30/11/2024
Siria - La nuova offensiva jihadista al momento è più lesiva degli interessi iraniani che russi
di Francesco Dall'Aglio
Ieri notte avevo pubblicato la foto di un gruppo di miliziani dell’HTS davanti alla cittadella di Aleppo, che testimoniava come le cose stessero prendendo una piega preoccupante per il governo siriano, oltre che per la città, naturalmente. Oggi pubblico altre due foto (la seconda è lievemente più preoccupante della prima) prese invece oggi, a testimonianza del fatto che non si è trattato di un’incursione isolata ma che il centro della città, e buona parte di tutto l’abitato, è nelle mani dei miliziani che poco fa hanno preso il controllo anche dell’aeroporto. Pare chiaro che l’esercito siriano non solo non ha preso nessun precauzione difensiva negli ultimi anni, dopo la stipula del cessate il fuoco nel 2020, ma non ha opposto alcun tipo di resistenza e continua a ritirarsi verso est; nemmeno l’intervento delle milizie curde, che stamattina avevano pubblicato filmati piuttosto bellicosi del loro arrivo all’aeroporto, è servito a bloccare l’avanzata delle truppe dell’HTS.
Non è chiaro quanto e se le milizie potranno resistere a un contrattacco concertato, dato che non hanno armamento pesante tranne quello che hanno catturato, ma è chiaro che senza il contributo russo e soprattutto (per le regioni del governatorato di Idlib e di Aleppo) iraniano, segnatamente di Hezbollah, nessuna difesa può evidentemente essere messa in piedi, stante l’incapacità o la mancanza di volontà delle truppe siriane di organizzarla, e di contrattacchi non c’è nemmeno da pensare. Non si sa se e quanti soldati di Hezbollah arriveranno in Siria, e quando; per quanto riguarda i russi, non penso proprio intendano inviare truppe di terra. Continuano a martellare le milizie con l’aviazione, come testimoniato da parecchi video abbastanza raccapriccianti diffusi dagli stessi miliziani, ma tranne qualche piccolo gruppo di forze speciali sul terreno, in quella zona, non hanno nessuno e non ce lo manderanno. Del resto le aree sotto diretto controllo russo sono lontane dalla zona dei combattimenti e non pare molto probabile che l’HTS intenda agire direttamente contro gli interessi russi. Contro quelli iraniani, invece, è ovviamente un’altra storia: l’operazione è diretta contro di loro più che contro Mosca, che comunque si trova coinvolta in una situazione complessa e pericolosa della quale avrebbe molto volentieri fatto a meno. Lavrov è stato impegnato in lunghe consultazioni telefoniche con i suoi omologhi iraniano e turco; la Turchia, a sua volta, nega di essere implicata nell’avanzata dei miliziani e si dice anch’essa preoccupata, ma probabilmente più dei vantaggi che i curdi potrebbero eventualmente ottenere che dell’avanzata dell’HTS.
Fonte e foto
Ieri notte avevo pubblicato la foto di un gruppo di miliziani dell’HTS davanti alla cittadella di Aleppo, che testimoniava come le cose stessero prendendo una piega preoccupante per il governo siriano, oltre che per la città, naturalmente. Oggi pubblico altre due foto (la seconda è lievemente più preoccupante della prima) prese invece oggi, a testimonianza del fatto che non si è trattato di un’incursione isolata ma che il centro della città, e buona parte di tutto l’abitato, è nelle mani dei miliziani che poco fa hanno preso il controllo anche dell’aeroporto. Pare chiaro che l’esercito siriano non solo non ha preso nessun precauzione difensiva negli ultimi anni, dopo la stipula del cessate il fuoco nel 2020, ma non ha opposto alcun tipo di resistenza e continua a ritirarsi verso est; nemmeno l’intervento delle milizie curde, che stamattina avevano pubblicato filmati piuttosto bellicosi del loro arrivo all’aeroporto, è servito a bloccare l’avanzata delle truppe dell’HTS.
Non è chiaro quanto e se le milizie potranno resistere a un contrattacco concertato, dato che non hanno armamento pesante tranne quello che hanno catturato, ma è chiaro che senza il contributo russo e soprattutto (per le regioni del governatorato di Idlib e di Aleppo) iraniano, segnatamente di Hezbollah, nessuna difesa può evidentemente essere messa in piedi, stante l’incapacità o la mancanza di volontà delle truppe siriane di organizzarla, e di contrattacchi non c’è nemmeno da pensare. Non si sa se e quanti soldati di Hezbollah arriveranno in Siria, e quando; per quanto riguarda i russi, non penso proprio intendano inviare truppe di terra. Continuano a martellare le milizie con l’aviazione, come testimoniato da parecchi video abbastanza raccapriccianti diffusi dagli stessi miliziani, ma tranne qualche piccolo gruppo di forze speciali sul terreno, in quella zona, non hanno nessuno e non ce lo manderanno. Del resto le aree sotto diretto controllo russo sono lontane dalla zona dei combattimenti e non pare molto probabile che l’HTS intenda agire direttamente contro gli interessi russi. Contro quelli iraniani, invece, è ovviamente un’altra storia: l’operazione è diretta contro di loro più che contro Mosca, che comunque si trova coinvolta in una situazione complessa e pericolosa della quale avrebbe molto volentieri fatto a meno. Lavrov è stato impegnato in lunghe consultazioni telefoniche con i suoi omologhi iraniano e turco; la Turchia, a sua volta, nega di essere implicata nell’avanzata dei miliziani e si dice anch’essa preoccupata, ma probabilmente più dei vantaggi che i curdi potrebbero eventualmente ottenere che dell’avanzata dell’HTS.
Fonte e foto
Francia estromessa anche da Ciad e Senegal
Il 28 novembre diverrà una giornata per certi versi periodizzante per la fine del dominio occidentale in Africa.
Le truppe francesi – dopo essere state cacciate grazie ai colpi di Stato dei “militari patriottici” in Mali, Burkina Faso e Niger, fortemente sostenuti dalla popolazione e poi unitisi nell’Alleanza degli Stati del Sahel – dovranno fare letteralmente “armi e bagagli” e sloggiare sia dal Ciad che dal Senegal.
L’annuncio, per quanto riguarda il Ciad, è stato dato – senza specificare le tempistiche della partenza dei militari francesi – attraverso un comunicato ufficiale questo giovedì in cui viene espressamente messa nero su bianco la volontà di mettere fine agli accordi militari con Parigi che sembra non sia stata preventivamente informata della decisione.
Un vero e proprio schiaffo in faccia alla Francia che aveva nel Ciad uno dei suoi ultimi perni nell’area ed aveva taciuto sulle criticità del processo di transizione militare triennale che ha portato alla presidenza Mahamat Idriss Déby, che era capo di quella giunta, dopo la morte in combattimento del presidente precedente, padre del nuovo presidente eletto a maggio di quest’anno.
L’aiuto militare di Parigi era stato fondamentale alla classe dirigente ciadiana per respingere l’insorgenza dei “ribelli” in due occasioni: nel 2008 e nel 2019. Ed il legame con la Francia era stato un’assicurazione sulla vita per uno dei regimi più inclini ad assecondare la strategia dell’Africa Francese anche durante gli anni della transizione.
Andando ancora indietro, bisogna ricordare che il Ciad è il paese che ha avuto il più gran numero di operazioni francesi sul suo territorio dai tempi dell’indipendenza, in cui fu amministrato per i primi 5 anni dall’esercito francese: “Limousin” (1969-1971) e “Epervier” (1986-2014).
Per questo Parigi aveva sempre tenuto un “bassissimo” profilo anche quando, in piena campagna elettorale presidenziale, era stato assassinato il capo dell’opposizione nella sede della propria formazione politica con una operazione di tipo militare da parte dell’esercito.
E pensare che il 4 ottobre Macron e Déby si erano visti all’Eliseo, e si erano pubblicamente accordati per rafforzare la propria cooperazione bilaterale a livello economico, militare e culturale.
Parigi aveva annunciato di voler ridimensionare il suo contingente di un migliaio di militari, ma non la loro partenza, come ora chiede ufficialmente il Ministro degli Esteri proprio il giorno del 66simo anniversario dell’indipendenza.
Non si tratta di una rottura netta con Parigi e si lascia la porta aperta ad un “dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partnership” – come recita il comunicato – ma ormai il paese ha una pluralità di partner con cui ha intensificato gli scambi, come la Turchia, l’Ungheria e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti; deve inoltre affrontare le difficili conseguenze della guerra in Sudan e la minaccia terrorista di Boko Haram.
Inoltre l’attuale uomo forte del Ciad ha caratterizzato i propri discorsi in senso “sovranista”, non nascondendo le critiche alla Francia, per cercare di guadagnare il consenso di un’opinione pubblica che vede con grande ostilità la presenza militare francese sul proprio territorio.
Recentemente, al ritorno dal suo viaggio in Africa, Jean-Marie Bockel, inviato personale del presidente francese nel continente – nonché ex segretario di stato alla cooperazione durante la presidenza Sarkozy (2007-2012) – aveva formalizzato questa settimana al presidente francese (senza che fosse reso pubblico) il piano di ridimensionamento dell’impegno militare transalpino in Africa.
Una fonte militare confidenziale dell’AFP aveva rivelato che, nei piani di Parigi, il progetto mirava a conservare un centinaio di militari in Gabon (contro i precedenti 350), così come in Senegal (contro 350 attuali) ed in Costa d’Avorio (contro i 600 di oggi), oltre a circa trecento in Ciad.
“Wishfull thinking”, si direbbe.
Ma, come abbiamo scritto all’inizio dell’articolo, la partenza dal Ciad non è stata l’unica cattiva notizia per Parigi.
In un’intervista ufficiale a “Le Monde” il neo-eletto presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, in quella che probabilmente era stata pensata come occasione di discussione sul “massacro di Thiaroye” – avvenuto il primo dicembre del 1944 nei confronti dei soldati senegalesi che avevano combattuto per la “Francia Libera”, ammesso solo da poco come tale da Parigi – è stato più che esplicito rispetto alla prossima partenza delle truppe francesi.
Riportiamo integralmente la risposta al giornalista che chiede se la presenza di militari francesi mini oppure no la sovranità senegalese:
“Quanti soldati senegalesi ci sono in Francia? Perché ci dovrebbero essere soldati francesi in Senegal? Perché deve competere al Signor M. Bockel od ad un altro francese decidere che, in un paese sovrano e indipendente, bisognerebbe mantenere 100 soldati? Questo non corrisponde alla nostra concezione della sovranità e dell’indipendenza. Bisogna rovesciare i ruoli (...) sia che i francesi l’accettino o meno”.
Parole come pietre da parte dei uno dei leader della coalizione pan-africanista che ha vinto le elezioni presidenziali, otto mesi fa, e che nelle elezioni politiche anticipate del 17 novembre ha fatto incetta di voti ottenendo una maggioranza schiacciante, conquistando 130 seggi su 165.
Questo successo ha posto fine alla difficile coabitazione tra l’ex maggioranza eletta nel 2022, fedele al presidente uscente Macky Sall – la cui formazione ha ottenuto ora solo 16 deputati – ed alla possibilità di realizzare il proprio programma “di rottura” da parte del governo, con a capo l’ex prigioniero politico Sanko.
Sall, che ha governato il Paese dal 2012 al 2024, e che ha gestito la sua campagna elettorale dal Marocco attraverso messaggi “Whatsapp”, dovrà rispondere anche a livello giudiziario all’Alta Corte di Giustizia dell’edificazione di un sistema il cui principale beneficiario, a parte una ristretta élite a lui legata, era la Francia stessa, ora derubricata a partner come gli altri.
Se il progetto della FrançeAfrique è ormai al tramonto, lo è anche quello dell’Unione Europea che ha considerato il continente il proprio “cortile di casa”, trattandolo come una “periferia integrata” colonizzata dal proprio polo imperialista in formazione.
Il “mancato” intervento militare in Niger da parte della CEDEAO/ECOWAS, dopo il colpo di Stato in Niger che la Francia avrebbe fortemente voluto, aveva suonato le campane a morte per le aspirazioni francesi in Sahel.
Questo doppio “scacco matto alla Francia” è duro colpo per Parigi e per Bruxelles – ed in generale per il blocco euro-atlantico – ed un ottima notizia per la nuova alba dei popoli africani contro il giogo neo-colonialista che prende forma nel mondo multipolare.
Fonte
Le truppe francesi – dopo essere state cacciate grazie ai colpi di Stato dei “militari patriottici” in Mali, Burkina Faso e Niger, fortemente sostenuti dalla popolazione e poi unitisi nell’Alleanza degli Stati del Sahel – dovranno fare letteralmente “armi e bagagli” e sloggiare sia dal Ciad che dal Senegal.
L’annuncio, per quanto riguarda il Ciad, è stato dato – senza specificare le tempistiche della partenza dei militari francesi – attraverso un comunicato ufficiale questo giovedì in cui viene espressamente messa nero su bianco la volontà di mettere fine agli accordi militari con Parigi che sembra non sia stata preventivamente informata della decisione.
Un vero e proprio schiaffo in faccia alla Francia che aveva nel Ciad uno dei suoi ultimi perni nell’area ed aveva taciuto sulle criticità del processo di transizione militare triennale che ha portato alla presidenza Mahamat Idriss Déby, che era capo di quella giunta, dopo la morte in combattimento del presidente precedente, padre del nuovo presidente eletto a maggio di quest’anno.
L’aiuto militare di Parigi era stato fondamentale alla classe dirigente ciadiana per respingere l’insorgenza dei “ribelli” in due occasioni: nel 2008 e nel 2019. Ed il legame con la Francia era stato un’assicurazione sulla vita per uno dei regimi più inclini ad assecondare la strategia dell’Africa Francese anche durante gli anni della transizione.
Andando ancora indietro, bisogna ricordare che il Ciad è il paese che ha avuto il più gran numero di operazioni francesi sul suo territorio dai tempi dell’indipendenza, in cui fu amministrato per i primi 5 anni dall’esercito francese: “Limousin” (1969-1971) e “Epervier” (1986-2014).
Per questo Parigi aveva sempre tenuto un “bassissimo” profilo anche quando, in piena campagna elettorale presidenziale, era stato assassinato il capo dell’opposizione nella sede della propria formazione politica con una operazione di tipo militare da parte dell’esercito.
E pensare che il 4 ottobre Macron e Déby si erano visti all’Eliseo, e si erano pubblicamente accordati per rafforzare la propria cooperazione bilaterale a livello economico, militare e culturale.
Parigi aveva annunciato di voler ridimensionare il suo contingente di un migliaio di militari, ma non la loro partenza, come ora chiede ufficialmente il Ministro degli Esteri proprio il giorno del 66simo anniversario dell’indipendenza.
Non si tratta di una rottura netta con Parigi e si lascia la porta aperta ad un “dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partnership” – come recita il comunicato – ma ormai il paese ha una pluralità di partner con cui ha intensificato gli scambi, come la Turchia, l’Ungheria e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti; deve inoltre affrontare le difficili conseguenze della guerra in Sudan e la minaccia terrorista di Boko Haram.
Inoltre l’attuale uomo forte del Ciad ha caratterizzato i propri discorsi in senso “sovranista”, non nascondendo le critiche alla Francia, per cercare di guadagnare il consenso di un’opinione pubblica che vede con grande ostilità la presenza militare francese sul proprio territorio.
Recentemente, al ritorno dal suo viaggio in Africa, Jean-Marie Bockel, inviato personale del presidente francese nel continente – nonché ex segretario di stato alla cooperazione durante la presidenza Sarkozy (2007-2012) – aveva formalizzato questa settimana al presidente francese (senza che fosse reso pubblico) il piano di ridimensionamento dell’impegno militare transalpino in Africa.
Una fonte militare confidenziale dell’AFP aveva rivelato che, nei piani di Parigi, il progetto mirava a conservare un centinaio di militari in Gabon (contro i precedenti 350), così come in Senegal (contro 350 attuali) ed in Costa d’Avorio (contro i 600 di oggi), oltre a circa trecento in Ciad.
“Wishfull thinking”, si direbbe.
Ma, come abbiamo scritto all’inizio dell’articolo, la partenza dal Ciad non è stata l’unica cattiva notizia per Parigi.
In un’intervista ufficiale a “Le Monde” il neo-eletto presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, in quella che probabilmente era stata pensata come occasione di discussione sul “massacro di Thiaroye” – avvenuto il primo dicembre del 1944 nei confronti dei soldati senegalesi che avevano combattuto per la “Francia Libera”, ammesso solo da poco come tale da Parigi – è stato più che esplicito rispetto alla prossima partenza delle truppe francesi.
Riportiamo integralmente la risposta al giornalista che chiede se la presenza di militari francesi mini oppure no la sovranità senegalese:
“Quanti soldati senegalesi ci sono in Francia? Perché ci dovrebbero essere soldati francesi in Senegal? Perché deve competere al Signor M. Bockel od ad un altro francese decidere che, in un paese sovrano e indipendente, bisognerebbe mantenere 100 soldati? Questo non corrisponde alla nostra concezione della sovranità e dell’indipendenza. Bisogna rovesciare i ruoli (...) sia che i francesi l’accettino o meno”.
Parole come pietre da parte dei uno dei leader della coalizione pan-africanista che ha vinto le elezioni presidenziali, otto mesi fa, e che nelle elezioni politiche anticipate del 17 novembre ha fatto incetta di voti ottenendo una maggioranza schiacciante, conquistando 130 seggi su 165.
Questo successo ha posto fine alla difficile coabitazione tra l’ex maggioranza eletta nel 2022, fedele al presidente uscente Macky Sall – la cui formazione ha ottenuto ora solo 16 deputati – ed alla possibilità di realizzare il proprio programma “di rottura” da parte del governo, con a capo l’ex prigioniero politico Sanko.
Sall, che ha governato il Paese dal 2012 al 2024, e che ha gestito la sua campagna elettorale dal Marocco attraverso messaggi “Whatsapp”, dovrà rispondere anche a livello giudiziario all’Alta Corte di Giustizia dell’edificazione di un sistema il cui principale beneficiario, a parte una ristretta élite a lui legata, era la Francia stessa, ora derubricata a partner come gli altri.
