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30/04/2023

La zona morta (1983) di David Cronenberg - Minirece

Il sistema sanitario della DDR

Salone del Mobile di Milano: la fiera dello sfruttamento del lavoro

Dieci ore e più di lavoro, in piedi, per le hostess che hanno lavorato dal 18 al 23 aprile alla 61esima edizione del Salone del Mobile di Milano e del Design week. L’evento ha visto la partecipazione di oltre 300mila persone (il 15% in più rispetto all’anno scorso), provenienti da 181 paesi.

Oltre 2000 i marchi che hanno esposto, per compratori che sono venuti da tutto il mondo, il 65% da Cina, Germania e Francia. Il costo del biglietto d’ingresso era di 50 euro, per cui moltiplicando si arriva a una stima di 15 milioni di euro.

Sul fronte del lavoro il Salone è uno di quegli eventi da rubricare alla voce “sfruttamento”, in particolare e anche più per il lavoro femminile.

Dieci ore di lavoro, calzando scarpe con il tacco alto, come impone la divisa, con soli trenta minuti di pausa. Dieci ore di lavoro in cui le hostess registrano migliaia di clienti, parlano con loro in più lingue, li accompagnano negli spazi espositivi tra divani di lusso e oggetti per la casa.

Una bolgia infernale: sei giorni di lavoro in condizioni massacranti, per una paga di 450 euro o poco più.

Le hostess, spiega una di loro, sono ingaggiate da un’azienda che vende il lavoro di giovani donne – per lo più studentesse, alcune provenienti da altri paesi, con una buona conoscenza delle lingue straniere – a 120 euro circa al giorno (il prezzo può aumentare in base alle lingue straniere conosciute), ma a loro in busta paga arrivano poco più di 60 euro, il resto è trattenuto dall’agenzia d’intermediazione.

Una di queste agenzie, Hostess.it, conta 40mila hostess, 4mila steward e 5mila aziende registrate sul sito, con un fatturato di 1.349.300 euro nel 2021, in calo rispetto a quello del 2019 che ammontava a 1.820.943.

Ci sono poi le grandi aziende del design e del mobile che espongono al salone ogni anno, anche queste con fatturati di decine di milioni di euro. Un grande giro d’affari che mobilita competenze lavorative diverse, dalla produzione alla vendita.

Il Salone del Mobile viene presentato, ogni anno, con un certo orgoglio, eppure come in tutti gli eventi di questa portata, se si guarda alle condizioni di lavoro di hostess, steward, e varie altre figure, più che di orgoglio si dovrebbe parlare di vergogna visti i livelli di sfruttamento.

Quest’anno, racconta una delle donne che ha lavorato come hostess, le condizioni sono peggiorate, i visitatori sono aumentati ed il personale è stato ridotto, quindi ci sono stati momenti in cui non si riusciva più a gestire il flusso di migliaia di visitatori giornalieri.

A differenza degli anni passati anche il buono pasto è saltato e le spese di viaggio non sono rimborsate, quindi chi lavora lì deve detrarre dal magro salario, circa 50 euro di spese per i viaggi in treno.

Quelli del Salone del mobile, del Fashion week e di altri eventi, sono alcuni dei lavori precari, invisibili nella maggior parte dei casi, che si trovano durante l’anno, vivendo a Milano o in provincia. Migliaia di giovani, donne e uomini, finiscono in questo macinino: pochi diritti, molto sfruttamento made in Italy, senza che si levi un singulto da parte dei sindacati confederali.

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Guerra in Ucraina - Dubbi sulla controffensiva

L’attesa controffensiva delle forze armate ucraine continua a rimanere avvolta nel mistero e molti indizi che trapelano sulla stampa ufficiale sembrano prospettare sia una débacle da parte del regime di Kiev sia il venir meno dell’appoggio occidentale nel prossimo futuro. La pubblicazione quasi certamente coordinata nei giorni scorsi di due articoli, rispettivamente sul New York Times e sulla testata on-line Politico, lascia intendere che a Washington ci si stia in qualche modo preparando all’inevitabile sconfitta ucraina. Come questo scenario sarà presentato alla comunità internazionale e in che modo verrà gestita la prossima fase del conflitto Russia-NATO resta però ancora tutto da verificare.

Il secondo articolo citato è quello con i toni più pessimistici e arriva a ipotizzare il lancio di negoziati di pace in un futuro ravvicinato. Già il titolo anticipa l’attitudine dell’amministrazione Biden, la quale sembra temere “le conseguenze di una fallimentare controffensiva ucraina”. Lontano dai riflettori, la Casa Bianca nutre forti dubbi circa i risultati che Zelensky potrà ottenere con l’operazione militare da tempo prevista. Se, nella migliore delle ipotesi, dovessero esserci solo successi limitati sul campo, Biden si ritroverà a fare i conti con ripercussioni politiche di duplice natura.

Da un lato, i “falchi” pro-Ucraina denunceranno il mancato invio di equipaggiamenti militari che avrebbero potuto fare la differenza, come missili a lungo raggio, caccia e sistemi di difesa più efficaci. Dall’altro, invece, i contrari al coinvolgimento di Washington nel conflitto torneranno a criticare l’amministrazione democratica per non avere preso atto della sostanziale impossibilità di liberare i territori occupati dalla Russia. Su un altro fronte, infine, alcuni alleati europei troveranno nell’allontanarsi della vittoria dell’Ucraina la conferma della necessità di aprire trattative diplomatiche tra Mosca e Kiev.

New York Times e Politico sollevano entrambi il problema del sostegno militare prolungato all’Ucraina se la controffensiva non dovesse dare i frutti sperati. Anche con tutto l’appoggio garantito dall’Occidente, scrive il Times, “grandi vittorie non sono probabili né tantomeno garantite”. Al termine delle operazioni ucraine, saranno inoltre molto scarse le probabilità che la NATO riesca a mettere assieme ulteriori forze in grado di contrattaccare e sconfiggere la Russia. Infatti, gli Stati Uniti e i loro alleati “hanno in larga misura esaurito le riserve di armi dopo avere inondato l’Ucraina di aiuti”. Il risultato è una voragine difficilmente colmabile prima del 2024.

Più esplicito nel delineare le condizioni almeno per un cessate il fuoco è ancora l’articolo di Politico. Dopo avere ribadito l’assurda tesi che a decidere il futuro delle operazioni militari sarà comunque Zelensky, gli autori del pezzo spiegano come il governo USA abbia impartito a Kiev una lezione di realismo. A un certo punto, ad esempio, il ritmo degli aiuti dall’America “rallenterà”, soprattutto alla luce del ritorno, a partire dallo scorso mese di gennaio, della Camera dei Rappresentanti del Congresso sotto il controllo del Partito Repubblicano.

Il presidente dell’influente Council on Foreign Relations, Richard Haass, interviene a sua volta per avvertire che, “se l’Ucraina non sarà in grado di recuperare terreno in maniera significativa”, ci si chiederà inevitabilmente se “sia arrivata l’ora di negoziare un cessate il fuoco”. Proseguire di questo passo, afferma ancora Haass, sarebbe “troppo oneroso” e gli USA e la NATO “sono a corto di munizioni” e, soprattutto, ci sono altre priorità a cui Washington deve dedicarsi, ovvero il confronto con la Cina.

I due articoli di New York Times e Politico seguono di poco il caso dei documenti riservati del Pentagono che nelle ultime settimane sono circolati anche sui media ufficiali, veicolando al pubblico, tra le altre cose, le stime tutt’altro che ottimistiche delle condizioni delle forze armate ucraine elaborate dai vertici militari e dell’intelligence USA. Complessivamente, è possibile ricavare un’idea piuttosto chiara del pessimismo che circola a Washington dietro i proclami relativi all’appoggio da assicurare al regime di Zelensky “fino a quando sarà necessario”.

L’analisi di Politico prosegue poi nello smontare la strategia ucraina, rivelando come l’amministrazione Biden sia “scettica” sulle possibilità che Kiev riesca a “tagliare il collegamento di terra tra la Russia e la penisola di Crimea”. Ancora, l’intelligence USA ritiene che il regime di Zelensky – “semplicemente” – non abbia le capacità di scardinare le forze russe dove queste ultime hanno consolidato le loro posizioni.

Queste previsioni pessimistiche si accompagnano a una valutazione delle perdite ucraine che, anche se per difetto, si avvicina insolitamente alla realtà e disegna un quadro ancora più cupo in vista della controffensiva. Nella versione iniziale dell’articolo di Politico veniva indicato un numero di “circa 100 mila morti” dall’inizio della guerra. Poco dopo è stata apportata una correzione al testo per includere in questa cifra anche i feriti, ma la situazione complessiva non appare comunque migliore se si considera che gli uomini con maggiore esperienza sono in gran parte fuori dai giochi e il consumo di armi e munizioni ha raggiunto un ritmo impossibile da sostenere per l’Occidente.

Sembra esserci in definitiva una certa rassegnazione per le sorti dell’Ucraina anche nella cerchia “neo-con” che dirige la politica estera dell’amministrazione Biden. Il riferimento al caso afgano non promette poi nulla di buono per Zelensky e la sua cricca. Politico scrive che la Casa Bianca ha passato al regime di Kiev un messaggio simile a quello recapitato quasi due anni fa all’allora presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, circa il pericolo di sovrastimare le proprie ambizioni e di logorare eccessivamente le forze a disposizione.

Nel caso afgano, l’avvertimento aveva preceduto un’umiliante ritirata delle truppe americane e il venir meno improvviso del sostegno al governo fantoccio di Kabul, col conseguente tracollo immediato di un regime tenuto in piedi da vent’anni di occupazione. Per l’Ucraina, il messaggio potrebbe essere simile. Il fallimento della guerra che doveva risolversi nell’indebolimento della Russia e le conseguenze disastrose provocate in Occidente hanno creato una situazione tale da rendere urgente una soluzione diplomatica, a meno di un impegno diretto e massiccio degli USA o di altri paesi NATO sul campo. Un’eventualità, quest’ultima, decisamente improbabile, oltre che inutile ai fini del risultato finale, se non altro in considerazione dell’approssimarsi di una delicatissima stagione elettorale negli Stati Uniti.

I riflessi politici di un ripiegamento dal fronte russo-ucraino sarebbero tuttavia pericolosi per Biden e i democratici, tanto che, si deduce leggendo tra le righe dell’articolo di Politico, a Washington e Kiev si sta studiando un modo per vendere la sconfitta come una sorta di vittoria. Stabilire un obiettivo più modesto della controffensiva ucraina potrebbe essere un’opzione. Oppure, lavorare a un “cessate il fuoco” invece che acconsentire a negoziati per una pace permanente.

La discussione continua in ogni caso a partire dal presupposto illusorio che Zelensky e i suoi sponsor abbiano la facoltà di dettare i termini del conflitto e dell’eventuale risoluzione. In quest’ottica, la tregua che la Casa Bianca auspicherebbe in caso di fallimento della controffensiva non sarebbe altro che una riedizione degli accordi di Minsk, per stessa ammissione di vari leader occidentali ed esponenti del regime di Kiev sfruttata per consentire all’Ucraina di consolidare le proprie posizioni e attaccare le regioni “ribelli” del Donbass.

Politico, citando il dibattito in corso a Washington, parla d’altra parte apertamente di una tattica per guadagnare tempo, in modo da “lasciare aperta la porta a future offensive ucraine” per recuperare i territori persi in seguito all’invasione russa. Non solo, Zelensky potrebbe acconsentire a trattare con Mosca se gli venissero offerte “garanzie di sicurezza” sotto l’ombrello NATO, una maggiore integrazione con l’UE e un ulteriore flusso di armi dall’Occidente. Tutte condizioni che, legittimamente, la Russia considera inaccettabili e che sono fondamentalmente alla base della stessa guerra in corso ormai da quattordici mesi.

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Come la resistenza palestinese e araba ha cambiato le regole della guerra con Israele

Quando Israele ha lanciato un attacco contro la Striscia di Gaza nell’agosto 2022, ha dichiarato che il suo obiettivo era solo la Jihad islamica. In effetti, né Hamas né gli altri gruppi con sede a Gaza si sono impegnati direttamente nei combattimenti. L'attacco israeliano ha quindi sollevato più domande che risposte.

Israele distingue raramente tra un gruppo palestinese e un altro. Per Tel Aviv, qualsiasi tipo di resistenza palestinese è una forma di terrorismo o, nella migliore delle ipotesi, di istigazione. Prendere di mira un gruppo ed escludere altri presunti “gruppi terroristici” manifesta un certo grado di paura israeliana nel combattere le fazioni palestinesi a Gaza, tutte in una volta.

