31/05/2024
40 anni di Born In The U.S.A.
Bruce Springsteen - Born In The U.S.A.
(Columbia, 1984)
Muscoli, sudore e un pugno levato verso il cielo. Inutile negarlo: nell'immaginario popular, la figura di Bruce Springsteen sarà sempre legata a quella del rocker operaio di "Born In The U.S.A.". Icona per eccellenza dell'inno da stadio, sintesi della grandeur rock anni Ottanta, hit ipersfruttata ogniqualvolta sventola una bandiera a stelle e strisce. Dalla marcia trionfale del synth di Roy Bittan agli echi metallici della batteria di Max Weinberg, tutto sembra concorrere ad un senso di marziale celebrazione. Ma l'impeto stentoreo della voce di Springsteen tradisce subito che la sostanza, in realtà, è tutt'altra: "patriottismo arrabbiato", lo definirà Bruce stesso quasi trent'anni dopo, parlando di un album destinato a condividere con "Born In The U.S.A." più di un punto di contatto, "Wrecking Ball". Ma per capire di che cosa si tratta, occorre fare un passo indietro.
"In a dead man's town"
Sullo schermo del televisore, i lineamenti squadrati di Ronald Reagan parlano all'America. È notte nel New Jersey. L'eco del telegiornale si mescola ai pensieri, mentre le dita scorrono lungo le corde della chitarra acustica.
Dopo il tour di "The River", Bruce Springsteen sente il bisogno di un nuovo orizzonte. Non più solo la dimensione esistenziale del "runaway american dream" che ha sempre intessuto le storie dei suoi personaggi, ma la portata più marcatamente politica di una consapevolezza maturata nel corso degli anni.
Nel silenzio della sua casa del New Jersey, Springsteen prende un semplice registratore a quattro tracce e comincia a incidere nuove canzoni che parlano di delinquenti, poliziotti e giocatori d'azzardo. Soprattutto, parlano del nesso tra il cuore dell'uomo e la società che lo circonda: "c'è un sottile confine che divide l'eternità da quell'attimo in cui il tempo si arresta e tutto diventa nero, quando le cose che ti connettono al tuo mondo – il tuo lavoro, la tua famiglia, gli amici, la fede, l'amore – ti abbandonano".
Gli bastano chitarra e armonica, proprio come nei vecchi dischi di Woody Guthrie che ascolta sempre più spesso. All'inizio sono solo dei demo su cui lavorare con la E Street Band per il nuovo disco. Ma gli arrangiamenti che prova insieme al gruppo non riescono a cogliere l'essenza dei brani. O forse è lui che sente il bisogno di mettersi in gioco in prima persona, di cercare la propria strada senza più gli amici di sempre al fianco. Fatto sta che sono proprio quei demo ad andare a comporre uno dei capitoli più intensi della discografia di Springsteen, "Nebraska".
I dieci brani del disco, come al solito, sono solo una minima parte del materiale scritto durante la lavorazione di "Nebraska". Una canzone, in particolare, si incentra su un tema che Springsteen non riesce a togliersi dalla mente: la ferita che la guerra del Vietnam ha lasciato nel profondo dell'America. Come spiega lui stesso, è un brano che parla della "crisi spirituale di un uomo della working class. Non c'è più nulla che lo tenga legato alla società. Isolato dal governo, isolato dalla sua famiglia. Fino al punto in cui nulla sembra più avere senso". All'inizio l'ha intitolata semplicemente "Vietnam", proprio come la canzone del suo idolo Jimmy Cliff. Poi, però, il regista Paul Schrader, autore della sceneggiatura di "Taxi Driver" e "Toro scatenato", gli ha dato il copione di un nuovo film, chiedendogli di scrivere un brano per la colonna sonora. Il titolo è "Born In The U.S.A.". E Bruce capisce subito di avere trovato le parole che stava cercando.
"Like a dog that's been beat too much"
Per chiunque sia cresciuto in America a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il Vietnam è come un'ombra apparentemente impossibile da esorcizzare. All'inizio degli anni Ottanta, a poco più di un lustro dalla fine della guerra, i reduci del Vietnam sono dimenticati da tutti e abbandonati a loro stessi, come un peso da rimuovere dalla coscienza della Nazione. Springsteen rimane colpito dalle loro storie soprattutto dopo la lettura dell'autobiografia di Ron Kovic "Nato il quattro luglio", da cui Oliver Stone trarrà il celebre film con Tom Cruise.
Nel corso del tour di "The River", dedica un concerto all'associazione "Vietnam Veterans Of America" e proprio in quell'occasione spiega quale sia per lui il vero nocciolo della questione: "È come quando stai camminando lungo una strada buia, di notte, e con la coda dell'occhio vedi qualcuno che viene ferito o picchiato in un vicolo buio, ma tu continui a camminare perché pensi che non ha niente a che fare con te e che vuoi solo andare a casa. Il Vietnam ha trasformato il nostro intero Paese in quella strada buia. E se non siamo in grado di andare fino in fondo a quei vicoli bui e di guardare negli occhi gli uomini e le donne che sono laggiù e le cose che sono successe, non potremo più tornare a casa".
Ecco allora quello che sta più a cuore a Springsteen: raccontare di un vincolo di solidarietà che si è andato a spezzare. Un vincolo di solidarietà umana che è il legame capace di tenere unito un popolo. Il Vietnam è lo smarrimento della strada di casa, l'emblema del venir meno di quel legame. Cuori nati per correre che non hanno più nessun luogo dove andare, nessuna speranza per cui lottare: "Nowhere to run, nowhere to go".
Dal primo abbozzo di "Vietnam" nascono due brani: "Born In The U.S.A." e "Shut Out The Light", destinata a diventare la b-side del singolo. La versione di "Born In The U.S.A." che Springsteen registra nel gennaio del 1982 (e che verrà poi pubblicata nell'antologia di outtakes "Tracks") è scheletrica e amara come i momenti più emblematici di "Nebraska". Ma il destino è un altro, per questa canzone. Appena qualche mese dopo, Springsteen la registra nuovamente al fianco della E Street Band: sarà questa la versione che, nel 1984, darà il titolo al disco più venduto della carriera del rocker americano.
"Don't you understand now?"
Mentre Madonna si avventura in compagnia di un leone tra le calli di Venezia, c'è un video che mostra un'America fatta di fabbriche in crisi, tatuaggi di veterani e lapidi bianche allineate sull'erba di un cimitero. Un anticipo della stagione del gigantismo rock alle porte, da "We Are The World" al "Live Aid", deciso a cambiare il mondo dal palco di uno stadio. Ma a rimanere impressa, negli occhi di chi guarda MTV alla fine del 1984, è soprattutto l'immagine di quel cantante che urla nel microfono con una fascia nera sulla fronte e un giubbotto di jeans sopra la giacca di pelle, quintessenza di machismo che sembra uscire direttamente da una scena di "Rambo".
"Sapevo che "Born In The U.S.A." era una di quelle canzoni che ti capitano solo una volta ogni tanto", ammette Springsteen. "Aveva una forza dentro che sembrava indicare qualcosa di essenziale, un po' come "Born To Run" ". Il successo di "Born In The U.S.A.", però, supera anche le sue aspettative: pubblicato come terzo singolo tratto dall'album, il brano raggiunge la top ten di Billboard, scalando le classifiche di tutto il mondo e contribuendo a portare l'album al primo posto delle vendite negli Stati Uniti nel 1985. Quasi vent'anni dopo, "Rolling Stone" la includerà tra le 500 più grandi canzoni rock di tutti i tempi. Eppure, poche altre canzoni, nella carriera di Springsteen, sono state equivocate quanto "Born In The U.S.A.". "Per capire l'intento della canzone bisognava investire una certa quantità di tempo e di energie per assorbire sia la musica che le parole", osserva. "Ma questo non è il modo in cui molta gente usa la musica pop. Per la maggior parte della gente, la musica è prima di tutto un linguaggio emotivo; qualunque cosa tu abbia scritto nel testo viene quasi sempre dopo ciò che l'ascoltatore sta provando".
Tutta l'attenzione va a concentrarsi sull'enfasi a presa rapida del ritornello, trascurando la drammaticità della storia che racconta. In realtà, "Born In The U.S.A." è costruita secondo il canone tipico dei brani di Springsteen: "Nelle mie canzoni, la parte più spirituale, la parte della speranza è sempre nel chorus. Il blues e la realtà di tutti i giorni sono nei dettagli dei versi. È qualcosa che ho preso dalla musica gospel e dagli inni sacri".
L'episodio più clamoroso di questo fraintendimento avviene nel bel mezzo della campagna elettorale per la rielezione di Reagan, nell'autunno del 1984. Durante un comizio in New Jersey, infatti, il Presidente tenta di cavalcare il successo di "Born In The U.S.A.", affermando che il futuro dell'America "si trova nel messaggio di speranza delle canzoni che tanti giovani americani ammirano: quelle di Bruce Springsteen". La risposta di Springsteen non tarda ad arrivare e due giorni dopo, dal palco di una delle tappe del tour di "Born In The U.S.A.", il songwriter del New Jersey presenta così la sua "Johnny 99": "Il Presidente mi ha citato, l'altro giorno, e mi sono chiesto quale possa essere il suo album preferito. Non penso che sia "Nebraska". Non penso che abbia mai ascoltato questa canzone".
La scelta è tutt'altro che casuale: l'arringa finale con cui il protagonista di "Johnny 99" si rivolge al giudice che lo sta per condannare per una rapina finita in tragedia è la perfetta sintesi della visione springsteeniana: "Now judge, judge I had debts no honest man could pay/ The bank was holdin' my mortgage and they was takin' my house away/ Now I ain't sayin' that makes me an innocent man/ But it was more 'n all this that put that gun in my hand". In "Born In The U.S.A.", lo stesso giudizio si condensa in una frase, nell'impotenza di quel "Son, if it was up to me..." che soffoca ogni speranza di trovare un lavoro per i figli della working class di ritorno dalla guerra. Con buona pace del Presidente e del suo tentativo di procacciarsi un improbabile endorsement da parte della rockstar del momento.
"Burning down the road"
1996. Le urla hanno lasciato il posto ai sussurri, gli stadi ai teatri. Springsteen non indossa più la bandana degli anni Ottanta, ma una camicia da lavoro che evoca l'era della Grande Depressione. Il disco che presenta sul palco si intitola "The Ghost Of Tom Joad" ed è il suo primo album acustico dai tempi di "Nebraska". Anche "Born In The U.S.A." non è più la stessa: ora ha assunto l'aspetto di un blues aspro e tagliente, la melodia ridotta a un recitativo, l'esaltazione del chorus completamente prosciugata. Alla fine, la musica si spegne sul ritmo di una chitarra percossa come il battito di un cuore.
Non è facile convivere con una canzone tanto popolare da assumere i tratti dell'icona. "Il successo di "Born In The U.S.A. mi inquietava", ricorda Springsteen. "Sapevo che era impossibile raggranellare qualche dollaro senza sacrificare qualcosa sull'altare di Billboard, ma mi ritrovavo in una situazione in cui il mito del successo era così potente da schiacciare la storia che credevo di stare raccontando". Nonostante un'offerta milionaria, Springsteen rifiuta di concedere l'utilizzo del brano per uno spot pubblicitario della Chrysler: "Nel 1985 ero diventato un sottoprodotto della carne della catena alimentare degli Stati Uniti", riflette. Ma è impossibile sfuggire alla macchina del music business: il brano diventa così famoso da costringere persino Paul Schrader, l'inventore dello slogan "Born In The U.S.A.", a cambiare il titolo del suo film in "Light Of Day", prendendo spunto dal nuovo brano che Springsteen scrive per la colonna sonora della pellicola.