Se il progetto della FrançeAfrique è ormai al tramonto, lo è anche quello dell’Unione Europea che ha considerato il continente il proprio “cortile di casa”, trattandolo come una “periferia integrata” colonizzata dal proprio polo imperialista in formazione.
Il “mancato” intervento militare in Niger da parte della CEDEAO/ECOWAS, dopo il colpo di Stato in Niger che la Francia avrebbe fortemente voluto, aveva suonato le campane a morte per le aspirazioni francesi in Sahel.
Questo doppio “scacco matto alla Francia” è duro colpo per Parigi e per Bruxelles – ed in generale per il blocco euro-atlantico – ed un ottima notizia per la nuova alba dei popoli africani contro il giogo neo-colonialista che prende forma nel mondo multipolare.
Fonte
Il genocidio c’è, anche se non piace a Liliana Segre
Ne avremmo fatto volentieri a meno, perché sappiamo bene che confutare Liliana Segre su un tema come la definizione di “genocidio” è, mediaticamente, come tuffarsi all’Inferno sperando di uscirne senza scottature.
La senatrice è stata da bambina una dei milioni di ebrei mandati nei campi di sterminio – Auschwitz, nel suo caso – uscendone viva ma certamente segnata per sempre. L’autorevolezza della sua testimonianza in proposito è, per qualunque essere umano, giustamente indiscutibile.
Ma il testo che ha consegnato al Corriere della Sera del 29 novembre è tutt’altra cosa. È un tentativo – non solo suo, ma dell’intero arco sionista – di mettere una lapide sulla questione (tra l’altro all’esame della Corte internazionale di Giustizia, che l’ha assunta giudicando l’accusa “plausibile”) e consegnare alla riprovazione universale quanti, altrettanto giustamente, insistono nel chiamare col suo nome quel che Israele sta facendo a Gaza: genocidio.
Dunque non può esser fatto passare sotto silenzio, girandosi dall’altra parte. La senatrice scrive infatti:
a) la “programmata e tentata eliminazione completa di un gruppo sociale o di un’etnia” implicherebbe un impegno “industriale” e logistico piuttosto intenso, tanto da
b) perseguire con molta determinazione questo obiettivo, al punto da “sottrarre uomini e mezzi allo sforzo bellico” (e quindi essere “disfunzionale” rispetto ad una guerra in corso).
Stabiliti questi “punti caratteristici” la conclusione è obbligata. Solo i nazisti tedeschi (con la complicità servile dei fascisti italiani, di cui sopravvive ancora “la fiamma” in qualche simbolo) concepirono un piano così infame e disumano, utilizzando inoltre risorse che sarebbe state più utili altrove.
Quindi solo quello sugli ebrei potrebbe essere propriamente chiamato “genocidio” (gli altri esempi citati – in cui la “programmazione” è quanto meno problematica, se non del tutto assente – sembrano decisamente una concessione al mainstream...).
Tutti gli altri massacri, compresa l’azione dell’Idf a Gaza e le azioni di Hamas e Jihad possono invece essere classificate – secondo Liliana Segre – come semplici (si fa per dire) “crimini di guerra”.
Cosa c’è di sbagliato?
Una sola cosa: quei “due punti” non sono la definizione di “genocidio” riconosciuta dalla comunità internazionale al completo, riunita nell’Onu, fin dal 1948. Non sono insomma per niente “generalmente riconosciuti”, ma anche molto diversi da quelli approvati con Convenzione internazionale.
Liliana Segre, da sola o supportata da qualche consulente storico-legale, ha insomma prodotto una definizione di parte e arbitraria di un crimine universale, che sembra avere l’unico scopo – esplicito, nell’articolo – di inibire l’uso pubblico della parola “genocidio” in riferimento alle azioni di Israele a Gaza da oltre un anno.
Ognuno può autonomamente dare un giudizio sull’operazione “linguistica” – il nostro è ovviamente pessimo – consultando la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
Nella quale possiamo leggere, all’Articolo I, “Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire.”
Le “parti contraenti” sono ovviamente gli Stati che hanno sottoscritto questa Convenzione. Tra i quali c’è anche Israele, che ha presentato allora alcune “riserve e dichiarazioni”, peraltro senza effetti pratici. Dunque, perché inventarsi una diversa tipizzazione del crimine di genocidio?
Ma il punto fondamentale è che si può parlare di “genocidio” sia in pace che in guerra (“sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra”), demolendo così quasi totalmente il “secondo punto” esposto/posto da Segre (“l’assenza di rapporto funzionale con una guerra”).
A voler essere precisi, sembra proprio che per la senatrice questo punto sia funzionale – in questo caso, sì – alla possibilità di escludere dal novero dei possibili genocidi tutti i massacri, ancorché di dimensioni colossali, commessi durante una guerra, come conseguenza diretta e intenzionale di un certo tipo di operazioni militari. A Gaza, per esempio...
La motivazione giuridica da lei proposta, infatti, sembra traducibile come “ci sono stati tantissimi morti, è vero, molti dei quali completamente immotivati dal punto di vista militare” (i civili, le donne, i bambini), “ma in guerra succede sempre...”.
Si potrebbe anche dire, secondo questo argomentare: se non ci sono i campi di sterminio con le camere a gas, allora “non c’è genocidio”, anche se all’atto pratico vengono uccisi quasi tutti.
Andiamo avanti, perché l’Articolo II della Convenzione espone con estrema chiarezza quali sono i “cinque punti” – cinque, non “due” – che consentono di chiamare genocidio una serie di “pratiche” e perseguire per questo chiunque ne metta in atto anche soltanto una.
Che le “lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo” siano prassi quotidiana, sia a Gaza che in Cisgiordania, per non dire delle prigioni israeliane… altrettanto.
Anche il “sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale” è testimoniato ogni giorno da medici internazionali, agenzie umanitarie dell’Onu, ong, chiunque... Se non puoi mangiare è certo che morirai, anche quando non ti sparo. E che questa sia l’intenzione di Israele che motiva molte delle sue azioni sui gazawi, tra cui gli impedimenti frapposti agli aiuti umanitari, è ammesso pubblicamente anche da generali e ministri di Tel Aviv.
Difficile anche confutare che l’Idf stia cercando di utilizzare la fame come arma di guerra, per costringere i palestinesi a lasciare definitivamente la loro terra (ci vivono da 5.000 anni, anche se non gliel’ha promessa “dio attraverso Abramo”).
L’unico crimine genocidario che Israele non ha commesso è probabilmente il quinto (“trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”), ma qui sembra incidere molto la “trasmissione matrilineare” dell’appartenenza al popolo ebraico e il per nulla nascosto razzismo nei confronti degli “arabi”, a prescindere dall’età.
L’elenco delle caratteristiche essenziali di un genocidio è breve, semplice, facile da memorizzare, privo di arzigogoli e commi da leguleio, condiviso da quasi 80 anni da tutti i paesi del mondo. Ripetiamo: perché, dunque, la senatrice Segre – e i pessimi redattori del Corriere, che “corroborano” l’articolo con considerazioni acritiche di supporto – ha sentito il bisogno di inventare una definizione diversa?
Un crimine così grave, ignobile, inumano, orrendo, non è un “affare privato”. Né dei singoli esseri umani, né di singoli popoli, e neanche di gruppi di popoli. La definizione e il consenso può essere solo universale. Può e deve essere riconoscibile per le vittime e i colpevoli, i testimoni e i giudici. Deve valere per il passato, il presente e il futuro.
Non può essere lasciato alla “libera opinione”, perché è chiaro che qualsiasi genocida – presente o futuro – tenderà a darne una definizione che lo esclude, che ne minimizza la colpevolezza. O magari ne esalta la necessità (tipo “Israele ha diritto di difendersi”… anche col genocidio dei palestinesi).
La definizione data dall’Onu nel 1948 è oltretutto una definizione “a caldo”, sotto l’enorme impressione della scoperta dei campi di sterminio. E proprio di Auschwitz, in primo luogo. È insomma una definizione che risente molto – e giustamente – dell’orrore suscitato dall’Olocausto in tutta l’umanità.
Ma neanche una vittima dell’Olocausto può arrogarsi il diritto di non riconoscere i criteri fondamentali per riconoscere gli Olocausti del presente e del futuro. Un grande studioso del tema, correligionario ed israeliano, ne ha tratto una conclusione decisamente più onesta. Opposta alla sua.
Neanche una vittima dell’Olocausto può insomma pensare di sminuire o difendere il genocidio cui stiamo assistendo in diretta.
Il che lo rende – se possibile – ancora più grave, perché nessuno dei responsabili o dei testimoni passivi, a partire ovviamente dall’attuale governo e dallo stato maggiore di Israele fino ad arrivare ai nostri “giornalisti”, potrà dire “non sapevo” oppure “ho solo obbedito agli ordini”.
Fonte
La senatrice è stata da bambina una dei milioni di ebrei mandati nei campi di sterminio – Auschwitz, nel suo caso – uscendone viva ma certamente segnata per sempre. L’autorevolezza della sua testimonianza in proposito è, per qualunque essere umano, giustamente indiscutibile.
Ma il testo che ha consegnato al Corriere della Sera del 29 novembre è tutt’altra cosa. È un tentativo – non solo suo, ma dell’intero arco sionista – di mettere una lapide sulla questione (tra l’altro all’esame della Corte internazionale di Giustizia, che l’ha assunta giudicando l’accusa “plausibile”) e consegnare alla riprovazione universale quanti, altrettanto giustamente, insistono nel chiamare col suo nome quel che Israele sta facendo a Gaza: genocidio.
Dunque non può esser fatto passare sotto silenzio, girandosi dall’altra parte. La senatrice scrive infatti:
“Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano.Tutto chiaro? Sottolineiamo i due punti:
I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due: uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra.
Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.”
a) la “programmata e tentata eliminazione completa di un gruppo sociale o di un’etnia” implicherebbe un impegno “industriale” e logistico piuttosto intenso, tanto da
b) perseguire con molta determinazione questo obiettivo, al punto da “sottrarre uomini e mezzi allo sforzo bellico” (e quindi essere “disfunzionale” rispetto ad una guerra in corso).
Stabiliti questi “punti caratteristici” la conclusione è obbligata. Solo i nazisti tedeschi (con la complicità servile dei fascisti italiani, di cui sopravvive ancora “la fiamma” in qualche simbolo) concepirono un piano così infame e disumano, utilizzando inoltre risorse che sarebbe state più utili altrove.
Quindi solo quello sugli ebrei potrebbe essere propriamente chiamato “genocidio” (gli altri esempi citati – in cui la “programmazione” è quanto meno problematica, se non del tutto assente – sembrano decisamente una concessione al mainstream...).
Tutti gli altri massacri, compresa l’azione dell’Idf a Gaza e le azioni di Hamas e Jihad possono invece essere classificate – secondo Liliana Segre – come semplici (si fa per dire) “crimini di guerra”.
Cosa c’è di sbagliato?
Una sola cosa: quei “due punti” non sono la definizione di “genocidio” riconosciuta dalla comunità internazionale al completo, riunita nell’Onu, fin dal 1948. Non sono insomma per niente “generalmente riconosciuti”, ma anche molto diversi da quelli approvati con Convenzione internazionale.
Liliana Segre, da sola o supportata da qualche consulente storico-legale, ha insomma prodotto una definizione di parte e arbitraria di un crimine universale, che sembra avere l’unico scopo – esplicito, nell’articolo – di inibire l’uso pubblico della parola “genocidio” in riferimento alle azioni di Israele a Gaza da oltre un anno.
Ognuno può autonomamente dare un giudizio sull’operazione “linguistica” – il nostro è ovviamente pessimo – consultando la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
Nella quale possiamo leggere, all’Articolo I, “Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire.”
Le “parti contraenti” sono ovviamente gli Stati che hanno sottoscritto questa Convenzione. Tra i quali c’è anche Israele, che ha presentato allora alcune “riserve e dichiarazioni”, peraltro senza effetti pratici. Dunque, perché inventarsi una diversa tipizzazione del crimine di genocidio?
Ma il punto fondamentale è che si può parlare di “genocidio” sia in pace che in guerra (“sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra”), demolendo così quasi totalmente il “secondo punto” esposto/posto da Segre (“l’assenza di rapporto funzionale con una guerra”).
A voler essere precisi, sembra proprio che per la senatrice questo punto sia funzionale – in questo caso, sì – alla possibilità di escludere dal novero dei possibili genocidi tutti i massacri, ancorché di dimensioni colossali, commessi durante una guerra, come conseguenza diretta e intenzionale di un certo tipo di operazioni militari. A Gaza, per esempio...
La motivazione giuridica da lei proposta, infatti, sembra traducibile come “ci sono stati tantissimi morti, è vero, molti dei quali completamente immotivati dal punto di vista militare” (i civili, le donne, i bambini), “ma in guerra succede sempre...”.
Si potrebbe anche dire, secondo questo argomentare: se non ci sono i campi di sterminio con le camere a gas, allora “non c’è genocidio”, anche se all’atto pratico vengono uccisi quasi tutti.
Andiamo avanti, perché l’Articolo II della Convenzione espone con estrema chiarezza quali sono i “cinque punti” – cinque, non “due” – che consentono di chiamare genocidio una serie di “pratiche” e perseguire per questo chiunque ne metta in atto anche soltanto una.
“Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:Che i palestinesi di ogni età, sesso, condizione sociale, religione (tra loro sono molti anche i cristiani, ricordiamo solo noi atei), vengano uccisi “all’ingrosso”, sia tramite bombardamenti che con i cecchini, è così ampiamente documentato che risulta difficile persino far finta di niente (“crimini di guerra”, direbbe però Segre).
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
Che le “lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo” siano prassi quotidiana, sia a Gaza che in Cisgiordania, per non dire delle prigioni israeliane… altrettanto.
Anche il “sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale” è testimoniato ogni giorno da medici internazionali, agenzie umanitarie dell’Onu, ong, chiunque... Se non puoi mangiare è certo che morirai, anche quando non ti sparo. E che questa sia l’intenzione di Israele che motiva molte delle sue azioni sui gazawi, tra cui gli impedimenti frapposti agli aiuti umanitari, è ammesso pubblicamente anche da generali e ministri di Tel Aviv.
Difficile anche confutare che l’Idf stia cercando di utilizzare la fame come arma di guerra, per costringere i palestinesi a lasciare definitivamente la loro terra (ci vivono da 5.000 anni, anche se non gliel’ha promessa “dio attraverso Abramo”).
L’unico crimine genocidario che Israele non ha commesso è probabilmente il quinto (“trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”), ma qui sembra incidere molto la “trasmissione matrilineare” dell’appartenenza al popolo ebraico e il per nulla nascosto razzismo nei confronti degli “arabi”, a prescindere dall’età.
L’elenco delle caratteristiche essenziali di un genocidio è breve, semplice, facile da memorizzare, privo di arzigogoli e commi da leguleio, condiviso da quasi 80 anni da tutti i paesi del mondo. Ripetiamo: perché, dunque, la senatrice Segre – e i pessimi redattori del Corriere, che “corroborano” l’articolo con considerazioni acritiche di supporto – ha sentito il bisogno di inventare una definizione diversa?
Un crimine così grave, ignobile, inumano, orrendo, non è un “affare privato”. Né dei singoli esseri umani, né di singoli popoli, e neanche di gruppi di popoli. La definizione e il consenso può essere solo universale. Può e deve essere riconoscibile per le vittime e i colpevoli, i testimoni e i giudici. Deve valere per il passato, il presente e il futuro.
Non può essere lasciato alla “libera opinione”, perché è chiaro che qualsiasi genocida – presente o futuro – tenderà a darne una definizione che lo esclude, che ne minimizza la colpevolezza. O magari ne esalta la necessità (tipo “Israele ha diritto di difendersi”… anche col genocidio dei palestinesi).
La definizione data dall’Onu nel 1948 è oltretutto una definizione “a caldo”, sotto l’enorme impressione della scoperta dei campi di sterminio. E proprio di Auschwitz, in primo luogo. È insomma una definizione che risente molto – e giustamente – dell’orrore suscitato dall’Olocausto in tutta l’umanità.
Ma neanche una vittima dell’Olocausto può arrogarsi il diritto di non riconoscere i criteri fondamentali per riconoscere gli Olocausti del presente e del futuro. Un grande studioso del tema, correligionario ed israeliano, ne ha tratto una conclusione decisamente più onesta. Opposta alla sua.
Neanche una vittima dell’Olocausto può insomma pensare di sminuire o difendere il genocidio cui stiamo assistendo in diretta.
Il che lo rende – se possibile – ancora più grave, perché nessuno dei responsabili o dei testimoni passivi, a partire ovviamente dall’attuale governo e dallo stato maggiore di Israele fino ad arrivare ai nostri “giornalisti”, potrà dire “non sapevo” oppure “ho solo obbedito agli ordini”.
Fonte
Verso il nucleare “di Stato”, Leonardo palesa gli interessi di guerra
Newco di Stato per riportare il nucleare in Italia. Ormai siamo bombardati da questi termini che, per i non addetti ai lavori, sembrano significare mille cose diverse, ma alla fine la sostanza è la stessa: un colosso finanziario, che si aggreghi alla filiera imperialistica europea.
Questo è il senso delle indiscrezioni che sono girate negli ultimi giorni intorno alla possibilità che, già per la fine del 2024, venga annunciata la creazione di una nuova società “di Stato”. Anche se separare gli interessi privati dagli investimenti pubblici, in una fase in cui il mantra è diventato “più Stato per il mercato”, diventa difficile.
L’ENEL dovrebbe avere la quota di maggioranza (51%), seguita da Ansaldo Nucleare (39%) e Leonardo (10%). Anche se in Italia ad ora non viene prodotta energia dall’atomo, ENEL gestisce 9 Gigawatt di capacità nucleare, installata tra Spagna e Slovacchia, mentre Ansaldo Nucleare guarda al rinnovo delle centrali esistenti e allo studio di nuove tecnologie.