Per Israele, le guerre a Gaza si sono rivelate progressivamente più difficili nel tempo. Ad esempio, il cosiddetto “Margine Protettivo” di Israele nel 2014 è stato molto costoso in termini di perdite di vite umane tra le truppe d’invasione. Nel maggio 2021, il cosiddetto “Breaking Dawn” è stato un flop ancora più grande. Quella guerra unificò i palestinesi e servì da colpo strategico a Israele, senza far avanzare considerevolmente gli interessi militari israeliani.

Sebbene i gruppi di Gaza abbiano fornito supporto logistico alla Jihad islamica nell’agosto 2022, si sono astenuti dall’impegnarsi direttamente nella lotta. Per alcuni palestinesi, questo è stato inaspettato ed è stato interpretato da alcuni come indicativo di debolezza, disunione e persino opportunismo politico.

Quasi un anno dopo, un’altra guerra si profilava in seguito alla pubblicazione di filmati strazianti della polizia israeliana che picchiava insensatamente pacifici fedeli palestinesi alla moschea di Al-Aqsa il 14° giorno del mese sacro del Ramadan. Come nel maggio 2021, i palestinesi si sono mobilitati all’unisono. Questa volta, sono stati i gruppi della Resistenza a Gaza e, alla fine, in Libano e in Siria a lanciare per primi i razzi contro Israele.

Sebbene Israele abbia risposto a vari obiettivi, era ovvio che Tel Aviv non fosse interessata a una guerra su più fronti con i palestinesi, al fine di evitare il ripetersi del fiasco del 2021.

I violenti e ripetuti raid militari israeliani ad Al Aqsa – e gli attacchi limitati, anche se mortali, a Jenin, Nablus e altre parti della Cisgiordania – avevano lo scopo di ottenere capitale politico per il governo in crisi di Benjamin Netanyahu. Ma questa strategia potrebbe avere successo solo se Israele riuscisse a mantenere la violenza confinata in regioni specifiche e isolate.

Operazioni militari su larga scala e protratte si sono rivelate inutili per Israele negli ultimi anni. Ha ripetutamente fallito a Gaza, come aveva già fatto nel sud del Libano. L’inevitabile cambio di strategia è stato anche costoso dal punto di vista israeliano, poiché ha rafforzato la resistenza palestinese e ha negato a Israele le sue cosiddette capacità di deterrenza.

In effetti, il discorso politico emanato di recente da Israele è piuttosto senza precedenti. Dopo un briefing sulla sicurezza con Netanyahu il 9 aprile, il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid se n’è andato con parole minacciose: “Sono arrivato al briefing con Netanyahu preoccupato, e sono uscito ancora più preoccupato”.

“Quello che i nostri nemici vedono davanti a loro, in tutte le arene, è un governo incompetente... Stiamo perdendo la nostra deterrenza”, ha aggiunto. Il Times of Israel ha anche citato Lapid dicendo che “Israele sta perdendo il sostegno degli Stati Uniti e della comunità internazionale”.

Sebbene la politica israeliana sia intrinsecamente divisiva, i politici del paese sono sempre riusciti a unificarsi attorno al tema della “sicurezza”. Durante le guerre, gli israeliani hanno spesso mostrato unità e le divisioni ideologiche sembravano in gran parte irrilevanti. Il fatto che Lapid smascheri pubblicamente le debolezze di Israele per vantaggi politici evidenzia ulteriormente il deterioramento del fronte politico di Tel Aviv.

Ma più pericoloso per Israele è la perdita della deterrenza.

In un articolo pubblicato sul Jerusalem Post l’11 aprile, Yonah Jeremy Bob ha evidenziato un’altra verità: “Israele non decide più quando si combattono le guerre”.

Egli scrive: “Si sarebbe potuto concludere questo dalle guerre di Gaza del 2014 e del maggio 2021 in cui si è imbattuto Israele e che Hamas usava per segnare vari punti di pubbliche relazioni ... ma ora Hamas ha imparato in modo più sistematico ... come istigare il proprio anello di fuoco intorno a Gerusalemme”.

A parte il linguaggio esaltato dello scrittore, non ha torto. La battaglia tra Israele e i gruppi della Resistenza palestinese è stata in gran parte incentrata sul tempismo. Sebbene Israele non sia “inciampato” in una guerra tra il 2014 e il 2021, non è stato in grado di controllare la durata e il discorso politico attorno a queste guerre. Sebbene migliaia di palestinesi siano stati uccisi in quelle che sembravano campagne militari israeliane unilaterali, questi conflitti hanno quasi sempre portato a un disastro delle pubbliche relazioni per Tel Aviv all’estero e hanno ulteriormente destabilizzato un fronte interno già traballante.

Questo spiega, almeno in parte, perché i palestinesi erano desiderosi di non espandere la guerra dell’agosto 2022, anch’essa interamente iniziata da Israele, mentre prendevano l’iniziativa lanciando razzi contro Israele, a partire dal 5 aprile. L’ultima azione palestinese ha costretto Israele a impegnarsi militarmente su diversi fronti: Gaza, Libano, Siria e, probabilmente, la Cisgiordania.

Durante i suoi 75 anni di conflitto militare con palestinesi e arabi, il successo di Israele sul campo di battaglia è stato in gran parte basato sul sostegno militare, logistico e finanziario senza ostacoli dei suoi alleati occidentali e sulla disunione dei suoi nemici arabi. Ciò ha permesso a Israele di vincere guerre su più fronti in passato, con la guerra del 1967 che è stata il principale e forse ultimo esempio.

Da allora, e soprattutto in seguito alla considerevole resistenza araba nella guerra del 1973, Israele è passato a diversi tipi di conflitti militari: rafforzando la sua occupazione in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, mentre lanciava guerre massicce su singoli fronti – per esempio in Libano nel 1982.

La ritirata israeliana dal Libano nel 2000, e il totale fallimento nel re-invadere parti del paese nel 2006, hanno bloccato completamente le ambizioni militari di Israele in Libano.

Poi, Israele si è rivolto a Gaza, lanciando una guerra devastante dopo l’altra, a partire dal 2008, solo per scoprire che le sue opzioni militari nella Striscia assediata sono ora limitate quanto quelle in Libano.

Per Lapid, e altri israeliani, il futuro della ‘deterrenza’ di Israele sta ora affrontando una sfida senza precedenti. Se l’esercito israeliano non fosse in grado di operare a proprio agio e al momento che ritiene più opportuno, Tel Aviv perderebbe il suo “vantaggio militare”, una vulnerabilità che Israele ha raramente affrontato prima.

Mentre i politici e gli strateghi militari israeliani dibattono apertamente su chi sia costato a Israele la sua preziosa “deterrenza”, pochissimi sembrano disposti a considerare che la migliore possibilità di sopravvivenza di Israele è coesistere pacificamente con i palestinesi secondo i principi internazionali di giustizia e uguaglianza. Questo fatto ovvio continua a sfuggire a Israele dopo decenni di nascita violenta e di esistenza travagliata.

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Libia - Si scatena la caccia ai migranti africani

Per i migranti giunti in Libia dai paesi africani – molti dei quali in attesa di attraversare il Mediterraneo – sono giorni di terrore, simili a quelli che avvennero con la caduta di Gheddafi, quando le milizie golpiste e jihadiste scatenarono la “caccia al nero” accusandoli di essere fedeli al leader libico.

“I disordini esplosi a Zawiya, nella Libia nord-occidentale, rischiano di scatenare una caccia ai migranti irregolari in Libia e, in particolare, contro gli africani sub-sahariani, sulla falsariga di quanto sta accadendo in Tunisia” riportano i corrispondenti dell’Agenzia Nova.

La municipalità di Zawiya è nota anche per essere la roccaforte di Abd al Rahman Milad, ufficiale della Guardia costiera libica accusato di traffico di esseri umani e carburante e di aver commesso crimini contro i migranti. Conosciuto con il nome di “Bija”, Milad era stato rilasciato nella primavera del 2021 su ordine del pubblico ministero dopo che sarebbero decadute le accuse nei suoi confronti. Egli fa parte degli Awlad Buhmira, la tribù che fa capo alla famiglia Buzeriba che rappresenta l’Agenzia di sostegno alla stabilizzazione, a sua volta guidata da Abd al Ghani al Kikli, meglio noto come Ghaniwa (o Gnewa), uno dei più potenti capi militari di Tripoli. Intanto, la 52esima Brigata di fanteria è stata costretta a ritirarsi stanotte da Zawiya, nella Libia nord-occidentale, per la forte ostilità della popolazione e delle milizie locali.

La tensione è esplosa in questa importante città costiera della Tripolitania, che è tra i punti principali delle partenze dei migranti nel Mediterraneo, dopo la diffusione sui social media libici di imprecisati filmati di torture perpetrate da persone definite come “africani” ai danni di altri individui identificati come “giovani libici”, anche se dalle immagini non sembra possibile alcuna identificazione.

La diffusione del video, corredato da commenti contro i migranti sub-sahariani, ha suscitato la rabbia della popolazione di Zawiya, che da mercoledì è scesa in strada per manifestare la propria indignazione. “Non possiamo indossare l’uniforme militare senza far nulla mentre i libici vengono torturati da criminali stranieri”, ha detto il comandante della regione militare della costa occidentale in Libia, Salah el Din el Namroush, già ministro della Difesa.

“I gruppi armati usano gli immigrati clandestini nei loro crimini, il che li rende loro partner nel crimine. Ciò rappresenta un grande pericolo per la sicurezza libica e la pace sociale e mina gli sforzi di pace e stabilità in Libia. Questo dossier deve essere elaborato seriamente per porre fine ai gruppi armati e all’immigrazione clandestina”, ha commentato su Twitter Muhammed Ahmed Jibreel, politico, blogger e candidato a un seggio parlamentare nella città di Misurata.

Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, in Libia c’erano almeno 694.398 migranti di oltre 42 nazionalità sparsi in tutto il Paese a novembre-dicembre 2022: un numero che è continuato ad aumentare rispetto ai 683.813 del periodo settembre-ottobre. Solo nel gennaio 2018 l’Oim ha registrato un numero maggiore di migranti (704.142) nel Paese nordafricano.

Un nuova campagna contro i migranti irregolari, e in particolare contro i subsahariani, potrebbe portare a un aumento dei flussi verso l’Italia, come già avvenuto in Tunisia. Questa eventualità, unita al possibile ingresso nella Libia orientale di migliaia di sfollati in fuga dal Sudan, dove il conflitto tra generali rivali sta degenerando nella guerra civile, potrebbe rappresentare un problema enorme in estate, quando il bel tempo favorisce notoriamente le partenze dei migranti via mare.

I dimostranti di Zawiya hanno diffuso sui social media le loro richieste per porre fine alle manifestazioni: lo scioglimento del Consiglio municipale e lo svolgimento delle elezioni amministrative; il licenziamento del direttore della sicurezza; limitazioni all’accesso di auto blindate e armate in città e il trasferimento in periferia dei quartier generali delle milizie; l’annullamento delle decisioni illegittime del ministero dell’Interno e del ministero della Difesa (non è chiaro a cosa si riferiscano esattamente); una riforma degli organi di sicurezza della città; l’arresto di bande criminali subsahariane affiliate alle milizie locali e coinvolte nel traffico di esseri umani; l’arresto di tutti i criminali coinvolti in omicidi e altri atti criminali; raid nei siti di contrabbando di carburante e droga, prevenzione della vendita di carburante e droga all’interno della città; la formazione di un comitato di sicurezza composto da persone note per la loro efficienza e integrità; la fine della copertura offerta dalle tribù e dagli sceicchi di Zawiya ai criminali.

Secondo Jalel Harchaoui, associate fellow presso il Royal United Services Institute ed esperto di questioni libiche, il primo ministro designato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk (Libia orientale), Fathi Bashagha, ha diffuso sulla sua pagina Facebook immagini presentate come episodi di tortura compiuti da parte di africani ai danni di arabi. L’analista non esclude la possibilità che si tratti di fenomeni “orchestrati” per suscitare la rabbia della popolazione, orientandola e strumentalizzandola per fini politici.

A Zawiya la situazione era già tesa prima della diffusione di questo tipo di immagini. Il 23 e il 24 aprile, gli scontri tra milizie rivali avevano causato la morte di almeno quattro civili.

Fonti di Agenzia Nova riferiscono che, durante il ripiegamento, alcuni veicoli del convoglio militare, mentre procedevano a gran velocità sotto colpi di arma da fuoco, hanno investito dei manifestanti che erano in strada, causando un numero imprecisato di feriti. La 52esima Brigata guidata dal comandante Mahmoud Bin Rajab è affiliata al Governo di unità di nazionale di Tripoli.

