05/11/2024
Presidenziali USA - Cosa cambierà il voto per la Russia?
Un piano di pace con l’Ucraina potrebbe in effetti essere più probabile con Trump alla Casa Bianca ma rimane il dubbio sulla fine delle sanzioni, obiettivo di primo piano per Vladimir Putin.
Ne abbiamo parlato con Francesco Dall’Aglio, studioso ed esperto di Europa orientale.
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Italia - A che punto è la transizione energetica?
Calano le emissioni di gas serra (nel 2023 si sono ridotte del 6% rispetto a quelle del 2022), ma il Paese è ancora molto dipendente dalle fonti fossili; non si arresta il consumo di suolo che interessa il 7,14% del territorio nazionale e aumentano le immatricolazioni delle auto (poche quelle elettriche). L’Italia delle green economy a tratti marcia nella direzione giusta, a tratti discontinua, quando non lontana anni luce dagli obiettivi. Ed è la fotografia scattata nella Relazione sullo Stato della Green Economy presentata in apertura degli Stati Generali della Green Economy 2024, la due giorni green a Rimini nell’ambito di Ecomondo. Lo ha detto lo stesso ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin che, intervenuto a Ecomondo, ha parlato di nucleare (annunciando una legge delega, ndr), fossili e pure della legge sul consumo di suolo, che ancora non c’è. “Il nostro è un Paese – ha detto – ancora molto dipendente dal fossile anche se tra pochi mesi cominciamo a chiudere con il carbone, almeno nella parte continentale. Sicuramente non oltre l’autunno 2025”. Al di là dei fallimenti e dei risultati fin qui ottenuti, restano le sfide da affrontare.
Edo Ronchi: “Non tutti marciano nella stessa direzione” – “L’aggravamento della crisi climatica, molto rapido in Italia, resta la principale sfida che dobbiamo affrontare” ha spiegato Edo Ronchi, presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile. Nel 2023 sono stati 3.400 gli eventi meteoclimatici estremi che hanno colpito l’Italia, alcuni dei quali veri e propri disastri che trovano territori e politica nazionale impreparati. Qualcosa è stato fatto. Oltre alla riduzione delle emissioni di gas serra, Ronchi ha ricordato che “le rinnovabili elettriche hanno ripreso a crescere e facciamo passi avanti anche nella circolarità della nostra economia. Ma è ancora troppo poco – ha aggiunto – non solo perché la sfida è globale e di vasta portata, ma perché non remiamo insieme, tutti nella stessa direzione. Alcuni rallentano l’impegno per altri obiettivi e altre priorità”. Un esempio è proprio quanto avviene con le stesse rinnovabili. Il risultato? “Il quadro complessivo della transizione ecologica, risulta variegato, con alti e bassi, con poco slancio, con difficoltà, al di sotto dei suoi potenziali”.
Calano le emissioni, rinnovabili in ripresa (ma dovrebbero correre il doppio) – Sono diminuite di oltre 26 milioni di tonnellate le emissioni di gas serra, oltre il 6%, per la prima volta sotto i 390 milioni di tonnellate di gas serra. È la più grande riduzione registrata in Italia dal 1990, se si escludono il 2009, il 2013 e il 2020, tutti anni di importanti crisi economiche. Mantenendo questo trend l’Italia raggiungerebbe l’obiettivo del -55% al 2030. Nel 2023, l’elettricità da fonte rinnovabile in Italia ha superato il 44% della produzione totale. La nuova capacità di generazione è salita a circa 3 gigawatt nel 2022 e a quasi 6 gigawatt nel 2023. Nel primo semestre del 2024 è aumentata di 3.691 MW, +41% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un trend positivo per il fotovoltaico, ancora insufficiente per l’eolico. I dati preliminari per il 2023 vedono miglioramenti per le rinnovabili elettriche: lo scorso anno per la prima volta sole e vento hanno generato oltre 50 TWh di energia elettrica, ossia un quinto della produzione nazionale di elettricità. Per raggiungere gli obiettivi europei al 2030, però, la potenza installata dei nuovi impianti dovrebbe aumentare a 11/12 gigawatt all’anno. A Ecomondo, però, il ministro Pichetto Fratin ha parlato del nucleare, su cui in Italia il dibattito è più che mai acceso e ha annunciato che la legge delega arriverà “entro un paio di mesi. Stiamo definendo l’articolato” ha precisato. Attirando le critiche di Sergio Costa, vicepresidente della Camera: “Trovo sorprendente e fuori luogo che il ministro Pichetto scelga il palco di Ecomondo, una fiera dedicata sostenibilità e transizione ecologica, per annunciare una legge delega sul nucleare”.
Il ministro Pichetto Fratin: “Il Pnacc non è su un binario morto” – Nel frattempo, però, gli effetti del cambiamento climatico uccidono e seminano danni in diverse regioni. “Dobbiamo correre ai ripari più in fretta possibile” ha commentato il ministro dell’Ambiente, secondo cui “da un lato sono necessarie tante piccole opere di manutenzione, dall’altro tante grandi opere non fatte per anni, perché non se ne sentiva l’esigenza. Non si percepiva lo stato di gravità”. E ancora: “Si tratta di creare invasi per raccogliere l’acqua quando ne viene troppa e rilasciarla quando c’è siccità, si tratta di creare aree di esondazione, si tratta di valutare con equilibrio gli argini dei fiumi e dei torrenti rispetto alla tutela ambientale della biodiversità, ma anche alla vivibilità delle persone che abitano intorno”. Però questi interventi (e tutti gli altri necessari) non sono già indicati nel Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, da più parti definito poco concreto e più di indirizzo rispetto a ciò che effettivamente devono fare i vari attori coinvolti. “Il Pnacc non è finito su di un binario morto” ha spiegato Pichetto, rispondendo a una domanda, ma “indica 361 azioni. Alcune sono energetiche, e sono in attuazione. Altre sono ambientali, e sono anche loro in attuazione. Altre sono indirizzi che vanno nei vari decreti. Altre ancora sono grandi opere, che investono lavori per decenni”.
Continua il consumo di suolo, 19,4 ettari al giorno – Molto, però, già si potrebbe fare (e non viene fatto) sul fronte dell’adattamento. A iniziare dal consumo di suolo. Eppure la legge chiesta da anni non c’è ancora. Pichetto dice di puntare alla sua approvazione “entro la fine della legislatura”. Nel frattempo, tra il 2021 e il 2022 il consumo di suolo è stato di 70,8 chilometri quadrati, pari a 19,4 ettari al giorno e non ha risparmiato neanche le aree a pericolosità idraulica. È il valore più elevato a partire dal 2012, a fronte di una diminuzione della popolazione di circa 206mila unità. Il suolo consumato copre il 7,14% del territorio nazionale. Nel 2022 i principali interventi di artificializzazione del territorio si sono verificati in pianura Padana e lungo la fascia costiera Adriatica. La crisi climatica, però, porta anche periodi prolungati di siccità e una riduzione della disponibilità media annua di acqua, con le perdite della rete pari al 42,2% a livello nazionale e al 50,5 % nel Sud. In questo contesto, nel 2023 la crisi climatica ha portato a una riduzione delle produzioni del 2,5%. Tra i segnali positivi c’è l’aumento delle superfici coltivate con metodo biologico, che al 31 dicembre 2023, sono aumentate del 4,5 % (dell’86,5% negli ultimi 10 anni). La Sicilia è la regione con la maggiore estensione in valore assoluto (413.202 ha, con un incremento del 6,7% rispetto al 2022), seguita da Puglia e Toscana. Stando ai dati, in Italia le coltivazioni biologiche corrispondono al 19,8% della superficie agricola utilizzata totale.
Efficienza energetica: bene edifici e industria, male i trasporti – Nella relazione sugli Stati generali della Green economy si spiega, poi, che nel 2023 i consumi di energia in Italia sono calati di 4 Mtep (mega tonnellate equivalenti di petrolio) quelli di gas di 5,6 Mtep, di carbone di 2,2 Mtep e di prodotti petroliferi di 1 Mtep. Gli edifici, al 2023, sono il settore più energivoro con oltre il 40% della domanda nazionale di energia, anche se hanno ridotto i propri consumi del 5,5%. I trasporti sono il secondo settore per consumi di energia (35%) e sono l’unico in cui anche nel 2023 i consumi sono aumentati del 2,2%. L’industria, con il 21% dei consumi finali nazionali nel 2023, ha fatto registrare un taglio del 6%. Ma i trasporti vanno male per diverse ragioni. In Italia nel 2023 si sono raggiunte 41 milioni di auto circolanti, e nel 2023 sono cresciute del 19% le immatricolazioni. Con 694 auto ogni mille abitanti è il Paese europeo con più auto nonostante l’industria sia in declino da anni: per stare nella media Ue di 560, ci dovrebbero essere 8 milioni di auto in meno. Nel 2023 le immatricolazioni delle auto alimentate a benzina sono aumentale del 22,5%, quelle dei diesel del 6% e quelle con alimentazioni alternative solo dell’1%. Il parco circolante sfiora i 41 milioni di auto, l’84% a benzina o diesel. Ancora bassa la quota di elettriche circolanti nel 2023: circa 66mila a batteria (BEV), il 4,2% del totale, e 69mila, plug-in. Su cui pure piovono critiche. Per quanto riguarda l’economia circolare, per ogni chilogrammo di risorsa consumata, l’Italia ha generato 3,6 euro di Pil (il 62% in più rispetto alla media Ue), un risultato che la pone al primo posto in Unione europea, seguita da Spagna e Francia (3,1). L’Italia è anche prima in Europa per tasso di riciclo dei rifiuti con il 72%. “Nel 2022, il tasso di riciclo dei soli rifiuti urbani – si spiega nella relazione – si è attestato al 49,2% (+1% rispetto al 2021) mentre i rifiuti speciali sono diminuiti del 2,1%.
FonteValencia, la crisi climatica è qui: ma chi lo dice rischia la galera
Il colpevole di quest’ultima? Verrebbe di dare ipocritamente la colpa al cambiamento climatico, ma sarebbe come addebitare al fuoco vittime e danni di un incendio appiccato da un piromane.
La scienza ha fatto da tempo chiarezza su cause e conseguenze del cambiamento climatico, provocato dall’effetto serra generato dal modello energetico imperniato sul fossile (petrolio, carbone, gas).
Ma una classe dirigente zoticona ha fatto tesoro della propria sconfortante e irrecuperabile ignoranza per poter svolgere al meglio il proprio ruolo di marionette della grande finanza, i padroni del mondo ben descritti nel bel numero di MillenniuM in edicola, che continuano ad investire nel fossile e in altri settori ad altra efficacia distruttiva come gli armamenti.
Di florilegi della distruttiva ignoranza di troppa parte dei “nostri” politici sono ahimè piene le sconsolanti cronache da vari anni a questa parte. Si vedano da ultime le sconcertanti esternazioni di Salvini sul fatto che d’inverno fa freddo e d’estate fa caldo, “che c’è di strano”? Banalità allucinanti ben funzionali a coprire l’ecocidio di cui il ministro dei Trasporti è un aficionado, come dimostrato fra l’altro dal devastante progetto del Ponte sullo Stretto.