È proprio su questo lato che dovrebbe concentrarsi il lavoro della nuova società. Lo sviluppo degli Small Modular Reactors (SMR), ovvero i “reattori modulari” che da anni sentiamo propagandati come nuova frontiera del nucleare, e la quarta generazione, che comunque non si vedrà prima di una quindicina d’anni almeno, sono gli obiettivi.
A questo scopo potrebbe inserirsi nel percorso del nucleare anche Newcleo, una start-up fondata nel 2021 dal fisico Stefano Buono, che ha già 700 azionisti ed è valutata 1,3 miliardi di euro. Questa sta già collaborando con Ansaldo Nucleare, e sta approfondendo l’opportunità di usare il MOX (miscela di uranio e plutonio).
Questo prodotto aiuterebbe a garantire maggiore autonomia di approvvigionamento, dopo che, ad esempio, il nuovo governo del Niger ha sbarrato la strada allo sfruttamento francese delle miniere di uranio nel paese. E proprio in Francia la Newcleo ha posto la propria sede, perché il quadro regolatore già presente oltralpe permette di accedere anche a fondi europei.
È complesso parlare di nucleare, tenendo insieme le ragioni ambientali, di sicurezza, di fabbisogno energetico del paese (intorno ai 310 terawattora, ma che potrebbe forse raddoppiare nell’arco di una ventina d’anni). Quando si parla di politica energetica, non esiste alcun discorso tecnico che non vada di pari passo ad orizzonti politici.
Basti pensare che secondo alcune stime basterebbero pochi miliardi di investimento in manutenzione e sostituzione di alcuni macchinari della filiera dell’idroelettrico per recuperare 4,4 terawattora all’anno, cioè intorno al 10% di ciò che viene importato dall’estero. Eppure, nella cornice del PNRR si è deciso di continuare sulla strada di concessioni a privati non intenzionati a spenderci granché.
Lasciamo quindi ai tanti contributi di esperti, che si possono trovare anche sul nostro giornale, il dibattito sulle opportunità e sulle criticità dell’energia atomica. Qui ci vogliamo concentrare sul significato della partecipazione di Leonardo in questo progetto, che ne palesa gli orizzonti di guerra collegati.
Perché, se il ruolo di ENEL, Ansaldo e Newcleo è autoevidente, non si capisce per quale motivo l’avventura nucleare dovrebbe interessare a Cingolani e compagnia. Non si capisce, chiaramente, finché non si esplicitano i tanti usi che, in quanto tecnologie dual use per eccellenza, quelle ‘atomiche’ possono avere sul lato bellico.
L’autonomia energetica, tanto sbandierata come necessità per la UE, esce fuori quando si vuole ridurre al minimo il rapporto con altri paesi. La finalità è, appunto, quella di avere maggior spazio di manovra dal punto di vista di misure di scontro, che sia commerciale o guerreggiato.
Il nucleare è inoltre usato come energia propulsiva per sottomarini e navi, oltre che ovviamente nelle testate atomiche. Ma anche se non ci si impegna su questo versante esplicitamente militare, lo sviluppo degli SMR porta con sé anche quello di una filiera per l’High-Assay Low-Enriched Uranium (HALEU).
Si tratta del combustibile per lo più usato nelle ricerche su questo tipo di reattori, e presenta una concentrazione dell’isotopo radioattivo tra il 5 e il 20%, superiore a quella usata generalmente in ambito civile, cioè tra il 3 e il 5%. Ad oggi, solo la Russia e la Cina hanno le infrastrutture necessarie a produrne su una scala commerciale.
Vi sono vari programmi di studio in Occidente al riguardo, che coinvolgono grandi multinazionali – come la Orano – e hanno destato l’interesse di autorità pubbliche come il Dipartimento della Difesa statunitense. La motivazione è facilmente resa chiara sul sito della World Nuclear Association, accreditata presso l’ONU.
1: “Il tempo necessario per produrre HEU (uranio altamente arricchito, ndr) di qualità militare è più breve quando si utilizza HALEU come materia prima”.
2: “Gli impianti per produrre HEU di qualità militare a partire da materie prime HALEU potrebbero essere relativamente piccoli e quindi difficili da individuare”.
L’Agenzia internazionale per l’energia atomica deve ancora implementare delle linee guida di sicurezza sull’utilizzo dell’HALEU. Ma risulta scontato che lo sguardo che stanno allungando su questo settore attori come la Leonardo si innesta precisamente nella tendenza alla frammentazione del mercato mondiale e al riarmo.
Il blocco euroatlantico vuole una filiera dell’uranio completamente indipendente, e lo sviluppo del nucleare civile può aiutare anche sul piano militare. Colossi come la Leonardo, anche se l’Italia non avrà mai una propria arma nucleare, possono avere una funzione in questo percorso, legittimandolo inoltre con la promessa della riduzione delle bollette e di nuovi posti di lavoro.
Proprio Ansaldo Nucleare, insieme a Edison e THEA group, hanno presentato poco tempo fa uno studio nel quale si prevede che l’installazione di impianti nucleari, capaci di soddisfare circa il 10% della domanda elettrica al 2050, si tradurrebbe in un impatto economico superiore a 50 miliardi di euro e fino a 117.000 occupati diretti, indiretti e indotti dal 2030-35 al 2050.
Nello scenario di crisi che viviamo, tali numeri allargano la platea delle persone che guardano in maniera meno negativa al nucleare. Senza però essere informati del fatto che, sul lungo periodo, questa opzione non farà che portarci in maniera più veloce verso la possibilità di uno scontro generalizzato, e dunque della trasformazione della crisi in guerra aperta.
La questione ambientale, in questo caso, assume tutto un altro significato. Al di là del conteggio delle emissioni dell’intera filiera, il tema qui è che il nucleare è un tassello strategico di un salto di qualità dell’imperialismo europeo e della competizione globale in generale.
Dare man forte a Bruxelles su questo lato significa distruggere il pianeta, anche nel caso rimanessimo sotto il grado e mezzo di aumento delle temperature rispetto all’epoca pre-industriale. Teniamolo a mente in ogni discorso al riguardo, perché verrebbe da dire che questa è tutto fuorché una contraddizione secondaria.
Chissà se anche l’incidente verificatosi ieri all’Enea di Casaccia ha una relazione con la sperimentazione necessaria a sviluppare il progetto...
Fonte
Questo è il senso delle indiscrezioni che sono girate negli ultimi giorni intorno alla possibilità che, già per la fine del 2024, venga annunciata la creazione di una nuova società “di Stato”. Anche se separare gli interessi privati dagli investimenti pubblici, in una fase in cui il mantra è diventato “più Stato per il mercato”, diventa difficile.
L’ENEL dovrebbe avere la quota di maggioranza (51%), seguita da Ansaldo Nucleare (39%) e Leonardo (10%). Anche se in Italia ad ora non viene prodotta energia dall’atomo, ENEL gestisce 9 Gigawatt di capacità nucleare, installata tra Spagna e Slovacchia, mentre Ansaldo Nucleare guarda al rinnovo delle centrali esistenti e allo studio di nuove tecnologie.
È proprio su questo lato che dovrebbe concentrarsi il lavoro della nuova società. Lo sviluppo degli Small Modular Reactors (SMR), ovvero i “reattori modulari” che da anni sentiamo propagandati come nuova frontiera del nucleare, e la quarta generazione, che comunque non si vedrà prima di una quindicina d’anni almeno, sono gli obiettivi.
A questo scopo potrebbe inserirsi nel percorso del nucleare anche Newcleo, una start-up fondata nel 2021 dal fisico Stefano Buono, che ha già 700 azionisti ed è valutata 1,3 miliardi di euro. Questa sta già collaborando con Ansaldo Nucleare, e sta approfondendo l’opportunità di usare il MOX (miscela di uranio e plutonio).
Questo prodotto aiuterebbe a garantire maggiore autonomia di approvvigionamento, dopo che, ad esempio, il nuovo governo del Niger ha sbarrato la strada allo sfruttamento francese delle miniere di uranio nel paese. E proprio in Francia la Newcleo ha posto la propria sede, perché il quadro regolatore già presente oltralpe permette di accedere anche a fondi europei.
È complesso parlare di nucleare, tenendo insieme le ragioni ambientali, di sicurezza, di fabbisogno energetico del paese (intorno ai 310 terawattora, ma che potrebbe forse raddoppiare nell’arco di una ventina d’anni). Quando si parla di politica energetica, non esiste alcun discorso tecnico che non vada di pari passo ad orizzonti politici.
Basti pensare che secondo alcune stime basterebbero pochi miliardi di investimento in manutenzione e sostituzione di alcuni macchinari della filiera dell’idroelettrico per recuperare 4,4 terawattora all’anno, cioè intorno al 10% di ciò che viene importato dall’estero. Eppure, nella cornice del PNRR si è deciso di continuare sulla strada di concessioni a privati non intenzionati a spenderci granché.
Lasciamo quindi ai tanti contributi di esperti, che si possono trovare anche sul nostro giornale, il dibattito sulle opportunità e sulle criticità dell’energia atomica. Qui ci vogliamo concentrare sul significato della partecipazione di Leonardo in questo progetto, che ne palesa gli orizzonti di guerra collegati.
Perché, se il ruolo di ENEL, Ansaldo e Newcleo è autoevidente, non si capisce per quale motivo l’avventura nucleare dovrebbe interessare a Cingolani e compagnia. Non si capisce, chiaramente, finché non si esplicitano i tanti usi che, in quanto tecnologie dual use per eccellenza, quelle ‘atomiche’ possono avere sul lato bellico.
L’autonomia energetica, tanto sbandierata come necessità per la UE, esce fuori quando si vuole ridurre al minimo il rapporto con altri paesi. La finalità è, appunto, quella di avere maggior spazio di manovra dal punto di vista di misure di scontro, che sia commerciale o guerreggiato.
Il nucleare è inoltre usato come energia propulsiva per sottomarini e navi, oltre che ovviamente nelle testate atomiche. Ma anche se non ci si impegna su questo versante esplicitamente militare, lo sviluppo degli SMR porta con sé anche quello di una filiera per l’High-Assay Low-Enriched Uranium (HALEU).
Si tratta del combustibile per lo più usato nelle ricerche su questo tipo di reattori, e presenta una concentrazione dell’isotopo radioattivo tra il 5 e il 20%, superiore a quella usata generalmente in ambito civile, cioè tra il 3 e il 5%. Ad oggi, solo la Russia e la Cina hanno le infrastrutture necessarie a produrne su una scala commerciale.
Vi sono vari programmi di studio in Occidente al riguardo, che coinvolgono grandi multinazionali – come la Orano – e hanno destato l’interesse di autorità pubbliche come il Dipartimento della Difesa statunitense. La motivazione è facilmente resa chiara sul sito della World Nuclear Association, accreditata presso l’ONU.
1: “Il tempo necessario per produrre HEU (uranio altamente arricchito, ndr) di qualità militare è più breve quando si utilizza HALEU come materia prima”.
2: “Gli impianti per produrre HEU di qualità militare a partire da materie prime HALEU potrebbero essere relativamente piccoli e quindi difficili da individuare”.
L’Agenzia internazionale per l’energia atomica deve ancora implementare delle linee guida di sicurezza sull’utilizzo dell’HALEU. Ma risulta scontato che lo sguardo che stanno allungando su questo settore attori come la Leonardo si innesta precisamente nella tendenza alla frammentazione del mercato mondiale e al riarmo.
Il blocco euroatlantico vuole una filiera dell’uranio completamente indipendente, e lo sviluppo del nucleare civile può aiutare anche sul piano militare. Colossi come la Leonardo, anche se l’Italia non avrà mai una propria arma nucleare, possono avere una funzione in questo percorso, legittimandolo inoltre con la promessa della riduzione delle bollette e di nuovi posti di lavoro.
Proprio Ansaldo Nucleare, insieme a Edison e THEA group, hanno presentato poco tempo fa uno studio nel quale si prevede che l’installazione di impianti nucleari, capaci di soddisfare circa il 10% della domanda elettrica al 2050, si tradurrebbe in un impatto economico superiore a 50 miliardi di euro e fino a 117.000 occupati diretti, indiretti e indotti dal 2030-35 al 2050.
Nello scenario di crisi che viviamo, tali numeri allargano la platea delle persone che guardano in maniera meno negativa al nucleare. Senza però essere informati del fatto che, sul lungo periodo, questa opzione non farà che portarci in maniera più veloce verso la possibilità di uno scontro generalizzato, e dunque della trasformazione della crisi in guerra aperta.
La questione ambientale, in questo caso, assume tutto un altro significato. Al di là del conteggio delle emissioni dell’intera filiera, il tema qui è che il nucleare è un tassello strategico di un salto di qualità dell’imperialismo europeo e della competizione globale in generale.
Dare man forte a Bruxelles su questo lato significa distruggere il pianeta, anche nel caso rimanessimo sotto il grado e mezzo di aumento delle temperature rispetto all’epoca pre-industriale. Teniamolo a mente in ogni discorso al riguardo, perché verrebbe da dire che questa è tutto fuorché una contraddizione secondaria.
Chissà se anche l’incidente verificatosi ieri all’Enea di Casaccia ha una relazione con la sperimentazione necessaria a sviluppare il progetto...
Fonte
Polonia a tutto gas Usa-Ue contro quello russo
Dall’indipendenza dal gas russo alla costruzione di infrastrutture strategiche, Varsavia si prepara a diventare l’hub energetico dell’Europa centro-orientale, anticipa Limes. Visione geopolitica di lungo percorso con indirizzo e sostegno degli Stati Uniti, complice (?) anche il sabotaggio del Nord Stream 2, spiega German Carboni, Varsavia si avvia a diventare un attore centrale nella politica energetica europea.
Polonia capofila dell’Ue più americana
Fino al 2021 il 50% del fabbisogno del gas naturale polacco arrivava dalla Russia. Dal dopo Ucraina, non solo Varsavia si è resa indipendente dal gas russo, ma, complice (termine al momento solo letterario) anche il sabotaggio del Nord Stream 2, si avvia a diventare protagonista nella politica energetica europea. Grazie innanzitutto al peso relativamente ridotto del gas nell’uso energetico polacco, ma anche «grazie a investimenti e progetti che hanno trovato negli Usa un importante sostegno». E questo non è un caso.
L’importante ‘sostegno Usa’
L’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) riporta che nel 2023 il gas naturale costituiva il 16,2% del ‘mix energetico’ polacco. Meno rispetto alla media dell’Ue (21%) e dell’Italia (38,2%) nello stesso anno. Il consumo del combustibile fossile ha iniziato ad aumentare solo di recente, “fonte energetica ponte” nel processo di ‘decarbonizzazione’ polacco (che attualmente soddisfa la maggior parte del fabbisogno energetico del paese). Ma la Polonia è stata un fondamentale paese di transito per il gas russo diretto in Germania grazie al gasdotto Yamal, che attraversa anche la Bielorussia. Ed è quello il fronte decisivo con Washington.
La storica inimicizia con la Russia un vantaggio
Nonostante i bassi consumi, il gas naturale ha avuto un ruolo importante nella politica energetica polacca. Nel 2021 l’Ue ha importato circa il 40% del suo gas dalla Russia, di cui il 20-25% attraverso il gasdotto polacco Yamal. Mossa da una sfiducia di fondo verso Mosca e dall’intenzione di aumentare la propria leva negoziale nei confronti dei russi (e tedeschi), già negli anni Novanta la Polonia ha perseguito una politica di diversificazione delle fonti, tenendo in conto il futuro aumento di consumo del gas.
Molte alternative all’eterno nemico
Così già all’inizio degli anni 2000 sono stati progettati gasdotti che connettessero la Polonia al Mar del Nord. Diventati realtà il 27 settembre 2022 con l’inaugurazione della Baltic Pipe, che permette a Varsavia di importare gas dalla Norvegia con una capacità annua pari al gas che nel 2021 veniva importato dalla Russia. Nel 2016 era già stato inaugurato il terminal per gas naturale liquefatto di Świnoujście. Nel maggio 2022 è stata completata la Gas Interconnection Poland–Lithuania (Gipl). Nello stesso anno è stato inaugurato il nuovo Gas Interconnector Poland-Slovakia (Gips) dalla Polonia verso la Slovacchia e viceversa.
Infrastrutture che, insieme alla produzione domestica, garantiscono il fabbisogno interno polacco di gas naturale e un surplus che può essere usato anche per lo stoccaggio, oggi già al 99% della sua capienza.
Ma la Polonia vuole esportare gas
L’anno scorso solo l’8% del gas importato nell’Ue proveniva dalla Russia, e nessun metro cubo è transitato dalla Polonia. Varsavia smette di svolgere una funzione di transito nel mercato europeo del gas, e mira a diventare un hub energetico rilevante per tutto il continente. Nel 2023 il precedente governo Morawiecki aveva presentato una sua strategia citando le nuove infrastrutture per il gas naturale e gnl e la costruzione di centrali nucleari. Tutti i progetti sono stati mantenuti dal nuovo governo Tusk che, già nel 2014 (inizio reale della guerra ucraina), mise le forniture energetiche alternative alla Russia al centro di uno dei suoi più importanti progetti.
Una ragnatela di oleo-gasdotti
Progetti significativi: il terminal gnl di Danzica (Fsru), ora in fase preparatoria e la cui inaugurazione è prevista nel 2028; l’espansione del terminal di Swinoujscie entro il 2024 e un nuovo interconnettore con la Repubblica Ceca con una capacità di 500 milioni di metri cubi, la cui conclusione è pianificata per il 2028. Iniziative che nel giro di quattro anni daranno alla Polonia una capacità di importazione ed esportazione con un surplus rispetto al suo attuale fabbisogno, con margini dunque sia per espandere il consumo interno sia per esportarne una parte.