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Guerra di droni in Ucraina

di Francesco Dall'Aglio

Post lungo, diviso in due parti e dedicato, guarda un po’, ai droni.

Prima parte: la notizia che ieri mattina hanno battuto tutti i media è l’attacco con droni al porto di Sebastopoli che ha portato alla distruzione di quattro cisterne di carburante con effetti parecchio scenografici (allego due foto, quelle belle che vado scavando nei canali russi, non la monnezza che pubblicano Repubblica e soci).

La notizia è stata presentata come un fatto d’arme straordinario e come il primo passo della riconquista ucraina della Crimea, con tanto di roboanti affermazioni di Zelensky sul fatto che si tratta solo dell’inizio e che i russi farebbero bene ad andarsene finché sono in tempo eccetera.

Ora, intendiamoci: la notizia è certamente importante e va data. Testimonia ancora una volta la capacità ucraina di organizzare un attacco di droni a lungo raggio (tre gruppi di Mugin-5, per un totale probabile di 10 droni, uno solo dei quali ha colpito il bersaglio), la ripresa in forze delle ricognizioni di aerei NATO sul Mar Nero per designare gli obiettivi (ieri si è rivisto in volo l’E-3F francese, che compare sempre il giorno prima di un attacco di droni, insieme a un Atlantic A-2 sempre francese e a un Global Hawk statunitense. Niente aerei inglesi stavolta) e la vulnerabilità della Crimea ad attacchi di questo tipo: non è la prima volta e non sarà di certo l’ultima.

Ciò detto, non si è trattato alla fine di un’operazione straordinaria né coronata da particolare successo. Due droni sono stati abbattuti (uno da un Pantsir, l’altro da un distaccamento della fanteria di marina, non sono riuscito a capire con che mezzo) e sette (c’è chi scrive otto) sono stati tirati giù grazie a contromisure elettroniche, quattro in mare e tre o quattro sulla terraferma: il che significa che la contraerea russa ha fatto un buon lavoro, considerando la difficoltà dell’abbattere velivoli del genere – piccoli, molto mobili, in fibra di carbonio e con una segnatura radar estremamente bassa.

I danni sono stati certamente scenografici, come si vede anche dalle foto che allego, ma alla fine contenuti, e non ci sono state vittime. Però è una vittoria di pr importante, soprattutto in un momento avaro di vittorie sul campo, in attesa sempre più spasmodica della controffensiva.

Seconda parte: appunto la controffensiva, o meglio un elemento della stessa.

I nostri media, come detto sopra, hanno parlato moltissimo dell’attacco di droni ucraino a Sebastopoli: non hanno però parlato per niente degli attacchi di droni russi nelle retrovie del fronte di Cherson, dove sembra che qualcosa si stia muovendo davvero.

Le ultime 24 ore sono state semplicemente tragiche per la contraerea ucraina: i Lanzet russi hanno distrutto due S-300 (uno dei quali saltato in aria in stile hollywoodiano, allego foto), ne hanno danneggiati altri due e hanno danneggiato un Gepard, il semovente antiaereo fornito dalla Germania (allego foto anche di questo.

Sì, il canale che ha diffuso il filmato dell’attacco al Gepard si chiama Antiseptic, non posso farci nulla), il tutto filmato e fotografato.

Non è chiaro quanti danni abbiano subito i mezzi danneggiati, ma certo la loro operatività, almeno per il momento, è compromessa. Particolarmente ironico l’attacco sul Gepard, il cui scopo sarebbe impedire che i sistemi antiaerei più complessi vengano attaccati e che invece è stato attaccato a sua volta, tra l’altro con un impatto frontale.

Il giorno prima, infine, un altro Lanzet aveva colpito un Tor, altro sistema antiaereo semovente a corto raggio.

Considerazioni in ordine sparso.

La prima uscita pubblica del Gepard non è andata molto bene. Se sia sfortuna o carenza di addestramento da parte dell’equipaggio, è presto per dirlo. I canali russi, ovviamente, ridono, ma la cosa in fin dei conti non è molto importante.

La cosa importante da chiedersi, infatti, è perché tutti quei sistemi antiaerei erano in movimento a così poca distanza l’uno dall’altro e così vicini alla linea del fronte: i mezzi infatti si trovavano tutti nelle vicinanze di Promin’, a meno di 25 chilometri dal Dnepr.

Il raggio d’azione di un S-300 di quel tipo è intorno ai 75 chilometri usando i missili 5V55R, e 45 usando i 5V55K: perché erano così vicini al fronte, e concentrati? Soprattutto la vicinanza al fronte è preoccupante, perché può significare due cose.

La prima: i missili in dotazione hanno ormai esaurito la loro vita operativa (anche le armi scadono) e quindi non garantiscono più le stesse prestazioni: abbiamo già visto missili lanciati dagli S-300 ucraini prendere strane strade, inclusa quella della Polonia.

La seconda: l’aviazione russa (ne abbiamo già parlato) ha cominciato a utilizzare bombe guidate che consentono agli aerei di agire a distanza molto maggiore dalla linea del fronte, con maggiore efficacia. L’antiaerea deve necessariamente avvicinarsi e questo la espone al rischio di essere colpita, oltre che dagli aerei stessi, dai droni: come si è visto ieri.

Non è un caso che la richiesta che maggiormente viene fatta agli alleati occidentali, oltre agli F-16, siano i sistemi antiaerei. I pochi arrivati sono a guardia degli obiettivi sensibili, non a sostegno delle operazioni militari.

La domanda da porsi, adesso, è: senza appoggio aereo e senza antiaerea per dissuadere l’aviazione nemica, si può mettere in piedi una controffensiva così ambiziosa come quella nei piani dello Stato Maggiore ucraino (o nei sogni dei media che ne parlano)?

I russi, intanto, si dicono preoccupati. Non hanno proiettili, dicono. Hanno pochi uomini. Pochi mezzi. Poi c’è la corruzione, i traditori, come dice Prigožin. Qua va a finire, dice sempre lui, che si comincerà a combattere davvero quando i nemici saranno quasi a Mosca, come al solito. E quanto più i media parlano delle difficoltà ucraine, tanto più i russi si lamentano delle proprie. Che noia.

Intanto voci non confermate dicono che gli ucraini hanno iniziato ad aumentare lo scarico d’acqua dalle dighe sul Dneper, per allagare le posizioni russe e costringerli ad arretrare. Ve la do come l’ho letta, perché a me pare abbia poco senso: i russi arretrerebbero di sicuro, ma per gli ucraini sarebbe ancora più difficile passare il fiume.

Però ho anche letto (lo riporta Bild) che istruttori tedeschi stanno addestrando dei reparti dotati di kayak. Torno a dire che mi sembra strano, ma come attacco diversivo potrebbe anche funzionare.

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Quando decollerà la nuova “Rzeczpospolita 2.0” polacco-ucraina?

La distruzione dell’Ucraina come pegno per lo sviluppo della Polonia, scrive l’ucraino Stanislav Lešcenko sulla russa Vzgljad.

Secondo le più recenti proiezioni demografiche di Eurostat, e nonostante le ambizioni imperiali di Varsavia, alla fine di questo secolo, degli attuali 37,6 milioni di polacchi, ne resteranno meno di 30, e l’età media salirà da 42 a oltre 50 anni. Ma «la leadership polacca si appresta a risolvere questo problema a spese altrui. Questo processo è già in corso e riguarda direttamente anche il nostro paese».

Le previsioni del Ministero delle finanze polacco sono ancora più nere di quelle di Eurostat e parlano di una diminuzione, da qui al 2080, del 41,4% di persone in età lavorativa e dell’aumento del 42,3% di persone in età pensionistica: un modo per annunciare quasi sicuri tagli pensionistici.

L’OCSE ipotizza per la Polonia, da ora al 2050, una crescita del debito pubblico dal 55 al 138%, con “conseguente raccomandazione” di portare a 67 anni l’età pensionabile.

In tutto ciò, le ricette dei capitalisti polacchi ricalcano quelle di italici cognati: innalzare l’età lavorativa, ma soprattutto allentare la politica migratoria, con braccia a basso prezzo pronte a entrare in Polonia.

Già ora, dicono a Varsavia, il 6,5% della forza lavoro è composta da stranieri: si tratta solo di raddoppiare o triplicare tale percentuale e non permettere che altri si approprino di quella merce vilia ma preziosa costituita dalla forza-lavoro ucraina.

Secondo l’agenzia Gremi Personal, il 38% degli ucraini che lavorano in Polonia non ha intenzione di tornare in patria: ciò significa, per Varsavia, alleggerire la crisi demografica già nel giro di 3-4 anni.

La soluzione ideale per la Polonia, afferma il polonista Stanislav Stremidlovskij, sarebbe la scomparsa dello stato ucraino, con la popolazione che fluidamente si ritrova polacca: niente bisogno di tutte quelle formalità (lingua, cultura, ecc.) che si presenterebbero in caso di confederazione e non ci sarebbe da preoccuparsi del reintegro di L’vov nella compagine polacca: avverrebbe di per sé.

Naturalmente, quest’ultima soluzione eviterebbe tante tappe intermedie. Ma, per il momento, si comincia per gradi. Dunque, l‘Ucraina si “scioglie” nella Polonia, scrive Odna Rodina: la collaborazione del Ministro dell’istruzione ucraino Oksen Lisovoj con la Polonia non si limita a un accordo per la “correzione” o il “perfezionamento” dei testi scolastici ucraini di storia e geografia.

D’ora in poi, in una serie di scuole, istituti superiori e di istruzione prescolare ucraini, ad esempio nella regione di Dnepropetrovsk, le lezioni verranno condotte in polacco.

Il Ministero golpista per la reintegrazione intende includere il polacco tra le materie con valutazione esterna indipendente, e la Ministra Irina Vereščuk dichiara che stretti legami con i polacchi significano «garanzia di sviluppo sostenibile e sicurezza»: è dunque necessario studiare la lingua polacca in ogni scuola.

«Dobbiamo passare ad azioni concrete per integrarci nello spazio europeo», ha detto la Vereščuk; e il «primo passo è lo studio delle lingue dei paesi vicini». Russo escluso, ca va sans dire; ed esclusività polacca.

E che ne sarà allora della “mova”, il termine con cui gli ucraini definiscono la lingua, e in particolare la loro lingua, e per cui sin da 2014 mossero guerra al Donbass?

Finirà che la lingua diventerà, come in un lontano (ma non lontanissimo) passato, un campagnolo suržik, quel miscuglio di ucraino e russo che storpia entrambi gli idiomi. Dopotutto, nota Odna Rodina, furono i bolscevichi, ora “decomunistizzati” in Ucraina, a registrare nel 1926 milioni di piccoli e grandi russi come ucraini e fu il governo sovietico a far sì che la “mova” si sviluppasse a ritmi senza precedenti.

Non c’è da aspettarsi nulla di simile da Varsavia, come aveva dimostrato il periodo 1920-1939.

La nazionalista (e filo-russa) Myśl Polska scrive però che non si arriverà a un’unione polacco-ucraina. È anzi molto probabile il fallimento di tale disegno: già così, l’apertura delle frontiere con l’Ucraina è una catastrofe economica, basti pensare al diluvio di derrate agricole a prezzi irrisori, che strozzano il mercato polacco.

Già oggi le perdite potrebbero ammontare a centinaia di miliardi di zloty all’anno, perché, lamenta Myśl Polska, un paese degradato quale l’Ucraina, ma molto più grande, oltre che forte produttore agricolo, può distruggere completamente l’agricoltura polacca, che si muove in condizioni peggiori e dovrebbe vendere molto più a buon mercato.

Questo metterebbe il paese fuori dalla UE, i cui membri adotterebbero misure di difesa. Dunque, «dobbiamo iniziare a farci guidare dai nostri interessi, storicamente in contraddizione con il concetto di integrazione politica e giuridica con lo Stato ucraino, oltre che con l’attuale politica orientale dell’Unione Europea».

Oltretutto, scrive Myśl Polska, l’esperienza del passato dimostra che nulla di ucraino ci sarà nella compagine della Polonia, che è una nazione monolitica: l’ucraino non diventerà la seconda lingua di stato in Polonia e la cultura ucraina sarà schiacciata. Il processo di polonizzazione è inevitabile.

Di parere opposto, naturalmente, a Varsavia, pur nello spirito della Polonia imperiale di Jozef Pilsudski. L’ufficialissima Rzeczpospolita titola “La Polonia dei due popoli. Già in azione l’unione con l’Ucraina” e, mentre sottolinea che 3,2 milioni di ucraini vivono in Polonia – ma non dice a quali condizioni lavorino – annuncia summo cum gaudio: «A livello di società polacca, l’unione funziona già. La Polonia è diventata uno stato binazionale».