Springsteen sceglie così la via più dylaniana di tutte: riappropriarsi di "Born In The U.S.A." riscrivendola da capo. Non solo durante il tour di "The Ghost Of Tom Joad", ma anche in quello di "Devils & Dust", in cui l'acidità dell'armonica e i riverberi di un microfono distorto trasformano il brano in un selvaggio incubo alla Tom Waits. Ma non per questo Springsteen rinnega la versione "ufficiale" del brano: "Quelle interpretazioni risaltavano sempre grazie al confronto con l'originale e guadagnavano un po' del loro nuovo potere dall'esperienza precedente del pubblico con la versione dell'album. Nel disco, "Born In The U.S.A." era presentata nella sua forma più potente. Se avessi cercato di tagliare qualcosa o di modificare la musica, penso che avrei ottenuto un disco che avrebbe potuto essere compreso più facilmente, ma non così buono". Ecco perché, al fianco della rinata E Street Band, "Born In The U.S.A." può anche riprendere il suo volto più vigoroso e solenne: l'identità, ormai, è stata riconquistata.
La
parabola di "Born In The U.S.A.", insomma, ha molto a che vedere con la
natura stessa di una canzone, con l'essenza della sua forma espressiva:
"Il modo in cui si sceglie di presentare la propria musica rappresenta
il suo significato? Il suono e la forma che una canzone assume
costituiscono anche il suo contenuto?". A queste domande, Springsteen
risponde sottraendosi all'equivoco di una forma definitiva e immutabile,
per restituire al contenuto tutta la sua forza comunicativa. Una forza
che deriva direttamente dal rapporto intimo e viscerale con chi ascolta:
"Faccio il musicista per cercare e trovare i miei fratelli e le mie
sorelle. È questa l'essenza del mio lavoro". Il legame spezzato può
ancora riallacciarsi. Potenza di una canzone, e di un pugno teso verso
il cielo.
Born down in a dead man's town
The first kick I took was when I hit the ground
You end up like a dog that's been beat too much
Till you spend half your life just covering up
Born in the U.S.A.
I was born in the U.S.A.
I was born in the U.S.A.
Born in the U.S.A.
Got in a little hometown jam so they put a rifle in my hand
Sent me off to a foreign land to go and kill the yellow man
Born in the U.S.A.
I was born in the U.S.A.
I was born in the U.S.A.
Born in the U.S.A.
Come back home to the refinery
Hiring man says "Son, if it was up to me..."
Went down to see my V.A. man
He said "Son, don't you understand now?"
I had a brother at Khe Sahn fighting off the Viet Cong
They're still there he's all gone
He had a woman he loved in Saigon
I got a picture of him in her arms now
Down in the shadow of the penitentiary
Out by the gas fires of the refinery
I'm ten years burning down the road
Nowhere to run, ain't got nowhere to go
Born in the U.S.A.
I was born in the U.S.A.
Born in the U.S.A.
I'm a long gone daddy in the U.S.A.
Born in the U.S.A.
Born in the U.S.A.
Born in the U.S.A.
I'm a cool rocking daddy in the U.S.A.
L’umanità tra mistica e cultura digitale
di Gioacchino Toni
Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 212, € 17,00, ebook € 9,99
Nell’indagare la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico e l’immaginario attorno a cui si sviluppa, Guerino Nuccio Bovalino, nel suo volume Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi 2018) [su Carmilla], ha messo in luce come alle figure deistiche, mitologiche, religiose e ideologiche a cui l’essere umano ha storicamente fatto ricorso per colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita, si siano ormai sostituiti i media e gli immaginari derivanti dall’intrecciarsi di nuovi e vecchi simboli trasfigurati dalle nuove tecnologie.
Con il suo nuovo libro, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale (Luiss University Press, 2024), lo studioso continua la sua analisi indagando come, per affrontare le paure di questo mondo, gli esseri umani tendano sempre più ad affidarsi messianicamente alla tecnologia confidando nelle sue capacità salvifiche. Al centro del volume sono dunque le modalità contemporanee di sottrarsi alla realtà, tentativo che da sempre contraddistingue gli esseri umani «tra esodi e ritorni, tra terra e cielo, carne e spirito, beatitudine e dannazione, pesanti macchine e religioni eteree, algoritmi e preghiere». Modalità che oggi, sostiene Bovalino, guardano sempre più all’universo dell’intelligenza artificiale e, più in generale, al mondo delle tecnologie più avanzate come a potenze in grado di garantire una fuga dalla realtà, l’accesso al paradiso terrestre.
Con la Rivoluzione industriale prende il via il processo di colonizzazione dell’immaginario collettivo da parte delle macchine; l’essere umano, affogato in una massa indistinta, tenuto a vivere all’interno del sistema fabbrica/metropoli, si trova a vivere una situazione di spaesamento a cui non riesce più a dare risposta la proiezione salvifica personificata dalle tradizionali divinità.
Tale inedita configurazione dell’immaginario, scrive Bovalino, ha il suo mito fondativo nel frankensteiniano essere costituito con parti tratte da diversi corpi, efficace metafora «della massa indistinta che ha con-fuso gli esseri umani nel magma indistinto della nuova metropoli, e ibridato gli stessi con le macchine con le quali operano nelle fabbriche dalle quali sono agiti»1. Inoltre, il mostruoso frankensteiniano, non essendo più un’entità riconducibile al non-umano, si differenzia dall’idea di mostro propria dell’epoca pre-industriale. Non più figura pre-umana o dis-umana, il mostro si trasforma in un essere iper-umano o post-umano nella mitologia del cyborg e dell’androide. Si tratta di «una trasformazione sociale che sancisce la nascita di una relazione inedita tra organico e inorganico, carne e macchina»2. Come scrive Bovalino, si inaugura così una nuova idea di mostruosità non più fatta derivare da un qualche castigo divino, bensì proiezione di un disagio umano figlio delle trasformazioni introdotte dal processo di industrializzazione con la sua disseminazione di macchine.
L’avvento della fotografia sancisce il trionfo della dimensione immateriale su quella materiale; essa vampirizza il reale rendendo morto ciò che è vivo proiettandolo verso un’immortalità artificiale. La dilatazione delle esistenze determinata dall’eliminazione delle distanze spazio-temporali introdotta dalla metropoli trova nel cinema e, successivamente, nella televisione medium capaci di amplificare un processo che viene ripreso e amplificato dagli schermi dei computer e degli smartphone che, però, non rappresentano più una superficie trattenente ma un vortice, una vertigine risucchiante.
È ormai evidente la frattura tra l’essere sé stessi e l’essere ciò che si vuole apparire. I soggetti si muovono dentro le rete come fossero in esilio dal mondo fisico. Fuori dalla realtà cercano di ricostruire una verità alternativa di sé stessi e del mondo che li circonda. È l’affermarsi di una bolla, di un micromondo che il soggetto edifica lentamente, creando un ambiente digitale abitato molto spesso dai propri “simili”, coloro con i quali si condivide la visione del mondo o con cui, perlomeno, si reputa degno condividere le proprie idee3.
L’utopia digitale si è velocemente trasformata in distopia. «Lo splendore del consumo e il capitalismo gioioso si rovesciano, come katastrophé, in una fase cupa e crepuscolare caratterizzata dal controllo tecnologico e dallo sfruttamento dei dati degli utenti. È l’era della disillusione. Il crepuscolo delle tecnoutopie»4.
In Squid Game (2021-in produzione) di Hwang Dong-hyuk, nel suo presentarsi come “il gioco della fine”, suggerisce Bovalino, è possibile vedere una metafora della “fine dei giochi”, la catastrofe di un capitalismo che si manifesta direttamente nella sua crudeltà senza nemmeno mascherarsi dietro l’illusione spettacolare del consumo. L’universo messo in scena dalla serie coreana è costruito sulla colpa e sul debito. Chi partecipa al gioco mortale lo fa per ripagare i propri debiti così da poter essere reintegrato nel circuito perverso del consumo capitalista. Un circuito che non prevede via d’uscita non contemplando una reale espiazione del debito, della colpa: anche estinguendo il debito, il vincitore resta prigioniero delle atrocità commesse per raggiungere lo scopo.
Al capitalismo digitale si affida il compito di ordinare il mondo ma, scrive Bovalino, si tratta di un capitalismo triste e crepuscolare, palesante «una discrasia evidente fra le promesse di felicità e la rinuncia alla dimensione edonistica e onirica cui sottopone»5 l’essere umano.
La smaterializzazione digitale si trova ora costretta a confrontarsi con la percezione della fragilità umana, con la morte che, tra malattie e guerre, ha fatto irruzione nella realtà facendo riemergere il senso di finitudine umana. «Si tratta di un processo di ri-umanizzazione, fra androidi in lacrime perché bramano di divenire umani, guerre combattute sul campo, identità rinascenti, necessità di appartenenza e rinascita della più importante delle mitopoiesi realizzare dall’uomo: il ritorno del divino nella vita quotidiana»6.
Curiosamente, nel momento di massima espansione tecnologica, riemergono forme di vissuto arcaico in una variate che Vincenzo Susca ha definito tecnomagia [su Carmilla]: la dimensione magica viene riattivata dalla tecnologia. Alla smaterializzazione dei corpi umani succede l’umanizzazione delle macchine e l’intelligenza artificiale, con le sue capacità oracolari, si presenta come lo strumento di tale trasformazione, vera e propria tecno-magia.
La tecnologia non è la profezia ma “il profeta”: essa parla per conto dell’uomo nuovo, colui che vuole disintegrare ogni forma esistente e riconfigurare ogni ambito umano, ossia i nuovi creatori come Zuckerberg, Musk e Altman, i guru di Meta, X e Open AI. Dio parla ai profeti come l’uomo parla alla tecnologia, la con-forma e le fa “pronunciare” le parole che costruiscono e configurano il tempo a venire. L’IA è l’oracolo che parla la lingua dell’ultima versione, il più recente upgrade dell’homo deus. Nel profetizzare i futuri stravolgimenti, essa trasforma il reale e come ogni nuova lingua costruisce una inedita architettura della realtà, la ri-forma7.
A ben guardare, suggerisce Bovalino, l’IA ricalca, estremizzandoli, i valori della società capitalista contemporanea – velocità, efficienza, semplificazione, funzionalità – indirizzati al profitto associandoli ad una dimensione del controllo iperstatalista.
È un capitalismo antilibertario costruito su un patto iniquo fra il singolo che elemosina illusioni social tecno-utopiche e le grandi aziende che gliele forniscono chiedendo in cambio di poter nutrirsi dell’intimità del soggetto sotto forma di dati, materiale che usano per rendere più efficienti le loro macchine disumanizzanti. È un processo surreale per cui l’uomo concede alle azioni ciò che consente alle medesime di tenerlo sotto scacco8.
Il paradosso è che, come ormai tanta fantascienza di matrice distopica ha messo in scena, le ibridazioni tecno-umane finiscono per desiderare di essere soltanto umane. E ciò palesa l’incapacità dell’essere umano di immaginare qualcosa totalmente fuori da sé.