Se non finisce la guerra Mosca - Kiev
Le necessità dei paesi dell’Europa centro-orientale, in assenza di un accordo tra Mosca e Kiev, a partire dal 2025 verranno sospese insieme alle forniture di gas russo in transito dall’Ucraina. La Repubblica polacca pianifica l’entrata in funzione della sua prima centrale nucleare per il 2033, permettendo di liberare quantitativi di gas per l’esportazione. In qualsiasi dinamica energetica tra Unione Europea e Russia, Varsavia giocherebbe comunque un ruolo centrale. Fuori uso il Nord Stream 2, la Polonia risulta ora uno dei necessari punti di transito del gas russo in Europa insieme all’Ucraina (gasdotti Soyuz e Bratstvo) e Turchia (con il Turkstream).
Polonia attore energetico a trazione americana
Nonostante alcuni limiti, prezzi molto alti, è evidente che si stanno gettando le basi per rendere la Polonia un attore centrale nella politica energetica europea e dell’intero Occidente. E non è certo un caso il coinvolgimento americano nei progetti energetici polacchi. La Us International Development Finance Corporation ha sostenuto finanziariamente i progetti di gas liquefatto in Polonia. Washington è inoltre coinvolta nella costruzione della centrale atomica di Choczewo, affidata al consorzio Westinghouse-Bechtel e beneficiaria di finanziamenti statunitensi.
Opportuno pensare che la diplomazia energetica americana (e non solo), guardi con favore a un futuro ruolo della Polonia come hub energetico in Europa, aprendo la strada a una possibile competizione con la Germania.
Fonte
Polonia capofila dell’Ue più americana
Fino al 2021 il 50% del fabbisogno del gas naturale polacco arrivava dalla Russia. Dal dopo Ucraina, non solo Varsavia si è resa indipendente dal gas russo, ma, complice (termine al momento solo letterario) anche il sabotaggio del Nord Stream 2, si avvia a diventare protagonista nella politica energetica europea. Grazie innanzitutto al peso relativamente ridotto del gas nell’uso energetico polacco, ma anche «grazie a investimenti e progetti che hanno trovato negli Usa un importante sostegno». E questo non è un caso.
L’importante ‘sostegno Usa’
L’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) riporta che nel 2023 il gas naturale costituiva il 16,2% del ‘mix energetico’ polacco. Meno rispetto alla media dell’Ue (21%) e dell’Italia (38,2%) nello stesso anno. Il consumo del combustibile fossile ha iniziato ad aumentare solo di recente, “fonte energetica ponte” nel processo di ‘decarbonizzazione’ polacco (che attualmente soddisfa la maggior parte del fabbisogno energetico del paese). Ma la Polonia è stata un fondamentale paese di transito per il gas russo diretto in Germania grazie al gasdotto Yamal, che attraversa anche la Bielorussia. Ed è quello il fronte decisivo con Washington.
La storica inimicizia con la Russia un vantaggio
Nonostante i bassi consumi, il gas naturale ha avuto un ruolo importante nella politica energetica polacca. Nel 2021 l’Ue ha importato circa il 40% del suo gas dalla Russia, di cui il 20-25% attraverso il gasdotto polacco Yamal. Mossa da una sfiducia di fondo verso Mosca e dall’intenzione di aumentare la propria leva negoziale nei confronti dei russi (e tedeschi), già negli anni Novanta la Polonia ha perseguito una politica di diversificazione delle fonti, tenendo in conto il futuro aumento di consumo del gas.
Molte alternative all’eterno nemico
Così già all’inizio degli anni 2000 sono stati progettati gasdotti che connettessero la Polonia al Mar del Nord. Diventati realtà il 27 settembre 2022 con l’inaugurazione della Baltic Pipe, che permette a Varsavia di importare gas dalla Norvegia con una capacità annua pari al gas che nel 2021 veniva importato dalla Russia. Nel 2016 era già stato inaugurato il terminal per gas naturale liquefatto di Świnoujście. Nel maggio 2022 è stata completata la Gas Interconnection Poland–Lithuania (Gipl). Nello stesso anno è stato inaugurato il nuovo Gas Interconnector Poland-Slovakia (Gips) dalla Polonia verso la Slovacchia e viceversa.
Infrastrutture che, insieme alla produzione domestica, garantiscono il fabbisogno interno polacco di gas naturale e un surplus che può essere usato anche per lo stoccaggio, oggi già al 99% della sua capienza.
Ma la Polonia vuole esportare gas
L’anno scorso solo l’8% del gas importato nell’Ue proveniva dalla Russia, e nessun metro cubo è transitato dalla Polonia. Varsavia smette di svolgere una funzione di transito nel mercato europeo del gas, e mira a diventare un hub energetico rilevante per tutto il continente. Nel 2023 il precedente governo Morawiecki aveva presentato una sua strategia citando le nuove infrastrutture per il gas naturale e gnl e la costruzione di centrali nucleari. Tutti i progetti sono stati mantenuti dal nuovo governo Tusk che, già nel 2014 (inizio reale della guerra ucraina), mise le forniture energetiche alternative alla Russia al centro di uno dei suoi più importanti progetti.
Una ragnatela di oleo-gasdotti
Progetti significativi: il terminal gnl di Danzica (Fsru), ora in fase preparatoria e la cui inaugurazione è prevista nel 2028; l’espansione del terminal di Swinoujscie entro il 2024 e un nuovo interconnettore con la Repubblica Ceca con una capacità di 500 milioni di metri cubi, la cui conclusione è pianificata per il 2028. Iniziative che nel giro di quattro anni daranno alla Polonia una capacità di importazione ed esportazione con un surplus rispetto al suo attuale fabbisogno, con margini dunque sia per espandere il consumo interno sia per esportarne una parte.
Se non finisce la guerra Mosca - Kiev
Le necessità dei paesi dell’Europa centro-orientale, in assenza di un accordo tra Mosca e Kiev, a partire dal 2025 verranno sospese insieme alle forniture di gas russo in transito dall’Ucraina. La Repubblica polacca pianifica l’entrata in funzione della sua prima centrale nucleare per il 2033, permettendo di liberare quantitativi di gas per l’esportazione. In qualsiasi dinamica energetica tra Unione Europea e Russia, Varsavia giocherebbe comunque un ruolo centrale. Fuori uso il Nord Stream 2, la Polonia risulta ora uno dei necessari punti di transito del gas russo in Europa insieme all’Ucraina (gasdotti Soyuz e Bratstvo) e Turchia (con il Turkstream).
Polonia attore energetico a trazione americana
Nonostante alcuni limiti, prezzi molto alti, è evidente che si stanno gettando le basi per rendere la Polonia un attore centrale nella politica energetica europea e dell’intero Occidente. E non è certo un caso il coinvolgimento americano nei progetti energetici polacchi. La Us International Development Finance Corporation ha sostenuto finanziariamente i progetti di gas liquefatto in Polonia. Washington è inoltre coinvolta nella costruzione della centrale atomica di Choczewo, affidata al consorzio Westinghouse-Bechtel e beneficiaria di finanziamenti statunitensi.
Opportuno pensare che la diplomazia energetica americana (e non solo), guardi con favore a un futuro ruolo della Polonia come hub energetico in Europa, aprendo la strada a una possibile competizione con la Germania.
Fonte
Il quarto fronte di Israele – la Siria – affidato agli jihadisti
Scioccante sviluppo in Siria. Proprio nel giorno dell’entrata in vigore del cessate il fuoco in Libano, un altro caposaldo dell’Asse della Resistenza finisce sulla graticola: le decine di milizie jihadiste presenti ad Idlib hanno effettuato un’offensiva contro l’esercito governativo, così massiccia e veloce da portarle ad entrare nella periferia di Aleppo, incendiando un fronte che era fermo dal 2020.
Per la verità c’erano stati diversi segnali di un possibile incrudimento della situazione nel paese. Dal 7 ottobre 2023, lo stato sionista aveva ripreso a bombardare con una certa frequenza le basi delle milizie filoiraniane, alcuni edifici pubblici (si ricorda il bombardamento del consolato iraniano) e diversi edifici residenziali. L’ultimo ingresso del governo Netanyahu, Gideon Sa’ar, sembra quasi entrato nell’esecutivo allo scopo di minacciare la Siria, dato che le rivolge i suoi strali con una certa frequenza. In più anche l’Isis ha da tempo ripreso una certa attività nelle vicinanze della guarnigione USA di Al Tanf.
Se si aggiunge che Hezbollah a settembre era stato costretto a ritirare buona parte delle proprie unità, specie nell’area di Aleppo, per combattere la guerra sul proprio territorio e che la Russia, l’altro fondamentale alleato di Damasco, è occupato in Ucraina, si capisce bene come quello siriano fosse il lato debole, con l’esercito governativo (di leva) costretto a badare, con l’aiuto ormai delle sole milizie filo iraniane, a decine di gruppi jihahisti, più l’ampia area est a contatto con i territori occupati dalle milizie curde, appoggiate dagli USA.
Ebbene, Hayat Tahrir al-Sham, ovvero Al-Qaeda in Siria, ha deciso di rompere gli indugi e si è messa a capo di una coalizione comprendente una miriade di milizie emanazione della Turchia, rosicchiando tutta una serie di centri abitati che dividevano la sacca di idlib da Aleppo, fino ad entrare nella periferia della città. Secondo alcuni esperti militari, l’offensiva fa ampio uso di droni, cui l’esercito siriano è decisamente disabituato e ricorda molto da vicino la strategia militare utilizzata dall’Ucraina nell’operazione nell’Obalst di Kursk.
In queste ore stanno affluendo dei rinforzi, comprese le ex forze-tigre, truppe d’élite capitanate dal generale Suleil al-Hassan, per dar man forte alle unità dell’esercito di Damasco presenti nell’area, che attualmente sono in fuga dalle loro postazioni e lasciano indietro anche sistemi d’arma importanti. Contemporaneamente sono in azione le aviazioni russa e siriana, specialmente nell’area della città di Idlib.
Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, ostile al Governo Siriano, ci sono più di 200 morti fra civili e militari di ambo le parti ed è in corso un esodo di massa in alcuni quartieri di Aleppo.
Siccome il cessate il fuoco era garantito dalla Turchia, che, a far data dall’offensiva del 2020, mantiene una propria presenza diretta nella sacca di Idlib, e che negli ultimi mesi andava predicando a destra e manca di voler normalizzare i rapporti con il governo siriano, ci si chiede quale sia effettivamente la strategia adottata da Ankara.
Un ufficiale turco, interpellato da Middle East Eye aveva dichiarato, nelle primissime ore dell’offensiva, che si sarebbe trattata di un’operazione limitata, in risposta ad “alcuni attacchi nei confronti dei civili” da parte dell’esercito governativo; il contingente turco avrebbe cercato di evitarla, senza riuscirci.
Tuttavia, la natura limitata dell’azione militare è già stata smentita dai fatti e riesce difficile credere che almeno parte delle milizie che la stanno conducendo si sarebbero mosse senza l’assenso turco. Anzi, le tecniche militari utilizzate farebbero pensare che essa fosse in preparazione da mesi, grazie all’aiuto di personale militare esperto.
Un alto dirigente del Syrian National Army, una delle sigle della galassia jihadista di Idlib, ha detto, sempre a Middle East Eye che gli sviluppi geopolitici in Medio Oriente, avendo avuto un impatto sugli alleati del regime siriano, hanno creato una “opportunità d’oro” per lanciare l’attacco.
“C’è una situazione internazionale che favorisce questa battaglia e il caos tra Assad e i suoi sostenitori, così abbiamo colto questa opportunità” – ha affermato – “Senza i loro alleati, le truppe siriane non sono nulla. Siamo in grado di cambiare i rapporti di forza, ripristinando la nostra terra e assicurando un percorso sicuro per facilitare il ritorno degli sfollati alle loro case”.
Da notare che tutti i giornali di area qatariota, compreso Middle East Eye, stanno di nuovo diffondendo a tamburo battente notizie su “bombardamenti indiscriminati da parte della Siria e della Russia”, proprio come nel pieno del conflitto.
C’è da capire ora come reagiranno l’Iran, la Russia e la stessa Turchia, alle prese, a quanto pare, con l’ennesima giravolta. Da capire, inoltre, se ci saranno ripercussioni nell’“Asse della Resistenza” così come configurato oggi, in quanto Turchia e Qatar sono fra gli “sponsor” internazionali di Hamas, che, di fatto, durante quasi tutta la crisi siriana era schierato con la galassia di ribelli jihadista e, durante il genocidio in corso a Gaza, ha visto la propria leadership filoiraniana decimata.
Infine, visti diversi precedenti, quali l’attacco ucraino ad una base russa in Siria, l’ampiamente documentata collaborazione fra Kiev e milizie islamiste e le tecniche militari utilizzate nell’attacco in corso, quello di Aleppo potrebbe essere il fronte in cui la guerra sionista in tutto il Medio – Oriente e quella in Ucraina convergono verso una pericolosa deflagrazione generale.
Fonte
Per la verità c’erano stati diversi segnali di un possibile incrudimento della situazione nel paese. Dal 7 ottobre 2023, lo stato sionista aveva ripreso a bombardare con una certa frequenza le basi delle milizie filoiraniane, alcuni edifici pubblici (si ricorda il bombardamento del consolato iraniano) e diversi edifici residenziali. L’ultimo ingresso del governo Netanyahu, Gideon Sa’ar, sembra quasi entrato nell’esecutivo allo scopo di minacciare la Siria, dato che le rivolge i suoi strali con una certa frequenza. In più anche l’Isis ha da tempo ripreso una certa attività nelle vicinanze della guarnigione USA di Al Tanf.
Se si aggiunge che Hezbollah a settembre era stato costretto a ritirare buona parte delle proprie unità, specie nell’area di Aleppo, per combattere la guerra sul proprio territorio e che la Russia, l’altro fondamentale alleato di Damasco, è occupato in Ucraina, si capisce bene come quello siriano fosse il lato debole, con l’esercito governativo (di leva) costretto a badare, con l’aiuto ormai delle sole milizie filo iraniane, a decine di gruppi jihahisti, più l’ampia area est a contatto con i territori occupati dalle milizie curde, appoggiate dagli USA.
Ebbene, Hayat Tahrir al-Sham, ovvero Al-Qaeda in Siria, ha deciso di rompere gli indugi e si è messa a capo di una coalizione comprendente una miriade di milizie emanazione della Turchia, rosicchiando tutta una serie di centri abitati che dividevano la sacca di idlib da Aleppo, fino ad entrare nella periferia della città. Secondo alcuni esperti militari, l’offensiva fa ampio uso di droni, cui l’esercito siriano è decisamente disabituato e ricorda molto da vicino la strategia militare utilizzata dall’Ucraina nell’operazione nell’Obalst di Kursk.
In queste ore stanno affluendo dei rinforzi, comprese le ex forze-tigre, truppe d’élite capitanate dal generale Suleil al-Hassan, per dar man forte alle unità dell’esercito di Damasco presenti nell’area, che attualmente sono in fuga dalle loro postazioni e lasciano indietro anche sistemi d’arma importanti. Contemporaneamente sono in azione le aviazioni russa e siriana, specialmente nell’area della città di Idlib.
Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, ostile al Governo Siriano, ci sono più di 200 morti fra civili e militari di ambo le parti ed è in corso un esodo di massa in alcuni quartieri di Aleppo.
Siccome il cessate il fuoco era garantito dalla Turchia, che, a far data dall’offensiva del 2020, mantiene una propria presenza diretta nella sacca di Idlib, e che negli ultimi mesi andava predicando a destra e manca di voler normalizzare i rapporti con il governo siriano, ci si chiede quale sia effettivamente la strategia adottata da Ankara.
Un ufficiale turco, interpellato da Middle East Eye aveva dichiarato, nelle primissime ore dell’offensiva, che si sarebbe trattata di un’operazione limitata, in risposta ad “alcuni attacchi nei confronti dei civili” da parte dell’esercito governativo; il contingente turco avrebbe cercato di evitarla, senza riuscirci.
Tuttavia, la natura limitata dell’azione militare è già stata smentita dai fatti e riesce difficile credere che almeno parte delle milizie che la stanno conducendo si sarebbero mosse senza l’assenso turco. Anzi, le tecniche militari utilizzate farebbero pensare che essa fosse in preparazione da mesi, grazie all’aiuto di personale militare esperto.
Un alto dirigente del Syrian National Army, una delle sigle della galassia jihadista di Idlib, ha detto, sempre a Middle East Eye che gli sviluppi geopolitici in Medio Oriente, avendo avuto un impatto sugli alleati del regime siriano, hanno creato una “opportunità d’oro” per lanciare l’attacco.
“C’è una situazione internazionale che favorisce questa battaglia e il caos tra Assad e i suoi sostenitori, così abbiamo colto questa opportunità” – ha affermato – “Senza i loro alleati, le truppe siriane non sono nulla. Siamo in grado di cambiare i rapporti di forza, ripristinando la nostra terra e assicurando un percorso sicuro per facilitare il ritorno degli sfollati alle loro case”.
Da notare che tutti i giornali di area qatariota, compreso Middle East Eye, stanno di nuovo diffondendo a tamburo battente notizie su “bombardamenti indiscriminati da parte della Siria e della Russia”, proprio come nel pieno del conflitto.
C’è da capire ora come reagiranno l’Iran, la Russia e la stessa Turchia, alle prese, a quanto pare, con l’ennesima giravolta. Da capire, inoltre, se ci saranno ripercussioni nell’“Asse della Resistenza” così come configurato oggi, in quanto Turchia e Qatar sono fra gli “sponsor” internazionali di Hamas, che, di fatto, durante quasi tutta la crisi siriana era schierato con la galassia di ribelli jihadista e, durante il genocidio in corso a Gaza, ha visto la propria leadership filoiraniana decimata.
Infine, visti diversi precedenti, quali l’attacco ucraino ad una base russa in Siria, l’ampiamente documentata collaborazione fra Kiev e milizie islamiste e le tecniche militari utilizzate nell’attacco in corso, quello di Aleppo potrebbe essere il fronte in cui la guerra sionista in tutto il Medio – Oriente e quella in Ucraina convergono verso una pericolosa deflagrazione generale.
Fonte
La Spagna apre l’UE alle auto cinesi
Il 23 novembre è iniziata nella Zona Franca di Barcellona la produzione di auto della joint-venture siglata nell’aprile scorso tra il costruttore cinese Chery e quello spagnolo Ebro-EV Motors. L’accordo prevede la produzione di 50.000 veicoli all’anno entro il 2027, per arrivare a 150.000 all’anno entro il 2029.