È in questo modo, chiosa Valentin Lesnik ancora su Odna Rodina, che la stampa polacca prepara gradualmente la società alla comparsa dell’ennesima copia della Rzeczpospolita: questa volta, secondo la formula Polonia+Ucraina.

Il retroscena di tale polonizzazione, di questa nuova “Rzeczpospolita 2.0” per cui si adoperano Andrzej Duda e Vladimir Zelenskij – e, a quanto pare, anche il presidente lituano Gitanas Nauseda – è dato dai piani di Varsavia (e dei suoi curatori d’oltreoceano), per trasformare tale spazio in una palude in cui far impantanare la Russia, un territorio cuscinetto tra Occidente e Oriente, atto anche a “filtrare”, o ostacolare, gli scambi economici tra Russia (e Cina) e Europa.

Nel frattempo, in attesa di tanta “evoluzione”, il primo ministro ceco Petr Fiala, lo slovacco Eduard Heger e il polacco Mateusz Morawiecki hanno composto sull’americana Foreign Affairs un canto appassionato su Ucraina e “mondo libero”.

«È sempre più evidente che la Russia ha concluso da tempo di essere in guerra con noi», constatano affranti, e se la Russia vince, allora l’Europa centrale «potrebbe essere la prossima» vittima. Bisogna quindi sconfiggere la Russia, e inviare così «un chiaro segnale che i conflitti congelati non hanno posto nella nostra regione».

Ancora: «Noi dobbiamo sostenere l’Ucraina finché le truppe russe non saranno ritirate dal suo territorio, col che si porrà fine al revanscismo e all’imperialismo del Cremlino». Siamo quindi «orgogliosi che l’Europa si sia levata tutta insieme di fronte all’aggressione russa» e, per sconfiggere Mosca, «nessun tipo di arma deve essere escluso a priori».

Quindi il canto: «... se l’Europa vuol rimanere libera e integra, sono decisive partecipazione e leadership americane»; che altro non è che una variazione sul ritornello intonato da anni da quel palafreniere atlantista che è Varsavia, secondo cui «la modernizzazione dei rapporti atlantici» significa il vassallaggio di Germania e Francia di fronte a Washington e la crescita d’influenza polacca.

In altra istanza, e come misura urgente, l’armata polacco-baltica propone di confiscare gli asset e le riserve russe in Occidente e dividerli, utilizzandoli anche «per la ricostruzione dell’Ucraina».

Per l’undicesimo pacchetto di sanzioni anti-russe, si chiede l’esclusione di Gazprombank dal SWIFT, il taglio completo di ogni qualsivoglia fornitura di gas russo e la riduzione della portata del “Družba”, attraverso cui il petrolio russo arriva a Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria. Di passaggio: chiusura totale a diamanti e alluminio russi.

Va da sé che Vladimir Putin ha immediatamente firmato un decreto – “Sulla gestione temporanea di alcune proprietà” – sulle misure di ritorsione per il sequestro di beni russi all’estero, che prevede il passaggio alla gestione delle proprietà degli stranieri in Russia.

L’83,7% delle azioni di Unipro (della tedesca Uniper) e il 98% dei titoli di Fortum (controllata della finlandese Fortum) sono già in fase di trasferimento di gestione. Sembra che alla notizia del decreto, il 26 aprile le azioni Unipro alla Borsa di Mosca siano cresciute del 5,19%: il valore più alto, nota RT, da febbraio 2022.

A quanto pare, il capitale russo sta ricevendo davvero “colpi mortali” da sanzioni, sabotaggi e altre “trovate” euro-atlantiche: secondo le ultime rilevazioni di Forbes, sono 22 in più dello scorso anno, per un totale di 110, i miliardari russi, che si spartiscono un patrimonio complessivo di 505 miliardi di dollari: 152 più di un anno fa.

«L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore» (Samuele, 2-4). Ma, chi è il debole e chi il forte?

Fonte

29/04/2023

Kippur (2000) di Amos Gitai - Minirece

Torna l’austerità, peggiorata

Chi vuole ignorare i “vincoli esterni” all’azione di uno Stato è condannato a sognare una liberazione impossibile per gli sfruttati di quel paese. Anche se si batte con le migliori intenzioni.

Lo abbiamo scritto decine di volte, certo, ma “l’interesse generale” di classe – che si manifesta anche come interesse nazionale in caso di vittoria (si veda Cuba o ogni altra Rivoluzione) – ancora spaventa per le conseguenze, e qualche sovrapposizione, con impostazioni di classe decisamente diverse.

Però c’è poco da sfuggire al dilemma: un paese collocato all’interno di un’alleanza strutturata istituzionalmente (l’Unione Europea o la Nato) si trova in condizioni di forte limitazione della sua “libertà” di scegliere come utilizzare la ricchezza che produce.

Di questo si accorgono prima, per evidente estraneità ai ricatti ideologici giocati sull’etichetta di “sovranismo”, quegli analisti economici che hanno per di più avuto esperienze istituzionali di alto livello. Come ad esempio Guido Salerno Aletta, tra le altre cose ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi.

La sua analisi del “patto di stabilità riformato” non lascia spazio ad illusioni su quel programma possa essere realizzato da qualsiasi governo in queste condizioni.

Buona lettura.

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Ritorno a Maastricht, ma in manette

Guido Salerno Aletta – TeleBorsa

Aveva ragione da vendere, Giuseppe Guarino, quando affermava che i regolamenti europei in materia di politica di bilancio erano in netto contrasto con i principi fondamentali della Unione Europea, ed aveva visto lungo Guido Carli che aveva contrattato duramente quelle condizioni tendenziali di aggiustamento del debito pubblico che avrebbero consentito all’Italia di aderire al Trattato di Maastricht senza suicidarsi dal punto di vista economico e sociale.

Mancano pochi mesi all’anniversario del Trentennale del Trattato di Maastricht.

Entrò in vigore il 1° novembre 1993, ha segnato la svolta ordoliberista dell’Unione europea: i parametri inderogabili per i bilanci pubblici, con il tetto del 3% al deficit e quello del 60% al debito, ed il divieto di finanziamento degli Stati da parte delle Banche centrali hanno rappresentato la prima gabbia, poi resa sempre più stretta con il Patto di Stabilità e Crescita firmato nel 1997, che imponeva condizioni di maggiore severità per i Paesi che avrebbero adottato l’euro.

Ulteriori integrazioni seguirono nel 2005, ma il Punto Finale fu raggiunto con il Trattato istitutivo del Fiscal Compact, varato come accordo intergovernativo ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013, giusto dieci anni fa.

Per chi non lo ricordasse, prevede che gli Stati aderenti raggiungano il pareggio strutturale del bilancio attraverso una serie di aggiustamenti annuali, volti a conseguire gli obiettivi a medio termine. Nel contempo, il rapporto debito/PIL deve essere ridotto, abbattendo al ritmo del 5% all’anno la somma eccedente il 60%. I Paesi maggiormente indebitati erano quindi sottoposti alla maggiore pressione di risanamento.

Nel 2019, l’ultimo anno in cui le regole del Fiscal Compact sono state operative, prima della sospensione dovuta alla crisi sanitaria che aveva provocato una generalizzata condizione macroeconomica avversa, l’Italia aveva quasi raggiunto una condizione di pareggio strutturale, con un deficit congiunturale dell’1,7%.

I sacrifici continui sul piano dei redditi, che avevano impedito di ritornare al PIL del 2008, avevano comportato il riequilibrio strutturale della bilancia commerciale, finalmente in attivo: i bassi salari avevano abbattuto le importazioni e reso più convenienti le esportazioni.

Il debito pubblico italiano, che nel 2008 era arrivato al 99,8% del PIL dopo una lunga stagione di sacrifici iniziata nel 1993, quando era stato del 127%, era ritornato nel 2019 al 128,7%: l’Italia vive, soffre e lavora solo per pagare il debito.

Inutile dire che, con l’abbattimento del PIL per la pandemia, e le spese pubbliche aggiunte per sostenere l’economia, le famiglie e le imprese, il debito pubblico italiano è tornato a farsi imponente: nel 2022 è ritornato al 138% del PIL scendendo dal 149% del 2021 e dal 155% del 2020.

Un miglioramento fittizio, solo per via della crescita del denominatore nominale, del PIL che è stato gonfiato dalla inflazione. Il debito è aumentato di 112 miliardi di euro, passando dai 1.797 miliardi del 209 ai 1.909 miliardi del 2022. Solo un deficit straordinario, mai visto prima, dell’ordine dell’8% del PIL, ha tenuto a galla il Paese: denari inghiottiti nel nulla.

Un decennio drammatico, tra austerità fiscale e crisi sanitaria, ha indebolito l’Europa.

Ora si tratta di riprendere a crescere, in un contesto di inflazione scatenata da politiche monetarie accomodanti, che ha imposto alti tassi di interesse.

A Bruxelles hanno adottato una strategia molto prudente, benevola solo all’apparenza: niente più Fiscal Compact, niente più bilanci in pareggio o in attivo per abbattere il debito, ma il ritorno alla strategia di Maastricht: limite del 3% al deficit annuo; controllo su un arco di tempo pluriennale della crescita della pubblica spesa al netto degli interessi; riduzione del rapporto debito/PIL al termine del periodo.

Aveva visto giusto Guido Carli, il Ministro del Tesoro dell’Italia che aveva contrattato duramente questi stessi criteri ai tempi della elaborazione del Trattato di Maastricht.

Ed aveva avuto perfettamente ragione Giuseppe Guarino, un grande giurista al quale mi onoro di essere stato vicino, quando affermava che imporre bilanci in pareggio o in attivo per ridurre il debito pubblico era stata una decisione contraria ai principi fondamentali di libertà degli Stati in materia economica che era stato sancito dai Trattati fondativi della Unione Europea.

Furti di libertà, prima che di benessere per i popoli europei.

Tristemente inutile, questa resipiscenza: si torna indietro, a Maastricht, quando furono messe le Manette solo agli Stati, come se solo la loro azione potesse divenire nefasta.

Nessuna crisi sistemica è stata determinata dal debito eccessivo degli Stati: né la crisi americana del 2008, causata dal fallimento di una politica creditizia senza remore; né quella della Grecia che era stata ingozzata di prestiti internazionali e che accusava un incolmabile disavanzo commerciale verso l’estero, né quelle della Spagna e dell’Irlanda che erano state ubriacate dalle bolle finanziate da banche straniere mentre avevano bilanci pubblici impeccabili.

Vediamo che cosa è successo: nel 2008, il rapporto debito/PIL della Spagna era addirittura del 39,4%! Uno Stato dunque virtuosissimo. Ma è arrivato al 100,4% nel 2014, perché lo Stato Spagnolo si è dovuto accollare gli oneri derivanti dai salvataggi bancari, usando i fondi messi a disposizione dal MES, il cosiddetto Fondo Salva Stati: in pratica, lo Stato spagnolo si è indebitato con il MES per rimborsare le banche straniere (francesi e tedesche) che avevano prestato denari alla banche spagnole che erano fallite dopo lo scoppio della bolla immobiliare.

Questi sono i trucchi ed i maneggi del sistema finanziario: ma tanto, poi, pagano gli Stati ed i cittadini.

Si ritorna indietro, a Maastricht, ma con una libertà per gli Stati che è resa farlocca: negli allegati alla nuova regolamentazione, si fa riferimento a metodologie previsionali, “deterministiche” e “stocastiche”, in base a cui si controlla se la spesa netta dei piani pluriennali è destinata a ridursi, insieme ai debiti che devono scendere e comunque rimanere sostenibili.

Come accade con il nuovo Trattato che disciplina il MES, dove le vere condizioni per la erogazione dei prestiti di salvataggio sono indicate in una nota dell’Annesso, anche in questo caso le regole “vere”, la garrota è stata nascosta negli allegati tecnici.

In questo caso, nell’Annesso II, si dispone che gli Stati devono dare conto di tutto ciò che serve per giustificare l’andamento del debito pubblico: non solo delle conseguenze derivanti dall’invecchiamento della popolazione, ma anche “to the extent possible, information on disaster and climate contingent liabilities“.

Mancherebbero solo le previsioni sugli asteroidi in caduta sulla Terra!

La verità è invece assai più banale e ben più triste: per finanziare il PNRR, l’Italia ha deciso di indebitarsi con la Unione europea, con una scaletta di adempimenti che arriva fino al 2026.

Ma, allo stesso tempo, con queste nuove regole, deve diminuire il debito.