In questo senso la classe politica italiana, quanto meno quella di governo, ma non è detto che il PD sia sempre meglio, è addirittura peggio di quella spagnola, anche se va detto che le determinanti di fondo sono le stesse in tutto l’Occidente: predominio delle lobby finanziarie, taglio della spesa pubblica a finalità ambientale, incuria del territorio, smantellamento delle strutture di protezione civile, incapacità totale di orientare il sistema produttivo verso le energie rinnovabili come confermato dal misero fallimento delle politiche europee in materia.
Si vedano da ultimi i pesanti tagli ai bilanci del ministero dell’Ambiente e alle somme stanziate per incentivare la produzione di automobili elettriche, un settore, come anche quello in genere delle fonti rinnovabili, nel quale la Cina è molto più avanti grazie alla superiorità del sistema (la pianificazione -ndR) socialista.
E non basta. Non solo il governo liquida in anticipo la risposta preventiva al cambiamento climatico, ma procede altresì sordamente colla repressione dei movimenti che ne denunciano responsabilità e conseguenze: è infatti noto che tra i bersagli del famigerato disegno di legge 1660, indebitamente intitolato alla sicurezza, ci sono proprio gli attivisti ambientali.
Se l’Italia non fosse la penosa caricatura di Stato che è, dovrebbero invece essere proprio loro, e non già i rampolli delle dinastie che hanno basato su mafia e corruzione le loro fortune, a ricevere le onorificenze della nostra povera Repubblica.
I loro meriti sono infatti grandi, dato che sfidano la polizia, impropriamente degradata a violento servizio d’ordine delle lobby, e il carcere per tentare di aprire gli occhi di un popolo bovino e rassegnato che vive alla giornata e ha perso ogni dignità di soggetto collettivo, abbandonando il proprio presente e il proprio futuro al potere economico e politico fautore della guerra e della devastazione ambientale.
Un popolo visibilmente frastornato da oltre trent’anni di berlusconismo e centro-sinistra, che attende rassegnato la prossima catastrofe, sia essa ambientale o bellico-nucleare.
A testimonianza della tristezza estrema della situazione italiana stanno anche la povertà e l’inconcludenza della giurisprudenza in materia di sanzionamento della responsabilità del cambiamento climatico, a fronte di quella ben più coraggiosa di altri Paesi. Una recente sentenza del Tribunale di Roma è giunta addirittura ad affermare l’esistenza di un difetto assoluto di giurisdizione in materia.
Peraltro tali penose vicende, unitamente ad altre, quali la reticenza a prendere in considerazione l’esposto-denuncia contro le complicità italiane nel genocidio palestinese, dimostrano come l’intento di “impaurire i magistrati” giustamente denunciato dall’Associazione nazionale magistrati si sia almeno in parte realizzato.
Non si può del resto pretendere che siano i magistrati a raddrizzare un sistema, pure profondamente illegale e anticostituzionale che, per riprendere il paragone idraulico, fa acqua da tutte le parti e che andrebbe rovesciato al più presto e sostituito con un altro che metta finalmente al centro delle sue preoccupazioni l’essere umano e la natura e non i profitti e gli interessi del pugno di ricchissimi alienati che dominano il pianeta in corsa verso la catastrofe.
Ma quali le forze politiche, sociali e culturali adatte a tale compito?
Fonte
Gaza - Accordo tra Al Fatah e Hamas sul futuro della Striscia
Secondo il rapporto, l’accordo cerca di istituire un’unica amministrazione per gestire lo sforzo di ricostruzione e fornire servizi di base a Gaza.
Il nuovo governo, composto da tecnocrati di entrambi i partiti, si concentrerà sulla fornitura di servizi essenziali e sulla ricostruzione, afferma il rapporto.
“Siamo fermi sul benessere del popolo di Gaza e attendiamo con impazienza un unico governo palestinese che metta la ricostruzione e i bisogni umani al di sopra della competizione politica”, ha detto un portavoce di Hamas.
Domenica scorsa Taysir Nasrallah, dirigente di Al Fatah, si era detto ottimista sui colloqui in corso con Hamas per formare un comitato congiunto per governare la Striscia di Gaza dopo la brutale guerra di Israele contro l’enclave, riferisce l’agenzia Anadolu.
“L’incontro cerca di unificare le visioni sulla ricostruzione di Gaza e sulla situazione nell’enclave dopo la fine dell’aggressione israeliana”, ha detto Taysir Nasrallah, “La tendenza generale va verso la ricostruzione dell’enclave, la fornitura di aiuti e la gestione del territorio in coordinamento tra i due gruppi, sotto l’egida dell’Autorità palestinese”.
Secondo un funzionario di Hamas, alcuni colloqui avvenuti al Cairo con Fatah, insieme con rappresentanti dell’intelligence egiziana, si sono conclusi con un accordo per la formazione di un comitato che amministrerà Gaza dopo la guerra, riferisce il quotidiano del Qatar Al Araby al Jadeed. La fonte ha riferito che Hamas ha presentato un progetto dettagliato anche sui poteri del comitato, mentre la delegazione di Fatah ha chiesto una revisione della sua leadership centrale, che richiede ulteriori incontri.
In precedenza, il giornale qatariota aveva rivelato che, dopo consultazioni interne, Hamas ha mostrato flessibilità riguardo alla proposta di formare un comitato che dovrà essere decretato dal presidente dell’Autorità palestinese e composto da tecnici. Secondo al Araby al Jadeed, il comitato dovrebbe gestire gli affari civili e di soccorso nella Striscia, oltre a supervisionare il lavoro dei valichi.
Fonti diplomatiche vicine al ‘dossier’ indicano che sia l’Egitto che il Qatar stanno cercando di superare le “nuove sfide” poste dalle proposte discusse nei giorni scorsi a Doha e al Cairo, incentrate su “una tregua breve” che servirebbe a “generare fiducia per raggiungere un accordo integrato”. Tuttavia, diversi “ostacoli” sono emersi in questa proposta, che indica una tregua a Gaza indipendente dalla situazione in Libano, cosa che né Hezbollah né Hamas sembrano disposti ad accettare, chiedendo in cambio un piano globale di cessate il fuoco.
Ma sul versante israeliano procedono invece i progetti per rendere l’occupazione di Gaza irreversibile. Con lo slogan “Gaza è nostra, per sempre”, un gran numero di estremisti israeliani e politici di destra si sono incontrati nell’insediamento di Be’eri, vicino alla regione di confine con Gaza, il 20 e 21 ottobre scorsi. Tra loro c’erano i ministri israeliani Itamar Ben-Gvir, May Golan e Bezalel Smotrich, così come dieci deputati del Likud di Netanyahu.
L’evento, intitolato “Prepararsi a reinsediare Gaza”, è stato organizzato da uno dei movimenti di coloni più estremisti di Israele, Nachala, guidato dalla famigerata Daniella Weiss.
Fonte
USA - Presidenziali ad alta tensione
Trump grida già ai brogli
Sulle elezioni più militarizzate della storia statunitense gravano i vari tentativi di colpire il candidato repubblicano nelle scorse settimane. Ma il timore è soprattutto che Donald Trump non riconosca un’eventuale sconfitta – come del resto non ha mai riconosciuto quella del 2020 – e inciti gli ambienti dell’estrema destra ad occupare i palazzi del potere come avvenne nel gennaio del 2021 con l’assalto al Campidoglio.
Numerosi stati – a partire da Washington, Oregon e Nevada – hanno allertato già ieri la Guardia Nazionale per far fronte ad eventuali rivolte. Se si trovasse in svantaggio, il tycoon potrebbe comunque proclamare la propria vittoria ancor prima della conclusione dello spoglio elettorale, contestando i risultati ufficiali. D’altronde già ieri Donald Trump ha denunciato presunti brogli nella gestione e nel conteggio del voto anticipato in Pennsylvania, uno degli stati da cui dipenderà l’esito dello scontro.
«La Pennsylvania sta barando e la stanno cogliendo sul fatto, a livelli raramente visti in passato. Denunciate le frodi alle autorità. Le forze dell’ordine devono agire, ora!», ha scritto l’ex presidente sui social, mettendo in dubbio anche l’affidabilità del voto elettronico. Sempre ieri Trump ha affermato che «non avrebbe mai dovuto lasciare la presidenza» accusando i democratici di “rubare” le elezioni.
Da mesi il miliardario e i suoi ripetono al proprio elettorato che il vantaggio del repubblicano è schiacciante e che un risultato favorevole alla candidata democratica sarà possibile solo grazie a massicci brogli. Negli ultimi giorni le fake news sull’importazione di stranieri per votare Harris – con tanto di video di un immigrato haitiano in procinto di distruggere delle schede votate a favore di Trump – e sul presunto condizionamento del voto si sono moltiplicate nell’infosfera anche grazie alla tolleranza di Truth e di X, il social di Elon Musk che ha contribuito con centinaia di milioni di dollari alla campagna elettorale della destra radicale.
Record del voto anticipato
Forse proprio l’alto tasso di tensione, oltre che i pressanti inviti di Trump, hanno convinto moltissimi elettori ad avvalersi del voto anticipato e per corrispondenza; alla fine oltre 78 milioni di cittadini e cittadine hanno già espresso la propria indicazione. Se l’affluenza fosse simile a quella di quattro anni fa – il 66% dei 244 milioni di aventi diritto – oggi alle urne dovrebbero recarsi circa 84 milioni di persone, parte dei quali dovranno eleggere anche 13 governatori di altrettanti stati.
Anche l’ultimo scampolo di campagna elettorale i due candidati principali lo hanno dedicato agli “swing state”, gli stati “in bilico” – Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin – che probabilmente decideranno l’esito complessivo del voto visto che tutti i sondaggi danno Harris e Trump appaiati, con la prima in leggero vantaggio sul secondo.
La vicepresidente in carica ha mobilitato tutti i vip che è riuscita a convincere – da Jennifer Lopez a Beyoncé, da Ricky Martin a Bruce Springsteen, da Eva Longoria a Lady Gaga – sperando di smuovere elettori indecisi ma sensibili agli appelli delle star. Anche un gran numero di repubblicani hanno scelto di sostenere Kamala Harris, tra cui la figlia dell’ex inquilino della Casa Bianca George W. Bush, Barbara Pierce Bush, che si è unita a Liz Cheney e all’ex governatore della California Arnold Schwarzenegger.
Un referendum pro o contro Trump
Le caratteristiche dello sfidante repubblicano e il timore di un ripetersi della violenza innescata da Trump tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 hanno di fatto trasformato la competizione elettorale in un referendum pro o contro il tycoon. Ma a sfidarsi sono due candidati che non generano particolari entusiasmi nell’elettorato.
Secondo l’ultimo sondaggio realizzato da Ipsos poll per Abc News, i due sfidanti sono giudicati come insoddisfacenti per il 60% del campione. Gli elettori di Trump sono leggermente più convinti rispetto a quelli di Harris (58 vs 61% di giudizi negativi).