Opporsi alla nuova utopia/distopia del progressismo apocalittico, rimasta l’ultimo appiglio tattico cui aggrapparsi per sopravvivere dopo il fallimento definitivo del fideismo progressista, cesura che ci ha trasformati in zombie intenti a consumare la nostra residua energia nella lotta per scansare la fine. Soggetti e individui oppressi nell’ultima possibile narrazione: l’ideologia del penultimo. Il progressismo ormai ridotto alla stancante ricerca di estemporanee soluzioni utili a contrastare l’eterno non compiersi dell’apocalisse, che ci si prospetta di continuo sotto forma di mutanti, di virus, catastrofi ambientali e nuove guerre nucleari. L’uomo si è cristallizzato nella figura tragica di un disperato che staziona inerme al bordo di un precipizio: schiavo della paura che scaturisce dalla percezione dell’imminenza della morte mentre cerca di eluderla9.
Se, come è sempre stato, l’essere umano si trova a fare i conti con il vuoto, ad essere profondamente cambiato è il contesto e, con esso l’essere umano stesso, costretto a confrontarsi con inedite e disorientanti tecnomagie.
Note
Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, p. 39.
Ibid.
Ivi, p. 59.
Ivi, p. 115.
Ivi, p. 136.
Ivi, p. 139.
Ivi, pp. 183-184.
Ivi, p. 186.
Ivi, p. 194.
UE e NATO spingono alla guerra con la Russia
Si vocifera che Stoltenberg abbia dato ancora fiato alla bocca; ma limitiamoci alla prima presa d’aria e, prima di arrivare all’essenziale, constatiamo un paio di semplici dati di fatto.
I Paesi UE e NATO stanno cercando di aumentare la produzione di proiettili d’artiglieria – in particolare quelli da 155 mm – da destinare alla junta nazigolpista. Ma, nella maggior parte dei casi, “grazie” anche alla lungimiranza con cui Bruxelles ha condotto la propria politica sanzionatoria nei confronti delle risorse energetiche russe, e grazie alla successiva risposta di Mosca, pressoché tutte le imprese di produzione di materiali esplosivi dei paesi UE sono a corto di materia prima.
Di contro, la Russia è riuscita ad aumentare la produzione di proiettili d’artiglieria e missili di oltre cinque volte rispetto a prima del febbraio 2022 e produce tre volte più armamenti di tutti paesi occidentali presi insieme. Per il futuro molto prossimo, pronostica il politologo Ivan Kuzmenkin, quanto più a lungo i paesi UE continueranno a sostenere la junta, tanto più dura sarà la risposta sanzionatoria russa.
Ecco allora che le emissioni gassose di cui sopra del signor Stoltenberg, che dice di voler «evitare che questa guerra diventi un vero e proprio conflitto tra NATO e Russia», possono significare due cose: o ha ragione Crozza-De Luca, che sente il rumore della sorpresa nell’ovetto ogni volta che Jens agita la testa, oppure, per «garantire che prevalga» la junta nazista, la NATO ha davvero intenzione di passare all’uso di armi che non lascerebbero alternative alle decisioni di Mosca.
Nell’un caso e nell’altro, data per scontata una certa qual minima dose di acume anche nelle teste dei peggiori nemici, che consenta loro di intuire dove possano condurre le loro avventure, questi criminali guerrafondai vanno fermati.
Da Mosca non mandano a dir dietro che, in caso uno qualsiasi dei paesi NATO finisca per inviare propri soldati in Ucraina, quelli diverranno un “obiettivo legittimo” delle risposte russe.
A parere dell’esperto militare Viktor Litovkin, la firma apposta da Aleksandr Syrskij al documento che consente alla Francia o ad altri paesi NATO di inviare “istruttori” militari in Ucraina, per «portarla alla vittoria», non può che provocare una reazione russa non più solo contro le truppe di Kiev, ma anche contro quei “consiglieri”; anche se, sottolinea Litovkin, né NATO, né USA intendono arrivare a un conflitto diretto con la Russia, che non risponde ai loro interessi.
La NATO non prenderà ufficialmente parte al conflitto, afferma Litovkin, e si limiterà alle forniture di armi, pur se già oggi operano in Ucraina non pochi “istruttori” occidentali, come ad esempio quelli che manovrano i sistemi “Patriot” – dai 50 ai 60 uomini per una sola batteria delle numerosissime già presenti – o altri mezzi sofisticati occidentali.
Ora, più nello specifico, a proposito della possibilità avanzata da Kinder-Jens che Bruxelles tolga le limitazioni all’uso delle armi occidentali da parte di Kiev per colpire il territorio russo, l’osservatore militare Jurij Selivanov scrive su news-front.su che oggi siamo vicini a quell’ultima «fermata, sulla via dell’Eternità, che gli analfabeti politici occidentali, reclutati a suo tempo tra piccoli avvocati al dettaglio e altri bottegai dalla stessa logorrea, il cui guasto ego impedisce loro di ascoltare l’opinione di persone ragionevoli, possono semplicemente non vedere e saltare, data la loro fatale carenza di buonsenso e conoscenza. Dato però che questa è l’ultima tappa sulla via dell’Ade, dopo sarà tardi».
In sostanza, se quei soliti “istruttori”, o per loro gli scagnozzi ucraini, continueranno a colpire obiettivi strategici russi, come, per esempio, alcuni sistemi di rilevamento di attacco missilistico (SPRN: sistema predupreždenija o raketnom napadenii; Early-warning radar) come pare si sia già verificato, e, in particolare, le postazioni di localizzazione lontana (ZGRLS: zagorizontnaja radiolokatsionnaja stantsija; Over-the-horizon radar), si verificherà un sostanziale “accecamento” dei sistemi russi di difesa strategica antimissilistica.
Il che significa: minaccia diretta di attacco improvviso e distruttivo nemico al territorio russo e, in base alle procedure messe a punto da tutte le potenze nucleari proprio per tali eventualità, la conseguenza sarà il lancio automatico di missili russi verso gli obiettivi nemici, computerizzati nei loro programmi di volo. In altre parole, Mosca non avrà nemmeno bisogno di aspettare che i razzi nemici raggiungano il suo territorio: il colpo di risposta partirebbe in maniera automatica, vuoi verso Aviano, Ghedi, o qualunque altra base USA-NATO.
D’altronde, pare che, purtroppo, le cose si muovano piuttosto velocemente: in occasione della Giornata delle guardie di frontiera, il generale Vladimir Kulišov, a capo del Servizio di frontiera russo, ha dichiarato che paesi della NATO sono presenti in alcune attività, sia di intelligence che di preparazione operativa bellica, nei pressi dei confini russi, e ciò può essere interpretato come diretta preparazione a uno scontro con la Russia, senza escludere lo scenario atomico.
Ci mette del suo, com’è naturale, la junta di Kiev, osserva Aleksandr Sokurenko su Ukraina.ru, che fa di tutto per destabilizzare la situazione e provocare il panico tra la popolazione, non solo ucraina, in compagnia dei media occidentali, con le loro «operazioni informative e psicologiche in cui vengono diffuse false informazioni anti-russe».
Per esempio, dopo le disfatte a Avdeevka e Volchansk, i talk show ucraini si sono dati a diffondere tra il pubblico russofono voci secondo cui le truppe ucraine in ritirata sarebbero state portate in salvo da forze americane, britanniche o tedesche.
Nei fatti, in più di un’occasione il Pentagono ha apertamente dichiarato che, nel corso di varie manovre, bombardieri strategici USA e aviazione NATO si sono esercitati in attacchi nucleari su Crimea e Kaliningrad e anche a penetrare nelle difese aeree e missilistiche russe, per colpire silos missilistici, quartier generali, impianti industriali e snodi di trasporto russi.
Non da ora Washington, Londra e altri paesi occidentali si preparano alla guerra: lo fanno sin dal 1945, quando programmavano di colpire mille città sovietiche con missili nucleari.
Oggi, il problema è abbastanza banale, dice Sokurenko: temono di ricevere una risposta che «trasformerebbe i meravigliosi paesaggi del Mondo Occidentale in un deserto»; tanto più che se gli USA sono meglio protetti dal proprio “ombrello atomico”, in Europa «il cielo è bucherellato come formaggio, nel senso antiaereo del termine».
Che aggiungere? Ricordando alcuni passi delle memorie dell’ex ambasciatore sovietico in Gran Bretagna dal 1932 al 1943, Ivan Majskij, tornano alla mente i tentativi intrapresi dall’URSS, fino all’agosto del 1939, per mettere in piedi un sistema di sicurezza collettiva – una «pace indivisibile», secondo il Ministro degli esteri sovietico Maksim Litvinov, contro la fallace «sicurezza occidentale» di Chamberlain-Deladier – che impedisse a Italia e Germania di portare a compimento le loro mire aggressive in Europa e Africa.
E ci si ricorda di come invece Londra e Parigi avessero fatto di tutto per sabotare le iniziative sovietiche, certe di poter uscire indenni dallo scontro Germania-URSS che pianificavano almeno dal 1925.
Il risultato fu la guerra di sterminio che sappiamo, col corollario che proprio Francia e Gran Bretagna furono le prime vittime dell’attacco nazista. Ciechi e ignoranti.
È possibile che tra una decina d’anni, ha dichiarato Viktor Orban al canale “Patriòta”, ciò che sta avvenendo ora venga definito «preludio alla Terza guerra mondiale. Non si può escludere che se le cose si mettono male e noi non possiamo controllare la psicosi bellica che sta crescendo in Europa, la storia di questi anni non sarà che un episodio dei primi anni di una grande guerra mondiale. La Commissione europea si sta trasformano in fretta in un consiglio di guerra e l’Europarlamento in un organo di guerra».
Ignoranti e ciechi guerrafondai.
Fonte
I Brics anticipano la caduta del dollaro
I tempi in cui gli Stati Uniti dettavano legge al mondo intero sembrano ormai lontani, se teniamo conto del legame stretto che esiste tra una serie di eventi apparentemente non correlati che si sono consumati nelle ultime settimane.
Naturalmente, Washington e i suoi alleati dispongono ancora di molti mezzi d’azione ufficiali o segreti, sia legali che illegali, per imporre i propri interessi. Ma si scontrano sempre più frequentemente e con maggiore forza con le affermazioni di sovranità nazionale in tutti i campi, da quello militare a quello economico, da quello politico a quello diplomatico.
Anche senza essere esaustivi non sarà inutile ricordare qualche fatto importante, avvenuto in questi campi nelle ultime settimane.
Riconquista di sovranità
Cominciamo dal settore militare, dove gli Stati Uniti dispongono ufficialmente di 800 basi militari all’estero con quasi 200.000 soldati, praticamente il 10% del totale del personale militare statunitense. In confronto, la Russia ha solo una ventina di basi militari all’estero, situate principalmente sul territorio delle ex repubbliche sovietiche. La Cina, invece, ha solo una base militare all’estero.
Nonostante questa situazione, l’annuncio, a febbraio 2024, dell’apertura di una base militare russa in Centrafrica ha dato luogo ad una serie di dichiarazioni occidentali sul pericolo imperialista russo. I programmi di progetti simili in Burkina Faso, in Sudan e in Niger sono stati commentati ampiamente con lo stesso leitmotiv.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole della propaganda statunitense, a parte il fatto che si scontra con l’indifferenza di un numero di paesi sempre più numeroso.
È il caso del Niger, dove il governo non solo ha chiesto agli Stati Uniti di rimpatriare i suoi soldati di stanza in due basi sul territorio nazionale, ma ha anche reagito prontamente alla lentezza di Washington. In reazione alla lentezza degli Stati Uniti nel lasciare il Niger, con il pretesto che ci vuole tempo per trasferire le truppe nei Paesi vicini, il governo nigerino ha semplicemente autorizzato il governo russo a dislocare i propri soldati in queste due basi ancor prima della partenza delle truppe statunitensi. In un certo senso, si tratta di un modo per avvertire e anticipare eventuali volontà velleitarie statunitensi di mantenere delle forze sul territorio nazionale nigerino.