Fonte

L'ascesa cinese e il fallimento dell'euro

USA-Arabia Saudita, il punto di non ritorno

Le importazioni statunitensi di petrolio saudita sono ai minimi storici, gli acquisti cinesi di petrolio saudita continuano a crescere e gli interessi energetici russo-sauditi sono pienamente convergenti. Se è "tutta una questione di economia", allora i legami sauditi-statunitensi potrebbero non riprendersi mai del tutto.

“I nostri alleati nel Golfo non rispettano più l'accordo sottoscritto decenni fa, anche se abbiamo ancora una forte presenza militare nel Golfo, più consistente che mai, e continuiamo a chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani da parte dei paesi del Golfo. Troppo spesso i nostri alleati in Medio Oriente agiscono in conflitto con i nostri interessi relativi alla sicurezza”. – Il presidente della sottocommissione per il Vicino Oriente, l'Asia meridionale, l'Asia centrale e l'antiterrorismo della commissione per le Relazioni Estere del Senato degli Stati Uniti, senatore Chris Murphy, luglio 2022.

La guerra in Ucraina e l'intensificarsi della concorrenza tra le grandi potenze hanno gettato un'ombra sui mercati globali e provocato alcuni cambiamenti sorprendenti nelle politiche estere degli stati. Il Regno dell'Arabia Saudita è tra questi paesi e il suo rapporto con gli Stati Uniti sta attualmente attraversando un periodo molto critico. Oggi Riyadh cerca un rapporto meno vincolante con Washington, che tenga conto della convergenza dei propri interessi con quelli di stati non occidentali.

Ci sono molte ragioni per cui il regno sta adottando una politica estera più pragmatica. Uno dei fattori chiave sono le relazioni energetiche, in particolare perché Riyadh cerca di preservare e far crescere i reciproci interessi con altre grandi potenze, come Cina e Russia.

La nascita dei petrodollari

Lo "shock di Nixon" nel 1971 ha segnato un cambiamento nella politica economica degli Stati Uniti, che hanno cercato da allora di dare priorità alla propria crescita economica e stabilità rispetto a quelle di altri stati. Ciò ha portato alla fine degli accordi di Bretton Woods e della convertibilità dei dollari USA in oro. Washington si è invece mossa per stabilire un nuovo sistema in cui il dollaro USA fosse ancorato a una merce con domanda globale, al fine di mantenere la posizione di valuta di riserva dominante nel mondo.

Nel 1974 fu così raggiunto l'accordo sui petrodollari, in cui l'Arabia Saudita accettò di vendere petrolio esclusivamente in dollari USA in cambio di assistenza militare, sicurezza e sviluppo economico garantiti dagli Stati Uniti. L'accordo ha effettivamente legato il valore del dollaro USA alla domanda globale di petrolio, assicurando il suo continuo dominio come principale valuta di riserva mondiale.

Dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio saudita

Dopo l'accordo sui petrodollari, le esportazioni di petrolio saudita verso gli Stati Uniti sono aumentate, rendendo la sicurezza dell'Arabia Saudita ancora più critica per Washington. Nel 1991, gli Stati Uniti importavano 1,7 milioni di barili al giorno (bpd) di petrolio saudita, cioè un forte aumento rispetto ai 438.000 bpd del 1974.

Ciò rappresentava il 29,5% delle importazioni totali di petrolio degli Stati Uniti nel 1991 e il 26,4% delle esportazioni totali saudite, a conferma ulteriore dell'importanza per Washington di assicurare la sicurezza e la stabilità dell'Arabia Saudita. Ma l’eccezionale dipendenza dalle importazioni di petrolio dall'estero e dall'Arabia Saudita in particolare, ha creato anche contraccolpi politici negli Stati Uniti, che hanno finito per lanciare a loro volta piani volti a ridurre le importazioni e ad aumentare la produzione interna di greggio.

Ciò è da ricondurre a diversi fattori, tra cui il potenziale impatto negativo di eventuali shock del mercato energetico – come il calo delle esportazioni di petrolio iraniano dopo la rivoluzione islamica del 1979 – sull'economia statunitense; oppure quello delle dispute geopolitiche sulle esportazioni di petrolio dall'Asia occidentale e i progressi tecnologici che hanno facilitato l'incremento della produzione di greggio negli Stati Uniti.

Nei decenni successivi, Washington è stata così in grado di ridurre con successo le importazioni di petrolio dall'Arabia Saudita: nel 2020, gli Stati Uniti hanno importato solo 356.000 barili al giorno di petrolio saudita, pari ad appena il 6% di tutte le importazioni di petrolio USA e il 4,8% di tutte le esportazioni di greggio saudita.

Cambiare le dinamiche del mercato petrolifero

In questo processo, l'Arabia Saudita ha perso gran parte del suo valore come mercato per gli americani e gli Stati Uniti non dipendono più dall'Arabia Saudita come fonte primaria di petrolio. Inoltre, il significativo aumento della produzione di “shale oil” negli Stati Uniti ha creato un nuovo importante concorrente nel mercato dell'energia, che ha sollevato preoccupazioni a Riyadh per la sua influenza in declino come fornitore strategico di petrolio per il mondo.

Per diversificare le opzioni di esportazione di greggio, l'Arabia Saudita ha allora iniziato a guardare a est verso la Cina, il più grande importatore di petrolio al mondo. Negli ultimi due decenni, l'Arabia Saudita è gradualmente diventata la principale fonte di petrolio per la Cina, con le importazioni che sono aumentate del 16,3% tra il 1994 e il 2005, raggiungendo 1,75 milioni di barili al giorno nel 2022.

Rafforzare le relazioni economiche e diplomatiche con Pechino è diventata una necessità per Riyadh, che trae il 70% dei suoi proventi dalle esportazioni di greggio. Lo stesso vale per la Cina, una potenza globale che cerca attivamente di diversificare le sue fonti di petrolio per evitare di dipendere da un singolo paese.

Negli ultimi anni, la Russia è emersa a sua volta come partner essenziale dell'industria petrolifera saudita. La creazione dell'OPEC+ è stata una risposta al calo dei prezzi del greggio causato in parte dal vertiginoso aumento della produzione di “shale oil” negli Stati Uniti a partire dal 2011.

La Russia e l'Arabia Saudita sono i maggiori esportatori mondiali di petrolio e la loro collaborazione si è dimostrata vitale per il controllo dei prezzi, grazie al coordinamento delle quantità di petrolio immesse nei mercati. Ciò ha portato nel 2016all'espansione dell'OPEC, che è controllata dall'Arabia Saudita, e all'istituzione dell'OPEC+ per includere la Russia.

Cooperazione OPEC+ dopo la guerra dei prezzi

Dopo le conseguenze negative della guerra dei prezzi del 2020 tra i principali produttori di petrolio, sia Riyadh che Mosca hanno riconosciuto l'importanza della cooperazione per salvaguardare i propri interessi energetici.

Nel marzo di quell'anno, l'OPEC+ si era riunita a Vienna per affrontare il calo della domanda di petrolio causato dalla pandemia di COVID-19. All'incontro, l'Arabia Saudita, il più grande produttore dell'organizzazione, propose di ridurre la produzione per stabilizzare i prezzi a un livello ragionevole e più alto, mentre la Russia, il più grande produttore non OPEC nell'OPEC +, si oppose ai tagli e si mosse per aumentare la sua produzione di petrolio.

In risposta alla mossa di Mosca, i sauditi aumentarono anch’essi la propria produzione e annunciarono tagli inaspettati dei prezzi del petrolio, compresi tra 6 e 8 dollari al barile per gli importatori in Europa, Asia e Stati Uniti. Questo annuncio innescò un forte calo dei prezzi del petrolio, con il Brent che crollò del 30%, segnando il più grande calo dalla Guerra del Golfo del 1991, mentre il “benchmark” WTI scese del 20%. Il 9 marzo, i mercati azionari globali registrarono perdite significative e il rublo russo scese del 7% rispetto al dollaro USA, raggiungendo il livello più basso in quattro anni.

La guerra dei prezzi del petrolio è durata circa un mese prima che i membri dell'OPEC+ raggiungessero un nuovo accordo ad aprile che includeva tagli storici alla produzione di petrolio, pari cioè a 10 milioni di barili al giorno. Questa esperienza ha segnato l'inizio di una cooperazione energetica ininterrotta tra Mosca e Riyadh.

Arabia Saudita: priorità ai propri interessi

Dallo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno fatto pressioni sui loro alleati affinché applicassero le sanzioni occidentali contro la Russia. Washington ha cercato di convincere il leader dell'OPEC, ovvero l’Arabia Saudita, ad aumentare la produzione di petrolio per frenare l'aumento dei prezzi causato dal conflitto, ma finora i sauditi hanno respinto tutte le richieste.

Ciò ha provocato un aumento delle tensioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita, che ha portato alla visita infruttuosa del presidente degli Stati Uniti Joe Biden a Jeddah nel luglio 2022 per cercare di convincere il principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) ad aumentare i livelli di produzione di petrolio.

Inoltre, i tentativi occidentali di stabilire un prezzo massimo per il petrolio russo sono serviti solo ad allarmare l'Arabia Saudita, in quanto questo meccanismo darebbe la possibilità ai paesi importatori di imporre i prezzi del petrolio ai produttori. Nonostante i tentativi aggressivi di indebolire il settore energetico della Russia, l'alleanza occidentale USA-Europa non è stata in grado di raggiungere il proprio obiettivo e, di fatto, lo scorso anno si è verificato un aumento delle esportazioni di energia russa in Europa, Cina e India.

Un certo numero di paesi, tra cui l'Arabia Saudita, ha contribuito a sostenere le esportazioni di energia russa acquistando petrolio da Mosca e riesportandolo nei mercati europei o utilizzandolo localmente per aumentare i proventi delle esportazioni. Poiché la Russia è il secondo esportatore mondiale di petrolio, il suo isolamento dai mercati avrebbe altrimenti ripercussioni pesanti, soprattutto per gli stati esportatori di petrolio.

La guerra in Ucraina ha dimostrato dunque che Riyadh è pronta ad affrontare Washington quando sente che i suoi interessi energetici sono minacciati. Oggi gli Stati Uniti non sono più un partner energetico strategico per l'Arabia Saudita, ma piuttosto un concorrente. Al suo posto, Pechino e Mosca sono diventate partner essenziali per Riyadh e i reciproci interessi energetici sono un fattore importante dietro agli sforzi di Mohammad bin Salman per diversificare le opzioni di politica estera del suo paese.

Stati Uniti e Arabia Saudita: non più alleati energetici

Dall'inizio dell'era della Guerra Fredda, il petrolio è stato un pilastro fondamentale dell'economia russa (ed ex sovietica). È perciò da sempre una priorità degli Stati Uniti riuscire a influenzare i prezzi come strumento di pressione contro Mosca. Poiché l'Arabia Saudita è considerata una superpotenza petrolifera, la cooperazione di Washington con Riyadh – nonostante le importazioni di petrolio saudite drasticamente ridotte – è al centro delle strategie economiche statunitensi per contrastare la Russia.

Ad esempio, a metà degli anni '80, durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan, gli Stati Uniti chiesero ai sauditi di inondare i mercati petroliferi per abbassare i prezzi e indebolire un'Unione Sovietica dipendente dalle entrate in questo settore. Nel 1986, i prezzi del petrolio scesero infatti di due terzi, da $ 30 al barile a quasi $ 10 al barile, paralizzando l'economia sovietica e compromettendo la sua influenza geopolitica.

Gli scenari sono però cambiati drasticamente nei successivi 37 anni. L'Arabia Saudita vede ora gli Stati Uniti come un concorrente nel mercato energetico a causa dell'aumento della produzione di “shale oil” americano e del disinteresse di Washington nell'aumentare le importazioni di greggio.

Tra il 2010 e il 2021, la produzione statunitense di “shale oil” è cresciuta da circa 0,59 milioni di barili al giorno a 9,06 milioni di barili. La risposta di Riyadh a questa nuova dinamica geoeconomica è stata quella di aumentare la produzione di petrolio nel 2016, con l'obiettivo di abbassare i prezzi per indebolire l'industria statunitense dello “shale oil”, che opera a costi significativamente più alti.

I sauditi temono infatti che il loro ruolo di fornitore strategico di petrolio a livello globale vada declinando, in gran parte a causa dell'aumento della produzione di “shale oil” e dell'autosufficienza energetica statunitense. Ciò ha spinto Riyadh a cercare di imporre nuovamente la propria superiorità petrolifera abbassando i prezzi per ridurre il numero di concorrenti con costi di produzione più elevati, nonostante i danni interni a breve termine causati dall'aumento della produzione di greggio.

A tutt'oggi l'Arabia Saudita continua a rappresentare un ostacolo agli interessi energetici statunitensi, mentre trova invece un terreno comune con i principali avversari di Washington – Russia, Cina, Iran – con i quali si intrecciano gli interessi energetici di Riyadh.

