato facile vi assicuro... Ma dovevamo sempre tenere a mente la ragione per cui avevamo fondato questo nostro movimento. E la ragione principale era quella di poterci opporre alla guerra che l’impero americano stava facendo in Vietnam ed anche al genocidio dei neri in America. Consegnarci per noi non è stato un momento di gioia, è stata una scelta sofferta, ma in qualche senso necessaria, perché stavamo spendendo un sacco di energia a rimanere in clandestinità. Energie che potevamo spendere altrimenti... Abbiamo pensato che non avrebbe dato alcun effetto positivo continuare a vivere da soli, isolati dal movimento... Il movimento stesso non dava i suoi frutti se continuava ad essere diviso, se noi continuavamo a vivere ognuno nascosto agli altri... Bensì sarebbe stato più utile tentare di riorganizzarci sotto una veste maggiormente legale. E' stato perciò senza alcuna gioia, ma assolutamente necessario... Riconosco comunque che potevamo usufruire di un privilegio, quel particolare privilegio americano di avere la pelle bianca... Eravamo americani, ma soprattutto eravamo americani bianchi e questo ci assicurava che se ci fossimo consegnati non avremmo corso il rischio di venire assassinati... Abbiamo dovuto accettare questa cosa, anche se con un po’ di tristezza, abbiamo dovuto fare i conti anche con questa realtà... Eravamo comunque determinati, ci sentivamo come se avessimo il diritto di consegnarci come se non fosse stata una resa... In realtà quindi ha voluto essere una dichiarazione di opposizione. Uno dei nostri, senza fare il nome, di fronte alla corte, dichiarò al giudice che non voleva ci fossero fraintendimenti, che lui era un oppositore del regime imperialista americano e che avrebbe continuato a lottare con noi contro quel sistema, e che alla fine avremmo avuto la meglio e saremmo riusciti a rovesciarlo. Lui assentì ma ringraziando disse di non esser d’accordo.
Un breve cenno su Trump. Sapevo che non saremmo stati capaci di uscire da questo incontro senza neanche menzionarlo... La sola cosa di cui siamo certi è che le interpretazioni di quello che è successo, quelle che stanno dando i mass media ed il partito democratico Usa, sono a mio parere, sbagliate e narcisistiche. Di conseguenza questo Partito Democratico non organizzerà l’opposizione, né organizzerà la resistenza... Ma l’opposizione sta crescendo, sta crescendo da sola, all’istante, perché il messaggio che proviene da Donald Trump è molto esplicito. E' il messaggio che appartiene ai suprematisti bianchi, è un messaggio di misoginia, islamofobico, razzista ed esplicitamente xenofobo. E’ un messaggio che non è stato nascosto durante la campagna elettorale, non è un mistero. E' palese che Trump è riuscito a portare avanti tutto quello in cui credeva, ed è un pericolo per tutti; questa propaganda è un pericolo che, è vero, già prima conoscevamo, ma che ora è alla Casa Bianca. Dobbiamo essere preoccupati di questo e abbiamo il dovere di occuparcene. Beh, dopo le elezioni si continua a parlare del Partito Democratico, che non è riuscito a parlare alla classe operaia bianca, che ha fallito... Se ricordate, per chi lo ha visto, c’è questo film “Nick Manofredda”, in cui il carceriere continua a ripetere al prigioniero, Nick appunto, interpretato da Paul Newman, “abbiamo un problema di comunicazione”... Beh qui il problema di comunicazione c’è stato. Ed ora è tra oppressore ed oppresso... Parlando di BLM, questo è un movimento che può darci una nuova chiave di lettura delle lotte, attraverso la lotta per la libertà dei neri. Attraverso questa lotta si fa lotta contro l’impero, è qualcosa che deve guidare la trasformazione negli States...
DOMANDE:
Quali sono ora e quali sono stati i vostri rapporti con BPP.
Quali sono le vostre opinioni su queste elezioni, e perché ci hanno fatto credere, al di là del fallimento della comunicazione con la classe lavoratrice, che Trump non avrebbe vinto; secondo i sondaggi peraltro sembra che la working class non abbia votato in blocco per Trump. La vostra opinione anche su questo passaggio.