Dopo il ritiro delle truppe francesi dal Mali, dal Niger e dal Burkina Faso e la creazione, a marzo, dell’Alleanza degli Stati del Sahel, che prevede l’istituzione di una forza militare congiunta, stiamo assistendo a un’importante espressione delle sovranità nazionali in materia di difesa di fronte alle consuete interferenze di Francia, Stati Uniti e NATO.
Visioni politiche contrapposte
In termini politici, la vittoria elettorale del candidato dell’opposizione Bassirou Diomaye Faye rafforza l’influenza delle forze patriottiche nella regione. Sebbene sia ancora troppo presto per valutare l’impatto di questa vittoria democratica sulla regione, è innegabile che sia vista come un segno di speranza per tutti coloro che sperano in una rottura con le politiche neocoloniali.
Molti commentatori editoriali hanno cercato di contrapporre l’esperienza senegalese a quella dell’Alleanza degli Stati del Sahel. La prima viene descritta come democratica e la seconda come dittatoriale. Ancora una volta, l’obiettivo è dividere per regnare, opporre per manovrare, adulare per manipolare.
Su un’altra questione, quella del genocidio subito dal popolo palestinese, gli Stati Uniti hanno appena ricevuto una batosta mondiale in seguito al voto, da parte di 143 Stati su 194, di una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiede il riconoscimento dello Stato di Palestina come Stato membro.
Si tratta di uno schiaffo a Washington, poiché sono sttati i successivi veti degli Stati Uniti in seno al Consiglio di Sicurezza a bloccare l’adesione della Palestina. La Colombia ha persino deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con lo Stato sionista e la Turchia è stata costretta, di fronte alla mobilitazione dell’opinione pubblica, a interrompere le relazioni commerciali con Tel Aviv.
Il nervo della guerra
È sul fronte economico, ovviamente, che si svolge il principale confronto tra l’unilateralismo statunitense e l’emergente mondo multipolare. Ne è testimonianza la dichiarazione rilasciata il 3 maggio dal rappresentante russo presso il Fondo Monetario Internazionale, Alexey Mozhin.
Mozhin ritiene che “I BRICS devono prepararsi a un eventuale collasso del sistema monetario internazionale. È possibile anticipare questa crisi creando una moneta basata su un insieme di valute dei Paesi membri. Una proposta di questo tipo è attualmente in fase di elaborazione. In caso di un crollo del dollaro e del sistema monetario internazionale, sarà ovviamente necessario trasformare l’unità contabile dei BRICS in una vera e propria valuta”.
Questo annuncio estende i piani di accelerazione della dedollarizzazione, annunciati dai BRICS all’inizio del 2024. L’obiettivo per quest’anno è di raggiungere il 30% del commercio denominato in una valuta diversa dal dollaro.
Lo scorso gennaio, il vice ministro delle Finanze russo, Ivan Chebeskov, ha dichiarato che “la maggior parte dei Paesi BRICS crede nella necessità di effettuare i pagamenti in valuta nazionale. Siamo già una grande famiglia composta da dieci nazioni. La maggior parte di loro sostiene la necessità di creare nuovi meccanismi di pagamento e condivide la propria esperienza nello sviluppo di valute digitali delle banche centrali”.
Moneta alternativa
In altri termini, i BRICS (Brasile – Russia – India – Cina – Sudafrica) tentano di liberarsi dalla rete SWIFT creando un sistema alternativo di pagamento internazionale.
Ricordiamo che la rete internazionale di pagamenti SWIFT riunisce migliaia di istituzioni finanziarie in tutti i paesi del mondo. Il potere degli Stati Uniti di disconnettere un Paese dalla rete SWIFT ha quindi effetti economici immediati, gli scambi economici diventano molto più complicati e tendono a diminuire rapidamente.
La minaccia di disconnessione è un’importante arma di ricatto che è già stata usata in diverse occasioni: due volte contro l’Iran, una contro la Corea del Nord e attualmente contro la Russia come sanzione per la guerra in Ucraina. La seconda banca russa, VTB, ha annunciato una perdita di 612 miliardi di rubli per il 2022 a causa della disconnessione dalla rete SWIFT. Solo lo sviluppo del commercio in altre valute ha permesso alla Russia di evitare il collasso economico.
Aprendo la strada alla dedollarizzazione e all’eventuale creazione di un nuovo sistema di pagamento internazionale, basato prima su una nuova unità contabile comune e, in seguito, eventualmente, su una nuova moneta internazionale, uno dei mezzi principali del ricatto degli Stati Uniti è messo sotto attacco.
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Trilaterale Pechino-Seoul-Tokyo. Il significato nella competizione globale
Il dialogo tra queste tre potenze dell’estremo Oriente si era fermato all’inizio del 2020, con l’arrivo del COVID-19. E di sicuro le ultime tensioni sollevatesi intorno al punto di frizione principale dell’Indo-Pacifico, ovvero l’indipendenza di Taiwan, sembravano poter porre già un’ipoteca pesante sull’andamento dell’evento.
Infatti, Corea e Giappone sono due degli alleati principali degli USA nel settore, anche se negli ultimi anni non sono mancate crepe nelle relazioni. Proprio la seconda metà dello scorso decennio aveva segnato uno dei periodi più burrascosi dai tempi della normalizzazione del 1965, ma nell’ultimo paio di anni era tornata una certa distensione.
La spinta alla divisione in blocchi e il ritorno alla logica della Guerra Fredda da parte di Washington ha sicuramente riavvicinato Tokyo e Seoul. Oltre ai timori sulla Corea del Nord, che proprio in questi giorni aveva notificato il lancio di un satellite, in contemporanea al vertice.
Ma in realtà, le vicende riguardanti Taipei e Pyongyang, affrontate nei faccia a faccia, sono state lasciate fuori dal trilaterale. Nel comunicato congiunto dei tre paesi, è comparsa però la formula della “denuclearizzazione della Penisola Coreana“, che può riguardare tanto la Corea del Nord (che ha fatto le sue rimostranze), quanto i futuri piani statunitensi in quella del Sud.
Il dialogo si è concentrato invece sugli scambi accademici e turistici, sulla cooperazione sul clima e sulla pianificazione pandemica. Il primo ministro cinese ha parlato di un “riavvio” e “un nuovo inizio” nelle relazioni, ribadendo che le questioni politiche dovrebbero essere separate da quelle economiche (criticando in maniera poco velata protezionismo, sanzioni e de-risking).
Uno dei temi più a cuore per il Dragone era ridare slancio ai colloqui sull’accordo di libero scambio, fermi dal 2020, e dunque rinsaldare le catene di fornitura, in particolare per il settore dei semiconduttori. È notizia di questi giorni che Pechino ha fatto un altro grande passo nel confronto sui chip con Washington.
La Cina ha istituito il suo terzo – e per ora più sostanzioso – fondo di investimento per sviluppare l’industria dei semiconduttori. Si tratta di 47,5 miliardi di dollari, in cui il maggior azionista è il ministero delle Finanze: uno sforzo di pianificazione economica, che può fare gola anche alle compagnie appena al di là del confine.
I tre leader hanno incontrato anche vari dirigenti aziendali, concordando che lavoreranno a stabilizzare le catene di approvvigionamento. Domenica, il primo ministro cinese aveva incontrato il presidente di Samsung, colosso sudcoreano dei chip, invitandolo ad aumentare gli investimenti nel Dragone.
L’attivismo diplomatico cinese delle ultime settimane continua senza sosta, usando in maniera cauta e coordinata accordi economici vantaggiosi per tutti e la propria forza mediatrice sui dossier politico-militari di maggior frizione. Per ora, i passi fatti sono un win-win per tutti, ma funzionano in un gioco incrociato sempre più teso.
Paradossalmente, Giappone e Corea del Sud hanno stabilizzato i propri rapporti e hanno deciso di riaprire il dialogo con la Cina proprio perché gli USA sono riusciti a incassare un importante accordo a tre lo scorso agosto, a Camp David. Le rassicurazioni statunitensi e l’approfondimento della cooperazione militare e di intelligence fanno sentire Tokyo e Seoul più sicuri.
Insomma, l’Indo-Pacifico rimane stretto in un rapporto di competizione, con Cina e Stati Uniti come principali attori, in un tira e molla in cui la prima cerca di rafforzare le interdipendenze, innanzitutto a livello economico, e i secondi alzano l’asticella dello scontro sul piano militare.
È di certo a quelle latitudini che, piano piano, bisogna spostare lo sguardo, se si vuole parlare di come raggiungere una pace stabile.
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Georgia - Approvata la legge sui “portatori di interessi stranieri”
Sul nostro giornale abbiamo reso conto con più di un pezzo delle vicende convulse dell’ultimo mese a Tbilisi. Senza ripetere di nuovo le contraddizioni del paese da cui emerge la legge e l’ipocrisia occidentale nell’intervenire sul tema, rendiamo conto della situazione in Georgia e dei commenti arrivati in seguito al voto.
Dopo di esso, i parlamentari di opposizione si sono uniti ai manifestanti, in piazza sin dalla mattina. Le proteste sono andate avanti fino a notte, continuano tuttora e probabilmente continueranno nei prossimi giorni, almeno fino alla firma finale del provvedimento e alla sua effettiva entrata in vigore.
Alcuni esponenti di organizzazioni non governative hanno esplicitamente detto che la legge rimarrà solo sulla carta. Di sicuro affermazioni che non rassicurano sul clima del paese e sulla tenuta del sistema sotto l’azione di queste realtà, che è poi il motivo per cui la norma è stata originariamente pensata.
Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller ha affermato: “terremo conto delle azioni di Sogno Georgiano (partito alla guida della maggioranza, ndr) nel prendere le nostre decisioni“. Si era già diffusa la voce di sanzioni ad esponenti della formazione politica, evitabili se fosse stato accettato un piano di aiuti offerti da Washington.
Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha sottolineato che “prenderà in considerazione tutte le opzioni” per contrastare in sostanza questa nuova norma, e includerà la questione georgiana al prossimo Consiglio. Ricordiamo che Michel è colui che ha detto che in UE si può governare con le estreme destre.
A meno che non succedano rovesciamenti fuori dal recinto della ‘democrazia‘, ora la partita è rimandata a ottobre, quando si svolgeranno le elezioni. Gli oppositori alla legge hanno già cominciato a muoversi in questa direzione.
La presidente Zourabichvili il 26 maggio, giorno della dichiarazione di indipendenza della Georgia nel 1918, ha presentato il “Manifesto georgiano“. Alla presenza di molti esponenti dell’opposizione e diplomatici, ha preparato il terreno per lo schieramento che affronterà Sogno Georgiano alla tornata elettorale.
“È necessario creare una nuova realtà politica per adempiere ai principi di questo Manifesto“. Non resta che attendere i successivi sviluppi e guardare alle elezioni di ottobre, quando si giocherà una partita importante su Tbilisi.
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30/05/2024
Le “relazioni pericolose” di Ursula Von der Leyen
La credibilità politica, economica, sociale e culturale delle istituzioni europee ha regredito considerevolmente. Sono emerse divisioni e spaccature sempre più numerose tra i Paesi membri, in tutti i settori: il sociale, la sicurezza, i rifugiati, quello economico e monetario, ecc..
La corruzione, grazie a migliaia di lobby, colpisce la Commissione di Bruxelles e il suo Presidente quanto il Parlamento stesso. L’UE per esistere cerca di compensare il suo funzionamento antidemocratico ricorrendo all’autoritarismo e attaccando le libertà fondamentali.