Contrariamente alle aspettative, dallo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022, tutti gli sforzi degli Stati Uniti per convincere Riyadh a inondare i mercati petroliferi globali sono falliti e i russi sono riusciti a salvaguardare sia le loro esportazioni sia la loro economia. È diventato palesemente chiaro ai responsabili delle decisioni a Washington che l'Arabia Saudita di oggi non è l'Arabia Saudita del 1985, disposta a minare le proprie entrate e gli interessi energetici per servire l'agenda geopolitica degli Stati Uniti.

Per contro, anche a Washington sono in corso discussioni sull’opportunità di mantenere l'impegno degli Stati Uniti a favore della sicurezza dell'Arabia Saudita, dal momento che Riyadh non fornisce più in maniera sostanziale energia agli americani né segue i diktat politici USA.

Alcuni credono anzi che il ruolo degli Stati Uniti di garante della sicurezza nel Golfo Persico finisca per servire gli interessi di Pechino, garantendo le principali fonti energetiche della Cina. Altri ancora sostengono che un ritiro militare statunitense dal Golfo Persico creerà un vuoto colmato da Pechino, che cercherà con ogni probabilità di proteggere la propria sicurezza energetica.

L'unico punto di chiarezza è che gli interessi energetici di USA e Arabia Saudita non sono più sinergici e che quelli di Riyadh si allineano molto più strettamente con quelli di Pechino e Mosca. Questo dato resta il fattore chiave che guida oggi la politica estera e la diversificazione economica dell'Arabia Saudita.

Ciò che resta da vedere è fino a che punto i sauditi – profondamente e storicamente legati agli interessi occidentali – saranno disposti a sfidare l'egemonia regionale degli Stati Uniti mentre i loro obiettivi divergono e Riyadh si ritrova a fare causa comune con i rivali di Washington.

Fonte

Nicaragua - Incontri bilaterali con Russia e Cina

Le visite a Managua del ministro degli Esteri Russo e del presidente dell'Agenzia cinese per la cooperazione internazionale allo sviluppo, Luo Zhaohuii, hanno riproposto con forza il Nicaragua al centro dello scacchiere politico e strategico della regione centroamericana e ne hanno proiettato il ruolo politico sullo scacchiere internazionale più ampio.

Ci sono l’ambito economico-commerciale e l’ambito politico. Nel primo si registra come ambedue i paesi hanno siglato con Managua nuovi ed importanti accordi commerciali. Sottolineano anche dal punto di vista economico il prossimo cammino del governo nicaraguense che rafforza le prospettive a breve e medio termine dello sviluppo economico nazionale.

Gli accordi commerciali con Russia e Cina mettono in mostra la dinamicità dell’economia nicaraguense: edilizia, energia, esportazioni e importazioni di grano, unità di trasporto, fertilizzanti, pesca, prodotti farmaceutici, energia atomica per scopi pacifici, difesa e turismo, sottolineano il rafforzamento della già storica cooperazione con Mosca che sin dagli anni ’80 ha ritenuto il Nicaragua meritevole di sostegno politico, economico e militare.

I protagonisti sottolineano una idea “politica” della cooperazione e dell’import/export condivisa. Ovvero che non vi sono limiti alle relazioni commerciali tra paesi che basano il loro agire sul principio del rispetto e riconoscimento di valore reciproco; che la base fondamentale della relazione economico-commerciale deve essere il rispondere alle reciproche esigenze; che le modalità sulle quali agisce la cooperazione – anche quando propone linee di credito – non prevedono in nessun caso l’ingerenza nella conduzione delle politiche economiche di nessuno.

La relazione commerciale tra Managua e Pechino verrà prossimamente sistematizzata nell’accordo di TCL, ormai prossimo alla gestazione. L’accordo coronerebbe l’entrata dalla porta principale del Nicaragua nel progetto planetario della Belt and Road Initiative, considerato il più grande progetto infrastrutturale internazionale mai concepito.

Si fa dunque ogni giorno più importante il peso di Pechino nell’economia nicaraguense, così come il sostegno politico che Zhaohuii non ha mancato di esporre, dichiarando che “la Cina sostiene fermamente qualsiasi sforzo intrapreso dal governo nicaraguense per salvaguardare l'integrità territoriale e la sovranità".

C’è poi il progetto di candidatura del Nicaragua all’ingresso nei BRICS che è visto con favore dai due giganti euroasiatici. Sul piano strategico, l’ingresso del Nicaragua sarebbe un risultato straordinario e si affiancherebbe a quella di Argentina, Iran e Algeria (che hanno formalizzato la richiesta di adesione) e Arabia Saudita, Egitto, Senegal, Nigeria, Turchia, Indonesia e altri ancora.

Il Nicaragua entrerebbe in un contesto internazionale di grandi prospettive sia economiche che politiche. I BRICS sono oggi l’affermazione del nuovo mondo che spodesta il vecchio, di un movimento che ritiene lo sviluppo economico l’unico antidoto all’esclusione di intere aree del pianeta dall’economia globale, mentre Stati Uniti e Unione Europea ritengono il pianeta una loro estesa colonia.

Il Nicaragua che verrà

Nell’aggregarsi ai BRICS+ Managua intreccia crescita economica e indipendenza strategica: il consolidamento delle intese commerciali, oltre ad avere il pregio di differenziare il portafoglio clienti delle esportazioni nicaraguensi, mettendolo così in grado di affrontare le sempre possibili oscillazioni della domanda, pone in una posizione di scarsa rilevanza restrizioni commerciali e nuove sanzioni degli Stati Uniti e dal suo ventriloquo coloniale, l’Unione Europea.

In un altro ambito, l’adesione al progetto di Belt and Road Initiative e all’organizzazione dei BRICS apre un capitolo decisamente inedito per il Paese centroamericano. Il Nicaragua, forte dell’appartenenza a consorzi di spessore planetario assume su di sé una proiezione completamente diversa da quella tenuta fino al 2006. Pur mantenendo e rafforzando il suo modello produttivo fondato sulle PMI e sull’economia familiare, che garantiscono l’orizzontalità della crescita economica, vede una sostanziale modifica della sua dimensione politica e finanziaria che si riflette tanto nell’ambito regionale come in quello internazionale. Si candida ad un ruolo di primissimo piano nell’equilibrio regionale e di grande rilievo nel complesso continentale.

Ma l’aspetto politico che copre e a sua volta sottintende la firma degli accordi è che il Nicaragua si inserisce in un contesto internazionale che permette a Managua una relazione diversa con i paesi vicini, con il Cono Sud e con gli stessi Stati Uniti. Il processo di riequilibrio internazionale è in corso e il Nicaragua vi partecipa con tutti gli strumenti a disposizione e forte di una credibilità politica acquisita nel corso degli ultimi 16 anni.

Se infatti i due giganti firmano accordi di partenariato politico ed economico, scientifico e di cooperazione, è perché il Nicaragua ha dimostrato di raggiungere gradi di efficienza economica e sociale sconosciuti nel continente e perché il profilo politico del Nicaragua è andato consolidandosi anche a partire dalla risposta contundente data ai tentativi di destabilizzazione dall’esterno e dall’interno del Paese, ribadendo con il consenso e con la forza la sovranità del suo sistema politico e istituzionale.

Le politiche economico-sociali e la dimensione istituzionale sono state l’asse di rispetto del dettato costituzionale, che risalta l’indipendenza e la sovranità nazionale del Nicaragua e l’impermeabilità a percorsi di annessionismo al gigante del Nord come auspicati dal latifondo nazionale e dalle gerarchie ecclesiali.

La stessa politica estera di Managua è apprezzata nei paesi dove non vige il comando statunitense e le relazioni internazionali con Paesi avversari di Washington è stata di esempio per altri paesi per rompere l’equilibrio precedente nel quale l’America latina agiva secondo il Washington Consensus. Anche per questa dimensione politica che travalica i suoi confini, il Nicaragua è oggetto delle mire statunitensi e Managua, che pure riconosce il ruolo degli USA nel continente, ritiene di dover costruire le sue relazioni internazionali con chiunque ha interesse a dialogare di pace e cooperazione. Nessun veto, nessun blocco statunitense verso la presenza di paesi terzi nel continente è accettabile, il governo nicaraguense intesta le sue scelte agli interessi strategici del Nicaragua e non a quelli degli USA.

Questa posizione, eredità storica del Sandinismo, è avversata dai nemici e apprezzata internazionalmente dagli amici. Non a caso Lavrov ha spiegato come Mosca "apprezzi molto il sostegno di Managua nella promozione delle relazioni con le organizzazioni di integrazione latinoamericane, in particolare CELAC e SICA. Tutto questo aiuta l'America Latina a diventare, meritatamente, un centro efficace e influente dell'emergente ordine mondiale multipolare", ha dichiarato il Ministro degli Esteri russo.

Le parole di Lavrov contengono tra le righe una investitura, testimoniano come questi 16 anni di governo sotto la guida del Comandante Daniel Ortega e della Vicepresidente Rosario Murillo, forniscano internazionalmente una idea del Nicaragua come paese affidabile. Senza questo riconoscimento di valore non vi sarebbero sforzi e disponibilità da parte di Paesi che non esitano a schierarsi per difendere Managua in ogni foro.

Il Nicaragua dimostra di essere un paese piccolo geograficamente ma grande politicamente. Non sbanda ad ogni curva dello scontro politico, non cede a pressioni, non insegue favori, non si inginocchia di fronte a nessuno. Si chiama Sandinismo, né più né meno.

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Gran Bretagna - I ferrovieri tornano a scioperare. In discussione legge antisciopero

Migliaia di lavoratori delle ferrovie britanniche sciopereranno nuovamente il prossimo 13 maggio dopo che il sindacato RMT ha respinto l’ultima offerta salariale delle compagnie ferroviarie, un’escalation in un conflitto sindacale di lunga data che ha causato scioperi dirompenti dalla scorso estate.

Il sindacato nazionale dei lavoratori ferroviari, marittimi e dei trasporti (RMT) ha dichiarato giovedì di aver ricevuto un chiarimento dagli operatori ferroviari secondo cui un pagamento del 5% per il primo anno sarebbe stato effettivo solo se l’RMT non avesse tenuto ulteriori scioperi.

Mentre era stato raggiunto un accordo col gestore pubblico Network Rail prosegue la protesta con le compagnie del settore, rappresentate dal Rail Delivery Group, dopo che le Trade Union hanno respinto l’ultima offerta di un aumento degli stipendi giudicandola inadeguata.

Gli iscritti del sindacato RMT, il più combattivo e meglio organizzato tra il personale ferroviario, incroceranno le braccia il 13 maggio, mentre i macchinisti di Aslef il 12 e il 31 dello stesso mese e anche il 3 giugno.

Intanto in Gran Bretagna, come avvenuto in Italia, la legislazione che costringerebbe parte del personale a lavorare durante gli scioperi sta passando in parlamento, sponsorizzata dal segretario agli affari, Grant Shapps.

Mick Lynch, segretario generale del sindacato RMT, ha affermato che le proposte contenute nel disegno di legge sugli scioperi (livelli minimi di servizio) “non funzioneranno”. Ha detto che il disegno di legge, ora alla Camera dei Lord, lascerebbe i datori di lavoro in una “posizione odiosa” di dover licenziare i lavoratori che si rifiutano di rompere uno sciopero.

Le misure contenute nel disegno di legge conferirebbero ai ministri il potere di decidere i livelli minimi di servizio durante gli scioperi in parti del settore pubblico, comprese le scuole, i servizi sanitari e di emergenza e le ferrovie.

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Primo inciampo del governo fascioleghista

Piovono conferme, e anche prima del previsto. Il governo Meloni finisce sotto per la prima volta, alla Camera, proprio sul Def. Ovvero sulle politiche di bilancio, la relazione con il PNRR, le “riforme”, ecc.

Era stato previsto fin da subito, mentre l’esecutivo infiorettava di temi “allarmistici” (i rave, i migranti, gli anarchici, infine gli orsi...) l’agenda politica e mediatica. Tutto, insomma, pur di nascondere l’ostacolo principale: la subordinazione ai diktat dell’Unione Europea, dopo aver “giurato” in campagna elettorale che ci sarebbero stati cambiamenti epocali. Subordinazione ancora più accentuata dalla “riforma del patto di stabilità” che va maturando a Bruxelles.

La riprova si è avuta al Senato – dove la relazione al Def sullo scostamento di bilancio è stata approvata grazie al voto di Renzi e altri del sedicente “terzo polo” – quando Mario Monti si è alzato per dare al documento la sua approvazione proprio per la continuità con quanto fatto da tutti i governi precedenti, fin dal 2011 (quando proprio Monti venne installato a Palazzo Chigi in sostituzione di Berlusconi).