Se la tardiva scelta della vicepresidente in sostituzione del “bollito” Joe Biden ha rivitalizzato il campo democratico, è anche vero che il profilo centrista e conformista della sfidante di Trump non sembra in grado di suscitare la mobilitazione di settori progressisti e radicali. La campagna elettorale non ha visto alcun protagonismo da parte dei Democratic Socialists of America, l’organizzazione politica di Bernie Sanders che già 4 anni fa decise di non supportare la candidatura di Biden e che a luglio ha revocato il sostegno ad Alexandra Ocasio-Cortez, giudicata troppo ambigua sul genocidio del popolo palestinese.
Un atteggiamento condiviso con la vicepresidente, che se pure promette in caso di vittoria di “riportare a casa gli ostaggi israeliani” e di assicurare la difesa dei diritti nazionali dei palestinesi non ha fatto altro, nelle ultime settimane, che assicurare un sostegno totale a Tel Aviv. Un atteggiamento che le ha inimicato una parte importante della comunità arabo-musulmana.
Se è vero che Kamala Harris ha scelto un esponente dell’ala progressista del Partito Democratico come Tim Walz (sostenitore dei diritti civili ma anche del diritto degli americani di portare armi) come suo vice in caso di vittoria, è evidente il suo tentativo di rincorrere a destra l’agenda trumpiana per cercare di conquistare l’elettorato repubblicano moderato. Se ci riuscirà si capirà nei prossimi giorni dall’analisi dei flussi elettorali.
Il focus su economia e immigrazione
Invece è già certo che settori di classe operaia tradizionalmente democratici (soprattutto quelli con un livello di istruzione inferiore) e porzioni sempre più consistenti delle minoranze etniche sceglieranno di votare per il candidato populista di destra, attirati dalle sue promesse in campo economico e dalle sue rassicurazioni sull’aumento della repressione contro la piccola criminalità. I dati sulla disoccupazione sono molto bassi, ma l’inflazione degli ultimi anni – anche se ridiscesa intorno all’1% – ha eroso una porzione consistente del potere d’acquisto di salari e pensioni, indispettendo la working class bianca e non solo.
D’altronde, stando a un recente sondaggio, per gli elettori la priorità non è rappresentata tanto dalle proposte sull’aborto, sui diritti civili o sulla politica estera, ma dalle proposte sull’economia e in seconda battuta sull’immigrazione.
In un comizio in North Carolina, ieri Donald Trump ha minacciato di imporre una tariffa del 25% su tutte le importazioni dal Messico se il paese «non fermerà l’assalto» dei migranti al confine.
Alle sparate del repubblicano Kamala Harris risponde con la promessa di ridurre le tasse alla classe media aumentandole nel contempo sui grandi patrimoni, dando l’impressione di non avere una proposta forte e di barcamenarsi con messaggi ambigui e contraddittori.
Intanto il miliardario ha già fatto trapelare i nomi di alcuni dei suoi ministri all’interno di un eventuale esecutivo molto “Maga” (dal suo slogan “Make America Great Again”) composto da falchi e fedelissimi e che include naturalmente Elon Musk.
L’ex procuratrice invece ha promesso l’inclusione di un esponente repubblicano in una sua eventuale compagine di governo, una certa discontinuità rispetto al mandato di Biden e la presenza di un numero maggiore di donne.
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Spioni e spiati. C’è di tutto, incluso il Mossad e Jp Morgan (prima parte)
L’indagine della Dda di Milano e della Dna ha scoperto un gigantesco mercato di informazioni riservate e personali raccolte in modo illecito da alcune società rubandole da banche dati strategiche per il paese.
Per fare questo lavoro erano stati arruolati ex appartenenti o appartenenti a Polizia e Guardia di Finanza, tecnici informatici e hacker in grado di violare qualsiasi archivio informatico. E non è finita qui: secondo quanto emerge dall’inchiesta in alcuni casi tra chi rubava i “segreti” o ne permetteva il furto era anche il responsabile della cybersicurezza – il Ced – ovvero colui che avrebbe la funzione di difendere i dati dai ladri informatici.
Al momento risultano indagate 52 persone con 16 richieste di arresto, di cui però solo quattro delle quali sono state concesse dal Gip. Emesse anche due misure interdittive nei confronti di un poliziotto e un finanziere. Tra le accuse – a vario titolo – c’è l’associazione per delinquere finalizzata all’accesso abusivo a sistema informatico, corruzione, intercettazione abusive e rivelazione del segreto d’ufficio.
Nell’atto del pm si legge anche che la società indagata, la Equalize srl, nei primi sette mesi del 2023 avrebbe incassato coi suoi report 763mila euro. E gli investigatori hanno, poi, calcolato con una serie di parametri i presunti incassi per quei servizi di dossieraggio in oltre 2,3 milioni di euro in tre anni, tra 2022 e 2024. Il resto del complessivo incasso di oltre 3,1 milioni arriverebbe da altre quattro società, tra cui la Mercury Advisor srls e la Develope and Go srls.
Il blitz come noto è scattato venerdì 25 ottobre scorso ed ha portato all’esecuzione di sei misure cautelari tra arresti domiciliari (per quattro destinatari) e interdittive (per gli altri due) e al sequestro di diverse società.
Tra le persone coinvolte nell’operazione ci sarebbero sia appartenenti alle forze dell’ordine attualmente in servizio (si parla di un carabiniere) sia ex appartenenti (un poliziotto).
L’indagine portata avanti dalla Dda e dalla Procura nazionale antimafia avrebbero documentato una sistemica “esfiltrazione” di documenti archiviati in banche dati strategiche nazionali. Tra questi risultano lo Sdi, utilizzato dalle forze di polizia per incamerare i dati di una persona che ha commesso un reato e per consultare gli stessi dati in tempo reale per controllare eventuali precedenti; il sistema Serpico dell’Agenzia delle Entrate; il software dell’Istituto nazionale di previdenza sociale (Inps); quello dell’Anpr, il registro anagrafico centrale del Ministero dell’Interno, fino al portale Siva che contiene informazioni su potenziali operazioni finanziarie sospette.
Dati che, secondo quanto emerge, sarebbero stati sottratti illecitamente su commissione di ‘clienti’, anche a “fini privatistici”, e poi rivenduti a chi era disposto a pagare per entrarne in possesso, non si sa ancora se per ricattare qualcuno o per altri scopi.
Secondo i magistrati inquirenti, la società Equalize ha una struttura “a grappolo” dove ogni “componente” e “collaboratore” ha a sua volta “contatti nelle forze dell’ordine e nelle altre pubbliche amministrazioni” con cui “reperire illecitamente dati”.
Tra i contatti della società Equalize, risultano esserci anche alcuni funzionari di Palazzo Chigi di cui è ormai nota la predisposizione a interfacciarsi con i servizi segreti. “Dall’inizio dell’attività tecnica si è già accertato che presso gli uffici della Equalize si sono già recati funzionari della Presidenza del Consiglio dei Ministri le cui conversazioni non sono state oggetto di sunto e trascrizione” – è il passaggio rilevante del rapporto dei carabinieri che hanno avviato l’indagine sulla rete di spioni. In un altro passaggio del documento – con 41 pagine di omissis nerettati su 86 – è scritto che “Tale evidenza però dimostra l’entratura dei soggetti con i quali ci si sta approcciando e la ragnatela di conoscenze e contatti di cui dispongono allo stesso tempo si è accertato che gli stessi non hanno alcun ruolo organico con apparati di sicurezza nazionali”.
Tra i clienti della società di spionaggio risultano esserci aziende come Erg, Ilva, Barilla, Heineken, Fenice soprattutto per spiare alcuni dipendenti e, in alcuni casi molti dipendenti, alla ricerca di talpe o irregolarità oppure per avere informazioni su aziende concorrenti. Tra i clienti che avevano chiesto un “lavoro” all’Equalize, anche se la società ha smentito con una nota ufficiale, ci sarebbe anche l’Eni o comunque il responsabile dell’ufficio affari legali dell’Eni.
Tra i clienti risulta esserci anche il Mossad israeliano che, a quanto si è appreso, avrebbe pagato un milione di euro per monitorare gli attacchi informatici provenienti dalla Russia e il tracciamento dei movimenti bancari della compagnia privata di mercenari Wagner. A loro volta gli agenti del Mossad avrebbero fornito informazioni sul traffico illecito di gas iraniano in Italia.
Tra gli spiati c’è anche il rappresentante in Italia della banca d’affari JP Morgan a colloquio con un costruttore romano.
Sullo sfondo di tutta questa vicenda non vanno perse di vista le “forzature” che in materia di spionaggio istituzionale vengono introdotte dal nuovo Decreto Sicurezza (il famigerato 1660 passato alla Camera), del quale l’art. 31, oltre ad ampliare le attività sotto copertura dell’intelligence, trasforma la facoltà dei servizi segreti di “corrispondere” con le pubbliche amministrazioni e le società di interesse pubblico, compresi gli atenei e gli enti di ricerca – cosa però già prevista dalla legge124/2007 – in un vero e proprio “obbligo di collaborazione e assistenza” per la “tutela della sicurezza nazionale”.
Prevede poi che le “convenzioni” tra i vari soggetti pubblici e i Servizi segreti, anche queste già consentite, “possono prevedere la comunicazione di informazioni anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”.
Fine prima parte
Fonte
Spagna - Le responsabilità politiche dietro la strage a València
Ma una volta sgombrato il campo dalle ricostruzioni complottiste, che non a caso ripropongono acriticamente il modello capitalista, è evidente la responsabilità del governo della Generalitat Valenciana (monocolore del Partido Popular de la Comunitat Valenciana) nella gestione dell’emergenza e nel suo tragico e ancora provvisorio bilancio. In altre parole, se il fenomeno atmosferico era inevitabile, al contrario la strage si poteva scongiurare. Ma l’operato del governo Mazón ha aggravato la situazione.
L’agenzia spagnola per gli eventi atmosferici (AEMET) ha previsto il fenomeno atmosferico già venerdì 25 ottobre. Lunedì 28 ha avvisato del rischio di possibili inondazioni. Durante la mattina di martedì 29, l’AEMET ha emesso reiteratamente diversi comunicati (alle 7, alle 8, alle 9 e alle 9,20) esortando la popolazione a non uscire e a prendere le dovute precauzioni abbandonando le zone inondabili. Di conseguenza alcune istituzioni pubbliche hanno sospeso le loro attività, come nel caso dell’Autorità Portuale. L’Università di València aveva sospeso la didattica già il giorno prima.
Tuttavia il presidente Mazón non solo ha ignorato gli avvisi dell’AEMET, via via più preoccupanti nel corso della mattinata, ma alle 13 ha fatto una dichiarazione nella quale affermava non esistere nessun rischio idrogeologico e che perciò non era necessario prendere alcuna misura particolare.
Pochi minuti dopo, l’acqua inondava le strade di alcuni paesi della provincia, portandosi via auto e persone. Nelle ore successive la situazione si è fatta sempre più grave ma l’allarme inviato per SMS dal governo della Generalitat alla cittadinanza è arrivato soltanto alle 20, quando c’erano già i morti nelle strade.