Come abbiamo visto in Ucraina, in Medio Oriente e nei confronti della Cina, il suo servilismo nei confronti degli Stati Uniti dà la misura di come questa crisi esistenziale derivi dalla natura stessa dell’Unione.
Come ai loro inizi, le istituzioni europee continuano a sviluppare un legame stretto con le forze politiche più retrograde dell’estrema destra neofascista. L’UE sta crollando sulle sue fondamenta, è isolata e non c’è modo di scommettere sul suo futuro. In realtà, non ha prospettive, e il peggio deve ancora arrivare.
D’altra parte, questo innegabile sviluppo dell’Europa non è indifferente o separato agli inizi di un cambiamento significativo negli equilibri di potere nel mondo a cui stiamo assistendo: anzi, quest’evoluzione ne è un elemento rivelatore.
Dopo più di 30 anni dalla distruzione dell’URSS e dei Paesi socialisti dell’Europa orientale, il potere unipolare stabilito dagli Stati Uniti con l’appoggio dei suoi vassalli europei viene ora messo apertamente in discussione. Il sistema dominante si sta incrinando e dobbiamo prenderne atto.
L’imperialismo oggi è costretto a affrontare un crescente disconoscimento e una messa in dubbio della sua autorità da parte dei popoli e dei lavoratori, compresi quelli del suo stesso campo, in particolare i giovani. Inoltre, molti Paesi in via di sviluppo stanno cercando di liberarsi da questa volontà egemonica che si sta cercando di imporgli a qualunque costo.
L’Occidente cerca di imporre questo soffocante stato di subalternità con tutti i mezzi possibili, comprese le guerre e persino la minaccia di una terza guerra mondiale.
Questo avviene chiaramente nel caso dell’Ucraina, con la guerra contro la Russia, gravida di minacce nucleari e per la quale gli Stati Uniti e l’Europa chiedono di combattere fino all’ultimo ucraino per moltiplicare i profitti del complesso militare-industriale, al prezzo di una regressione sociale e di un costo umano senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale.
Infatti, il declino del sistema occidentale dominante continua ad aggravarsi di fronte alla resistenza dei popoli. Il loro ruolo è decisivo per questo cambiamento. Questo è quanto stiamo vedendo in Palestina e attraverso lo straordinario movimento di solidarietà mondiale di cui sta beneficiando la resistenza della nazione palestinese.
Siamo di fronte anche a una nuova generazione di lotte di emancipazione dal colonialismo, osservabili in Africa occidentale, in diversi Paesi dell’America Latina e dell’Asia e più recentemente in Nuova Caledonia, dopo Mayotte, dove l’arroganza neocoloniale e razzista francese è diventata intollerabile.
L’incontro del luglio 2023 del Gruppo di Iniziativa di Baku (Azerbaigian) con il Movimento dei Non Allineati e i 14 movimenti indipendentisti delle ultime colonie francesi, tra cui la Polinesia, che lottano per una vera decolonizzazione e autodeterminazione, ne è un’importante dimostrazione.
Alleanze anti-egemoniche
Questo è anche il caso delle alleanze anti-egemoniche che si stanno formando e che stanno scuotendo la geopolitica. Lo dimostra l’ascesa al potere di diversi Paesi emergenti, con la Cina che svolge un ruolo centrale nell’alleanza politica, economica, finanziaria e presto anche monetaria dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
Nel gennaio 2024, questa alleanza è stata rafforzata dall’adesione di cinque nuovi membri, tra cui Iran e Arabia Saudita, mentre altri Paesi come Venezuela e Algeria sono candidati a far parte del gruppo. Sul fronte monetario e commerciale, sono degni di nota anche la tendenza alla de-dollarizzazione, la spettacolare vitalità del mercato dell’oro, il massiccio abbandono da parte della Cina dei buoni del tesoro statunitensi e la creazione di nuove istituzioni internazionali parallele a quelle di Bretton Woods.
Questi sviluppi illustrano la scelta fatta da un numero crescente di Paesi a favore di un nuovo ordine economico internazionale. Molti Paesi vogliono ora affermare la propria indipendenza per poter prendere decisioni sovrane sulle proprie risorse, sulle proprie scelte politiche e sui contenuti del proprio sviluppo economico e sociale.
Dobbiamo quindi chiederci quali siano le cause e il significato profondo di questi cambiamenti senza precedenti. Essi stanno accelerando e determineranno le relazioni internazionali in un futuro molto prossimo. Sono fondamentalmente caratterizzati da contraddizioni internazionali sempre più acute.
Da un lato, il campo occidentale è ostinato e testardo: “se abbassiamo la guardia, il mondo liberale scomparirà” avverte Francis Fukuyama. Dall’altro lato, il vasto mondo che erroneamente chiamiamo Sud globale si sta ribellando, e il sostegno non gli manca!
In questo peggioramento del conflitto globale, la divisione internazionale del lavoro che un tempo prevaleva è diventata insostenibile. Questo è il caso tra dominanti e dominati, tra la necessità di sviluppo e la finanziarizzazione globalizzata, tra la disuguaglianza e l’accumulo di ricchezza e privilegi nelle mani di pochi parassiti, tra le nazioni che hanno una visione di giustizia sociale e di cooperazione win-win e quelle per cui la ricerca del massimo profitto significa distruggere le conquiste sociali ed economiche delle popolazioni.
La causa principale di questa crisi non è tanto la forma che assume, anche se non può essere trascurata, ma piuttosto la sua sostanza e ciò che dimostra sulla nocività di un sistema anacronistico che non è altro che il capitalismo, diventato totalmente obsoleto e incoerente rispetto alle esigenze del futuro dell’Umanità.
Di conseguenza, le prospettive immediate sono un periodo di grande turbolenza dall’esito incerto. Questo violento disordine è destinato a peggiorare. L’iperinflazione, l’indebitamento, le disuguaglianze senza precedenti, le tensioni sociali di ogni tipo, il futuro e lo status dei rifugiati, i conflitti minacciosi e le guerre ad alta intensità contribuiranno a un’instabilità politica cronica.
Questo stato di cose sconvolgerà l’ordine esistente dovunque, e in particolare in Paesi come gli Stati Uniti, dove la società è già estremamente frammentata, come dimostreranno le prossime elezioni presidenziali. Probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg.
Libertà fondamentali minacciate
Di fronte a questa tendenza, la messa in dubbio delle libertà fondamentali che tutti possiamo osservare continua dovunque senza sosta. Anzi, peggiora in modo preoccupante. È una delle caratteristiche della violenza di Stato a cui Emmanuel Macron e il suo governo fanno sistematicamente ricorso.
Si abbatte brutalmente sui lavoratori non appena esprimono le loro rivendicazioni, sui giovani e persino sui parlamentari. Dopo il movimento dei gilet gialli, la polizia ma anche il sistema giudiziario, con la magistratura, hanno mostrato uno zelo degno di qualsiasi regime in cui le libertà democratiche sono state bandite.
È per questo che oggi possiamo affermare che questo neofascismo non ha assolutamente bisogno di bande armate per distruggere le organizzazioni politiche e sindacali, o per farla finita una volta per tutte con le conquiste operaie. Semplicemente per il fatto che i governi che si sono succeduti hanno fatto di tutto per realizzare questo progetto.
I partiti sono stati atomizzati, i sindacati sono stati declassati e le istituzioni rappresentative fanno ormai parte dell’Unione Europea, che impedisce loro di pensare in modo critico o di agire in modo indipendente: è così che operano i parlamenti nazionali.
Questo avviene anche nella narrazione mediatica, dove i fatti vengono raccontati attraverso un modello caricaturale di pensiero unico, ripetuto più volte in modo uniforme, nonché attraverso il controllo e la repressione meticolosa sui social network e la pratica sistematica della confusione.
L’obiettivo è quello di imbavagliare tutti gli ambiti della libertà di espressione, come richiesto dalla direttiva emanata dal Commissario europeo Thierry Breton, o come illustrato dal caso di Guillaume Meurice, il comico sospeso da Radio France per aver osato criticare il criminale di guerra Netanyahu.
La maggior parte delle forze politiche e sindacali utilizza la minaccia dell’estrema destra neofascista come spauracchio per mobilitare l’opinione pubblica in termini elettorali e sociali. Ne parlano in modo fine a se stesso, senza alcun rapporto con le cause reali della sua influenza. Non la stigmatizzano; al contrario, la demonizzano, anche rendendola più accessibile e promuovendola nei media.
In Francia, politici, sindacalisti e opinionisti stanno mettendo in atto una forma di Union Sacrée, di governi di unità nazionale. Il suo scopo è quello di essere consensuale, ma non di affrontare le vere ragioni che stanno alla base dei legittimi risentimenti di un gran numero di lavoratori e cittadini, né la necessità di un’autentica alternativa politica.
Quindi, piuttosto che mettere in discussione la sostanza, si preferisce distogliere l’attenzione e parlare d’altro.
A tal fine, si sta costruendo una cortina di fumo sul disastro economico, sociale e politico, sulle minacce alla pace e alle libertà individuali e collettive poste dalle politiche del governo e dell’Unione Europea. In realtà, l’obiettivo è quello di salvare il sistema capitalista in profonda crisi, concedendogli nuovi condoni affinché possa continuare il suo malaffare, se necessario ricorrendo alle peggiori idee reazionarie.
Quali sono i germi dell’estrema destra?
In realtà, per soffocare la resistenza, l’élite al potere in Francia, come nella maggior parte degli altri Paesi europei, ha bisogno di estremisti di destra e neofascisti. Ecco perché la borghesia sta deliberatamente creando questo clima politico oscurantista e arretrato in cui possono crescere i semi dell’estrema destra e del fascismo. Tanto più che in realtà il loro programma è identico.
Infatti, insieme lo mettono in pratica e lavorano a stretto contatto. Questo è più evidente nella brutale repressione dei movimenti sociali e nel rifiuto di tutte le politiche sociali, nello sfruttamento dell’insicurezza, nella persecuzione dei rifugiati o nelle manifestazioni contro il genocidio a Gaza. Questo si può vedere nelle votazioni dell’Assemblea nazionale francese e del Parlamento europeo.
La violenza delle misure anti-immigrazione del governo ha persino portato Marine Le Pen a dichiarare che il governo si era ispirato al programma del Rassemblement National. Per lei si tratta di una vittoria ideologica. Il primo ministro Gabriel Attal si appresta a ripetere questo approccio con una misura autoritaria che prevede il ritiro dei sussidi alle famiglie in nome della sicurezza scolastica.
In queste condizioni, la responsabilità dell’ascesa dell’estrema destra ricade interamente sulle forze politiche ed economiche che attualmente determinano la politica in Francia, così come a livello europeo. Pertanto, l’idea che l’ascesa dell’estrema destra possa essere fermata votando per questi partiti di sinistra, verdi, socialdemocratici o liberali e conservatori è una pericolosa illusione.
La realtà è ben diversa. La lotta contro l’estrema destra non è una questione di aritmetica elettorale, ma di dinamica delle lotte di classe. È questo che ci insegna la storia! Le prime battaglie contro l’occupazione hitleriana della Francia e la collaborazione di Vichy sono state combattute attraverso manifestazioni operaie che chiedevano pane e sapone. Non dimentichiamolo.
Il modo migliore per lottare contro l’estrema destra propagandata dalla partnership tra Emmanuel Macron, Marine Le Pen e i padroni è quello di lottare per le rivendicazioni e per una vera rottura con il capitalismo e la sua ideologia mortale. Ma stranamente le confederazioni sindacali non si vedono.