Per ora si tratta di semplice assemblaggio, tramite un metodo DKD diretto: le parti spedite dalla Cina vengono poi montate in Spagna. Successivamente si passerà a un modello CKD, che include anche saldature, verniciature e assemblaggi locali.
La joint-venture tra Chery ed Ebro-EV Motors ha permesso di resuscitare il marchio Ebro – azienda di veicoli commerciali scomparsa nel 1987 – e darà lavoro a 1.250 persone, tra cui i licenziati per la chiusura dell’impianto Nissan, recuperato per fabbricare i nuovi modelli della joint-venture sino-iberica.
Ebro-EV Motors aveva rilevato da Nissan lo stabilimento dopo che la casa automobilistica giapponese lo aveva chiuso nel 2021. Sotto i nuovi proprietari, l’impianto sfornerà inizialmente tre modelli SUV: subito, S700 e S800, a marchio Ebro (entrambi con motori ibridi plug-in, PHEV, o ICE), basati su Chery Tiggo 7 e Tiggo 8; e, a partire dal primo trimestre 2025, Omoda 5 a marchio Chery (nelle versioni elettrica e a combustione interna, ICE).
L’accordo sino-iberico e il rilancio del marchio Ebro sono il frutto di un investimento di 400 milioni di euro reso possibile dalla collaborazione tra il governo di Madrid, le autorità catalane, i sindacati, investitori e i due produttori. «Non è comune assistere alla rinascita di un marchio iconico e oggi condividiamo tutti un sentimento di gioia», ha commentato il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez.
A Barcellona è attesa anche l’istituzione di un centro di ricerca e sviluppo Chery-Ebro-EV Motors. E, secondo l’agenzia di stato Xinhua, in Spagna verranno aperti 45 punti vendita, 30 dei quali entro la fine dell’anno.
Nel 2023, Chery ha esportato 937.148 veicoli, in crescita del 101,1 per cento su base annua, il volume di export più alto di qualsiasi casa automobilistica cinese. Quest’anno Chery – le cui vendite sono concentrate in Asia centrale, Medio Oriente e America latina – supererà per la prima volta 1 milione di vetture consegnate all’estero.
Chery (compagnia di stato controllata dal governo di Wuhu) è la seconda azienda cinese ad avviare la produzione all’interno dell’Unione Europea, dopo Leapmotor che, in partnership con Stellantis, nel giugno scorso ha iniziato a fabbricare elettriche compatte nel suo impianto di Tychy, in Polonia. Mentre BYD sta costruendo un grosso impianto in Ungheria, che dovrebbe essere inaugurato a fine 2025. In questo modo i carmaker cinesi potranno aggirare l’aumento dei dazi recentemente varato dall’Ue.
Nel 2023 erano di brand cinesi il 7,6 per cento delle auto elettriche vendute nell’Unione Europea.
Al termine dell’indagine “anti sussidi” della Commissione Europea, il 30 ottobre scorso sono entrati in vigore dazi supplementari (che si sommano a quelli preesistenti del 10 per cento) fino al 35,3 per cento sulle importazioni nell’UE di veicoli elettrici fabbricati in Cina.
Martedì scorso la direttrice generale per il commercio dell’Ue ha smentito le voci secondo le quali sarebbe in vista un accordo sul prezzo minimo dei veicoli elettrici importati dalla Cina, che sostituirebbe i nuovi dazi. «Penso che ci siano state notizie piuttosto confuse sull’imminente accordo sui veicoli elettrici a batteria», ha dichiarato a Bruxelles Sabine Weyand, aggiungendo che permangono «questioni strutturali irrisolte con la controparte cinese».
Fonte
Per ora si tratta di semplice assemblaggio, tramite un metodo DKD diretto: le parti spedite dalla Cina vengono poi montate in Spagna. Successivamente si passerà a un modello CKD, che include anche saldature, verniciature e assemblaggi locali.
La joint-venture tra Chery ed Ebro-EV Motors ha permesso di resuscitare il marchio Ebro – azienda di veicoli commerciali scomparsa nel 1987 – e darà lavoro a 1.250 persone, tra cui i licenziati per la chiusura dell’impianto Nissan, recuperato per fabbricare i nuovi modelli della joint-venture sino-iberica.
Ebro-EV Motors aveva rilevato da Nissan lo stabilimento dopo che la casa automobilistica giapponese lo aveva chiuso nel 2021. Sotto i nuovi proprietari, l’impianto sfornerà inizialmente tre modelli SUV: subito, S700 e S800, a marchio Ebro (entrambi con motori ibridi plug-in, PHEV, o ICE), basati su Chery Tiggo 7 e Tiggo 8; e, a partire dal primo trimestre 2025, Omoda 5 a marchio Chery (nelle versioni elettrica e a combustione interna, ICE).
L’accordo sino-iberico e il rilancio del marchio Ebro sono il frutto di un investimento di 400 milioni di euro reso possibile dalla collaborazione tra il governo di Madrid, le autorità catalane, i sindacati, investitori e i due produttori. «Non è comune assistere alla rinascita di un marchio iconico e oggi condividiamo tutti un sentimento di gioia», ha commentato il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez.
A Barcellona è attesa anche l’istituzione di un centro di ricerca e sviluppo Chery-Ebro-EV Motors. E, secondo l’agenzia di stato Xinhua, in Spagna verranno aperti 45 punti vendita, 30 dei quali entro la fine dell’anno.
Nel 2023, Chery ha esportato 937.148 veicoli, in crescita del 101,1 per cento su base annua, il volume di export più alto di qualsiasi casa automobilistica cinese. Quest’anno Chery – le cui vendite sono concentrate in Asia centrale, Medio Oriente e America latina – supererà per la prima volta 1 milione di vetture consegnate all’estero.
Chery (compagnia di stato controllata dal governo di Wuhu) è la seconda azienda cinese ad avviare la produzione all’interno dell’Unione Europea, dopo Leapmotor che, in partnership con Stellantis, nel giugno scorso ha iniziato a fabbricare elettriche compatte nel suo impianto di Tychy, in Polonia. Mentre BYD sta costruendo un grosso impianto in Ungheria, che dovrebbe essere inaugurato a fine 2025. In questo modo i carmaker cinesi potranno aggirare l’aumento dei dazi recentemente varato dall’Ue.
Nel 2023 erano di brand cinesi il 7,6 per cento delle auto elettriche vendute nell’Unione Europea.
Al termine dell’indagine “anti sussidi” della Commissione Europea, il 30 ottobre scorso sono entrati in vigore dazi supplementari (che si sommano a quelli preesistenti del 10 per cento) fino al 35,3 per cento sulle importazioni nell’UE di veicoli elettrici fabbricati in Cina.
Martedì scorso la direttrice generale per il commercio dell’Ue ha smentito le voci secondo le quali sarebbe in vista un accordo sul prezzo minimo dei veicoli elettrici importati dalla Cina, che sostituirebbe i nuovi dazi. «Penso che ci siano state notizie piuttosto confuse sull’imminente accordo sui veicoli elettrici a batteria», ha dichiarato a Bruxelles Sabine Weyand, aggiungendo che permangono «questioni strutturali irrisolte con la controparte cinese».
Fonte
29/11/2024
Pakistan sull’orlo della guerra civile
Continuano gli scontri sempre più violenti tra polizia ed esercito e i sostenitori dell’ex primo ministro Imran Khan. I manifestanti sono entrati nella capitale Islamabad e hanno raggiunto il quartiere delle principali istituzioni del paese, per poi venire dispersi con la forza dalla polizia. Il ministero dell’Interno, che ha mobilitato l’esercito, parla di sei morti, ma la tensione è in crescendo.
Scarcerazione dell’ex premier per colpo di Stato
Alle proteste stanno partecipando migliaia di persone, ma solo alcune centinaia di loro sono riuscite a superare lo sbarramento delle forze dell’ordine e raggiungere la piazza D-Chowk, obiettivo della manifestazione dei sostenitori di Khan. La piazza è tipicamente il luogo delle principali manifestazioni politiche in Pakistan, e si trova nella cosiddetta “zona rossa” di Islamabad, dove hanno sede tra l’altro il parlamento e la Corte suprema.
Arresto e processi politici
Imran Khan è stato arrestato più di un anno fa, per decine di capi di accusa che i suoi sostenitori ritengono motivati politicamente. È stato lui a convocare la manifestazione, che ha come principale ma non unica richiesta la sua scarcerazione. Domenica i sostenitori di Khan e del suo partito (il Movimento per la Giustizia, PTI) hanno formato grandi convogli, partendo principalmente dal Punjab (nel centro-est) e dalla provincia del Khyber Pakhtunkhwa (nel nord-ovest) verso Islamabad.
Fucili contro fionde non danno maggior ragione
Prima della protesta di ieri la polizia aveva già arrestato più di 4mila persone in tutto il Pakistan e le autorità avevano disposto la sospensione della connessione internet e del segnale telefonico in diverse aree del paese, servizi già molto rallentati dalle misure di sicurezza del governo. Anche per oggi le autorità hanno vietato le manifestazioni pubbliche nella capitale e ordinato la chiusura delle scuole. Tra l’altro ieri, mentre erano in corso gli scontri, era in corso una visita di tre giorni del presidente bielorusso Alexander Lukashenko.
La moglie leader delle proteste
La leader delle proteste è Bushra Bibi, la moglie di Khan, che ha fatto un comizio a Peshawar, la capitale del Khyber Pakhtunkhwa, dove governa il PTI, il partito dei Khan. Martedì Bibi ha detto che i manifestanti non se ne andranno finché non verrà scarcerato Khan. In serata l’ex primo ministro ha diffuso sui social un comunicato in cui chiede ai suoi sostenitori di restare uniti e pacifici e li esorta a continuare a manifestare. Ma il problema non è solo il carcere dell’ex premier, ma le misure antidemocratiche e autoritarie decise dal nuovo governo filo occidentale.
Khan libero e più democrazia
Oltre alla liberazione di Khan, i suoi sostenitori chiedono la revoca di un emendamento costituzionale che ha sottoposto i giudici della Corte suprema alla nomina del parlamento riducendone i poteri. Contestano inoltre la coalizione di sei micro partiti uniti solo della scelta di escludere il partito di maggioranza che ha formato un governo dopo le elezioni di febbraio, vinte dal PTI che però non aveva i numeri per avere la maggioranza in parlamento da solo.
Fonte
Scarcerazione dell’ex premier per colpo di Stato
Alle proteste stanno partecipando migliaia di persone, ma solo alcune centinaia di loro sono riuscite a superare lo sbarramento delle forze dell’ordine e raggiungere la piazza D-Chowk, obiettivo della manifestazione dei sostenitori di Khan. La piazza è tipicamente il luogo delle principali manifestazioni politiche in Pakistan, e si trova nella cosiddetta “zona rossa” di Islamabad, dove hanno sede tra l’altro il parlamento e la Corte suprema.
Arresto e processi politici
Imran Khan è stato arrestato più di un anno fa, per decine di capi di accusa che i suoi sostenitori ritengono motivati politicamente. È stato lui a convocare la manifestazione, che ha come principale ma non unica richiesta la sua scarcerazione. Domenica i sostenitori di Khan e del suo partito (il Movimento per la Giustizia, PTI) hanno formato grandi convogli, partendo principalmente dal Punjab (nel centro-est) e dalla provincia del Khyber Pakhtunkhwa (nel nord-ovest) verso Islamabad.
Fucili contro fionde non danno maggior ragione
Prima della protesta di ieri la polizia aveva già arrestato più di 4mila persone in tutto il Pakistan e le autorità avevano disposto la sospensione della connessione internet e del segnale telefonico in diverse aree del paese, servizi già molto rallentati dalle misure di sicurezza del governo. Anche per oggi le autorità hanno vietato le manifestazioni pubbliche nella capitale e ordinato la chiusura delle scuole. Tra l’altro ieri, mentre erano in corso gli scontri, era in corso una visita di tre giorni del presidente bielorusso Alexander Lukashenko.
La moglie leader delle proteste
La leader delle proteste è Bushra Bibi, la moglie di Khan, che ha fatto un comizio a Peshawar, la capitale del Khyber Pakhtunkhwa, dove governa il PTI, il partito dei Khan. Martedì Bibi ha detto che i manifestanti non se ne andranno finché non verrà scarcerato Khan. In serata l’ex primo ministro ha diffuso sui social un comunicato in cui chiede ai suoi sostenitori di restare uniti e pacifici e li esorta a continuare a manifestare. Ma il problema non è solo il carcere dell’ex premier, ma le misure antidemocratiche e autoritarie decise dal nuovo governo filo occidentale.
Khan libero e più democrazia
Oltre alla liberazione di Khan, i suoi sostenitori chiedono la revoca di un emendamento costituzionale che ha sottoposto i giudici della Corte suprema alla nomina del parlamento riducendone i poteri. Contestano inoltre la coalizione di sei micro partiti uniti solo della scelta di escludere il partito di maggioranza che ha formato un governo dopo le elezioni di febbraio, vinte dal PTI che però non aveva i numeri per avere la maggioranza in parlamento da solo.
Fonte
Siria - Poche le certezze sul nuovo attacco jihdista ad Aleppo
di Francesco Dall'Aglio
La situazione in Siria è estremamente dinamica e ancora più confusa, e il fiume di informazioni contraddittorie che viene diffuso non contribuisce a chiarirla, anzi. Quello che si sa per certo è che il gruppo fondamentalista Hayat Tahrir al-Sham, armato e finanziato dalla Turchia, avanza a passo veloce verso Aleppo, dopo aver rotto la tregua del 2020. Tra loro vari reparti di turkmeni, uiguri e centroasiatici assortiti, oltre ai ceceni ‟dissidenti” di Anjad Al-Kavkaz guidati da Rustam Azhiyev, meglio noto come Abdulhakim Ash-Shishani, che fino a poco fa combattevano contro i russi in Ucraina e si sono portati appresso un bel po’ di materiale bellico, soprattutto droni, generosamente distribuito anche ai confratelli. La reale portata dell’avanzata, però, non è chiara. Le tattiche utilizzate sono quelle che abbiamo visto nell’offensiva nell’oblast’ di Kursk, con reparti veloci che aggirano le posizioni nemiche, occupano i nodi logistici e si fotografano e filmano ovunque per dare l’impressione che il territorio sia interamente in mano loro. In pochissimi di questi filmati, però, ci sono tracce di combattimenti:è vero che alcune unità delle FFAA siriane si sono ritirate senza combattere, ma pare probabile che la maggior parte dei filmati sia stata confezionata o lontano dai combattimenti o prima che arrivassero i rinforzi.
Al momento, come appunto nei primi giorni dell’invasione del Kursk, è dunque piuttosto complicato stabilire quali zone sono effettivamente in mano ai jihadisti. Aleppo oggi pomeriggio era data sostanzialmente per conquistata, ma anche in questo caso non si sono visti filmati di operazioni militari e le unità siriane che vi stanno affluendo mostrano una situazione tranquilla, anche se alla periferia occidentale si combatte. Per quanto riguarda poi i russi, va ricordato che ad Aleppo non ci sono reparti militari a eccezione di qualche unità di reparti speciali, che hanno mostrato foto piuttosto granguignolesche di miliziani morti, e lo stesso discorso vale anche per le unità iraniane e di Hezbollah, poco presenti nella zona; molto attiva è invece l’aviazione russa, che dall’inizio delle operazioni sta bombardando con impunità le posizioni arretrate dei fondamentalisti e le loro linee di rifornimento. Se tra gli scopi dell’operazione c’è quello di obbligare i russi a stornare truppe dall’Ucraina, o dalle riserve, per mandarle in Siria (anche qui una similitudine con l’operazione a Kursk, che doveva servire a sguarnire il Donbas), il risultato finora non è stato raggiunto.
Fonte
La situazione in Siria è estremamente dinamica e ancora più confusa, e il fiume di informazioni contraddittorie che viene diffuso non contribuisce a chiarirla, anzi. Quello che si sa per certo è che il gruppo fondamentalista Hayat Tahrir al-Sham, armato e finanziato dalla Turchia, avanza a passo veloce verso Aleppo, dopo aver rotto la tregua del 2020. Tra loro vari reparti di turkmeni, uiguri e centroasiatici assortiti, oltre ai ceceni ‟dissidenti” di Anjad Al-Kavkaz guidati da Rustam Azhiyev, meglio noto come Abdulhakim Ash-Shishani, che fino a poco fa combattevano contro i russi in Ucraina e si sono portati appresso un bel po’ di materiale bellico, soprattutto droni, generosamente distribuito anche ai confratelli. La reale portata dell’avanzata, però, non è chiara. Le tattiche utilizzate sono quelle che abbiamo visto nell’offensiva nell’oblast’ di Kursk, con reparti veloci che aggirano le posizioni nemiche, occupano i nodi logistici e si fotografano e filmano ovunque per dare l’impressione che il territorio sia interamente in mano loro. In pochissimi di questi filmati, però, ci sono tracce di combattimenti:è vero che alcune unità delle FFAA siriane si sono ritirate senza combattere, ma pare probabile che la maggior parte dei filmati sia stata confezionata o lontano dai combattimenti o prima che arrivassero i rinforzi.
Al momento, come appunto nei primi giorni dell’invasione del Kursk, è dunque piuttosto complicato stabilire quali zone sono effettivamente in mano ai jihadisti. Aleppo oggi pomeriggio era data sostanzialmente per conquistata, ma anche in questo caso non si sono visti filmati di operazioni militari e le unità siriane che vi stanno affluendo mostrano una situazione tranquilla, anche se alla periferia occidentale si combatte. Per quanto riguarda poi i russi, va ricordato che ad Aleppo non ci sono reparti militari a eccezione di qualche unità di reparti speciali, che hanno mostrato foto piuttosto granguignolesche di miliziani morti, e lo stesso discorso vale anche per le unità iraniane e di Hezbollah, poco presenti nella zona; molto attiva è invece l’aviazione russa, che dall’inizio delle operazioni sta bombardando con impunità le posizioni arretrate dei fondamentalisti e le loro linee di rifornimento. Se tra gli scopi dell’operazione c’è quello di obbligare i russi a stornare truppe dall’Ucraina, o dalle riserve, per mandarle in Siria (anche qui una similitudine con l’operazione a Kursk, che doveva servire a sguarnire il Donbas), il risultato finora non è stato raggiunto.