Non ci sono insomma possibili equivoci sull’impostazione “austera”, che arriva a bruciare – anche se Giorgetti smentisce, ma senza ancora svelare i numeri – persino l’elemosina del “taglio al cuneo fiscale”, pochi euro al mese e a carico dello Stato, mica delle imprese.

Eppure le tensioni all’interno della maggioranza di destra hanno assunto una forma visibile proprio perché, anche su quel poco di “maneggiabile” che c’è all’interno di una manovra di fatto “commissariata” dalla Ue, gli appetiti dei vari gruppi sono stati più forti della necessità oggettiva di recitare la parte della “coalizione compatta”.

Le voci danno la responsabilità principale alla Lega, che avrebbe così voluto mandare un “segnale politico”. Difficile averne la prova, visto che le assenze sono state numerose in tutti i gruppi, come già altre volte era accaduto senza che però ci fosse “l’incidente”. Ma è apparso palese che qualche problema comincia a minare la narrazione ufficiale.

“I deputati o non sanno o non si rendono conto“, lo sfogo del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, lasciando irritato l’Aula. “Una figura di m...“, è la sintesi di un big del centrodestra.

La Meloni, sorpresa a Londra da questa figuraccia, mentre doveva anche lì subire contestazioni di piazza, giura di voler correre ai ripari.

“Una brutta figura“, per un “eccesso di sicurezza“, ha intanto provato a minimizzare. “Tutti vanno richiamati alle loro responsabilità. Credo che si debba fare una valutazione ulteriore, e concentrare l’attenzione sui parlamentari in missione, su chi ha un doppio incarico” (le assenze sono sempre “giustificate”, in qualche modo).

Adesso, ovviamente, ci sarà il via libera immediato – già domani – alla nuova versione della relazione al Def (impossibile che ci sia un nuovo “bagno freddo”, che equivarrebbe all’apertura ufficiale di una crisi di governo). E sicuramente il Consiglio dei ministri del primo maggio suonerà la fanfara come se nulla fosse accaduto.

Ma la strada sembra già tracciata. E sarà bene non farsi abbindolare dalle innumerevoli “armi di distrazione di massa” che questo governo moltiplicherà nei prossimi mesi. Sulle questioni economiche e la subordinazione alla Ue inciamperanno più volte.

Un movimento di lavoratori, studenti, disoccupati, pensionati più forte potrebbe trasformare quegli inciampi in caduta...

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Seppellita dalla Cassazione la trattativa tra Stato e mafia

Il colpo di spugna alla fine è arrivato e la sentenza che condannava uomini dello stato, politici e mafiosi per la trattativa Stato-mafia del 1993 viene così definitivamente seppellita.

I giudici della Corte di Cassazione hanno infatti annullato senza rinvio la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo il 23 settembre 2021.

Sono stati così definitivamente assolti dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione “per non aver commesso il fatto” gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, il boss mafioso Leoluca Bagarella e il medico Antonio Cinà.

L’indagine per la trattativa tra Stato e mafia nel 1993 nasce nel 1996, quando il pentito di mafia Giovanni Brusca (oggi libero), disse di averne sentito parlare da Totò Riina, all’epoca degli attentati mortali a Falcone e Borsellino. Nel frattempo arrivarono le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Ciancimino junior dichiarò di aver fatto da tramite tra il padre e il Ros dei Carabinieri per giungere ad un “accordo con lo Stato” per fare cessare la strategia stragista di Cosa Nostra e arrivare alla consegna dei latitanti.

La prima udienza del processo ebbe luogo il 29 ottobre 2012, nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Sul banco degli imputati cinque membri di Cosa Nostra, cioè Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, e cinque rappresentanti delle istituzioni, cioè il generale Antonio Subranni, il generale Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello dell’Utri, per il reato di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Massimo Ciancimino è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino per falsa testimonianza. La posizione dell’ex ministro Calogero Mannino viene invece stralciata. E l’ex politico verrà assolto sia in primo che in secondo grado.

Il verdetto di primo grado vide condannati a 12 anni di carcere, oltre a Dell’Utri, i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e il boss Antonino Cinà; a 28 anni Leoluca Bagarella, la pena più pesante.

Otto anni al colonnello Giuseppe De Donno. Stessa pena per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre fu assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescrizione per Giovanni Brusca. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.

La sentenza d’appello, giunge il 23 settembre del 2021 e ribalta il verdetto. Dopo tre giorni di camera di consiglio, nell’aula bunker di Palermo, la Corte manda assolto Dell’Utri, “per non avere commesso il fatto” e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, “perchè il fatto non costituisce reato”. Pena leggermente ridotta a 27 anni al boss Leoluca Bagarella; ma vengono confermati solo i 12 anni al medico mafioso Antonino Cina’, fedelissimo di Bernardo Provenzano.

Il momento più critico del processo fu quando nell’inchiesta finirono anche 4 intercettazioni telefoniche tra l’ex ministro Mancino e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che però vennero distrutte per decisione della Corte Costituzionale. Vennero intercettate varie telefonate tra Loris D’Ambrosio, l’allora consigliere giuridico del presidente Napolitano, e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, telefonate che hanno portato al conflitto istituzionale tra il Quirinale e la Procura di Palermo. Loris D’Ambrosio, ex magistrato e consigliere del Quirinale morì improvvisamente d’infarto nel 2012 dopo aver dichiarato di aver ascoltato “indicibili accordi”.

La cattura dell’ultimo boss della vecchia mafia, Matteo Messina Denaro ormai in fin di vita, si porterà nella tomba anche l’ultimo testimone di quella stagione.

Adesso la Corte di Cassazione non solo ha assolto tutti gli imputati ma ha anche decretato che la Trattativa Stato-mafia non c’è mai stata, quindi inutile parlarne. Ancora una volta la verità giudiziaria stride con la verità storica e politica.

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28/04/2023

"Matrix Resurrections" (2021) - Minirece

[Contributo al dibattito] - Guerra in Ucraina - Le conseguenze di breve e lungo periodo

di Domenico Moro

Per comprendere le conseguenze di breve e di lungo periodo della guerra in Ucraina sull’economia mondiale, bisogna partire dai processi che modificano gli assetti e i rapporti di forza tra aree economiche e Stati. In particolare, vanno indagati i processi che coinvolgono il gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che rappresenta la semi-periferia emergente del sistema economico mondiale, e il G7 (Usa, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, e Canada), che rappresenta il centro ricco e dominante.

Le conseguenze della guerra sull’economia mondiale

La guerra è un acceleratore di processi che spesso hanno un’origine più lontana e che divengono espliciti e visibili pienamente solo ora, dopo una incubazione più o meno lunga. I processi economici mondiali più importanti in atto sono i seguenti:

1) L’inflazione. La crescita dell’inflazione è cominciata nel 2021, prima della guerra in Ucraina, ed è stata determinata da vari fattori: l’enorme liquidità emessa dalle banche centrali dei Paesi del G7 per combattere la crisi e le strozzature delle linee di rifornimento di componenti e semilavorati dovute alla pandemia. Una volta che i lock down sono finiti e la domanda è ripartita la produzione è risultata inadeguata a soddisfarla, da cui la crescita dei prezzi. Se la guerra non è stata la causa originaria dell’inflazione, è, però, vero che l’ha accentuata. La guerra tra Russia e Occidente, infatti, si combatte anche a livello economico, mediante le sanzioni. Queste hanno determinato il taglio dei rifornimenti di materie prime energetiche dalla Russia verso l’Europa, aumentando i prezzi di petrolio e gas e dando nuova linfa all’inflazione, soprattutto nella Ue, a livelli che non si vedevano dagli anni ‘80.

2) La stagnazione secolare. Il termine di stagnazione secolare, introdotto da Laurence Summers, ex ministro dell’economia di Clinton, si riferisce al fatto che il sistema economico mondiale è entrato, a partire dalla crisi dei sub-prime nel 2007-2008, in una fase di crescita asfittica, al di sotto del potenziale, soprattutto nei paesi avanzati del G7. La guerra ha reso la crescita mondiale ancora più debole, a causa delle sanzioni, della conseguente frammentazione del mercato globale, e soprattutto dell’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali più importanti del mondo, la Fed statunitense e la Bce, che ha penalizzato gli investimenti. L’innalzamento del costo del denaro è stato determinato non solo dal dichiarato tentativo di spegnere la fiammata inflazionistica, ma anche e soprattutto dal tentativo della Fed di rivalutare il dollaro nei confronti dell’euro e di altre valute mondiali. Il Fondo monetario internazionale prevede per il 2023 una crescita del Pil mondiale al 2,8%, che rappresenta il dato più basso dal 1990. Ma la crescita potrebbe, in caso di ulteriori strette monetarie, scendere ancora di più, al 2,5%, colpendo soprattutto i paesi del G7[i]. La stagnazione, inoltre, unita all’inflazione, dà luogo al fenomeno della stagflazione.

3) La de-globalizzazione. La guerra, anche per quanto riguarda i processi di inversione della globalizzazione, ha accentuato una tendenza preesistente, che risale alla presidenza di Trump, che cominciò a introdurre misure protezionistiche. La presidenza Biden ha continuato nella stessa direzione, con una serie di misure che mirano ad accorciare le catene del valore globali e a favorire il rimpatrio delle produzioni più strategiche, come prospetta anche l’Inflation reduction act (Ira), che stanzia oltre 750 miliardi di dollari a favore delle imprese che producono negli Usa. Ad esempio, i produttori di auto elettriche beneficeranno di sussidi ma solo per le auto prodotte negli Usa, penalizzando così specialmente le importazioni dall’Ue, già colpite dall’aumento dei costi di produzione dovuti all’aumento delle materie prime energetiche. La guerra è intervenuta ad accelerare la frammentazione del mercato mondiale. Le sanzioni, infatti, stanno dividendo il mercato mondiale in due blocchi attorno agli Usa e alla Cina. Ad esempio, i produttori di auto europei, che si sono ritirati dalla Russia, sono stati sostituiti da quelli cinesi, che sono arrivati al 30% del mercato, più del triplo della quota detenuta a inizio 2022[ii].

4) La de-dollarizzazione. Il dollaro è la valuta mondiale, essendo usata come riserva dalle banche centrali e come moneta di scambio commerciale internazionale. Il dollaro deve questa posizione al fatto che gli scambi delle materie prime più importanti, come il petrolio, avvengono in dollari. Grazie al dollaro gli Usa possono finanziare il loro enorme doppio deficit, quello commerciale e quello pubblico, e drenare finanziamenti internazionali verso la propria economia. Tuttavia, da alcuni anni il dollaro sta perdendo posizioni, ad esempio la quota delle riserve mondiali in dollari è scesa dal 71% del 1999 al 59% del 2021[iii]. Il fenomeno della sostituzione del dollaro con altre valute è detto de-dollarizzazione. La guerra ha accentuato il processo di de-dollarizzazione dal momento che la Russia ha reindirizzato le esportazioni di materie prime energetiche dall’Ue verso i paesi asiatici, in primis verso la Cina e l’India. L’aspetto più importante è che lo scambio di petrolio e gas russo in queste nuove aree avviene utilizzando valute diverse dal dollaro, come il rublo russo, lo yuan renmimbi cinese e la rupia indiana. Anche altre materie prime sono commercializzate dalla Russia in valute diverse dal dollaro. In particolare, sta crescendo l’importanza dello yuan renmimbi come valuta di scambio e di riserva internazionale, ad esempio Argentina e Brasile recentemente hanno acquisito considerevoli riserve in yuan allo scopo di garantirsi dalle oscillazioni del dollaro.

5) La de-colonizzazione reale. Molti paesi del Terzo mondo, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, si sono emancipati dalla loro condizione di colonie dipendenti dal centro della metropoli imperialista, in particolare dall’Europa. Però, la de-colonizzazione è rimasta allo stadio formale, in quanto le ex colonie hanno continuato a rimanere dipendenti economicamente, in modo forse anche più accentuato, dai paesi europei e dagli Usa. Oggi, si sta definendo una decolonizzazione reale, consistente in una indipendenza economica, favorita dall’attivismo commerciale, finanziario e infrastrutturale della Russia e soprattutto della Cina specialmente nel continente africano. Significative, a questo proposito le parole del ministro ugandese, Sam Kutesa, riferite ai cinesi: “Hanno partecipato alle lotte di liberazione africane, alle guerre anticoloniali e ora ci assistono nella nostra emancipazione economica”.[iv] La decolonizzazione reale è accelerata dalla guerra, ed è strettamente collegata alla de-dollarizzazione. Il processo è visibile nelle ex colonie francesi dell’Africa, che adottano il franco CFA, che è garantito dal Tesoro francese e che permette alla potenza europea di drenare risorse e ricchezze dall’Africa. Il 21 dicembre 2019, però, le ex colonie francesi si sono accordate per l’introduzione al posto del franco CFA di una moneta propria, l’ECO, che dovrebbe essere agganciato allo yuan renmimbi. Inoltre, diversi Paesi africani, come il Burkina Faso, hanno chiesto alla Francia di ritirare le sue truppe che, con la scusa della lotta al jihadismo, erano state dispiegate nelle ex colonie.