In definitiva, le politiche di Emmanuel Macron, come quelle di Bruxelles e dell’estrema destra, sono al servizio del capitale finanziario globalizzato, la cui funzione è quella di continuare il saccheggio del lavoro e delle risorse naturali in tutte le loro forme sia in Europa che nei Paesi in via di sviluppo e nel resto del mondo.
Lo stesso vale per il debito, che è il mezzo usato e abusato dalle economie occidentali per arricchire ulteriormente la sanguisuga che è diventata il sistema finanziario globale. È per questo motivo, e non per altro, che si vogliono creare le condizioni necessarie per l’instaurazione di uno stato di polizia diretto contro la classe operaia nel suo complesso.
In realtà, la responsabilità dell’ascesa dell’estrema destra nelle elezioni in Francia e in Europa è da attribuire alle politiche attuate dai principali leader europei nei rispettivi Paesi, a prescindere dalla loro affiliazione politica e dalla complicità di cui godono. È spaventoso constatare che nessun sindacato mette in discussione coloro che, attraverso il contenuto delle loro decisioni, sono all’origine dell’influenza dell’estrema destra.
Ursula Von der Leyen complice dell’estrema destra
D’altra parte, è vero che in Europa Ursula Von der Leyen lavora da tempo a stretto contatto con la neofascista Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, nonché Presidente dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR), gruppo parlamentare a cui appartengono la maggior parte delle forze politiche di estrema destra.
Von der Leyen ha applicato il recente inasprimento della legislazione europea in materia di asilo, ispirato alle politiche di Giorgia Meloni. Von der Leyen intende addirittura spingersi oltre, adottando il sistema che il primo ministro britannico ha appena messo in atto per respingere i rifugiati in Ruanda, indipendentemente dalla loro nazionalità.
In realtà, gli attuali rappresentanti di spicco della Commissione di Bruxelles e del Parlamento europeo si stanno preparando a collaborare strettamente con i partiti di estrema destra. In questa configurazione, non è più un mistero che questi partiti saranno chiamati a svolgere un ruolo importante dopo le elezioni, sia nel Parlamento europeo che nella Commissione europea.
Il famoso muro contro l’estrema destra, o cordone sanitario, che è sempre stato una finzione, cadrà definitivamente.
Nel frattempo, i media continueranno a intrattenere la galleria con le presunte performance elettorali di una parte o dell’altra, o con la prospettiva di un dibattito Le Pen / Macron. Questi giochi politici servono solo a distogliere l’attenzione della gente. Contribuiscono a riattivare coloro che vengono presentati come avversari, ma che in realtà sono accoliti e associati allo stesso sistema di inganni.
Ursula Von der Leyen, la stessa persona che, al fianco del Cancelliere tedesco, ha ricevuto una lunga standing ovation e il sostegno incondizionato di tutti i delegati al 15° Congresso della Confederazione europea dei sindacati (CES) a Berlino, è il candidata unico dei conservatori del Partito Popolare Europeo (PPE).
Si prepara quindi a essere rieletta a capo della Commissione con i voti degli estremisti di destra. È ovvio che chiederanno un prezzo sotto forma di concessioni politiche e di posti importanti all’interno dell’UE.
Cosa diranno allora coloro che parlano di minaccia fascista ma che in realtà sono gli utili idioti di un sistema che, nel corso della storia e da sempre, si è dimostrato capace di ricorrere alle politiche più estremiste, compresa la guerra, per mantenere l’esercizio del potere totalitario?
In quest’ottica, e per soddisfare la loro sete di profitti, il saccheggio delle materie prime e dei mercati, l’UE e i suoi Stati membri sono ancora una volta pronti a commettere i peggiori crimini, facendo un ulteriore passo avanti nel loro impegno per la guerra in Europa. Come negli Stati Uniti, dove il bilancio della difesa quest’anno si avvicinerà ai 1.000 miliardi di dollari, il complesso militare-industriale occupa un posto centrale nel cuore delle economie europee.
L’interventismo di Nato e Ue
L’interventismo della NATO viene incoraggiato ovunque. Ci stiamo preparando a guerre ad alta intensità. Ad esempio, con 172 miliardi di euro, Bruxelles avrà investito più denaro degli Stati Uniti per alimentare la guerra contro la Russia in Ucraina. Inoltre, l’Unione Europea sostiene incondizionatamente Israele e il tragico genocidio a Gaza che Netanyahu sta portando avanti come soluzione finale al problema palestinese.
Insieme agli Stati Uniti, l’UE partecipa all’accerchiamento militare della Cina e al rafforzamento delle alleanze militari nel Sud-est asiatico.
È in questo contesto che Macron, dopo aver ottenuto il sostegno del Parlamento francese per nuovi crediti militari al regime nazista di Kiev, vuole coinvolgere le forze militari francesi nel conflitto ucraino. Intende inoltre condividere e mutualizzare il sistema di difesa nucleare francese con l’Unione Europea, in barba a tutti i principi di sovranità. Lo stesso vale per il seggio della Francia nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
L’Europa, e quindi la Francia, sta scaricando i costi della guerra e del militarismo sulla classe operaia e sui giovani. Questo è un punto importante perché, oltre a sottoporre il mondo del lavoro a nuovi vincoli in nome della cosiddetta solidarietà europea, che significherebbe prepararsi alla guerra, Bruxelles intende alimentare le fiamme del conflitto ovunque nel mondo, al fianco di Washington.
È il caso dell’Ucraina, ma anche di molti Paesi ai confini della Russia – Georgia, Moldavia, Armenia, ma anche Cipro, Serbia e Balcani – e del Vicino e Medio Oriente, dove la posta in gioco economica per il controllo delle fonti energetiche e dei corridoi terrestri e marittimi è evidente.
L’estensione delle prerogative della NATO, l’aumento delle spese militari, l’uso illegale di sanzioni economiche e finanziarie, le innumerevoli misure di coercizione come quelle contro Cuba, Venezuela e Nicaragua costituiscono un altro aspetto di questo arsenale autoritario.
Il sistema delle Nazioni Unite, da parte sua, viene sfruttato, presentato come obsoleto e il multilateralismo e la stessa Carta delle Nazioni Unite vengono messi in discussione. Con ogni mezzo e ad ogni costo, il campo occidentale cerca di destabilizzare attraverso il caos, impegnandosi in interferenze e cambiando direttamente i regimi ovunque il suo potere venga messo in discussione.
Se necessario, lo fa ricorrendo alle forze più estremiste, come la ricetta ultraliberista dei “Chicago Boys” di Milton Friedman. Li abbiamo già visti in passato e li stiamo rivedendo in Argentina, dove stanno ispirando le politiche del neofascista Javier Milei, che fortunatamente si sta scontrando con una forte opposizione popolare.
Il mondo cambia velocemente
Per il blocco occidentale, il problema, si potrebbe dire, è che il mondo sta cambiando velocemente, molto velocemente. Siamo infatti a un punto di svolta che implica altre scelte, quelle a favore dello sviluppo, della giustizia sociale, della cooperazione e della pace. Di fatto, tutto ciò che si oppone alla logica distruttiva e predatoria dell’Occidente capitalista.
Il declino a cui stiamo assistendo è quindi il riflesso di una sfida a un sistema di aggressione e saccheggio che finora ha funzionato all’interno di un equilibrio di potere internazionale che sembrava immutabile, ma il cui potere totalitario viene ora messo apertamente in discussione.
Infatti, gli interessi della maggioranza dei popoli non possono essere compatibili con l’avidità e le aspirazioni imperialiste della classe dominante. Questa è la contraddizione principale.
Per questo motivo è necessario che il movimento operaio, le forze progressiste e il sindacalismo in particolare ne abbiano consapevolezza, per contribuire in modo autonomo a far sì che il popolo, i lavoratori, prendano in mano la situazione e riescano a riappropriarsi di un altro modo di concepire il proprio impegno sindacale e politico. Il lavoro politico deve sostenere tutte le azioni volte a spezzare il potere di banche, multinazionali e istituzioni finanziarie e a indebolire i poteri del sistema imperialista, a partire dal nostro.
Per fare ciò dobbiamo avere l’ambizione di sviluppare una solidarietà internazionalista nel nostro tempo, con tutte le forze sociali e politiche che non solo sfidano il dominio del capitale, ma intendono separarsi da esso.
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Israele ‘cane pazzo’, nell’epoca dei social
Questo atteggiamento nell’agone internazionale è una forma di deterrenza pensata per far apparire Israele come “troppo pericoloso per essere infastidito”. Se si guardasse a vari fatti e dichiarazioni senza coscienza di ciò, si potrebbe credere che a Tel Aviv siano tutti usciti fuori di testa.
Invece, la ferocia, l’apartheid e la sistematica violazione dei diritti umani da parte dei vertici sionisti è il risultato fisiologico di una visione messianica e suprematista, di origine coloniale. Apparire come ‘cani pazzi’ fa parte della loro strategia, e ultimamente anche i social sono stati usati in questo senso.
Riportiamo tre esempi che sono significativi. Il primo riguarda l’ormai famoso tweet con cui il ministro della Sicurezza Nazionale Ben Gvir, dopo l’annuncio di Joe Biden della sospensione dell’invio di alcuni armamenti a Israele, ha scritto che Hamas ora ama il presidente statunitense.
Usando una emoji, con uno stile da social network appunto, persino il primo e principale sostenitore di Israele, per aver solo tentato di esercitare qualche pressione su Tel Aviv perché fermasse l’attacco a Rafah, è stato associato al nemico. Il vero significato di quel messaggio era da leggersi al contrario: “Biden ama Hamas”.
Il 22 maggio Norvegia, Spagna e Irlanda hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Lo stesso giorno, il profilo X dell’organizzazione no profit basata negli USA StopAntisemitism, sostenitrice di Israele, ha pubblicato una foto del ministro degli Esteri Irlandese, Micheál Martin, insieme alla sua famiglia.
Il testo che accompagnava la foto era allucinante: “Il 7 ottobre i terroristi di Hamas hanno violentato e rapito sua figlia Aoibhe Martin a Gaza. Oggi il ministro degli Esteri Micheal Martin ha annunciato di voler premiare gli stupratori di sua figlia con uno Stato tutto loro. UNA FOLLIA, VERO?! Allora perché lo stai facendo a Israele?”
La vicenda è ancora più allucinante perché, ovviamente, la figlia di Martin non ha mai subito nessuna violenza a Gaza. L’associazione ha dovuto poi aggiungere al tweet una frase: “Questo post è solo per scopi illustrativi e [il fatto] non è avvenuto”.
Il livello di autopersecuzione e vittimismo espresso da chi sta esponendo un popolo al pericolo di genocidio, come denunciato dalla Corte Internazionale di Giustizia, potrebbe essere definito come patologico.
Se solo queste esternazioni non fossero pensate proprio per suscitare sdegno nell’opinione pubblica, vicinanza a Israele e, neanche troppo velatamente, per mettere sotto pressione i politici, facendo nomi e pubblicando foto di famiglia.
Infine, il 26 maggio il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha anche lui usato X per diffondere un video, questa volta indirizzato a Madrid. Il primo ministro Sanchez è stato taggato in un video, dicendo che Hamas lo ringrazia per i suoi servigi.
Nel video, di nuovo senza alcun senso del ridicolo, scene di miliziani di Hamas si alternano a due ballerini di flamenco. Ogni atto che non sostenga la cancellazione delle ragioni politiche della resistenza palestinese (di questo si tratta quando viene riconosciuto uno stato), subisce l’accusa di collaborazionismo, in sostanza.
Katz aveva riservato lo stesso trattamento anche a Norvegia e Irlanda, ma questa volta si è creato maggior scalpore. Anche perché il tweet è arrivato dopo che la ministra della Difesa di Madrid, Margarita Robles, ha parlato dei massacri dei palestinesi come di un “autentico genocidio”.