Dopo la dichiarazione delle 13, in seguito cancellata dai propri social, Mazón e il suo governo sono scomparsi lasciando la popolazione in balia delle inondazioni. In molti hanno denunciato la incompetente sottovalutazione del rischio, ma alla base del comportamento di Mazón c’è un calcolo ragionato ben più grave: per il governo regionale del PPCV l’attività economica viene prima della vita della popolazione e non può essere fermata neppure davanti alla catastrofe imminente.
La supremazia del capitale è il segno distintivo dell’Unione Europea e il governo Mazón così come le grandi imprese presenti sul territorio del País Valencià non fanno eccezione.
Secondo numerose testimonianze nei magazzini e nei negozi di Inditex, Mercadona, Carrefour, Transfesa i lavoratori sono stati costretti a cominciare il turno o a rimanere sul posto di lavoro anche dopo il tardivo allarme inviato per SMS alle 20. In molti casi non hanno potuto tornare a casa per soccorrere i propri familiari e vicini.
E la dimostrazione che la supremazia dell’impresa è un principio ormai condiviso anche dalla “sinistra” statale, sono le parole pronunciate dalla vice presidente del governo spagnolo. Yolanda Diaz ha raccomandato alle imprese soltanto “il rispetto delle norme”, scaricando interamente sui lavoratori la responsabilità di recarsi oppure no al lavoro in questi tragici giorni. Una posizione quantomeno deludente per il governo che si definisce come “il più progressista della storia spagnola”.
I più di 200 morti (una cifra ancora provvisoria), i 1900 dispersi e le distruzioni materiali invocano ben altre misure. Secondo la Candidatura d’Unitat Popular è necessario un decreto che dichiari lo stato d’emergenza e sospenda tutte le attività produttive non essenziali. Altre forze politiche e sindacali, quali Compromís, hanno chiesto le dimissioni di Mazón, mentre l’indignazione e la rabbia popolare si sono palesate questa domenica a Paiporta, uno dei municipi più colpiti dalla tragedia.
Il monarca spagnolo, accompagnato da Pedro Sánchez e dal presidente della Generalitat Valenciana, pensava di fare una passeggiata in un feudo fedele: il País Valencià è governato dalla destra e ha storicamente ospitato un neofascismo ampiamente foraggiato dallo stato in funzione anticatalanista. Qui, soprattutto tra gli anni ’80 e ‘90, si è dato campo libero a bande neofasciste che si sono macchiate di violenze e omicidi di militanti antifascisti (come nel caso di Guillem Agulló).
Qui si sono spese molte energie per consolidare la dipendenza dalla capitale e scongiurare la minaccia rappresentata dai legami culturali, economici e storici con la Catalunya, in altre parole la minaccia dell’unità dei Països Catalans. E proprio qui il monarca ha subito una dura e bruciante contestazione.
Tanto che la reazione non si è fatta attendere: un giudice di Torrent, un municipio in província di València, ha già aperto un’indagine per accertare le responsabilità della popolazione di Paiporta nella contestazione a Felipe VI. I reati ipotizzati sono attentato e disordini pubblici. Il ministro dell’interno Fernando Grande Marlaska si è detto fiducioso di poter identificare i colpevoli. L’apparato giudiziario statale non agisce sempre con la stessa solerzia: la Fiscalia, un organo che risponde al governo centrale, non ha aperto finora alcuna indagine sulle responsabilità di Mazón e delle grandi imprese.
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04/11/2024
Capotreno accoltellato a Genova Rivarolo: basta violenze nei confronti dei lavoratori delle ferrovie, USB proclama sciopero nazionale
A tutt’oggi, infatti, siamo di fronte a un’escalation di violenza su scala nazionale, a fronte delle quali non abbiamo verificato nessun intervento da parte delle forze di polizia a tutela del personale mobile.
La gravità di quanto accade giornalmente al personale mobile ferroviario necessita di un intervento urgente, a tutela della sicurezza e dell’incolumità delle lavoratrici e dei lavoratori che, quotidianamente, prestano servizio alla collettività.
USB proclama sciopero nazionale di 8 ore, ai sensi dell’art. 2 comma 7 della legge 146/90 e s.m.i., per il giorno 5 novembre 2024, dalle 9.01 alle 16.59, di tutto il personale mobile dipendente.
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Khamenei: «Risposta devastante a Israele». Timori a Baghdad
Una settimana fa la previsione più diffusa era che Teheran avrebbe dato priorità alla moderazione dopo aver subito l’attacco israeliano. Ora la rappresaglia iraniana al raid aereo ordinato da Benyamin Netanyahu è data per sicura – «nei prossimi giorni» prevedeva sabato il Washington Post – in una escalation di attacchi tra le due parti intenzionate ad affermare la rispettiva capacità di deterrenza. Le parole pronunciate sabato dalla Guida suprema iraniana Ali Khamenei non lasciano spazio alle interpretazioni. «I nemici, siano essi il regime sionista o gli Stati Uniti, riceveranno sicuramente una risposta devastante a ciò che stanno facendo all’Iran, alla nazione iraniana e al fronte della Resistenza», ha detto Khamenei, precisando che non è solo una questione di «vendetta». A Teheran spiegano che la Guida suprema, dopo aver inizialmente scelto toni moderati, ha compreso che senza una risposta, la deterrenza dell’Iran contro Israele sarebbe indebolita. Khamenei non ha precisato i tempi, la portata e se la rappresaglia avrà luogo solo dal territorio iraniano o anche da altri paesi. Un punto che ha assunto un particolare rilievo negli ultimi giorni.
Teheran intende rispondere, ma è consapevole che la reazione di Tel Aviv sarà inevitabile e concentrata, con ogni probabilità, contro gli impianti petroliferi e i siti nucleari iraniani, specie se dalle presidenziali Usa del 5 novembre uscirà vincitore Donald Trump, nemico implacabile dell’Iran. L’Amministrazione Biden, si è opposta all’attacco contro le centrali atomiche dell’Iran e Netanyahu sa che con l’amico Trump rieletto presidente, sebbene non ancora alla Casa Bianca, avrà le mani più libere. Da qui, pare, la presunta idea iraniana – riferita dal sito Axios e da altre fonti – di lanciare missili balistici e droni dal territorio iracheno per preservare siti nucleari e impianti petroliferi iraniani dalla ritorsione israeliana. Concreta o improbabile (come dicono alcuni) questa ipotesi se da un lato ha mobilitato la Resistenza islamica in Iraq (Iri) – la coalizione di gruppi armati sciiti sostenuti dall’Iran, responsabile di occasionali lanci di droni verso Israele (l’ultimo è di ieri) – dall’altro ha messo in allarme Baghdad che, come Damasco, ha cercato nell’ultimo anno di mantenere una linea di sostanziale basso profilo pur confermando l’appartenenza all’Asse della Resistenza e l’alleanza con l’Iran.
«La decisione tra guerra e pace spetta allo Stato», ha avvertito il premier iracheno Mohammed Shia Al Soudani, secondo quanto riportato dal quotidiano Asharq Al-Awsat. Elevato al potere nel 2022 dal Quadro di Coordinamento, l’alleanza di partiti filoiraniani che monopolizza lo sciismo politico in Iraq, Al Soudani mantiene stretti legami con Teheran, rivolge dure accuse a Tel Aviv e appoggia il popolo palestinese. Allo stesso tempo, tra la sorpresa di molti, dopo aver preso l’incarico di primo ministro non ha fissato alcun calendario per il ritiro completo dei militari statunitensi in Iraq – richiesto con forza dalla maggioranza degli iracheni – e cerca di tenere il suo paese a distanza dallo scontro frontale tra Israele e l’Iran.
Questa posizione cauta viene criticata dalle forze sciite più militanti, ma non dalla maggior parte dello schieramento politico al governo in Iraq. Hanno avuto un impatto i bombardamenti israeliani di una settimana fa contro le batterie antiaeree in Iraq (e in Siria), prima dell’attacco contro gli obiettivi di Iran. Così come le notizie diffuse dalla tv israeliana (di estrema destra) Canale 14, di piani per «eliminare» anche l’ayatollah iracheno Ali Sistani, figura paragonabile per importanza religiosa all’iraniano Khamenei. Al Soudani ha chiesto al gruppo Nujaba, tra i più rilevanti assieme a Kataeb Hezbollah nella Iri, di non trascinare il paese nello scontro diretto con Israele. La risposta è stata che la decisione di entrare nel conflitto è «nelle mani della Resistenza», per sottolineare che non appartiene allo Stato iracheno, sempre secondo Asharq Al-Awsat. Haidar al Lami, membro dell’ufficio politico di Nujaba, ha detto al quotidiano libanese Al-Akhbar, che la sua organizzazione si stava coordinando con l’Iran. Al-Nujaba, è «pienamente coordinato con l’Iran per organizzare i tempi e il luogo di questa risposta» a Israele, ha affermato.
Soudani sa che le sue pressioni sulla Iri non avranno grandi risultati e ora guarda agli Usa per impedire a Netanyahu di colpire anche l’Iraq. Più di tutto punta sull’atteggiamento prudente della sua maggioranza. I partiti della coalizione di governo, tutti favorevoli alla causa palestinese e che considerano Israele un nemico, hanno opinioni divergenti su quanto l’Iraq debba impegnarsi in scontro regionale mentre il paese è ancora impegnato a riprendersi dalle conseguenze della guerra dell’Occidente al presidente Saddam Hussein e dalla lunga occupazione Usa. Il percorso è lungo, tuttavia Baghdad, recuperata una parziale stabilità interna, oggi più di qualche anno fa sembra investire i proventi dell’esportazione del petrolio nella costruzione di infrastrutture vitali – reti elettrica e idrica in testa – e per assistere una popolazione in larga parte povera.
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L’Occidente pagherà un prezzo salato se ignorerà i paesi Brics
Nel confronto con il resto del mondo questa cecità collettiva ha non paradossalmente un fondamento razionale, per quanto BASATO sull’illusione: anche il più sfruttato e sottopagato dei lavoratori può pensare (“credere”, in senso religioso-disinformato) che per quanto la sua vita sia disperante è comunque migliore dei suoi “pari classe” (o pari grado) nati altrove. E come sempre questo è persino vero in alcuni casi (basti guardare buona parte dell’Africa o dell’America Latina), ma totalmente falso in innumerevoli altri (Turchia, Iran, Russia, ecc.).
Basta farsi un giro non turistico (fuori cioè dai circuiti obbligati per il “visitatore straniero pagante”) per rendersene pienamente conto. E basta parlare con “i locali”, per strada o nei parchi pubblici, per sentire la forza con cui certe popolazioni del pianeta sono arrivate a capire – e dirti in faccia – che l’Occidente non ha ormai più nulla da insegnare. Sul piano economico, certo, ma ancora meno sul piano etico e morale.
L’illusione della potenza e del benessere occidentale è insomma fuorviante, sovrastimata, figlia della propaganda e di quel tanto dei frutti di rapina internazionale che percola in briciole dai tavoli imbanditi del grande capitale occidentale fin sulle teste del “popolo”. Perdere l’egemonia sul mondo, insomma, è vissuto (raccontato) come un possibile lutto che è meglio non vivere.