Avete votato Clinton, e se sì, con quale stato d’animo.
Bill ha lavorato come educatore per molti anni; cosa ha tratto da questa esperienza?
E ad entrambi, qual è secondo voi, il futuro per l’attivismo militante negli USA?
Come sono organizzate le lotte nelle scuole, al momento?
B.D. BLM è un gruppo composto in massima parte da giovani, che si occupa di lotte sociali e che focalizza il proprio interesse verso le violenze della polizia contro gli afroamericani dopo i fatti di Ferguson, dopo i ripetuti assassinii degli anni scorsi, proprio perpetrati dagli organi di polizia. Come avrà modo di dirvi Alicia Garza, leader del movimento, venerdì prossimo, questo è un movimento che ruota comunque intorno alla comunità queer, gay e femminista. E’ un movimento antigerarchico, che pone al centro la vittima, e che cerca di superare il problema con una logica un poco “comunitarista”, collettiva. Il BLM, si colloca all’interno di una storia per i diritti civili, che guarda al periodo storico delle lotte contro i linciaggi e gli omicidi di massa degli afroamericani, continuati fino agli anni ’60, alle lotte per l’uguaglianza dei diritti salariali combattute con l’aiuto dei sindacati (unions); sicuramente molto vicini al BPP, ma non tanto dal punto di vista della lotta armata, che da quello della comprensione di un certo “linguaggio della strada”: recentemente a Chicago, durante la Convention Mondiale dei Capi della Polizia, hanno manifestato in modo pacifico, ma militante, organizzando una sorta di “teatro di strada”. Sull’arrivo del neofascismo negli USA, visto che avete subito per vent’anni Berlusconi, forse potreste darci qualche consiglio; comunque, per quello che riguarda il razzismo e la xenofobia che pervadono la politica di Trump, questo sicuramente ha a che fare con l’ascesa dei movimenti di estrema destra, un po’ ovunque in Europa, forse come reazione al neoliberismo o al risorgere dei confini, alla paura dell’immigrazione di massa, di gente che cerca di varcare i confini, di avere accesso ai paesi più ricchi, la capacità da parte di questi movimenti di destra di evocare paure; di connettere la paura e la violenza, con la presenza degli afroamericani, o comunque dei profughi... Ed infine l’odio, il disprezzo esplicito nei confronti delle donne, tutte queste cose hanno unito delle forze “maligne”, che erano comunque presenti negli States, che hanno accresciuto le minacce nei confronti di chi attraversa i confini, minacce nei confronti dell’immigrazione di massa; si dovrebbe però tentare di trovare dei territori protetti, una sorta di santuari dedicati ai migranti, neri, cinesi ecc...
Continuando sulle elezioni... Una cosa importantissima, che probabilmente pochi sanno, è che solo il 25% della popolazione ha votato... meno di un quarto...