Lo abbiamo già accennato. Possono sembrare azioni irrazionali, ma il loro sensazionalismo è precisamente parte della logica per cui chiunque deve avere paura a toccare Israele e le sue scelte... soprattutto ora che persino nella UE sono arrivati a parlare di sanzioni.
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Taiwan nel caos. Pechino ribadisce la linea di “una sola Cina”
Ad incendiare la situazione ci ha pensato, poi, il discorso d’insediamento del nuovo Presidente, che, si ricorda, è il primo della storia del paese ad essere stato eletto con meno del 50% dei voti, grazie alla divisione delle opposizioni.
“Abbiamo una nazione nella misura in cui abbiamo la sovranità. Proprio nel primo capitolo della nostra Costituzione si legge che la sovranità della Repubblica cinese risiede nell’insieme dei cittadini e che le persone che possiedono la nazionalità della Repubblica di Cina sono cittadini della Repubblica di Cina. Questi due articoli dicono chiaramente la Repubblica di Cina e la Repubblica Popolare Cinese non sono subordinate l’una all’altra. Tutto il popolo di Taiwan deve unirsi per salvaguardare la nostra nazione, tutti i nostri partiti politici dovrebbero opporsi all’annessione e proteggere la sovranità. Nessuno dovrebbe prendere in considerazione l’idea di rinunciare alla nostra sovranità nazionale in cambio del potere politico. Finché ci identifichiamo con Taiwan, Taiwan appartiene a tutti noi, a tutti i popoli di Taiwan indipendentemente dall’etnia. Alcuni chiamano questa terra la Repubblica di Cina altri la chiamano Repubblica di Cina Taiwan e altri ancora Taiwan”.
Si tratta chiaramente dell’esposizione di una teoria dei due stati separati, con tanto di sottolineatura sulla denominazione che, per altro, non coincide affatto nemmeno con la Costituzione di Taiwan.
Successivamente, Lai rincara la dose, affrontando il tema dei rapporti con la Repubblica Popolare: “Di fronte alle numerose minacce e tentativi di infiltrazione da parte della Cina, dobbiamo dimostrare la nostra determinazione nel difendere la nostra nazione e dobbiamo anche aumentare la nostra consapevolezza in materia di difesa e rafforzare il nostro quadro giuridico per la sicurezza nazionale. Ciò significa promuovere attivamente il piano d’azione dei quattro pilastri della pace: rafforzamento della difesa nazionale, maggiore sicurezza economica, leadership stabile basata sulla relazione tra le due sponde dello stretto e la diplomazia basata sui valori. Stando fianco a fianco con altri paesi democratici possiamo formare una comunità globale pacifica, in grado di dimostrare la forza della deterrenza e prevenire la guerra, in modo tale da raggiungere il nostro obiettivo di pace attraverso la forza”.
Pertanto, il neopresidente taiwanese conferma di voler continuare la collaborazione militare con gli USA e s’inserisce anche nella narrativa ideologica bellicista delle democrazie che devono collaborare contro le autocrazie. Rispetto ai suoi predecessori, anche appartenenti al Partito Democratico Progressista, inoltre, non fa alcun cenno, nemmeno formale, al “consenso del ‘92”, un trattato politico semi-ufficiale che regola il rapporto fra le due sponde dello Stretto di Taiwan, secondo cui entrambe le parti si riconoscono nel principio di “Una sola Cina”, pur non concordando su quale essa sia. Formalmente, infatti, sia la Repubblica Popolare Cinese, sia la Repubblica di Cina rivendicano la sovranità sia sulla Cina continentale che sull’Arcipelago di Taiwan.
Il discorso di Lai, come si può ben capire, rompe totalmente con questo schema, scatenando una reazione furiosa da parte di Pechino. Il Ministro degli esteri Wang Yi, che si trovava ad Astana per il vertice della SCO, ha affermato: “I cambiamenti della situazione sull’isola di Taiwan non modificheranno i fatti storici e giuridici secondo cui l’isola fa parte della Cina, o la tendenza storica alla riunificazione nazionale, che è inevitabile. Le attività separatiste delle forze a favore dell’indipendenza di Taiwan rappresentano la sfida più seria all’ordine internazionale, oltre che la più grande minaccia alla pace e alla stabilità nello Stretto”. Tuttavia, esse “non saranno in grado di impedire alla Cina di realizzare la completa riunificazione e Taiwan tornerà sicuramente nelle braccia della madrepatria. Tutti i separatisti dell’indipendenza di Taiwan saranno inchiodati al pilastro della vergogna della storia”.
Successivamente sono iniziate delle esercitazioni militari da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione che hanno simulato un blocco navale totale su tutto l’arcipelago: navi da guerra e aerei militari hanno circondato sia l’isola principale che quelle più piccole, simulando attacchi aerei e trasferimenti di truppe fra varie imbarcazioni. La linea mediana dello stretto di Taiwan, che fa da confine informale fra i due paesi, è stata abbondantemente violata. Le esercitazioni sono terminate nella notte del 24 maggio e hanno coinvolto più uomini e mezzi di quelle che seguirono la provocatoria visita a Taiwan di Nancy Pelosi ad agosto del 2022.
Successivamente, Lai Ching-te ha provato a smorzare i toni: “La pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan sono un elemento necessario per la sicurezza e la prosperità globale. Ho anche invitato la Cina ad assumersi insieme a Taiwan l’importante responsabilità della stabilità regionale. Non vedo l’ora di rafforzare la comprensione reciproca e la riconciliazione attraverso gli scambi e la cooperazione con la Cina... e di muoverci verso una posizione di pace e prosperità comune”.
Da parte sua, l’Amministrazione USA non si è espressa con figure di rilievo, né sul discorso d’insediamento di Lai, né sulle esercitazioni militari della Cina. Si è limitata a diffondere una dichiarazione del Dipartimento di Stato nella quale si è detta “molto preoccupata” dell’esercitazione militare e invitando alla moderazione.
Tuttavia, è già in atto un’altra provocazione: una delegazione bipartisan di membri del Congresso USA è già in visita sull’isola, dove rimarranno fino al 30 maggio. Ovviamente incontreranno Lai e probabilmente parleranno di questioni militari e di invio di armi. Si ricorda che Taiwan è inclusa fra i destinatari del maxi pacchetto di 95 miliardi di aiuti miliari approvati dal Congresso lo scorso aprile e che le sua forze armate sono sempre più integrate nel comando USA dell’Indo-Pacifico
La tensione, dunque, non accenna a diminuire. Sono molteplici i legami politico-militari stabiliti nel tempo con gli USA che la Repubblica Popolare Cinese dovrà spezzare per procedere alla riunificazione con Taiwan. Allo stato attuale, appare molto complicato pensare ad un percorso simile a quello che ha portato ad ottenere la decolonizzazione di Hong Kong e Macao negli anni ’90. Lo scontro militare pare nel novero delle opzioni possibili, nonostante Pechino sembri intenzionata a fare di tutto per evitarlo.
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I coloni israeliani che pretendono una Gaza solo ebraica
Provate a sostituire la “razza” con il “popolo eletto”, gli oscuri riferimenti a qualche mito scomparso con la “lettera della bibbia” (un testo di 3.000 anni fa, quando “l’universo” era poco più dello spazio terrestre visibile da un essere umano), e avrete una sovrapposizione pressoché totale.
Gli “altri” non sono degni di vivere e “noi” disponiamo di loro come meglio ci aggrada. Questa intervista, nonostante sia apparsa su una rete decisamente molto filo-israeliana (basti ricordare le sparate di Mentana e le comparsate in piazza di Davide Parenzo...), non lascia alcuno spazio alle congetture.
A Propaganda Live, è andato in onda il reportage di Francesca Mannocchi in Cisgiordania, con l’impressionante intervista a Daniella Weiss, considerata la “madrina dei coloni” , una settantottenne dell’ultradestra ebraica, amica del ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir.
È la Weiss che guida gli insediamenti ortodossi ebraici nelle zone dove non si potrebbe costruire. “I coloni – racconta Francesca Mannocchi a Diego Bianchi – arrivano prima con le tende, poi con i caravan, che poi diventano costruzioni, che poi si trasformano in insediamenti e infine in città, illegali per il diritto internazionale”.
Una Gaza tutta ebraica
Dal 7 ottobre, Daniella Weiss, è diventata la promotrice del reinsediamento di Gaza. “Da ora in poi dedicheremo la nostra vita per fare una Gaza tutta ebraica”. La Weiss immagina la nuova Gaza e dice che “lì la sabbia dorata e il mare sono più belli della Costa Azzurra”. Immagina un territorio tutto ebraico che va dall’Egitto all’Iraq, dal Nilo all’Eufrate.
“Dove andranno i rifugiati di Gaza?” chiede Mannocchi. “Andranno in Egitto, Turchia, Canada, Stati Uniti, in tutti i paesi del mondo... come tutti i rifugiati, come gli afghani o i siriani” risponde Weiss.
“Ma loro vogliono vivere nella loro terra...” ribatte la giornalista. “No, pagano per andarsene via perché soffrono. Non è la loro terra. Gli arabi non resteranno a Gaza. Punto. Questa volta è finita, il prossimo passo è che gli ebrei vadano là (…) costruiremo delle comunità a Gaza. Ristabiliremo l’area di Gush Katif nella zona nord fino alla parte sud. Quindi la giustizia del mondo moderno è lasciarci tornare a Gaza”.
E poi immagina il futuro dell’enclave: “Costruiremo delle comunità a Gaza. Prenderemo la Striscia e la divideremo in lotti e li distribuiremo ai soldati e alle loro famiglie”.
Gaza distrutta
“Quando vedi la distruzione di Gaza cosa senti? chiede la giornalista. Risponde arrabbiata la Weiss: “E allora la distruzione di Dresda e Amburgo o Berlino? Cosa ha fatto il mondo allora? Perché non chiedi agli Stati Uniti cosa hanno fatto a Hiroshima e Nagasaki? Posti che sono stati distrutti da persone insane e ricostruite da persone normali. Costruiremo gli insediamenti e educheremo i bambini a sognare Gaza e piano piano costruiremo con l’influenza della politica... presto arriverà... più presto di quanto si pensa”.
La riflessione di Francesca Mannocchi
“Non facciamo l’errore di pensare che l’estremismo ebraico così espresso sia folkloristico e minoritario. Ci sono tre fattori: il coraggio di fare, il consenso pubblico e l’influenza politica. Prima non c’era niente in Giudea e Samaria adesso ci sono 750mila coloni... La visione dei coloni è: ‘Voi continuate pure a manifestare noi intanto facciamo’. E questa visione convince tanti.
E mentre noi stiamo qui a pensare ‘ma figurati sono estremisti’ loro raccolgono i nomi delle famiglie che vogliono andare a Gaza e il consenso del ministro della Sicurezza Nazionale Ben Gvir”.
L’intervista integrale sul sito di Propaganda Live
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Siamo tutti Mike Bongiorno
In quello scritto Eco, con non poca arroganza intellettuale ma con altrettanta spietatezza veritiera, delineava un ritratto del personaggio televisivo Mike Bongiorno, analizzandone le ragioni del successo nel contesto economico, politico e culturale dell’Italia del boom.
Rileggendone alcuni passi, tuttavia non si può fare a meno di riflettere su quanto quell’impietosa indagine semiotico-culturale non solo fosse adiacente alle declinazioni dell’incipiente società dei consumi mediatico-televisivi italiani, ma tratteggiasse in realtà – con ben più ampia visione rispetto alla postura morale, ideologica, intellettuale degli italiani stessi – l’essenza di un popolo votato sinceramente alla mediocrità e al conformismo.