La nascita e il rafforzamento dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), il loro allargamento ad una massa di economie e popolazioni dai numeri molto importanti, è esattamente il tipo di evento-processo che scalza il dominio imperialista occidentale sul mondo. E non lo fa proponendo un’alternativa di sistema, un altro “modo di produzione”, ma più modestamente proponendo un altro sistema di relazioni, sia politiche che commerciali, fondato su regole molto diverse da quelle dettate da Washington.
Anche per chi sta sperimentando forme autonome di costruzione del socialismo – certamente Venezuela, Cuba, ma anche la Cina – questa è un’opportunità di sopravvivenza e sviluppo che non potrebbe esistere in un mondo vincolato dalle regole e dagli strumenti elaborati nel corso di oltre 30 anni dal grande capitale occidentale. E le opportunità è meglio averle, piuttosto che esserne privi...
Sulla realtà, lo sviluppo, il futuro dei Brics (nel frattempo raddoppiati di numero e quindi “Plus”) se ne sentono così di ogni, a metà strada tra l’esorcismo (ormai pressoché inutile, viste le dimensioni che ha assunto il processo), lo scongiuro e la maledizione.
Più seriamente, un analista del calibro di Wolfgang Munchau – noto soprattutto come editorialista del Financial Times – fa presente che al fondo c’è una “sottovalutazione”, secondo lui fondata su due convinzioni, entrambe superate dai fatti: a) i Brics falliranno nel tentativo di creare una “moneta unica”, b) (anche perché) non sono un insieme politicamente coeso.
Le due convinzioni, aggiungiamo noi, sono in realtà figlie dello stesso errore, diventato “regola” da quando il neoliberismo ha preso il sopravvento: non c’è alternativa al capitalismo occidentale, tutti gli altri sistemi sono (sarebbero) destinati a fallire. È insomma il problema del “pensiero unico”, il cui dominio nel campo delle idee sull’economia (e quindi anche dentro l’Accademia) è stato così forte ed esclusivo da impedire finanche il sopravvivere di pensieri alternativi (se non nelle dimensioni interstiziali del pensiero economico “non ortodosso”).
Ma ogni successo eccessivo produce il suo giustiziere: non esistendo un pensiero alternativo, all’interno dei think tank occidentali, non si può neanche elaborare qualche soluzione diversa dalle “ricette” fissate come tavole della legge, ma che non funzionano più. Un ingessamento che impedisce di riconoscere i problemi imprevisti e di farvi fronte in modo efficace.
Non a caso, quando qualche anno fa la deflazione si è fatta cronica, le politiche monetarie adottate dalla Bce di Draghi furono così “non convenzionali” (azzeramento dei tassi di interesse) da essere contrastate dall'“egemone” nell’Unione Europea (ossia la Germania, con al seguito il cagnolino olandese). Ed è certamente in azione l’ironia della Storia se uno dei più fedeli sostenitori del neoliberismo imperialista occidentalocentrico – Mario Draghi – sia apparso per qualche tempo come un “non ortodosso” intento a produrre decisioni temporaneamente efficaci (oggi ha riscoperto l’intervento statale, ma in chiave militare...).
Alla debolezza teorica del “pensiero unico” si contrappone però la forza e la dimensione degli interessi del resto del mondo. Forza che oltre a produrre merci, relazioni, sistemi, elabora anche nuove regole interstatuali che partono dalle diversità esistenti e non pretendono di cancellarle.
Come giustamente nota Munchau, proprio l’esperienza negativa dell’Unione Europea ha convinto i Brics a non voler costruire una “moneta unica”, mentre l’attenzione si è concentrata sui sistemi di pagamento internazionali, in modo da evitare il dominio del dollaro (e le sue svalutazioni/rivalutazioni, spesso politicamente orientate e comunque devastanti per le economie “emergenti”).
Le tecnologie stanno in questo caso dando una possibilità che prima non esisteva, con le blockchain elaborate per le cryptomonete. Ed è quasi stupefacente che una innovazione nata tutta dentro il sistema occidentale (le crypto, appunto) sia stata compresa, elaborata e fatta propria quasi soltanto da chi era fuori di quel sistema. Mentre chi ragionava e ragiona con le premesse del “pensiero unico” semplicemente le scotomizzava o riduceva a fenomeno speculativo, “furbo” ma troppo volatile per esser davvero utile.
I buoi intanto sono usciti dalla stalla, e pesano per metà dell’umanità. Mentre l’Occidente – economicamente e demograficamente in calo – ancora si guarda nello specchio della gloria passata.
Buona lettura.
Se il blocco globale riuscirà a liberarsi con successo dal dollaro USA, entreremo in un nuovo ordine globale.
La ragione principale della nostra complicatissima strategia per l’Ucraina è che abbiamo sottovalutato la Russia. Abbiamo sottovalutato la sua resilienza, le dimensioni e la forza della sua economia e le alleanze che è stata in grado di costruire.
Di questi ultimi, il più importante è stato il Brics+. L’acronimo sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Il “più” sta per i nuovi membri: Iran, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti. L’Arabia Saudita aderirà presto. Anche molti altri paesi sono semi-entrati nel gruppo.
Insieme, i Brics+ rappresentano il 35,4% dell’economia mondiale. I paesi industrializzati avanzati del G7 rappresentano il 29,6 per cento. Il divario è ancora più ampio se si considerano le rispettive quote della popolazione globale. I Brics+ hanno quasi il 45 per cento, mentre il G7 ha il 10 per cento.
Quindi, cosa ci rende così sicuri di poter vincere questa guerra fredda del 21° secolo quando loro sono più grandi di noi e, collettivamente, anche più ricchi?
Gli economisti e gli strateghi politici occidentali si aggrappano a un’idea: che il dollaro domini il commercio mondiale. Questo è il modo in cui gli Stati Uniti possono imporre la loro volontà agli altri. Il dominio del dollaro dà all’amministrazione statunitense il privilegio di sanzionare i paesi attraverso il sistema finanziario. Praticamente tutte le banche in Occidente dipendono dai mercati del dollaro, in una forma o nell’altra.
Sento spesso argomentare boutade secondo cui non dobbiamo preoccuparci dei Brics+ perché non creeranno una moneta comune che potrebbe sfidare il dollaro.
Questa affermazione rientra nella categoria sia del vero che dell’inutile.
Il Brics+ non creerà una moneta unica. L’UE è un monito su come una moneta comune possa finire per aumentare le divisioni politiche tra i suoi membri. Il Brics+ è alla ricerca di qualcos’altro: un’infrastruttura che consenta ai suoi membri di instradare i flussi finanziari tra loro senza entrare nell’universo del dollaro in nessun momento.
I cosiddetti Brics Pay sono stati una grande star al loro vertice alla fine di ottobre a Kazan, nel sud della Russia. Brics Pay è un sistema di pagamento basato su blockchain che utilizza la stessa tecnologia di base di Bitcoin e altre criptovalute.
I sistemi di pagamento sono cose di cui normalmente non si legge nelle riviste, per una buona ragione. Fanno parte dell’impianto idraulico dei sistemi finanziari globali. Normalmente, sono molto noiosi. Ma nel mondo di oggi, sono emersi come uno strumento geopolitico fondamentale, perché consentono ai paesi di difendersi dalle sanzioni occidentali.
I Brics+ rappresentano circa il 35-40% del commercio globale, eppure questi paesi sono alla mercé degli Stati Uniti perché la maggior parte del loro commercio è in dollari. Questo vale anche per i flussi commerciali all’interno della regione Brics+.
L’economista francese Jacques Sapir ha sostenuto che i Brics+ sono sulla buona strada per spostare fino all’80% di quella parte del commercio dal dollaro USA, utilizzando i Brics Pay, entro i prossimi cinque anni. Ciò avrà un enorme impatto sull’equilibrio del potere finanziario globale.
Circa il 60% delle riserve estere globali è attualmente detenuto in dollari. Con il nuovo sistema di pagamento, il Brics+ potrebbe essere sulla buona strada per superare il dollaro entro cinque anni, ha calcolato Sapir.
Sono più cauto riguardo a tali proiezioni, ma lui ha ragione sulla tendenza. Il Brics+ non ha bisogno di una moneta unica per rendersi indipendente dal dollaro USA. Tutto ciò di cui ha bisogno è la tecnologia del 21° secolo.
L’autocompiacimento occidentale si basa sull’osservazione che il mondo ha sempre avuto una sola moneta dominante. Questa era la sterlina fino alla metà degli anni ’20 del '900, e da allora è stata il dollaro. Il dominio di una moneta unica ha un effetto di rete in cui il vincitore prende tutto. Ma la blockchain cambia i calcoli.
Un modo per pensare a questa tecnologia è come un libro mastro sicuro che tiene traccia dei pagamenti. Ma è open source. La blockchain non è solo la spina dorsale delle criptovalute. Può anche eseguire pagamenti tra banche e banche centrali.
I macroeconomisti, in particolare quelli che consigliano i governi, hanno enormemente sottovalutato l’impatto della blockchain e delle criptovalute. E molti lo fanno ancora. Sottovalutano anche l’impatto di Brics Pay. Non hanno visto che questa tecnologia consente ai paesi di svezzarsi dalla loro dipendenza dagli Stati Uniti.
L’attaccamento luddista unito alla convinzione delirante che l’Occidente sia invidiato dal mondo, sono le ragioni principali per cui continuiamo a sottovalutare i nostri avversari. È per questo che l’Ucraina rischia di perdere la guerra.
Un’altra boutade è l’osservazione che il Brics+ non è politicamente coeso come l’Occidente. Anche questo è allo stesso tempo vero e fuorviante.
Gli Stati membri non hanno bisogno dello stesso grado di integrazione politica che abbiamo nel G7, nella Nato o nell’UE. A differenza della Cina e della Russia, l’India e il Brasile non sono interessati a un confronto con gli Stati Uniti. Vogliono commerciare con tutti e non diventare parte di un blocco. Russia, Corea del Nord e Iran si sono avvicinati. Il presidente cinese di Xi Jinping ha stretto un’alleanza strategica con Vladimir Putin, ma mantiene le distanze.
Brics+ è un gruppo eterogeneo, ma la sua forza deriva dall’attenzione alle poche cose che queste nazioni hanno in comune. Il più importante è il loro desiderio di ridurre la loro dipendenza dagli Stati Uniti.
Non si tratta delle elezioni americane. Le politiche commerciali e sanzionatorie americane si sono evolute nel corso di diverse amministrazioni. Gli Stati Uniti stanno diventando meno disposti ad assorbire le eccedenze commerciali globali e a sovvenzionare la difesa dell’Europa. Né Donald Trump né Kamala Harris hanno una strategia, e nemmeno un’ambizione, per tenere a freno le ambizioni geopolitiche dei Brics+. Il disaccoppiamento globale è il mega-trend del nostro secolo e Brics+ sarà la seconda tappa del nuovo ordine globale bipolare.
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Contrordine, neoliberisti… torniamo al petrolio!