Fonte
Libano - Israele viola il cessate il fuoco
Israele ha violato più volte il cessate il fuoco con Hezbollah tra ieri e oggi. Lo ha dichiarato l’esercito libanese secondo quanto riporta l’agenzia Reuter.
Il fuoco di carri armati israeliani ha colpito sei aree nel sud del Libano e l’esercito israeliano ha dichiarato che il cessate il fuoco con il gruppo armato libanese Hezbollah è stato violato dopo che quelle che ha definito persone sospette, alcune a bordo di veicoli, sono arrivate in diverse aree della parte sud del Paese dei Cedri.
Le forze aeree israeliane avrebbero inoltre bombardato una postazione di Hezbollah nel sud del Libano, “un sito in cui erano stati dispiegati razzi a medio raggio e dove è stata registrata attività di stampo terrorista” è la versione israeliana.
Tuttavia, secondo l’esercito libanese, questo non sarebbe l’unico caso in cui Israele ha violato l’accordo. Israele ha invece confermato di aver effettuato un raid nel sud del Libano, definendolo un colpo di avvertimento. “Nell’ultima ora è stato identificato l’arrivo di sospetti, alcuni con veicoli, in diverse aree del Libano meridionale, il che costituisce una violazione del cessate il fuoco”, ha affermato l’IDF, come riporta Times of Israel. L’esercito ha dichiarato di aver aperto il fuoco contro dei sospetti nella zona di Markaba, sparando un “colpo di avvertimento” in prossimità di un veicolo. Almeno due persone sono rimaste ferite.
Un drone dell’aeronautica militare israeliana ha attaccato un veicolo libanese nella zona del villaggio di Markaba, nel sud del Paese, due persone sono rimaste ferite, riferisce la televisione israeliana Channel 12.
Agli sfollati del sud del Libano non è ancora permesso rientrare nei loro villaggi in base all’accordo di cessate il fuoco.
In un messaggio urgente sui social, in lingua araba, le forze armate israeliane hanno avvertito i residenti del Libano meridionale che è severamente vietato spostarsi a sud del fiume Litani a partire dalle 5 del pomeriggio fino alle 7 del mattino di domani (un’ora in meno in Italia), come era già avvenuto ieri nel primo giorno di tregua. Chi già si trova a sud del Litani deve rimanere dove si trova, ha intimato l’esercito israeliano.
“L’Idf non ha rispettato l’accordo” – denunciano fonti libanesi. Il parlamentare Hassan Fadlallah ha dichiarato inoltre che l’esercito di Israele avrebbe anche aperto il fuoco, solo poche ore fa, contro civili che tornavano nei propri villaggi: “Il nemico israeliano sta attaccando coloro che tornano ai villaggi di confine. Oggi ci sono violazioni da parte di Israele, anche in questa forma”.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto ai militari delle Idf di essere “pronti a una guerra intensa” in Libano nel caso in cui l’accordo di cessate il fuoco raggiunto con Hezbollah dovesse essere violato. Nel corso di una intervista con Channel 14, Netanyahu ha detto di aver “dato istruzioni all’Idf” che “se ci sarà una violazione massiccia dell’accordo, non solo opereremo chirurgicamente come stiamo facendo ora, e con la forza, ogni volta. Se ci sarà una violazione massiccia dell’accordo, ho ordinato all’Idf di prepararsi per una guerra ad alta intensità”. Netanyahu ha quindi affermato che il cessate il fuoco in Libano “potrebbe essere breve”.
Fonte
Il fuoco di carri armati israeliani ha colpito sei aree nel sud del Libano e l’esercito israeliano ha dichiarato che il cessate il fuoco con il gruppo armato libanese Hezbollah è stato violato dopo che quelle che ha definito persone sospette, alcune a bordo di veicoli, sono arrivate in diverse aree della parte sud del Paese dei Cedri.
Le forze aeree israeliane avrebbero inoltre bombardato una postazione di Hezbollah nel sud del Libano, “un sito in cui erano stati dispiegati razzi a medio raggio e dove è stata registrata attività di stampo terrorista” è la versione israeliana.
Tuttavia, secondo l’esercito libanese, questo non sarebbe l’unico caso in cui Israele ha violato l’accordo. Israele ha invece confermato di aver effettuato un raid nel sud del Libano, definendolo un colpo di avvertimento. “Nell’ultima ora è stato identificato l’arrivo di sospetti, alcuni con veicoli, in diverse aree del Libano meridionale, il che costituisce una violazione del cessate il fuoco”, ha affermato l’IDF, come riporta Times of Israel. L’esercito ha dichiarato di aver aperto il fuoco contro dei sospetti nella zona di Markaba, sparando un “colpo di avvertimento” in prossimità di un veicolo. Almeno due persone sono rimaste ferite.
Un drone dell’aeronautica militare israeliana ha attaccato un veicolo libanese nella zona del villaggio di Markaba, nel sud del Paese, due persone sono rimaste ferite, riferisce la televisione israeliana Channel 12.
Agli sfollati del sud del Libano non è ancora permesso rientrare nei loro villaggi in base all’accordo di cessate il fuoco.
In un messaggio urgente sui social, in lingua araba, le forze armate israeliane hanno avvertito i residenti del Libano meridionale che è severamente vietato spostarsi a sud del fiume Litani a partire dalle 5 del pomeriggio fino alle 7 del mattino di domani (un’ora in meno in Italia), come era già avvenuto ieri nel primo giorno di tregua. Chi già si trova a sud del Litani deve rimanere dove si trova, ha intimato l’esercito israeliano.
“L’Idf non ha rispettato l’accordo” – denunciano fonti libanesi. Il parlamentare Hassan Fadlallah ha dichiarato inoltre che l’esercito di Israele avrebbe anche aperto il fuoco, solo poche ore fa, contro civili che tornavano nei propri villaggi: “Il nemico israeliano sta attaccando coloro che tornano ai villaggi di confine. Oggi ci sono violazioni da parte di Israele, anche in questa forma”.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto ai militari delle Idf di essere “pronti a una guerra intensa” in Libano nel caso in cui l’accordo di cessate il fuoco raggiunto con Hezbollah dovesse essere violato. Nel corso di una intervista con Channel 14, Netanyahu ha detto di aver “dato istruzioni all’Idf” che “se ci sarà una violazione massiccia dell’accordo, non solo opereremo chirurgicamente come stiamo facendo ora, e con la forza, ogni volta. Se ci sarà una violazione massiccia dell’accordo, ho ordinato all’Idf di prepararsi per una guerra ad alta intensità”. Netanyahu ha quindi affermato che il cessate il fuoco in Libano “potrebbe essere breve”.
Fonte
Salvini vs. USB, un vittimismo paraculo
Il ministro Salvini evidentemente i comunicati non li sa leggere, o non ha tempo per farlo.
Il Ministro infatti per dare risposte ai lavoratori di questo paese il tempo non lo trova mai (ben 6 le nostre richieste di incontro di cui l’ultima inviata oggi). Il Ministro Salvini però trova il tempo di fare la vittima sui social, inveendo contro la nostra organizzazione sindacale, per mettere nuovamente in discussione il diritto costituzionale dello sciopero e per inventarsi una minaccia che il nostro sindacato gli avrebbe rivolto.
Ma ci faccia il piacere Ministro Salvini, ci dica dove sarebbe sta minaccia; il monito a cui abbiamo fatto riferimento è quello del giudizio dato dal TAR in merito alla sua idea di “precettazione facile”. Se ne faccia una ragione, lo sciopero è un diritto che continueremo a esercitare fino a quando lei non darà le risposte necessarie, assumendosi completamente la responsabilità del disastro dei trasporti del nostro Paese.
La nostra organizzazione conferma l’iniziativa del giorno 6 dicembre sotto il Ministero dei Trasporti e conferma lo sciopero generale del 13 dicembre, che con l’esclusione del trasporto aereo, riguarderà tutti i trasporti di questo paese.
Qui il comunicato dell’Unione Sindacale di Base.
Fonte
Il Ministro infatti per dare risposte ai lavoratori di questo paese il tempo non lo trova mai (ben 6 le nostre richieste di incontro di cui l’ultima inviata oggi). Il Ministro Salvini però trova il tempo di fare la vittima sui social, inveendo contro la nostra organizzazione sindacale, per mettere nuovamente in discussione il diritto costituzionale dello sciopero e per inventarsi una minaccia che il nostro sindacato gli avrebbe rivolto.
Ma ci faccia il piacere Ministro Salvini, ci dica dove sarebbe sta minaccia; il monito a cui abbiamo fatto riferimento è quello del giudizio dato dal TAR in merito alla sua idea di “precettazione facile”. Se ne faccia una ragione, lo sciopero è un diritto che continueremo a esercitare fino a quando lei non darà le risposte necessarie, assumendosi completamente la responsabilità del disastro dei trasporti del nostro Paese.
La nostra organizzazione conferma l’iniziativa del giorno 6 dicembre sotto il Ministero dei Trasporti e conferma lo sciopero generale del 13 dicembre, che con l’esclusione del trasporto aereo, riguarderà tutti i trasporti di questo paese.
Qui il comunicato dell’Unione Sindacale di Base.
Fonte
Siria - I qaedisti approfittano della crisi regionale e attaccano in massa
di Michele Giorgio
Con un tempismo che solleva inevitabili interrogativi, al Fath al Mubin un’alleanza che racchiude gruppi jihadisti guidati da Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts, l’ex Fronte al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda), ha lanciato due giorni fa un massiccio attacco a sorpresa, il più ampio dal 2019, contro l’esercito siriano ad est di Idlib, conquistando rapidamente oltre venti villaggi, 250 kmq di territorio e arrivando a meno di cinque chilometri da Kasr al Asal, la porta di Aleppo. Il «maggiore» Hassan Abdul Ghani, portavoce della cosiddetta «Operazione deterrenza all’aggressione», ieri parlava di «crollo» delle fortificazioni dell’esercito siriano e delle milizie alleate – tra i morti ci sarebbe un generale iraniano, Qamart Bourhashemi, comandante dei Pasdaran nella regione di Aleppo – e della conquista di mezzi corazzati e depositi di armi. È stata occupata anche buona parte di Saraqib, città situata in una posizione strategica nei pressi dell’autostrada M5 che corre da Damasco ad Aleppo ed arteria fondamentale per l’invio di rinforzi governativi nel nord.
Non è chiaro il ruolo della Turchia, ma Ankara attraverso fonti della sua sicurezza, fa sapere di essere compiaciuta dall’offensiva in corso contro il presidente Bashar Assad. Secondo le fonti turche, l’attacco intorno ad Aleppo starebbe avvenendo nei confini dell’area di de-escalation a Idlib concordata nel 2020 da Russia e Turchia. Da parte sua Hts spiega l’offensiva come una reazione a recenti attacchi dell’esercito a ridosso di Idlib porzione di territorio siriano che, 13 anni dopo l’inizio della guerra civile, resta nelle mani delle formazioni islamiste appoggiate dal leader turco Recep Tayyip Erdogan.
Non si può non constatare come l’attacco sia avvenuto mentre Israele, attraverso il suo premier Netanyahu, lancia pesanti avvertimenti a Damasco che farebbe transitare verso il Libano rifornimenti di armi per il movimento sciita Hezbollah. «In Siria stiamo impedendo sistematicamente i tentativi di Iran, Hezbollah e dell’esercito regolare di trasferire armamenti in Libano. Assad deve capire che sta giocando con il fuoco», ha ammonito Netanyahu qualche giorno fa, poche ore prima degli attacchi dell’aviazione israeliana, con sei morti, sulla frontiera tra Siria e Libano. Lo scorso 21 novembre, 81 persone sono state uccise da violenti raid aerei su Palmira. Non sono passate inosservate, peraltro, foto che ritraggono i miliziani di Hts con uniformi, elmetti di ultima generazione e armi automatiche di solito in dotazione a soldati di unità speciali. L’organizzazione qaedista, dicono i media governativi, starebbe facendo uso di droni ucraini – più probabilmente di fabbricazione turca – per colpire gli avversari.
Gli scontri a fuoco sono intensi e hanno causato la morte di circa 200 combattenti, decine dei quali soldati delle forze governative che hanno reagito con pesanti bombardamenti aerei (anche degli alleati russi): una dozzina di persone sono rimaste uccise. Sebbene Hts si sforzi di far apparire la sua offensiva come una operazione limitata, è impensabile che un tale impiego di forze, accompagnato da un sostegno finanziario di origine ignota, non sia finalizzato a mettere sotto pressione Aleppo. Un altro obiettivo è quello di rimettere in moto le proteste contro Damasco in città chiave come Homs e Deraa dove Assad è contestato. «La preoccupazione nella capitale è elevata» ci diceva ieri una fonte internazionale in Siria «alcuni credono che dietro l’avanzata di Hts ci siano Israele e Stati uniti con l’intenzione di costringere Damasco a fermare i rifornimenti di armi per Hezbollah e a rinunciare al sostegno iraniano». Altri affermano che ora Teheran, in cambio degli aiuti militari necessari per ricacciare indietro Hts, farà pressioni più forti su Assad per spingerlo a lasciarsi coinvolgere maggiormente nello scontro con Israele.
Da considerare anche che Hts, i suoi alleati e Ankara hanno accolto con rabbia la proposta dell’Unione europea di nominare un inviato speciale per la Siria segnalando un atteggiamento più morbido nei confronti di Damasco dopo aver mantenuto per anni la politica dei «tre no»: nessuna normalizzazione, nessuna revoca delle sanzioni e nessun aiuto alla ricostruzione senza progressi politici a favore dell’opposizione. Tuttavia, negli ultimi tempi la rigidità ha lasciato il posto al pragmatismo e proprio l’Italia è stato il primo paese europeo a inviare di nuovo l’ambasciatore a Damasco.
Fonte
Con un tempismo che solleva inevitabili interrogativi, al Fath al Mubin un’alleanza che racchiude gruppi jihadisti guidati da Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts, l’ex Fronte al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda), ha lanciato due giorni fa un massiccio attacco a sorpresa, il più ampio dal 2019, contro l’esercito siriano ad est di Idlib, conquistando rapidamente oltre venti villaggi, 250 kmq di territorio e arrivando a meno di cinque chilometri da Kasr al Asal, la porta di Aleppo. Il «maggiore» Hassan Abdul Ghani, portavoce della cosiddetta «Operazione deterrenza all’aggressione», ieri parlava di «crollo» delle fortificazioni dell’esercito siriano e delle milizie alleate – tra i morti ci sarebbe un generale iraniano, Qamart Bourhashemi, comandante dei Pasdaran nella regione di Aleppo – e della conquista di mezzi corazzati e depositi di armi. È stata occupata anche buona parte di Saraqib, città situata in una posizione strategica nei pressi dell’autostrada M5 che corre da Damasco ad Aleppo ed arteria fondamentale per l’invio di rinforzi governativi nel nord.
Non è chiaro il ruolo della Turchia, ma Ankara attraverso fonti della sua sicurezza, fa sapere di essere compiaciuta dall’offensiva in corso contro il presidente Bashar Assad. Secondo le fonti turche, l’attacco intorno ad Aleppo starebbe avvenendo nei confini dell’area di de-escalation a Idlib concordata nel 2020 da Russia e Turchia. Da parte sua Hts spiega l’offensiva come una reazione a recenti attacchi dell’esercito a ridosso di Idlib porzione di territorio siriano che, 13 anni dopo l’inizio della guerra civile, resta nelle mani delle formazioni islamiste appoggiate dal leader turco Recep Tayyip Erdogan.
Non si può non constatare come l’attacco sia avvenuto mentre Israele, attraverso il suo premier Netanyahu, lancia pesanti avvertimenti a Damasco che farebbe transitare verso il Libano rifornimenti di armi per il movimento sciita Hezbollah. «In Siria stiamo impedendo sistematicamente i tentativi di Iran, Hezbollah e dell’esercito regolare di trasferire armamenti in Libano. Assad deve capire che sta giocando con il fuoco», ha ammonito Netanyahu qualche giorno fa, poche ore prima degli attacchi dell’aviazione israeliana, con sei morti, sulla frontiera tra Siria e Libano. Lo scorso 21 novembre, 81 persone sono state uccise da violenti raid aerei su Palmira. Non sono passate inosservate, peraltro, foto che ritraggono i miliziani di Hts con uniformi, elmetti di ultima generazione e armi automatiche di solito in dotazione a soldati di unità speciali. L’organizzazione qaedista, dicono i media governativi, starebbe facendo uso di droni ucraini – più probabilmente di fabbricazione turca – per colpire gli avversari.
Gli scontri a fuoco sono intensi e hanno causato la morte di circa 200 combattenti, decine dei quali soldati delle forze governative che hanno reagito con pesanti bombardamenti aerei (anche degli alleati russi): una dozzina di persone sono rimaste uccise. Sebbene Hts si sforzi di far apparire la sua offensiva come una operazione limitata, è impensabile che un tale impiego di forze, accompagnato da un sostegno finanziario di origine ignota, non sia finalizzato a mettere sotto pressione Aleppo. Un altro obiettivo è quello di rimettere in moto le proteste contro Damasco in città chiave come Homs e Deraa dove Assad è contestato. «La preoccupazione nella capitale è elevata» ci diceva ieri una fonte internazionale in Siria «alcuni credono che dietro l’avanzata di Hts ci siano Israele e Stati uniti con l’intenzione di costringere Damasco a fermare i rifornimenti di armi per Hezbollah e a rinunciare al sostegno iraniano». Altri affermano che ora Teheran, in cambio degli aiuti militari necessari per ricacciare indietro Hts, farà pressioni più forti su Assad per spingerlo a lasciarsi coinvolgere maggiormente nello scontro con Israele.