Quella mediocrità e quel conformismo che oggi risplendono in tutta la loro fulgidezza e che fanno degli abitanti le sponde della serva Italia imbordellata un conglomerato di passivi telespettatori soggiogati dal mercato e senza coscienza alcuna.
Pavidi fedeli della più seducente delle religioni. L’ottusità.
Non è un caso, d’altronde, che il sovrano degli imbonitori – quello scaltro figlio di una Milano putrida che rispondeva al nome di Silvio Berlusconi, grazie al quale il processo di rincoglionimento italico è stato finalmente compiuto – abbia fatto di Bongiorno il Vicepresidente di Mediaset.
Di seguito dunque alcuni stralci dalla “Fenomenologia di Mike” che ben esemplificano la linea di continuità involutiva dei “discendenti della romanità”, giunta oggi a vette indicibili.
E grazie alla quale possiamo gridare, fieri e impettiti: “Presente. Siamo tutti Mike Bongiorno!”
Scrive Eco:
«Il successo di questo personaggio è la sua mediocrità assoluta, grazie alla quale lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti».
E ancora: «Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti».
Proseguendo: «[…] Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rappresenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato, essa rappresenta un traguardo. […] Invece, nel campo dei fenomeni qualitativi, il livellamento alla media corrisponde al livellamento a zero. Un uomo che possieda tutte le virtù morali e intellettuali in grado medio si trova immediatamente a un livello minimale di evoluzione. La medietà aristotelica è equilibrio nell’esercizio delle proprie passioni, retto dalla virtù discernitrice della prudenza; mentre nutrire passioni in grado medio e aver una media prudenza significa essere un povero campione di umanità».
Per concludere: «[...] In fondo la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quando la sincerità è voluta non si ha gaffe ma sfida e provocazione; la gaffe (in cui Bongiorno eccelle, a detta dei critici e del pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è mediocre, l’uomo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta elevando la gaffe a dignità di figura retorica, nell’ambito di una etichetta omologata dall’ente trasmittente e dalla nazione in ascolto».
Feroce, lapidario, impietoso specchio dell’italica mediocrità culturale!
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29/05/2024
Pasolini oggi, fuori dagli schemi
di Paolo Lago
Guido Santato, Pasolini oggi. Studi e letture, Carocci, Roma, 2024, pp. 234, euro 25,00.
Il titolo del recente volume di Guido Santato, Pasolini oggi, appare particolarmente significativo; come scrive lo stesso autore, esso “intende sottolineare da un lato la permanente e straordinaria attualità di Pasolini, dall’altro la necessità di una rinnovata e approfondita lettura della sua opera, estremamente complessa per la sua articolazione multimediale: un’opera che spazia dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, al cinema, al teatro, alle traduzioni dei classici, al giornalismo, alla pittura”. L’opera di Pasolini è estremamente poliedrica e complessa e deve essere oggetto di una lettura seria e rigorosa, “rinnovata” e “approfondita”. Pasolini non può continuare ad essere una sorta di “ovetto Kinder della cultura italiana”, come ha scritto Pierluigi Sassetti utilizzando una suggestione offerta da Slavoj Žižek1, un ovetto nel quale ognuno trova la sorpresa che più gli aggrada. Non può essere usato e citato a sproposito da clowneschi politicanti da strapazzo. Una citazione dall’opera di Pasolini dovrebbe essere sempre preceduta da una conoscenza rigorosa e approfondita, mai superficiale: basti solo pensare all’“infame mantra”, come lo definisce Wu Ming 1, su “Pasolini che stava con la polizia e i manganelli”2, emerso anche lo scorso febbraio in merito ai fatti avvenuti a Pisa (giovani manifestanti pro Palestina picchiati dalle forze dell’ordine).
Per affrontare l’opera poliedrica e multimediale di Pasolini, Guido Santato, uno dei massimi esperti dell’autore bolognese, adotta svariati punti di vista. I saggi presenti nel volume – alcuni già editi presso diverse sedi, altri inediti e presentati adesso per la prima volta – intendono sondare diversi aspetti e sfaccettature dell’opera pasoliniana, cercando di abbracciare i più svariati ambiti: la poesia, la narrativa, il cinema, il teatro, financo la musica (di cui Pasolini era appassionato ed esperto). Il primo saggio è dedicato all’importante presenza di Dante nell’opera di Pasolini, da Ragazzi di vita (1955) fino al postumo Petrolio. Lo studioso attraversa l’intera opera pasoliniana sondando il fondamentale ‘sostrato’ dantesco presente in essa, anche negli interventi critici e negli articoli giornalistici. Il secondo saggio analizza invece l’importanza che Erich Auerbach ha giocato per Pasolini, soprattutto per la “mescolanza degli stili” presente nell’intera sua opera nonché per il “realismo creaturale”. Auerbach è l’autore dell’importante saggio Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, che rappresenta un fondamentale punto di riferimento per Pasolini in qualunque genere o stile si cimenti.
Diversi saggi presenti nel volume di Guido Santato sono poi dedicati alla produzione poetica in friulano: è necessario infatti ricordare che Pasolini è prima di tutto poeta e comincia la sua attività poetica proprio componendo in friulano. Le poesie friulane rappresentano quindi un’importante chiave di accesso per tutta la produzione artistica successiva. Particolarmente interessante risulta l’analisi condotta dallo studioso su La seconda forma de “La meglio gioventù” (1974) in cui viene sondata la riscrittura che Pasolini attua della sua poesia friulana giovanile nella raccolta La nuova gioventù. Si tratta di una riscrittura ‘in nero’ in cui, al posto dell’idillio, dominano il dolore ed il lutto, in una società dominata dall’abbrutimento dei nuovi consumi che ormai ha perduto qualsiasi caratteristica idilliaca e qualsiasi innocenza.
Il rigoroso excursus attuato dallo studioso attraverso l’opera pasoliniana prosegue con un saggio dedicato alla tragedia Pilade e con un’analisi del tema della tradizione in Pasolini. Interessante è ricordare, a questo proposito, che già a partire da un articolo scritto quando aveva vent’anni, Pasolini “teorizza un uso antitradizionale della tradizione: una tradizione proposta in funzione di un sostanziale rinnovamento rispetto alla cultura ufficiale”. Il saggio successivo è dedicato alla presenza della musica nel cinema di Pasolini, dall’importante funzione ‘sacralizzante’ della musica di Bach in Accattone (1961) fino alle inserzioni di musica etnica e tradizionale, ad esempio, in Edipo re (1967) e Medea (1970). Alla complessa ricezione di Pasolini oggi è dedicato il saggio dal titolo Un grande autore che non ha bisogno della qualifica di “classico”: infatti – scrive Santato – l’edizione di tutte le opere di Pasolini all’interno della collana dei “Meridiani” rischia di trasformarlo in un “classico”, “operando uno slittamento dal piano editoriale a quello della definizione critica”. Però, “l’attribuzione della qualifica di «classico» a Pasolini appare problematica per più ragioni e non sembra poter essere riferita in modo appropriato alla sua opera”. Infatti, “Pasolini è il più anticlassico e trasgressivo fra i grandi autori del Novecento: tende costantemente alla rottura degli ordini formali e delle separazioni tra i generi”.
Dopo un suggestivo saggio dedicato ai (densi) rapporti fra Pasolini e il Giappone (paese in cui lo studioso Hideyuki Doi svolge una rigorosa opera di analisi dell’autore corsaro), Santato avvia una interessante e pionieristica ricerca su Pasolini come possibile “precursore” della “decrescita”. Infatti, soprattutto negli ultimi decenni, “il pensiero di Pasolini è stato ripreso anche nell’ambito della sociologia, dell’economia e del diritto”. Lo studioso osserva che, recentemente, due economisti come Giulio Sapelli e Serge Latouche sembrano aver raccolto a distanza l’appello di Pasolini in tema di sfruttamento operato da uno cieco “sviluppo” capitalistico (opportunamente distinto dal “progresso”). Se Sapelli dedica un interessante e innovativo studio a Pasolini, dal titolo Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Latouche sembra riprendere, nella sua idea di “decrescita felice”, le polemiche pasoliniane contro il modello di sviluppo neocapitalistico. Come scrive Santato, “per Latouche è necessario decolonizzare l’immaginario occidentale che è stato colonizzato da quello che egli chiama «l’economismo sviluppista»”. Si può inoltre ricordare che all’interno della collana “I precursori della decrescita” diretta da Latouche, nel 2014, è stato pubblicato il volumetto di Piero Bevilacqua dal titolo Pier Paolo Pasolini. L’insensata modernità, nel quale lo scrittore corsaro viene annoverato fra i precursori del pensiero della “decrescita”. Anche lo stesso Latouche, in un volume del 2016, annovera Pasolini fra i precursori della “decrescita felice”. Come nota Santato, “in conclusione, credo che Pasolini possa essere considerato un precursore della «decrescita felice» a condizione di non racchiuderne strumentalmente il pensiero entro gli schemi della stessa. Il pensiero in continuo e spiazzante movimento, la capacità di analisi, lo spirito di denuncia, l’acutezza anticipatrice del Pasolini corsaro non possono essere racchiusi in alcuno schema più o meno preordinato”. D’altra parte, come ebbi modo di scrivere proprio qui su “Carmilla”, sarebbe interessante porre a confronto il pensiero di Pasolini anche con quello di un altro lucido interprete della contemporaneità come Robert Kurz, studioso della Wertkritik (la “critica del valore”), secondo il quale è necessaria un’“anti-modernità radicale ed emancipatoria [...] che tagli i ponti una volta per tutte con la storia fin qui data, una storia di rapporti feticistici e di dominio”3.
Dall’analisi di Santato emerge un Pasolini prepotentemente fuori dagli schemi, un autore che non può essere racchiuso e incasellato in pensieri a senso unico: si tratta infatti di un autore “multimediale”, incline alla mescolanza degli stili e dei registri, alla rottura degli ordini formali, all’utilizzo di linguaggi sempre nuovi e sempre diversi. Anche nel saggio che chiude il volume, dedicato all’enorme fortuna che l’opera pasoliniana ha conosciuto in tutto il mondo, emerge il profilo di un autore difficilmente incasellabile in schemi predefiniti. Oggi, in una società digitalizzata e sempre più avviata verso un universo dominato dalle fake news, dall’intelligenza artificiale e dall’irrealtà, fatta di pensieri preconfezionati e di schieramenti obbligati, comprendere e studiare Pasolini – come capiamo dalla lettura di Pasolini oggi – è un sicuro esercizio di realtà, di appiglio a un rigore che sembra perduto, di anticonformismo e di ricerca di luce laddove sembra regnare un indefinito e inquietante buio.
Note
Cfr. P. Sassetti, Post(f)azione, … Per gli eredi … Per coloro che sapranno apprezzare l’eredità…, in A. Guidi e P. Sassetti (a cura di), L’eredità di Pier Paolo Pasolini, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 118. Cfr. anche S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, trad. it. Meltemi, Roma, 2004, p. 73.
Cfr. Wu Ming 1, La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia, uscito su “Internazionale” il 29 ottobre 2015. Per avere una visione scevra da idee preconfezionate si invita a una lettura integrale dell’articolo. Cfr. anche Guy van Stratten, Pasolini, il ’68, gli studenti e la polizia, “Codice Rosso”, 2 novembre 2020.
Cfr. R. Kurz, Ragione sanguinaria, trad. it. Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 20-21.