Come sempre la cosa si può guardare da molti angoli. Abbiamo avuto una prima fase, negli anni Settanta, in cui il Club di Roma era parte di una campagna per superare la industrializzazione e decentrarla (anche per ragioni politiche); una seconda, negli anni Novanta, in cui la crescente mondializzazione e la retorica della modernizzazione spingeva per il “piccolo” e le ragioni della natura e della salute sono venute in primo piano; una terza, negli anni Dieci, in cui si è affermata la retorica delle rinnovabili e della transizione energetica.
Nella tendenziale stagnazione post crisi 2007 si è trattato anche di una politica di impiego forzoso del capitale, una sorta di keynesismo verde. Supportato politicamente ed accompagnato dal capitale finanziario (che va come una mandria cieca dietro ai manzi di punta).
Poi ci sono state orde di propagandisti che in buona o cattiva fede hanno costruito nuvole comunicative. Quindi ci sono stati politici che ne hanno approfittato per dare addosso ai poveri e ignoranti (perché dovevano distinguersi, prendendo i voti nelle Ztl). Tutto vero, lo abbiamo detto per un decennio.
Però ora sta cambiando, e ancora una volta dall’alto. Abbiamo ancora orde di propagandisti che, però, questa volta spingono per tornare al ‘business-as-usual’. Perché? Come mai arriva il contrordine dagli alti piani di New York e della City?
I grandi fondi rinculano perché (diretti politicamente come sono) hanno “scoperto” che la filiera si fa in Cina e quindi bisogna tornare a Oil & gas (dopo averci tolto quello Russo). Si può dire così, semplificando, ma dicendo l’essenziale: “il sistema finanziario-industriale-militare anglo-americano, ora che ha deciso di precipitare il mondo nella Terza Guerra Mondiale (forse non solo “a pezzi”), sceglie di ritornare al vecchio caro Oil & Gas, con aggiunta del Nuke, con buona pace della nostra salute e di quella del pianeta, per non aiutare la crescita green della Cina”.
Insomma, La verità è che ora, in guerra, servono le fossili e serve il nucleare perché le rinnovabili si fanno in Cina. È mobilitazione di guerra.
Al suo punto zero il problema dell’Europa è che ha una bolletta energetica carissima, poche risorse energetiche fossili (e in esaurimento) e dipende interamente dai suoi vicini (Russia, Medio Oriente) o “amici” (USA). E il dramma, per certe centrali di potere economico-finanziario e politico-militare è che oggi la generazione da rinnovabili, grazie alle immense economie di scala cinesi, è il modo più economico di produrre energia, e con crescente distacco.
Naturalmente ci sono una serie di problemi: è energia a bassa densità, serve molto territorio; se non si fa idrogeno è difficile da stoccare (anche se si migliora su questo, ma ancora in Cina).
Ma il punto chiave è semplice: tutta la filiera è in Cina; usarla riduce la nostra dipendenza dagli Usa o dai posti da questi controllati. In secondo luogo, oltre al gas di fracking i nostri “amici” ci vogliono vendere le centrali nucleari (giocattolini costosissimi e sempre dipendenti dalla manutenzione).
Stando alla sostanza, al fondo, se oggi cambia la narrativa non è perché “si fa in Cina” (è sempre stato così), ma perché ora con la Cina vogliamo andare in guerra. Questo è il macrofatto. Gli altri restano, il clima cambia, le fossili da noi continuano a non esserci nella quantità e qualità necessaria, il contesto tecnologico resta. Ma siamo in guerra, bisogna cambiare discorso e, soprattutto, non comprare dai nemici.
Più in profondità, sono appena stato a Shenzen, Wuhan e Pechino (ospite di Huawei), e capisco bene il punto. Sono dieci anni avanti e dal punto di vista tecnologico anche di più, vanno quindi fermati. Peccato che così saremo solo noi a restare indietro (se sopravvivremo).
La Cina ha città enormi che noi ci sogniamo, una visibile ricchezza diffusa, nessun povero, campagne come quelle lombarde o emiliane, enormi infrastrutture energetiche molto più avanzate delle nostre, fabbriche che sembrano cliniche, società come la Huawei dove gli utili sono tutti distribuiti ai lavoratori ma il controllo è dello stato (una pseudo-cooperativa), etc. Vanno assolutamente fermati per i nostri “amici” (e soprattutto per gli ‘amici’ del grande capitale finanziario, dato che sono un pessimo esempio).
Quel che è cambiato, e ci porta alla guerra, è che è finita l’illusione di guidare l’innovazione e, tramite questa (i brevetti), l’estrazione di valore dalla periferia cinese. Ormai tutti o quasi i brevetti sono cinesi. Le macchine utensili sono per lo più cinesi, adesso anche i microprocessori; in tecnologie chiave come le batterie sono superiori sia sul prezzo sia sulla tecnica. E accelerano.
Quindi mentre prima le fabbriche erano in Cina, ma il valore aggiunto defluiva nei paradisi fiscali (via Hong Kong, Singapore o Taiwan, Irlanda, Svizzera o quel che vuoi), ora il valore aggiunto resta in Cina in gran parte.
Questo è inaccettabile per i nostri “amici” nelle alte torri.
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Non c’è cura al carrello della spesa: prezzi in aumento anche a ottobre
A ottobre, secondo i calcoli dell’istituto di statistica, i prezzi del cosiddetto “carrello della spesa” – ovvero dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona – hanno registrato un +2,2%, accelerando su base tendenziale. Anche i prodotti ad alta frequenza d’acquisto sono passati da uno +0,5% a un +1,0%.
È vero che le ultime stime di Eurostat vedono l’inflazione di ottobre leggermente in risalita rispetto a settembre (da 1,7% a 2%), ma questi beni di prima necessità registrano risultati tra i peggiori. Il Codacons ha sottolineato come il listino dei prezzi di alimentari e bevande cresca a velocità tripla rispetto all’inflazione media.
Sempre il Codacons ha calcolato che ciò risulta in una spesa aggiuntiva, per un campione base di una famiglia con due figli, di ben 238 euro solo per cibi e bevande. In totale, si prevede un aggravio di spesa pari a 263 euro su base annua.
Nel 2024 i consumi alimentari sono già stati tagliati dell’1,1%, proprio per fare fronte ai rincari degli ultimi due anni. L’inflazione e con essa la speculazione continuano a colpire soprattutto le fasce di popolazione meno abbienti: l’acquisto di beni di prima necessità intacca i redditi più bassi in maniera proporzionalmente maggiore.
“Il governo deve finalmente realizzare quelle misure invocate da tempo dai consumatori”, conclude il Codacons, “tese a contrastare speculazioni e rincari ingiustificati dei listini che portano a contrarre la spesa dei cittadini con effetti negativi per l’intera economia nazionale”.
Non ci si può di certo aspettare molto da Palazzo Chigi, dove i ministeri sono già molto occupati a trovare una quadra tra l’aumento delle spese militari e i tagli imposti dal nuovo Patto di Stabilità. Bisogna ricordare che, ad esempio, già da quest’anno sono stati ridotti i bonus per i costi dell’energia indirizzati a famiglie a basso reddito.
Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, ha evidenziato come i dati di settembre abbiano tratto in inganno chi li leggeva, perché distorti dalla riduzione dei prezzi legata ai saldi estivi. Ora si torna alla realtà, fatta di altre rinunce e sacrifici per chi vive con la preoccupazione di mettere insieme il pranzo con la cena.
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Spagna - Piovono cazzate
Alcune incolpano il Marocco ed il suo programma di Cloud Seeding: in sostanza, quella procedura che prevede la stimolazione di formazioni nuvolose troppo deboli da causare pioggia, in modo da spremerle un po’ prima che si disperdano. Una tecnica nota da anni, che produce qualche risultato a livello locale. Naturalmente, l’effetto massimo è ottenere da queste nuvole recalcitranti qualche limitata precipitazione sui luoghi sottostanti.
Cosa c’entra tutto questo con i disastri climatici a livello globale, dei quali il cataclisma di Valencia è l’ultimo episodio di una lunga serie?
È un bel misto cospirativo, condito con abbondante salsa di odio nazionalista/razzista e di avversione alle energie rinnovabili.
Tutto parte dal sito spagnolo “Maldito Clima”. Esatto: Clima Maledetto.
La teoria cospirativa sostiene che il Marocco “potrebbe essere coinvolto nella manipolazione del meteo attraverso tecnologie non comprovate come HAARP, presumibilmente per danneggiare l’agricoltura spagnola durante una stagione di raccolta chiave per arance e verdure”.
Dicono quelli del Maldito Clima: “Non si chiama DANA o Cold Drop. Si chiama GEOENGINEERING HAARP. E forse il Marocco c’entra qualcosa: lo fanno per rovinare i propri concorrenti nel bel mezzo della stagione delle arance e delle verdure. E, a proposito, per aiutare le grandi aziende ad acquisire terreni a basso costo per le energie rinnovabili”.
Oramai, questi personaggi li riconosciamo appena aprono bocca o scrivono mezza frase.
Facile da capire: si rimpolpa una bufala cospirativa (“HAARP geoingegnerizza il cambiamento climatico”) sbugiardata da tutti e da tempo, con l’avversione contro “gli arabi” (il razzismo in Spagna contro “i marocchini” è storia passata e disgustosa che ha origini Franchiste, ora è morta e sepolta, ma la destra neofascista e forcona cerca di riportarlo in vita) ed a buon peso contro le energie rinnovabili, altra bestia nera dei borghesi ignoranti di destra, che odiano essere costretti a rinunciare alle loro automobili a benzina.
Queste teorie cospirative sono spesso alimentate per questi poco nobili fini politici, oppure da coloro che cercano di trarre profitto diffondendo sensazionalismo online.
Se ci fosse una base reale per queste affermazioni, ci aspetteremmo dichiarazioni ufficiali dalle autorità spagnole o marocchine. Comprensibilmente, per evitare di finire impelagate in dispute inutili, e magari dannose, non commentano neppure.
Basta poi ricordarsi che né la Spagna né il Marocco possiedono le capacità satellitari per controllare i modelli meteorologici, nonostante abbiano solidi sistemi di monitoraggio, capacità di previsione avanzate e numerosi esperti che potrebbero rispondere ufficialmente o ufficiosamente, se necessario.
Ancora, ricordiamo che HAARP – un trasmettitore radio situato in Alaska utilizzato per studiare uno strato superiore dell’atmosfera (chiamato ionosfera) – non è in grado di manipolare il meteo, né tanto meno il clima.
La tempesta su Valencia, una delle più intense dell’ultimo secolo nella regione, si è verificata, come negli altri casi in passato, quando l’aria fredda soffia sulle calde acque del Mediterraneo. Ciò fa sì che l’aria più calda salga rapidamente, formando dense nubi cariche d’acqua che possono indugiare sulla stessa area per molte ore, aumentando il loro potenziale distruttivo.