Da considerare anche che Hts, i suoi alleati e Ankara hanno accolto con rabbia la proposta dell’Unione europea di nominare un inviato speciale per la Siria segnalando un atteggiamento più morbido nei confronti di Damasco dopo aver mantenuto per anni la politica dei «tre no»: nessuna normalizzazione, nessuna revoca delle sanzioni e nessun aiuto alla ricostruzione senza progressi politici a favore dell’opposizione. Tuttavia, negli ultimi tempi la rigidità ha lasciato il posto al pragmatismo e proprio l’Italia è stato il primo paese europeo a inviare di nuovo l’ambasciatore a Damasco.
Fonte
Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente Milei
Con una decisione dai contenuti durissimi la corte di Cassazione argentina ha censurato l’operato del governo Milei che aveva arbitrariamente revocato lo statuto di rifugiato politico a Leonardo Bertulazzi, l’ex Br della colonna genovese riparato da quattro decenni in America Latina e da 20 anni residente a Buenos Aires.
I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere.
L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione.
Un arresto arbitrario e una revoca illegittima
I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche».
I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei corretti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale esecutivo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui Milei si rivendica erede.
Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo passo, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia.
Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda.
Fonte
I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere.
L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione.
Un arresto arbitrario e una revoca illegittima
I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche».
I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei corretti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale esecutivo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui Milei si rivendica erede.
Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo passo, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia.
Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda.
Fonte
UE sulla Georgia: elezioni da ripetere finché non vinciamo
A un mese dalle contestate elezioni parlamentari in Georgia, il Parlamento Europeo, ieri, ha votato favorevolmente una risoluzione con la quale non riconosce il risultato uscito dalle urne, chiedendo di ripetere il voto entro un anno, sotto la supervisione internazionale e per opera di un’amministrazione “indipendente”.
Alla tornata appena conclusa, il partito Sogno Georgiano aveva confermato la maggioranza con il 54% dei voti. L’opposizione, forte anche dell’appoggio della presidente uscente Salomé Zourabichvili, ha subito denunciato brogli e violenze, fatte risalire alla presunta influenza russa nelle procedure di votazione.
Sogno Georgiano, pur avendo seguito in passato le linee dettate dall’euro-atlantismo, prima si è opposto prima alla politica di sanzioni contro Mosca, poi ha spinto l’adozione di una legge sulle “interferenze straniere” del tutto simile a quelle statunitensi ed europee, ma ciò l’ha fatto etichettare subito come filo-russo.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha denunciato pressioni e tensioni che avrebbero inficiato i risultati. Si tratta della stessa istituzione che ha ignorato gli ostacoli al voto posti ai moldavi residenti in Russia, in occasioni delle recenti elezioni presidenziali e del referendum per inserire l’ingresso in UE da inserire nella Costituzione di Chisinau.
Inoltre, è molto difficile considerare come “neutrale” un soggetto il cui coordinatore speciale in Europa, Pascal Allizard, ha detto che spera il paese si avvicini agli obiettivi di integrazione europea. È chiaro che ci sia un pesante condizionamento rispetto agli indirizzi di politica estera che, a suo avviso, Tbilisi dovrebbe seguire.
Varie proteste di piazza avevano già attraversato il paese, e altre manifestazioni sono state organizzate nelle ultime settimane sotto le bandiere della UE e della NATO. La prima sessione del Parlamento è stata boicottata sia dalla Zourabichvili (che, ricordiamo, è un’ex ambasciatrice francese, poi naturalizzata georgiana) sia dalle opposizioni.
Zourabichvili non ha ratificato il voto e ha intentato una causa presso la Corte Costituzionale per annullarlo. Ma ad ogni modo, sempre secondo la carta fondante del paese, i numeri di Sogno Georgiano hanno permesso di dare avvio alla nuova legislatura, potendo contare su la metà più uno del numero totale dei parlamentari.
La questione si fa però ora spinosa non solo dal punto di vista legale, ma anche – e soprattutto – per ciò che riguarda la polarizzazione nelle strade. Sempre in Costituzione si legge che “il Parlamento acquisisce pieni poteri una volta riconosciuto da due terzi dei membri del Parlamento stesso”.
Questo numero, finché almeno 11 membri dell’opposizione non vi si siederanno, non può essere raggiunto. E intanto, il 14 dicembre il consesso rinnovato dovrebbe votare anche il nuovo Presidente, con la Zourabichvili che è in scadenza di mandato e sta dunque avvicinandosi a operare fuori dalla legalità costituzionale.
Risulta chiaro come la questione georgiana si sta giocando sul filo di un vuoto di potere accompagnato da mobilitazioni di piazza fortemente orientate dalle centrali imperialistiche occidentali. Da Strasburgo arriva il sostegno tramite la risoluzione appena votata dal Parlamento Europeo, affermando inoltre che la strada presa dalle Georgia è incompatibile con l’integrazione euroatlantica.
Invocando “indagini internazionali” che però ancora non sono state fatte, la UE invita comunque già da ora a imporre sanzioni contro singole personalità ritenute responsabili di aver allontanato il paese da Bruxelles. Non propriamente un iter limpido e fondato, che rischia solo di peggiorare una situazione già al limite della rottura.
Nella serata di ieri, il primo ministro Irakli Kobakhidze ha reso noto che il processo di adesione della Georgia alla UE verrà interrotto, almeno fino al 2028. La risposta è stata un rinfocolarsi delle piazze, con barricate e scontri davanti al Parlamento.
Potrebbe allora essere proprio l’opzione “golpista” ad attirare la classe dirigente europea. La richiesta di supervisione internazionale e di un’amministrazione indipendente che organizzi un nuovo voto è già di per sé un’evidente ingerenza esterna, anche se ancora presentata come fosse nell’alveo di un processo democratico.
Non è molta la distanza che separa il far parlare le risoluzione dal far parlare i fatti...
Fonte
Alla tornata appena conclusa, il partito Sogno Georgiano aveva confermato la maggioranza con il 54% dei voti. L’opposizione, forte anche dell’appoggio della presidente uscente Salomé Zourabichvili, ha subito denunciato brogli e violenze, fatte risalire alla presunta influenza russa nelle procedure di votazione.
Sogno Georgiano, pur avendo seguito in passato le linee dettate dall’euro-atlantismo, prima si è opposto prima alla politica di sanzioni contro Mosca, poi ha spinto l’adozione di una legge sulle “interferenze straniere” del tutto simile a quelle statunitensi ed europee, ma ciò l’ha fatto etichettare subito come filo-russo.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha denunciato pressioni e tensioni che avrebbero inficiato i risultati. Si tratta della stessa istituzione che ha ignorato gli ostacoli al voto posti ai moldavi residenti in Russia, in occasioni delle recenti elezioni presidenziali e del referendum per inserire l’ingresso in UE da inserire nella Costituzione di Chisinau.
Inoltre, è molto difficile considerare come “neutrale” un soggetto il cui coordinatore speciale in Europa, Pascal Allizard, ha detto che spera il paese si avvicini agli obiettivi di integrazione europea. È chiaro che ci sia un pesante condizionamento rispetto agli indirizzi di politica estera che, a suo avviso, Tbilisi dovrebbe seguire.
Varie proteste di piazza avevano già attraversato il paese, e altre manifestazioni sono state organizzate nelle ultime settimane sotto le bandiere della UE e della NATO. La prima sessione del Parlamento è stata boicottata sia dalla Zourabichvili (che, ricordiamo, è un’ex ambasciatrice francese, poi naturalizzata georgiana) sia dalle opposizioni.
Zourabichvili non ha ratificato il voto e ha intentato una causa presso la Corte Costituzionale per annullarlo. Ma ad ogni modo, sempre secondo la carta fondante del paese, i numeri di Sogno Georgiano hanno permesso di dare avvio alla nuova legislatura, potendo contare su la metà più uno del numero totale dei parlamentari.
La questione si fa però ora spinosa non solo dal punto di vista legale, ma anche – e soprattutto – per ciò che riguarda la polarizzazione nelle strade. Sempre in Costituzione si legge che “il Parlamento acquisisce pieni poteri una volta riconosciuto da due terzi dei membri del Parlamento stesso”.
Questo numero, finché almeno 11 membri dell’opposizione non vi si siederanno, non può essere raggiunto. E intanto, il 14 dicembre il consesso rinnovato dovrebbe votare anche il nuovo Presidente, con la Zourabichvili che è in scadenza di mandato e sta dunque avvicinandosi a operare fuori dalla legalità costituzionale.
Risulta chiaro come la questione georgiana si sta giocando sul filo di un vuoto di potere accompagnato da mobilitazioni di piazza fortemente orientate dalle centrali imperialistiche occidentali. Da Strasburgo arriva il sostegno tramite la risoluzione appena votata dal Parlamento Europeo, affermando inoltre che la strada presa dalle Georgia è incompatibile con l’integrazione euroatlantica.
Invocando “indagini internazionali” che però ancora non sono state fatte, la UE invita comunque già da ora a imporre sanzioni contro singole personalità ritenute responsabili di aver allontanato il paese da Bruxelles. Non propriamente un iter limpido e fondato, che rischia solo di peggiorare una situazione già al limite della rottura.
Nella serata di ieri, il primo ministro Irakli Kobakhidze ha reso noto che il processo di adesione della Georgia alla UE verrà interrotto, almeno fino al 2028. La risposta è stata un rinfocolarsi delle piazze, con barricate e scontri davanti al Parlamento.
Potrebbe allora essere proprio l’opzione “golpista” ad attirare la classe dirigente europea. La richiesta di supervisione internazionale e di un’amministrazione indipendente che organizzi un nuovo voto è già di per sé un’evidente ingerenza esterna, anche se ancora presentata come fosse nell’alveo di un processo democratico.
Non è molta la distanza che separa il far parlare le risoluzione dal far parlare i fatti...
Fonte
28/11/2024
libano - Gli israeliani non sono convinti dall’accordo di cessate il fuoco
Nonostante la fine di più di un anno di combattimenti lungo il confine libanese, non c’è alcun senso di vittoria in Israele dopo il cessate il fuoco di mercoledì 27 novembre con Hezbollah.
Gli israeliani sfollati dicono di non sentirsi sicuri di tornare alle loro case, gli oppositori politici e gli alleati del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno denunciato l’accordo come debole e molti si sono chiesti cosa sia successo alla vittoria totale promessa dal primo ministro.
Parlando alla televisione nazionale martedì sera, Netanyahu ha cercato di vendere l’accordo al pubblico israeliano.
Ma la maggior parte non era convinta, chiedendosi se si trattasse di una pausa temporanea nei combattimenti o di una fine più permanente delle ostilità – e chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto perché Hezbollah si riorganizzasse e si riarmasse.
L’analista politico israeliano Meron Rapaport ha detto a Middle East Eye che la confusione e la delusione in Israele per l’accordo con Hezbollah riflettono in parte l’incapacità del governo di fornire il risultato decisivo che aveva promesso in un conflitto che ha goduto di un ampio sostegno popolare.
“[Il ministro della Difesa] Israel Katz solo dieci giorni fa ha detto che l’obiettivo è disarmare Hezbollah e che ci sarà una zona cuscinetto. Questo è ciò che ci hanno detto, e chiaramente non sta accadendo. È un divario molto grande”, ha detto Rapoport.
Ma ha detto che l’accordo riflette anche le differenze tra il governo e l’establishment della sicurezza tradizionale del paese su come vengono combattute le guerre a Gaza e in Libano.
Mentre quest’ultimo ha favorito la lotta contro Hezbollah, Netanyahu e i suoi alleati rimangono impegnati nella guerra a Gaza e nell’obiettivo della pulizia etnica nel nord dell’enclave, ha suggerito Rapaport.
“La guerra del Libano è stata una guerra del centro-sinistra e dell’esercito in particolare, e non della destra. Questa è stata una guerra delle vecchie élite”, ha detto.
“Le nuove élite sono interessate a Gaza, quindi è stato facile per Netanyahu rinunciare al Libano e concentrarsi su Gaza”, ha aggiunto Rapaport.
Ma Ameer Makhoul, un attivista israeliano per i diritti umani, ha detto a MEE che è ancora discutibile se Netanyahu si impegni per un cessate il fuoco duraturo con Hezbollah.
Ha suggerito che l’accordo potrebbe equivalere a una tregua a breve termine, con Netanyahu che aspetta il suo momento in attesa dell'insediamento della nuova amministrazione Trump, consentendo al contempo di riprendere fiato alle forze israeliane esauste dalla guerra su più fronti.
“Sembra che stia parlando di una tregua di 60 giorni piuttosto che della fine della guerra, considerandola un periodo di attesa per Trump”, ha detto Makhoul.
“Questa potrebbe essere la prima decisione razionale che riconosce i limiti del potere e riconosce che l’esercito è esausto, sovraccarico e mette a dura prova i soldati, in particolare le forze di riserva”.
“Un accordo sul ghiaccio”
I membri della coalizione di estrema destra di Netanyahu si sono affrettati a prendere le distanze dall’accordo.
“Questo accordo non soddisfa l’obiettivo della guerra: riportare a casa sani e salvi i residenti del nord”, ha detto Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza e leader del partito Potere Ebraico.
“Un accordo con l’esercito libanese è un accordo sul ghiaccio. L’esercito libanese non ha autorità, e certamente non ha la capacità di sconfiggere Hezbollah. Abbiamo già visto che non dobbiamo fare affidamento su nessuno se non su noi stessi... Alla fine, dovremo tornare di nuovo in Libano. Questo è un errore storico”.
Aspre critiche sono arrivate anche da Yoav Gallant, l’ex ministro della Difesa che è stato licenziato da Netanyahu all’inizio di questo mese. Entrambi gli uomini sono stati oggetto questa settimana di mandati di arresto per accuse di crimini di guerra emessi dalla Corte penale internazionale.
Gallant ha detto: “In Medio Oriente, le parole, le dichiarazioni e persino gli accordi scritti non hanno significato: il futuro del nord e la sicurezza dei suoi abitanti saranno determinati da una sola cosa: la determinazione del governo israeliano a dirigere l’apparato di sicurezza ad attaccare vigorosamente qualsiasi tentativo di Hezbollah di violarlo immediatamente”.
Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha affermato che la priorità del governo dovrebbe essere quella di negoziare un accordo per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza dall’ottobre 2023.
“Il più grande disastro della nostra storia è accaduto durante il mandato di Netanyahu. Nessun accordo con Hezbollah cancellerà l’illegalità. Dobbiamo fare urgentemente un accordo... per riportare a casa i cittadini che sono stati abbandonati”, ha detto Lapid.
Benny Gantz, un altro esponente dell’opposizione che ha lasciato il gabinetto di guerra di Netanyahu a giugno, ma ha sostenuto le guerre a Gaza e in Libano, ha detto: “Non dovete fare un lavoro a metà”.
Non tornerò indietro
Nel frattempo, i residenti delle città e dei villaggi nel nord di Israele hanno detto di avere paura di tornare alle loro case, con molti che dicono che preferiscono rimanere dove sono per ora.
Yifat Elmalich, madre di tre figli di Kiryat Shmona, dove una stazione degli autobus è stata colpita da razzi di Hezbollah durante la notte di mercoledì, ha detto al sito web di notizie Ynet: “Non vogliamo tornare a una vita di paura costante... Questo accordo sembra debole e non a nostro favore... Per ora, siamo inclini a rimanere fermi. La nostra casa è stata danneggiata dalle schegge e non ci sentiamo ancora completamente al sicuro in città”.
Hofit Mor, madre di quattro figli del Moshav Kfar Yuval, ha dichiarato: “Sono contraria all’accordo. Sembra che ci stia riportando al punto di partenza, a dove eravamo prima della guerra... Dopo aver visto il disastro nella regione di confine con Gaza, ci siamo resi conto del pericolo in cui stavamo vivendo. In queste condizioni, non tornerò indietro”.
Dall’ottobre 2023 fino a 70.000 residenti sono stati evacuati dal nord di Israele, dopo che Hezbollah ha intensificato gli attacchi missilistici in risposta all’assalto di Israele contro Hamas a Gaza.
Il sindaco di una città del nord, Kiryat Shmona, ha vividamente catturato la loro frustrazione per l’accordo nei commenti su Facebook prima dell’annuncio dell’accordo di cessate il fuoco.
Pubblicando un video di persone in Libano che festeggiano l’imminente accordo, Avihay Shtern ha scritto: “Ci avete promesso una vittoria completa, quindi com’è che Hezbollah sta festeggiando?”
Fonte
Gli israeliani sfollati dicono di non sentirsi sicuri di tornare alle loro case, gli oppositori politici e gli alleati del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno denunciato l’accordo come debole e molti si sono chiesti cosa sia successo alla vittoria totale promessa dal primo ministro.
Parlando alla televisione nazionale martedì sera, Netanyahu ha cercato di vendere l’accordo al pubblico israeliano.
Ma la maggior parte non era convinta, chiedendosi se si trattasse di una pausa temporanea nei combattimenti o di una fine più permanente delle ostilità – e chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto perché Hezbollah si riorganizzasse e si riarmasse.
L’analista politico israeliano Meron Rapaport ha detto a Middle East Eye che la confusione e la delusione in Israele per l’accordo con Hezbollah riflettono in parte l’incapacità del governo di fornire il risultato decisivo che aveva promesso in un conflitto che ha goduto di un ampio sostegno popolare.
“[Il ministro della Difesa] Israel Katz solo dieci giorni fa ha detto che l’obiettivo è disarmare Hezbollah e che ci sarà una zona cuscinetto. Questo è ciò che ci hanno detto, e chiaramente non sta accadendo. È un divario molto grande”, ha detto Rapoport.
Ma ha detto che l’accordo riflette anche le differenze tra il governo e l’establishment della sicurezza tradizionale del paese su come vengono combattute le guerre a Gaza e in Libano.
Mentre quest’ultimo ha favorito la lotta contro Hezbollah, Netanyahu e i suoi alleati rimangono impegnati nella guerra a Gaza e nell’obiettivo della pulizia etnica nel nord dell’enclave, ha suggerito Rapaport.