Le conseguenze della guerra sugli Usa e sulle Ue

Di particolare interesse è verificare le conseguenze economiche della guerra in termini di vantaggi e svantaggi per quanto riguarda gli Usa e la Ue. Gli Usa ottengono dei vantaggi rilevanti nel breve periodo e dei possibili svantaggi molto importanti nel medio e soprattutto nel lungo periodo. I vantaggi sono i seguenti:

1) Aumento della spesa militare e aumento dei profitti del complesso militare-industriale. Gli Usa stanno contribuendo in modo molto forte al rifornimento di armi e munizioni all’Ucraina. Dei 50 miliardi di armi arrivate fino ad oggi all’Ucraina ben 30 sono stati forniti dagli Usa. Le riserve di armi e munizioni degli Usa si sono assottigliate notevolmente, mettendo in crisi la dottrina militare statunitense che prevede la capacità di condurre due conflitti militari contemporaneamente. Di conseguenza, c’è la necessità di rimpinguare le riserve, aumentando la produzione del complesso militare-industriale. Ad esempio, la produzione di proiettili di artiglieria è aumentata del 500%. Va, inoltre, ricordato che il complesso militare-industriale, ossia l’integrazione tra industria bellica e Forze armate, è un centro di potere fondamentale negli Usa, che influenza notevolmente la politica. Già nel 1961 il presidente Eisenhower aveva avvertito sui pericoli insiti per la democrazia statunitense derivanti dall’integrazione tra industria bellica, Forze armate e potere politico. Il complesso militare-industriale si basa anche sul fatto che il budget militare Usa è di gran lunga il maggiore a livello mondiale, superando quello cumulato dei primi dieci paesi nella classifica mondiale. La guerra in Ucraina ha comportato un ulteriore aumento del budget militare Usa, che nel 2023 raggiungerà gli 858 miliardi di dollari, pari a un più 10% rispetto al 2022. La guerra in Ucraina ha, quindi, beneficiato le imprese belliche statunitensi che hanno visto aumentare le loro quotazioni in borsa spesso di oltre il 10%. Infine, non va dimenticato che l’industria militare è un volano per tutta l’economia statunitense, dato il peso che ricopre e il livello di ricerca tecnologica che determina.

2) Aumento dell’export e dei prezzi di gas e petrolio. Le sanzioni contro la Russia e la conseguente interruzione dei rifornimenti di petrolio e gas verso l’Europa hanno avvantaggiato gli Usa che hanno tratto benefici sia dall’aumento del loro export verso l’Ue sia dall’aumento dei prezzi internazionali. L’Europa è diventata il primo mercato di esportazione statunitense sia per il petrolio sia per il gas. Il boom dell’industria estrattiva statunitense è stato tale che gli Usa sono diventati il primo produttore mondiale di greggio, superando la Russia e l’Arabia Saudita.

3) Apprezzamento del dollaro e direzione dei flussi finanziari dalla Cina e dal resto del mondo verso gli Usa. L’apprezzamento del dollaro, dovuto all’aumento dei tassi d’interesse operato dalla Fed, ha portato all’aumento dei flussi finanziari mondiali verso gli Usa. Gli investitori, in particolare, si stanno volgendo dai titoli di Stato cinesi e di altri Paesi verso quelli statunitensi.

4) Separazione della Russia dalla Germania e dalla Ue. Con la guerra in Ucraina gli Usa hanno ottenuto un importantissimo vantaggio geostrategico, separando la Germania e l’Ue dalla Russia, che precedentemente avevano uno stretto rapporto basato sull’intercambio di materie prime contro prodotti manifatturieri. Inoltre, la Nato, che prima della guerra era in una situazione di “morte cerebrale”, come disse il presidente francese Macron, ora, a seguito del conflitto ucraino, si è ricompattata e ha preso nuova linfa.

A fonte di questi vantaggi a breve termine vanno segnalati due importanti svantaggi a lungo termine per gli Usa, che sono i seguenti:

1) La de-dollarizzazione. Come abbiamo visto sopra, il maggiore pericolo per gli Usa derivato dalla guerra risiede nel fatto che il dollaro venga sostituito da altre valute nella commercializzazione di materie prime fondamentali, a partire dal petrolio. In questo modo, il dollaro rischierebbe di perdere la propria posizione di valuta mondiale, privando l’imperialismo statunitense di un pilastro fondamentale che gli consente di esercitare il dominio a livello mondiale.

2) La costruzione di un fronte internazionale del Sud globale. La guerra ha accelerato la formazione di un fronte del Sud globale, disallineato se non contrapposto all’Occidente. Questo è visibile all’Onu nelle votazioni delle mozioni di condanna della Russia. Nell’ultima votazione di febbraio 2023, 32 paesi si sono astenuti e 7 hanno votato contro. Apparentemente si tratta di una minoranza degli stati mondiali, tuttavia dal punto di vista del numero di abitanti questi paesi rappresentano più della metà della popolazione mondiale, includendo giganti demografici come Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Etiopia, Vietnam, ecc. Il disallineamento dall’Occidente è particolarmente visibile in Africa, dove 17 paesi si sono astenuti, 8 paesi non hanno partecipato al voto e l’Eritrea ha votato contro. La realizzazione di un fronte del Sud globale, diretto dalla Cina, mette in discussione la capacità egemonica degli Usa.

Per quanto riguarda la Ue, la guerra non presenta vantaggi ma solo svantaggi, che sono i seguenti:

1) Aumento dell’inflazione, diminuzione della competitività internazionale, e peggioramento della bilancia commerciale. La Ue è stata colpita in modo particolarmente accentuato dall’inflazione (+10,6% il picco di ottobre 2022 e +9,2% il dato annuale 2022[v]), determinata anche dal venir meno dei rifornimenti di materie prime energetiche russe, sul cui prezzo a buon mercato molti Paesi europei avevano costruito la fortuna del loro export. Quindi, il venir meno del petrolio e soprattutto del gas russo e la sua sostituzione con il molto più costoso gas liquefatto statunitense ha determinato un aumento dei costi di produzione della manifattura europea, che ne hanno diminuito la competitività. Soprattutto, le sanzioni hanno determinato un aumento molto forte del valore delle importazioni di beni energetici, che ha portato all’erosione dei surplus commerciali di Germania e Italia, importanti paesi esportatori di beni manufatti e grandi consumatori di gas russo. La Germania ha più che dimezzato il proprio surplus commerciale, passato dai 215 miliardi di dollari del 2021 agli 84 miliardi di dollari del 2022[vi]. L’Italia, per la prima volta, dopo 10 anni di continui surplus commerciali, ha realizzato un deficit di 31 miliardi di euro nel 2022, a fronte di un surplus di 40,3 miliardi nel 2021. Il deficit italiano dipende quasi interamente dall’aumento dei prezzi delle importazioni energetiche. Infatti, il deficit energetico è più che raddoppiato, passando dai 48,3 miliardi del 2021 ai 111,3 miliardi del 2022, mentre l’avanzo dei prodotti non energetici ha registrato solo una leggera flessione, passando dagli 88,7 miliardi del 2021 agli 80,3 miliardi del 2022[vii].

2) Recessione e difficoltà a far fronte al debito pubblico. La priorità per le banche centrali in questo momento è la lotta all’inflazione, mediante l’aumento dei tassi d’interesse. L’innalzamento di questi ultimi determina una maggiore difficoltà delle banche a fornire prestiti alle imprese, provocando un calo degli investimenti e quindi del Pil, la cui crescita nel 2023, secondo il Fondo monetario internazionale, sarebbe dello 0,8% nell’Eurozona, dello 0,7% in Italia e del -0,1% in Germania[viii]. La caduta del tasso di crescita del Pil aumenta la percentuale del debito sul Pil, mentre l’aumento del costo del denaro aumenta anche l’ammontare degli interessi che devono essere pagati dagli Stati sul proprio debito, rendendo più difficile sostenerlo.

3) Svalutazione dell’euro. L’aumento dei tassi d’interesse negli Usa provoca una svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, che comporta una diminuita capacità di attrazione dei flussi finanziari e degli investimenti internazionali in Europa e nell’area euro in particolare.

4) Dipendenza strategica dagli Usa. La guerra e le sanzioni ad essa collegate hanno creato una maggiore dipendenza economica e politica della Ue e dell’Eurozona dagli Usa non solo per quanto riguarda i rifornimenti di materie prime energetiche ma anche dal punto di vista geopolitico strategico.

Conclusioni: dall’unilateralismo al multipolarismo

Secondo Giovanni Arrighi, lo sviluppo storico del modo di produzione capitalistico è rappresentato da cicli economici secolari in cui una potenza egemonica regola l’accumulazione di capitale[ix]. Ogni ciclo è caratterizzato da due fasi: una di espansione e una di decadenza economica, che vede indebolirsi il potere della potenza egemone. Nella fase di decadenza emergono nuove potenze economiche che sfidano l’egemone. Si tratta di una fase di caos che porta a un confronto militare alla fine del quale il vecchio egemone è sostituito da un nuovo egemone, attorno al quale riprende l’accumulazione di capitale. Oggi, siamo entrati in una fase in cui l’unipolarismo, cioè la capacità degli Usa di imporre la propria volontà a livello mondiale si è indebolita ed emergono nuove potenze, come la Cina. Quest’ultima però non ha l’intenzione (e non è ancora in grado) di rappresentare una alternativa complessiva agli Usa. Neanche lo yuan è, per ora, in grado di sostituire il dollaro.

Quello a cui stiamo assistendo è il superamento dell’unipolarismo. A questo proposito, sono interessanti le parole di Christine Lagarde, presidente della Bce: “Stiamo assistendo a una frammentazione dell’economia globale in blocchi in competizione tra loro... guidati rispettivamente dalle due maggiori economie del mondo”.[x] Per la verità, a nostro avviso, siamo appena all’inizio della formazione di un bipolarismo, cioè di due blocchi contrapposti, anche se la strada intrapresa dal mondo potrebbe andare in quella direzione. Ma c’è anche la possibilità della creazione di una situazione basata sull’esistenza di più poli contemporaneamente, cioè un effettivo multipolarismo, come dichiara di voler fare la Cina.

Ad ogni modo, obiettivo della guerra in corso è la difesa dell’egemonia mondiale degli Usa e della capacità del dollaro di funzionare come valuta mondiale. A questo proposito, per le ragioni che abbiamo detto sopra, gli Usa hanno realizzato una vittoria tattica, rafforzando la Nato ed il potere del dollaro. Ma quelle stesse azioni che determinano il successo di breve periodo, costruiscono sul lungo periodo le condizioni per un possibile insuccesso strategico degli Usa. La de-dollarizzazione, la de-colonizzazione reale e la costruzione di un fronte del Sud globale rappresentano le più importanti di tali condizioni.

Note

[i] Gianluca di Donfrancesco, “Fmi: crescita mondiale più debole dal 1990”, Il Sole24ore, 12 aprile 2023.

[ii] Diego Longhin, “Le mani della Cina sulle auto made in Russia”, Affari e Finanza – la Repubblica, 27 marzo 2023.

[iii] International Monetary Fund, The stealth erosion of dollar dominance, 24 march 2022. https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2022/03/24/The-Stealth-Erosion-of-Dollar-Dominance-Active-Diversifiers-and-the-Rise-of-Nontraditional-515150

[iv] Alessandra Colarizi, Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro, L’asino d’oro edizioni, Roma 2022, pag.81.

[v] Eurostat, Flash estimate – February 2023.

[vi] Unctad, data centre.

[vii] Istat, Commercio con l’estero e prezzi all’import – dicembre 2022, 16 febbraio 2023.

[viii] Gianluca di Donfrancesco, op.cit.

[ix] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 2033.

[x] Isabella Bufacchi, “La frammentazione dell’economia fa aumentare i prezzi”, Il Sole 24 ore, 18 aprile 2023. Posted in Economia e LavoroTagged Brics, Cina, de-dollarizzazione, de-globalizzazione, decolonizzazione, Franco Cfa, G7, inflazione, stagnazione secolare

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