I meteorologi affermano che l’evento può talvolta innescare grandi tempeste di grandine e tornado, come si è visto questa settimana. La Spagna orientale e meridionale sono particolarmente soggette a questo fenomeno a causa della loro posizione tra l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo. Masse d’aria calda e umida e fronti freddi convergono in una regione in cui le montagne facilitano la formazione di nubi temporalesche e forti piogge.
Anche il Marocco ha avuto piogge, anche se meno intense, ma comunque consistenti (e benefiche), in particolare nelle regioni settentrionali e occidentali dopo l’indebolimento di Dana, mentre le masse d’aria umida in movimento da nord hanno portato nevicate sulle cime delle montagne.
Fun fact. Poco prima della tempesta DANA, circolava un’altra teoria cospirativa che coinvolgeva un programma di inseminazione delle nuvole (Al Gaith) da parte del Marocco per concentrare le precipitazioni all’interno dei suoi confini, impedendo alle masse d’aria umida portatrici di pioggia di raggiungere la Spagna: i marocchini ci rubano la pioggia, insomma.
Anzi no, ce ne mandano troppa, dicono ora.
L’importante è trovare un nemico da odiare, al quale dare – in pura isteria – la colpa. Distogliendo l’attenzione dalle vere cause di questi disastri.
Un ultimo risvolto tragicomico; pur entrandoci come i cavoli a merenda, si sono buttati a pesce nella gazzarra anche i complottisti italiani. Abbondano foto di cieli a pecorelle su Valencia, “prova inequivocabile” che stimolare la pioggia in Marocco provoca cataclismi a Valencia: basta guardare il cielo per capire senza ombra di dubbio che, se non sono stati i marocchini, allora sono “senza dubbio” le scie chimiche: anzi, scie chimiche più cloud seeding, più probabilmente il fatto che a Valencia l’intera popolazione era vaccinata.
Contribuisco io pure con una foto che ritrae un cielo fortemente ingegnerizzato, evidentemente strapieno di scie chimiche. Non è però a Valencia, è fatta dal mio balcone di casa, a Torino, un bel tramonto sulle Alpi Occidentali, come riesco a vederne parecchi, da qui. Nessuno però finora mi aveva “illuminato”. Non avevo idea del pericolo che correvo: sarà meglio che domani esca portandomi l’ombrello.
Perché piovono ca**ate (in spagnolo, està lloviendo tonterias), meglio essere prudenti.
Appendice tecnica di @Giuseppe Maria Amato
Immancabili!
Sono passate poche ore dalla tremenda notizia dell’alluvione che ha colpito Valencia e la costa mediterranea spagnola e, subito, lo sciacallaggio negazionista e complottista ha alzato il tiro.
Migliaia i post che accusano il cloud seeding e più in generale le “scie chimiche” per il cataclismatico nubifragio.
Ora, sapere che poche ore prima della pioggia venuta giù sulla sfortunata città iberica il cielo fosse “a pecorelle” non è sinonimo di alcuna manipolazione tecnocratica. I cirrocumuli, così si chiamano le “pecorelle”, non sono altro che una condizione particolare della nuvolosità tipicamente legata alle condizioni favorevoli alle precipitazioni piovose, non avrebbe altrimenti senso l’esistenza di proverbi ben più antichi di qualsiasi aereo, recanti chiari richiami al cielo a pecorelle.
Il cloud seeding, poi, viene effettuato con regolarità su aree desertiche e predesertiche, anche del Marocco, spargendo particelle di sali, soprattutto di Ioduro d’Argento, che, si badi, costa 127 Euro più IVA ogni 25 grammi, cioè circa 5.000 Euro al chilo, più IVA.
Proprio per i costi dello stesso sale, ai quali va aggiunto il costo dei voli, non certo a basso prezzo, la pratica si effettua solo direttamente sulle aeree dei bacini imbriferi delle dighe e solo se sulle stesse aree sono presenti nubi capaci di dare precipitazione. In caso diverso la pratica risulterebbe vana e dispendiosissima.
Ora, che si sia effettuata dispersione sul lago di Mehcra, in Marocco, a 600 chilometri in linea d’aria da Valencia, e che, per una serie di sfortunati eventi (cit. Brad Silberling), le particelle siano finite a inseminare i cirrocumuli sull’area valenciana, è talmente poco probabile da diventare ben più probabile che ad inseminare le nuvole siano stati i tappeti sbattuti al balcone da tutte le massaie valenciane.
La verità è che non è la prima volta che la città iberica si ritrova a dover piangere i morti per le alluvioni, ma che questa volta – da un lato la impermeabilizzazione dei suoli e dall’altro la temperatura altissima e ben fuori la media della superficie del mare Mediterraneo – hanno enormemente amplificato la già potente pioggia.
Sono venuti giù in meno di un giorno i quantitativi pari ad un anno di precipitazioni e la gente è finita in balia di una tale massa d’acqua che è stato impossibile intervenire. A questo si aggiunga il sempre più probabile fallimento del sistema di protezione civile valenciano e spagnolo, tutto con responsabilità gravissime.
Per dirla tutta ha ucciso più l’uomo che il tempo.
Adesso vogliamo capirlo che il cambiamento climatico è in atto o ancora stiamo a menare il can per l’aia?
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03/11/2024
New York Times: “l’esercito Usa prepara la guerra con la Cina”
L’Esercito degli Stati Uniti sta conducendo esercitazioni senza precedenti nella regione dell’Indo-Pacifico per prepararsi all’eventualità di un conflitto con la Repubblica Popolare Cinese.
A scriverlo è il “New York Times”, secondo cui le forze di terra statunitensi stanno effettuando manovre basate in parte sulle osservazioni del conflitto tra Ucraina e Russia, e in parte sulle peculiarità del teatro litoraneo che farebbe da scenario a un conflitto con la principale potenza asiatica.
Secondo alcuni analisti interpellati dal quotidiano statunitense, diversamente dal Corpo dei Marine e dalla Marina, l’Esercito americano non sarebbe pronto ad uno scontro sul campo con quello moderno e tecnologicamente avanzato di Pechino, sostenuto da una vasta rete satellitare.
Il “New York Times” descrive alcune delle manovre più recenti intraprese dall’Esercito Usa, e sottolinea come da queste esercitazioni emergano difficoltà operative e logistiche significative.
Secondo l’autrice del reportage, vista la crescente probabilità di uno scontro diretto con la Cina, il Pentagono sarebbe impegnato in uno sforzo straordinario per trasformare un esercito numeroso e goffo in una forza reattiva in grado di agire in modo rapido e coerente.
Per questo le truppe sarebbero impegnate in esercitazioni sempre più frequenti. Questo mese, ad esempio, 864 paracadutisti hanno effettuato prove di lancio in Alaska, ma solo la metà è riuscita a raggiungere con successo il punto di arrivo: alcuni degli aerei da trasporto tattico C-17 hanno riscontrato avarie ai portelloni, e alcuni dei paracadutisti hanno riportato slogature o traumi cranici. Un militare 19enne è rimasto gravemente ferito a causa della mancata apertura del suo paracadute principale.
Altre esercitazioni si sono svolte nel Pacifico, ad alcune decine di chilometri da Pearl Harbor, dove l’Esercito Usa ha effettuato prove di sbarco, mentre alle Hawaii si sono svolte esercitazioni di mimetizzazioni di veicoli e unità di comando e controllo.
Il Pentagono definisce lo scenario simulato da queste manovra una “guerra tra grandi potenze”, che comporterebbe un conflitto aperto tra le due forze armate più potenti del mondo, entrambe superpotenze nucleari, e con la possibile partecipazione di altri avversari dotati di armi nucleari come la Corea del Nord e la Russia. Di fatto uno scenario da guerra mondiale che verrebbe combattuto su vari fronti sia per terra, per mare e per aria.
Francia-Marocco, sulla pelle dei migranti e del popolo sahrawi
Il Presidente francese, accompagnato da una folta delegazione composta da ben nove ministri e una quarantina di imprenditori, ha salutato con favore il “partenariato eccezionale e rafforzato” concordato con il Re Mohammed VI. Macron si conferma così essere la “punta di lancia” della rappresentazione politica degli interessi economici e strategici della classe padronale francese e delle sue multinazionali in Europa e nel mondo.
In particolare, il gruppo Egis si impegnerà nella costruzione della seconda sezione della linea ferroviaria ad alta velocità Tangeri-Marrakech, con la partecipazione di Alstom che a sua volta fornirà 12-18 treni ad alta velocità. Safran aprirà a Casablanca un nuovo sito di manutenzione e riparazione di motori aerei, mentre il colosso logistico francese CMA-CGM prenderà parte allo sviluppo del porto di Nador West Med.
Inoltre, TotalEnergies ha firmato un accordo per “sviluppare il settore dell’idrogeno verde”; Engie collaborerà con il Gruppo OCP (Office Chérifien des Phosphates) per le energie rinnovabili nel quadro di un “accordo di partenariato nella transizione energetica”; infine, EDF ha firmato un memorandum d’intesa per l’estensione del parco eolico di Taza.
Nella logica “do ut des” tra contraenti, nel suo discorso al Parlamento marocchino, Emmanuel Macron ha chiesto “ancora più risultati nella lotta all’immigrazione clandestina”, alludendo alla volontà della Francia di rendere più facile per il Marocco riprendere i propri cittadini che le autorità francesi decidono di espellere.
Questo è stato uno dei principali punti di negoziazione tra i due Paesi: “Sulla questione della riammissione dei cittadini marocchini in situazione irregolare, abbiamo un quadro e delle procedure con delle scadenze. (...) Abbiamo concordato di migliorarle per abbreviare le scadenze e fare meglio in termini di numero di persone riammesse”, ha dichiarato il ministro degli Interni francese Bruno Retailleau.
In una recente intervista a France 2, il ministro ha confermato il progetto di una nuova “Loi Immigration” che potrebbe arrivare all’Assemblée Nationale ad inizio 2025. Retailleau vorrebbe introdurre le disposizioni già proposte quando era senatore e censurate dal Consiglio costituzionale nel gennaio 2024 nel quadro della “Loi Darmanin” – dal nome dell’ex ministro degli interni di Macron – approvata con il sostegno del Rassemblent National di Marine Le Pen.
Più concretamente, il progetto di legge comporterà una trasformazione de l’Aide médicale d’État (contributo pubblico alle cure dei cittadini “in situazione irregolare” in Francia) che il ministro considera “un incentivo alla clandestinità”. Inoltre, vorrebbe ripristinare il reato di soggiorno illegale, porre fine allo “ius soli” ed estendere da 90 a 210 giorni il periodo di detenzione per gli immigrati illegali ritenuti pericolosi.
Oltre agli sforzi sull’immigrazione clandestina, Macron ha inoltre esortato il Parlamento marocchino a “porre le basi per la naturale circolazione delle persone, in modo da poter fare molto di più insieme in termini di ricerca di progetti e di creazione di imprese, nonché di offrire opportunità a questi talenti”, confermando il saccheggio di risorse intellettuali del Nord nei paesi del Sud globale.