B.A. Rispondo alla domanda “per chi ho votato io”. E’ praticamente impossibile spiegare quanto è contorto il sistema elettorale americano, è impossibile veramente spiegarlo alla gente comune, ed è altrettanto impossibile spiegarlo agli americani. La punta dell’iceberg è il “collegio elettorale”: noi viviamo a Chicago, beh il nostro voto a Chicago non conta. Anche se votassi per mio figlio, non verrebbe preso in considerazione... E' un sistema privo di senso, affatto libero, è draconiano... Un’altra cosa che volevamo sottolineare è che Clinton ha detto che ha vinto il voto popolare. Io ho votato per Hilary Clinton, ma in realtà ho votato contro Trump. Non volevo che, pur perdendo, la Clinton avesse perso con uno scarto troppo forte... E’ stata una scelta tattica; a tutti i miei amici di ultrasinistra, e sono la maggioranza, ho detto che abbiamo 364 giorni l’anno per fare militanza; quei cinque minuti nell’urna si possono anche sacrificare al male minore. Ora veniamo all’istruzione... E' un punto fondamentale per me, sono un insegnante, ho scritto diversi libri sull’argomento e due memorie; è molto importante capire su quali argomenti puntare per far progredire l’istruzione all’interno della nostra società. La lotta, credo di poter dire in USA, come a livello globale, è fra insegnamento pubblico e insegnamento privato, è fra le “corporations” e una libera istruzione. Come voi tutti sapete, la scuola è sempre lo specchio e la finestra delle società. Quando sei a scuola vorresti fare parte della società e viceversa. Durante l’apartheid in Sud Africa, nella divisione che si compiva fra bianche e neri, già era in essere la divisione fra vinti e vincitori. Nelle società più autoritarie, lo studente, deve imparare ad obbedire e conformarsi ciecamente alle istituzioni, compresa la scuola; d’altro canto nelle società più democratiche, più libere, si tende a dare più enfasi alla creatività, alla fantasia, ed allo spirito critico, plasmando delle persone più libere ma anche più valide. Un ‘ultima cosa: insegnare a persone libere... per me insegnare a persone libere, o a persone che fanno parte di una società che tende ad essere libera, torna ad essere una questione di “ritmo”; molto di quello che oggi abbiamo in USA, deriva dalle conquiste dei movimenti per i diritti civili degli anni ‘60... In una scuola del Mississippi una delle cosiddette Freedom schools**, nel 1963 girava una specie di cv, all’atto dell’iscrizione, fatto di sole 3/4 domande: da dove vieni, perché hai scelto un movimento per i diritti civili e quale obiettivo vorresti raggiungere... Questo è un cv che fornisce ai giovani le domande principali: da dove veniamo, cosa vogliamo e come pensiamo di ottenerlo... Sono tre semplici ma fondamentali domande. I potenti hanno dato sempre per scontato che hanno avuto l’appannaggio della cultura, e che tutti gli altri sono stati sempre etichettati con altri parametri: reddito, posizione sociale, gender ecc. Dobbiamo invece pensare agli studenti come a dei soggetti attivi, senza preconcetti.
B.D. Prima di lasciarci, alcuni dati su un argomento che ancora non abbiamo trattato. Gli USA sono, si può dire, uno Stato-prigione, hanno la più alta percentuale di popolazione carceraria del mondo, 2.300.000 persone in carcere ed oltre 6 milioni di persone sotto il controllo carcerario, in libertà provvisoria, semilibertà, con regime ridotto. E di questi l’80% è afroamericano, tra i 17 e i 30 anni. Questa è la nuova schiavitù... Non dimentichiamo che questi soggetti sono esclusi dal sistema elettorale e che ci sono più persone fra 17/30 anni in carcere che nelle istituzioni scolastiche.
Note
* Il documentario è “The Weather Underground” di Sam Green e Bill Siegel prodotto nel 2002. I Weather Underground Organization o più brevemente Weathermen è stata una delle organizzazioni più rappresentative del panorama politico antagonista degli anni sessanta in USA. Scelsero da subito la lotta armata e colpirono siti eccellenti fra cui il comando della Polizia di New York, il Campidoglio ed il Pentagono. (I loro attentati colpirono però solo edifici pubblici “simboli” del sistema e non fecero mai vittime).
**Le Freedom Schools erano delle scuole americane “alternative” che a fine anni 60, sulla scia delle conquiste dei movimenti per i diritti civili, nascevano specie nel sud degli States. Il loro obiettivo era quello di insegnare agli afro-americani per fargli raggiungere una equità sociale, economica, e politica.
Fonte
Una cronaca assolutamente significativa, oserei dire essenziale per allargare lo spettro su uno spaccato di sinistra, quella statunitense, penso quasi sconosciuta ai più.
Non ho ovviamente strumenti e soprattutto conoscenze sufficienti a valutare quando esposto, posso però – limitarmi a – registrare che la sinistra e più in generale il movimentismo sono troppo "appiattite" sulle questioni civili. Penso che anteporle alle questioni sociali sia a tutt'oggi la tara maggiore che limita le sinistre radicali in USA e più in generale in occidente che comunque la cultura americana l'ha sussunta anche troppo.
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