Parigi e Rabat sembrano incamminarsi sulla via della riconciliazione, dopo i dissapori e la crisi diplomatica degli ultimi anni. Il riavvicinamento tra i due Paesi si è accelerato da quest’estate, quando in una lettera indirizzata al Re Mohammed VI il Presidente Macron aveva affermato che “il presente e il futuro del Sahara occidentale si collocano nel quadro della sovranità marocchina” (frase ripetuta nuovamente in occasione del suo discorso al Parlamento di Rabat martedì scorso).
La piena sovranità del Marocco sul Sahara occidentale è stata riconosciuta solo da Stati Uniti e Israele, mentre l’ONU lo considera un “territorio non autonomo” che gode di un posto di osservatore. La dichiarazione di Macron era stata accolta quest’estate con grande disappunto dall’Algeria, che aveva richiamato il suo ambasciatore in Francia.
Da quasi cinquant’anni, Marocco e Algeria sono ai ferri corti sul Sahara occidentale, la cui sovranità è rivendicata sia dal Marocco sia dal Fronte Polisario, che lotta per il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi. Nel 1976, il Fronte Polisario proclamò la Repubblica Democratica Araba Saharawi (RASD); in risposta, il Marocco decise allora di annettere gran parte del territorio, facendo costruire un “muro di sabbia” lungo 2.720 km, completato nel 1987 e sorvegliato militarmente.
Dopo il discorso di Macron a Rabat, il Ministero degli Affari Esteri non ha perso tempo e ha aggiornato la carta del Marocco sul suo sito, facendo scomparire quella linea tratteggiata che delimitava simbolicamente la sovranità del Regno marocchino sul Sahara occidentale.
In gran parte desertico, il Sahara occidentale conta poco più di 650 mila abitanti. Il suo territorio si estende lungo un’ampia fascia della costa atlantica, ideale per la pesca e il commercio marittimo. Infatti, è proprio qui che il Marocco vorrebbe sviluppare ulteriormente il nuovo porto di Dakhla, attraverso un mega-progetto volto a farne un hub strategico di portata continentale e internazionale.
Tuttavia, la principale risorsa del Sahara occidentale è la sua terra ricca di fosfato, minerale usato come fertilizzante agricolo. Il Regno del Marocco ne ha estratti più di 30 milioni di tonnellate in media negli ultimi anni, appropriandosi degli incassi derivanti dall’esportazione – circa il 10% delle esportazioni totali del Marocco – tanto da farne un attore fondamentale del settore sul mercato mondiale.
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Le contro-sanzioni cinesi colpiscono un produttore Usa di droni che rifornisce anche l’Ucraina
Ma chi si sente forte lo dimentica sempre...
Skydio, il più grande produttore di droni degli Stati Uniti, nonché primo fornitore delle forze armate ucraine in questo campo, si trova ad affrontare una crisi nella catena di approvvigionamento dopo che Pechino ha imposto sanzioni che vietano a gruppi cinesi di fornirgli componenti critici.
Ohibò, come si permettono questi orientali comunisti...
L’azienda è ora alla ricerca di fornitori alternativi, poiché la mossa cinese blocca anche le forniture di batterie dal suo unico fornitore.
Il produttore di droni – come ogni “libera impresa Usa” quando le cose si mettono male – ha subito chiesto aiuto all’amministrazione Biden. La scorsa settimana, l’amministratore delegato Adam Bry ha incontrato il vice segretario di Stato, Kurt Campbell, e ha tenuto discussioni con alti funzionari della Casa Bianca.
I funzionari americani sono preoccupati per il rischio che la Cina possa interrompere le catene di approvvigionamento statunitensi e impedire quindi all’Ucraina di ricevere droni usati per la raccolta di informazioni.
“Questo è un momento chiarificatore per l’industria dei droni”, ha scritto Bry in una nota ai clienti ottenuta dal Financial Times. “Se c’era qualche dubbio, questa azione chiarisce che il governo cinese utilizzerà le catene di approvvigionamento come arma per avanzare i propri interessi rispetto ai nostri”.
“Questo è un tentativo di eliminare la principale azienda americana di droni e aumentare la dipendenza mondiale dai fornitori di droni cinesi”, ha aggiunto.
C’è da dire che ai cinesi, comunque, l’idea delle sanzioni sui droni non è venuta come contributo indiretto allo sforzo militare russo, ma per “merito” degli stessi americani.
Le sanzioni, imposte l’11 ottobre, hanno colpito infatti diverse aziende statunitensi, tra cui Skydio, come ritorsione per l’approvazione da parte di Washington della vendita di droni d’attacco a Taiwan. E Skydio aveva recentemente ottenuto un contratto con un‘agenzia di Taiwan.
E se gli Usa vogliono “incentivare” l’uso dei droni nella “provincia ribelle”, naturalmente si dovevano aspettare una misura di ritorsione simmetrica.
Una fonte a conoscenza della situazione ha detto che le autorità cinesi hanno visitato i fornitori locali della statunitense Skydio, tra cui Dongguan Poweramp – una filiale della giapponese TDK che produce batterie per droni – e hanno ordinato loro di interrompere i rapporti. Semplice, no? Proprio come sanzionare le petroliere che trasportano greggio a Cuba, di fatto...
Ma con qualche complicazione in più. Mercoledì, Skydio ha comunicato ai propri clienti che stava razionando il numero di batterie fornite con i droni a causa della decisione cinese e che non prevedeva di avere nuovi fornitori fino alla primavera.
Sul piano politico, John Moolenaar, presidente repubblicano del comitato per la Cina della Camera, ha dichiarato che il controllo cinese delle catene di approvvigionamento per droni, farmaci e altri settori rappresenta una “minaccia” per l’economia degli Stati Uniti.
“L’amministrazione e il Congresso devono lavorare insieme all’industria per stabilire guardrail che proteggano le nostre aziende dalla coercizione economica del PCC e proteggano il popolo americano dal nostro principale avversario che utilizza queste dipendenze come arma contro di noi”.
Bastava non mettere sanzioni ai cinesi e il problema non si sarebbe manifestato... ma vaglielo a spiegare.
Skydio ha dichiarato che il suo ultimo modello, l’X10, è stato il primo drone statunitense a superare i test di guerra elettronica ucraini, dimostrando di essere difficile da disturbare, al punto che Kiev ne ha richieste migliaia di unità.
Con sede a San Mateo, Skydio vende a clienti aziendali e governativi, inclusi i militari statunitensi. Il danno commerciale si traduce quindi immediatamente in un problema militare, che investe anche i “clienti” del complesso militare-industriale Usa.
La crisi di Skydio sottolinea i rischi per le aziende statunitensi che dipendono dalla Cina, in un momento in cui cresce la preoccupazione tra le aziende straniere per l’uso delle leggi sulla sicurezza da parte di Pechino per arrestare dipendenti locali e condurre perquisizioni aziendali nel paese.
L’azione cinese arriva mentre il Congresso degli Stati Uniti sta considerando una legge che vieterebbe agli americani di utilizzare droni prodotti da DJI, azienda con sede a Shenzhen che domina il mercato globale dei droni commerciali.
“Riteniamo che Skydio sia stata presa di mira da Pechino perché probabilmente vista come un concorrente di DJI–, ha detto un funzionario statunitense. “Se c’è un lato positivo, è che possiamo usare questo episodio per accelerare il nostro lavoro di diversificazione delle catene di approvvigionamento di droni lontano dalla Cina”.
In pratica un altro passo verso il disaccoppiamento tra le due economie, che solo qualche anno fa sembravano connesse secondo un criterio di mutua soddisfazione (merci cinesi a basso costo per una popolazione Usa sempre più povera e con bassi salari, tecnologia Usa pretesa da Pechino in cambio).
Ma a lungo andare la tecnologia cinese, inizialmente sviluppata “copiando”, si sta rivelando migliore, più efficiente, meno costosa e soprattutto basata su materia prime che gli USA (e l’intera catena occidentale) non hanno nella stessa quantità.
Il problema sorge quando non sei più in grado di esercitare la tua egemonia nei termini classici ma ti rifiuti di prenderne atto e cambiare le tue prassi. Metti le sanzioni e te le ritrovi mentre ti cadono sui piedi (già Mao, del resto, ce lo aveva insegnato...).
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Firmato il partenariato nella difesa tra UE e Giappone
Assieme al suo omologo giapponese Takeshi Iwaya, Borrell ha saluto questo passo definendolo come “storico e tempestivo”: storico per il motivo appena accennato, tempestivo per l’evidente orizzonte di minacciare sempre più da vicino la Cina. Dopo i dazi, lo scontro col Dragone prende sempre più le forme della guerra guerreggiata.
Il patto entrerà in vigore col nuovo anno, ma non se ne conoscono ancora tutti gli aspetti. I media locali hanno riportato che il contenuto riguarda soprattutto un aumento delle esercitazioni militari congiunte, una maggiore cooperazione nel settore della difesa e l’instaurazione di un dialogo ad alto livello sui temi collegati.
Non si è fatta attendere, ovviamente, la risposta di Pechino. Lin Jian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha sottolineato come questo tipo di accordi dovrebbero servire a “promuovere la pace e la stabilità regionali e non a prendere di mira terze parti o a danneggiare gli interessi di sicurezza di altri paesi”.
Ha poi espresso due moniti molto duri. A Tokyo ha detto di “imparare le lezioni dalla storia, a rispettare le preoccupazioni dei suoi vicini asiatici e ad agire con prudenza in materia militare”, con evidente riferimento alla Seconda guerra mondiale, mentre ha “invitato l’Ue a evitare di intervenire nelle controversie territoriali regionali”, pensando all’affare Taiwan.
Durante la visita, Borrell ha incontrato anche il ministro della Difesa del Giappone, il generale Nakatami. I due, condannando anche il recente test di lancio di un missile balistico da parte della Corea del Nord, hanno ribadito la volontà di migliorare la cooperazione anche per ciò che riguarda l’ambito marittimo, informatico e aerospazionale.
Per il futuro viene prevista anche la possibilità di condividere informazioni delle relative intelligence e quelle riguardanti l’industria della difesa. Bisogna ricordare che il Giappone, insieme a Regno Unito e Italia, sta sviluppando il caccia di sesta generazione Tempest, che rappresenta il primo impegno militare dell’arcipelago senza la partecipazione degli Stati Uniti.
Borrell farà tappa anche in Corea del Sud, altro teatro strategico nella rete di alleanze che la filiera euroatlantica sta rinnovando, in contrapposizione alla Cina. Iwaya, prima di incontrare l’Alto rappresentante europeo, aveva dichiarato che la sicurezza dell’Indo-Pacifico è “inseparabile da quella dell’Europa e dell’Atlantico”.
Tokyo stessa, che dal 2022 ha ridiscusso la propria strategia di difesa nazionale e sta aumentando le spese militari, evidenzia la creazione di un fronte occidentale bellicista e bellicoso. Il Giappone è parte del QUAD, un dialogo sulla sicurezza che comprende anche India, Australia e Stati Uniti.
A completare lo scenario del Pacifico c’è l’Aukus, che unisce in un altro patto di sicurezza di nuovo Australia e Stati Uniti col Regno Unito. Con l’accordo appena firmato dal paese del Sol Levante con la UE, le tensioni non possono che aumentare.
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