“La guerra del Libano è stata una guerra del centro-sinistra e dell’esercito in particolare, e non della destra. Questa è stata una guerra delle vecchie élite”, ha detto.
“Le nuove élite sono interessate a Gaza, quindi è stato facile per Netanyahu rinunciare al Libano e concentrarsi su Gaza”, ha aggiunto Rapaport.
Ma Ameer Makhoul, un attivista israeliano per i diritti umani, ha detto a MEE che è ancora discutibile se Netanyahu si impegni per un cessate il fuoco duraturo con Hezbollah.
Ha suggerito che l’accordo potrebbe equivalere a una tregua a breve termine, con Netanyahu che aspetta il suo momento in attesa dell'insediamento della nuova amministrazione Trump, consentendo al contempo di riprendere fiato alle forze israeliane esauste dalla guerra su più fronti.
“Sembra che stia parlando di una tregua di 60 giorni piuttosto che della fine della guerra, considerandola un periodo di attesa per Trump”, ha detto Makhoul.
“Questa potrebbe essere la prima decisione razionale che riconosce i limiti del potere e riconosce che l’esercito è esausto, sovraccarico e mette a dura prova i soldati, in particolare le forze di riserva”.
“Un accordo sul ghiaccio”
I membri della coalizione di estrema destra di Netanyahu si sono affrettati a prendere le distanze dall’accordo.
“Questo accordo non soddisfa l’obiettivo della guerra: riportare a casa sani e salvi i residenti del nord”, ha detto Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza e leader del partito Potere Ebraico.
“Un accordo con l’esercito libanese è un accordo sul ghiaccio. L’esercito libanese non ha autorità, e certamente non ha la capacità di sconfiggere Hezbollah. Abbiamo già visto che non dobbiamo fare affidamento su nessuno se non su noi stessi... Alla fine, dovremo tornare di nuovo in Libano. Questo è un errore storico”.
Aspre critiche sono arrivate anche da Yoav Gallant, l’ex ministro della Difesa che è stato licenziato da Netanyahu all’inizio di questo mese. Entrambi gli uomini sono stati oggetto questa settimana di mandati di arresto per accuse di crimini di guerra emessi dalla Corte penale internazionale.
Gallant ha detto: “In Medio Oriente, le parole, le dichiarazioni e persino gli accordi scritti non hanno significato: il futuro del nord e la sicurezza dei suoi abitanti saranno determinati da una sola cosa: la determinazione del governo israeliano a dirigere l’apparato di sicurezza ad attaccare vigorosamente qualsiasi tentativo di Hezbollah di violarlo immediatamente”.
Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha affermato che la priorità del governo dovrebbe essere quella di negoziare un accordo per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza dall’ottobre 2023.
“Il più grande disastro della nostra storia è accaduto durante il mandato di Netanyahu. Nessun accordo con Hezbollah cancellerà l’illegalità. Dobbiamo fare urgentemente un accordo... per riportare a casa i cittadini che sono stati abbandonati”, ha detto Lapid.
Benny Gantz, un altro esponente dell’opposizione che ha lasciato il gabinetto di guerra di Netanyahu a giugno, ma ha sostenuto le guerre a Gaza e in Libano, ha detto: “Non dovete fare un lavoro a metà”.
Non tornerò indietro
Nel frattempo, i residenti delle città e dei villaggi nel nord di Israele hanno detto di avere paura di tornare alle loro case, con molti che dicono che preferiscono rimanere dove sono per ora.
Yifat Elmalich, madre di tre figli di Kiryat Shmona, dove una stazione degli autobus è stata colpita da razzi di Hezbollah durante la notte di mercoledì, ha detto al sito web di notizie Ynet: “Non vogliamo tornare a una vita di paura costante... Questo accordo sembra debole e non a nostro favore... Per ora, siamo inclini a rimanere fermi. La nostra casa è stata danneggiata dalle schegge e non ci sentiamo ancora completamente al sicuro in città”.
Hofit Mor, madre di quattro figli del Moshav Kfar Yuval, ha dichiarato: “Sono contraria all’accordo. Sembra che ci stia riportando al punto di partenza, a dove eravamo prima della guerra... Dopo aver visto il disastro nella regione di confine con Gaza, ci siamo resi conto del pericolo in cui stavamo vivendo. In queste condizioni, non tornerò indietro”.
Dall’ottobre 2023 fino a 70.000 residenti sono stati evacuati dal nord di Israele, dopo che Hezbollah ha intensificato gli attacchi missilistici in risposta all’assalto di Israele contro Hamas a Gaza.
Il sindaco di una città del nord, Kiryat Shmona, ha vividamente catturato la loro frustrazione per l’accordo nei commenti su Facebook prima dell’annuncio dell’accordo di cessate il fuoco.
Pubblicando un video di persone in Libano che festeggiano l’imminente accordo, Avihay Shtern ha scritto: “Ci avete promesso una vittoria completa, quindi com’è che Hezbollah sta festeggiando?”
Fonte
Il proclama Alexander e l’inverno più duro
Ricorre in questi giorni l’ottantesimo anniversario del cosiddetto “Proclama Alexander” che aprì la strada all’inverno 1944-1945: il più duro e difficile vissuto al di sopra della Linea Gotica nel corso della Resistenza all’invasione nazista iniziata l’8 settembre 1943.
Alla fine dell’estate 1944 l’offensiva alleata in Italia che aveva portato alla Liberazione di Roma e Firenze si era arrestata davanti alla Linea Gotica che si estendeva da Rimini a La Spezia quale struttura di difesa dell’esercito tedesco e dei suoi alleati repubblichini.
Dopo lo sbarco in Normandia, la liberazione di Parigi e la battaglia delle Ardenne il fronte italiano per gli Alleati era diventato secondario rispetto all’invasione della Germania e l’occuparne in profondità il massimo del territorio mentre l’Armata Rossa stava scendendo da Est (i due eserciti poi a maggio 1945 si sarebbero incontrati sull’Elba mentre i sovietici stavano occupando Berlino).
Così nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1944 in una trasmissione di “Italia Combatte” (l’emittente radiofonica attraverso cui il comando alleato teneva i contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale a Roma) fu trasmesso un comunicato dal maresciallo Alexander comandante in campo delle truppe alleate nel Mediterraneo con il quale si dichiarava conclusa la campagna estiva degli eserciti alleati e si invitavano i comandi della Resistenza Italiana a cessare ogni operazione e a rimanere su posizioni difensive.
Nell’estate erano state proclamate le Repubbliche partigiane e la reazione dei nazi-fascisti era stata quella delle grandi stragi da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema a tante altre occasioni di distruzione e martirio per le popolazioni civili.
Il cosiddetto “proclama Alexander” avrebbe dovuto sortire effetti demoralizzanti profondi e diffusi: come spiega il saggio appena uscito di Gastone Breccia – “L’ultimo inverno di guerra. Vita e morte sul fronte dimenticato” – lo scopo era quello di tenere impegnate le forze tedesche per fare in modo che rimanesse sguarnita la difesa della Germania per favorire le truppe alleate.
Nello stesso tempo Kesserling, comandante dell’esercito nazista in Italia, credeva – difendendosi – di fornire maggior tempo alla difesa del suo Paese senza pensare (come poi ammise nel processo che lo condannò a morte, pena tramutata in ergastolo poi ridotta, finendo scarcerato nel 1952 e chiudendo la sua carriera come consulente del cancelliere Adenauer: tutto in nome del “mondo libero” e della “civiltà occidentale“) che quel tempo sarebbe stato utile per sterminare nei campi milioni di persone ebrei, comunisti, “asociali” in genere.
Il 2 dicembre 1944 il Comando Generale del Corpo dei Volontari della Libertà, ignorando il dettato degli alleati, emanò una circolare nella quale si invitavano i corpi combattenti in tutto il Nord Italia a proseguire lo sforzo militare, anche se l’insurrezione generale era ormai rinviata alla primavera.
Nel comunicato veniva indicata l’esigenza di “reagire nel modo più fermo alle interpretazioni pessimistiche e disfattiste” del proclama e di considerare solo la cessazione di operazione su vasta scala. Il CVL invitò tutti i comandi regionali a non smobilitare le proprie formazioni, ma a passare ad una nuova strategia in considerazione delle mutate condizioni belliche e climatiche.
I partigiani riuscirono a superare il periodo repressivo disperdendosi nella Pianura Padana a ridosso dei centri urbani. I mesi di novembre e dicembre furono molto drammatici, ma comunque il dispositivo insurrezionale non fu distrutto, anche se molto indebolito dalle decisioni alleate, causando un rallentamento delle operazioni nella penisola e il protrarsi del conflitto in Italia.
In realtà il “proclama Alexander” conteneva anche un altro scopo: quello di impedire che i comunisti – che nel campo partigiano erano i più attivi e meglio organizzati (ed avrebbero pagato anche i prezzi più alti) – prendessero il sopravvento ed egemonizzassero la Resistenza, come era accaduto in Jugoslavia: questo nonostante che Togliatti avesse già lanciato la parola d’ordine del “partito nuovo” e fatta rinviare la scelta istituzionale dopo la fine della guerra, ponendo al primo posto la solidarietà antifascista all’interno del governo (passato da Badoglio a Bonomi) e del Comitato di Liberazione Nazionale.
Malgrado le difficoltà, le divisioni e le massicce operazioni di repressione nazifasciste, le forze partigiane continuarono così a sopravvivere e ad aumentare numericamente nei primi mesi del 1944, rafforzate costantemente anche dai molti giovani che salirono in montagna per sfuggire ai bandi di arruolamento forzato della RSI diramati dal maresciallo Graziani.
A febbraio e a marzo 1944 la forza partigiana al nord raddoppiò di numero. I richiamati che non risposero al bando del maresciallo Graziani (approvato da Mussolini e sollecitato dalle autorità tedesche) furono molto numerosi (in novembre 1943 su 186.000 coscritti si presentarono solo in 87.000), ma soprattutto furono molto elevati i casi di diserzione dopo l’arruolamento, che salirono dal 9% di gennaio 1944 al 28% del dicembre dello stesso anno, mentre nelle città operavano attivamente le GAP e le SAP.
Arrivò la primavera, al termine di un freddo inverno di angoscia e di frustrazione: si era ormai alla vigilia dell’alba radiosa del 25 aprile.
Fonte
Alla fine dell’estate 1944 l’offensiva alleata in Italia che aveva portato alla Liberazione di Roma e Firenze si era arrestata davanti alla Linea Gotica che si estendeva da Rimini a La Spezia quale struttura di difesa dell’esercito tedesco e dei suoi alleati repubblichini.
Dopo lo sbarco in Normandia, la liberazione di Parigi e la battaglia delle Ardenne il fronte italiano per gli Alleati era diventato secondario rispetto all’invasione della Germania e l’occuparne in profondità il massimo del territorio mentre l’Armata Rossa stava scendendo da Est (i due eserciti poi a maggio 1945 si sarebbero incontrati sull’Elba mentre i sovietici stavano occupando Berlino).
Così nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1944 in una trasmissione di “Italia Combatte” (l’emittente radiofonica attraverso cui il comando alleato teneva i contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale a Roma) fu trasmesso un comunicato dal maresciallo Alexander comandante in campo delle truppe alleate nel Mediterraneo con il quale si dichiarava conclusa la campagna estiva degli eserciti alleati e si invitavano i comandi della Resistenza Italiana a cessare ogni operazione e a rimanere su posizioni difensive.
Nell’estate erano state proclamate le Repubbliche partigiane e la reazione dei nazi-fascisti era stata quella delle grandi stragi da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema a tante altre occasioni di distruzione e martirio per le popolazioni civili.
Il cosiddetto “proclama Alexander” avrebbe dovuto sortire effetti demoralizzanti profondi e diffusi: come spiega il saggio appena uscito di Gastone Breccia – “L’ultimo inverno di guerra. Vita e morte sul fronte dimenticato” – lo scopo era quello di tenere impegnate le forze tedesche per fare in modo che rimanesse sguarnita la difesa della Germania per favorire le truppe alleate.
Nello stesso tempo Kesserling, comandante dell’esercito nazista in Italia, credeva – difendendosi – di fornire maggior tempo alla difesa del suo Paese senza pensare (come poi ammise nel processo che lo condannò a morte, pena tramutata in ergastolo poi ridotta, finendo scarcerato nel 1952 e chiudendo la sua carriera come consulente del cancelliere Adenauer: tutto in nome del “mondo libero” e della “civiltà occidentale“) che quel tempo sarebbe stato utile per sterminare nei campi milioni di persone ebrei, comunisti, “asociali” in genere.
Il 2 dicembre 1944 il Comando Generale del Corpo dei Volontari della Libertà, ignorando il dettato degli alleati, emanò una circolare nella quale si invitavano i corpi combattenti in tutto il Nord Italia a proseguire lo sforzo militare, anche se l’insurrezione generale era ormai rinviata alla primavera.
Nel comunicato veniva indicata l’esigenza di “reagire nel modo più fermo alle interpretazioni pessimistiche e disfattiste” del proclama e di considerare solo la cessazione di operazione su vasta scala. Il CVL invitò tutti i comandi regionali a non smobilitare le proprie formazioni, ma a passare ad una nuova strategia in considerazione delle mutate condizioni belliche e climatiche.
I partigiani riuscirono a superare il periodo repressivo disperdendosi nella Pianura Padana a ridosso dei centri urbani. I mesi di novembre e dicembre furono molto drammatici, ma comunque il dispositivo insurrezionale non fu distrutto, anche se molto indebolito dalle decisioni alleate, causando un rallentamento delle operazioni nella penisola e il protrarsi del conflitto in Italia.
In realtà il “proclama Alexander” conteneva anche un altro scopo: quello di impedire che i comunisti – che nel campo partigiano erano i più attivi e meglio organizzati (ed avrebbero pagato anche i prezzi più alti) – prendessero il sopravvento ed egemonizzassero la Resistenza, come era accaduto in Jugoslavia: questo nonostante che Togliatti avesse già lanciato la parola d’ordine del “partito nuovo” e fatta rinviare la scelta istituzionale dopo la fine della guerra, ponendo al primo posto la solidarietà antifascista all’interno del governo (passato da Badoglio a Bonomi) e del Comitato di Liberazione Nazionale.
Malgrado le difficoltà, le divisioni e le massicce operazioni di repressione nazifasciste, le forze partigiane continuarono così a sopravvivere e ad aumentare numericamente nei primi mesi del 1944, rafforzate costantemente anche dai molti giovani che salirono in montagna per sfuggire ai bandi di arruolamento forzato della RSI diramati dal maresciallo Graziani.
A febbraio e a marzo 1944 la forza partigiana al nord raddoppiò di numero. I richiamati che non risposero al bando del maresciallo Graziani (approvato da Mussolini e sollecitato dalle autorità tedesche) furono molto numerosi (in novembre 1943 su 186.000 coscritti si presentarono solo in 87.000), ma soprattutto furono molto elevati i casi di diserzione dopo l’arruolamento, che salirono dal 9% di gennaio 1944 al 28% del dicembre dello stesso anno, mentre nelle città operavano attivamente le GAP e le SAP.
Arrivò la primavera, al termine di un freddo inverno di angoscia e di frustrazione: si era ormai alla vigilia dell’alba radiosa del 25 aprile.
Fonte
DdL 1660: i servizi potranno guidare gruppi terroristici “per il bene dello Stato”
In Parlamento è scontro aperto sulle novità normative in merito ai poteri attribuiti ai Servizi segreti italiani dal controverso “Pacchetto Sicurezza”, che ha ottenuto l’ok della Camera dei Deputati e ora è al vaglio del Senato. Le opposizioni puntano il dito contro l’art.31 del disegno di legge, attraverso cui vengono ampliati in maniera significativa i poteri dei membri dell’intelligence, esprimendo preoccupazioni sulla tenuta democratica del Paese.
Il nuovo dettato, in vista della tutela della sicurezza e degli interessi della Repubblica, autorizza infatti gli operatori di AISE e AISI non solo a infiltrarsi in organizzazioni criminali e terroristiche, ma addirittura a dirigerle, legittimando gravissimi reati quali associazione sovversiva, terrorismo interno e banda armata.
La norma obbliga inoltre enti pubblici, università, aziende statali e concessionarie di servizi pubblici a un ruolo di collaborazione e assistenza verso i Servizi. Se il provvedimento diventasse legge, esse potranno essere chiamate a fornire informazioni in deroga alle normative sulla privacy.
L’art. 31 del nuovo DDL Sicurezza introduce nuove disposizioni inerenti all’attività dei Servizi, prevedendo non solo che gli operatori di AISI e AISE possano partecipare con un ruolo defilato a organizzazioni illegali, ma perfino arrivare a guidarle. Come chiarisce il Dossier del Servizio Studi del Senato, infatti, vengono contemplate «ulteriori condotte di reato per finalità informative, scriminabili, concernenti la direzione o l’organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico e la detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reato quest’ultimo introdotto dall’articolo 1 del provvedimento), la fabbricazione o detenzione di materie esplodenti».
Il provvedimento legittima infatti reati di natura terroristica, tra cui anche l’addestramento e le attività con finalità di terrorismo interno, il finanziamento di condotte con finalità di terrorismo interno, l’istigazione a commettere alcuni di questi delitti, la banda armata, l’apologia di attentato allo Stato.
Il DDL rende permanenti le disposizioni introdotte in via transitoria dal decreto-legge 7/2015 per il potenziamento dell’attività dei Servizi, come l’«estensione delle condotte di reato scriminabili, che possono compiere gli operatori dei servizi di informazione per finalità istituzionali su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, a ulteriori fattispecie concernenti reati associativi per finalità di terrorismo», nonché la «tutela processuale» per gli 007 «attraverso l’utilizzo di identità di copertura negli atti dei procedimenti penali e nelle deposizioni».
A difendere la norma è il sottosegretario Alfredo Mantovano, delegato ai Servizi, che in una nota ha scritto: «Alcune informazioni di rilevanza operativa e destinate a una ristretta cerchia di persone sono acquisibili solo da chi, in qualità di partecipe al sodalizio, riesce a guadagnare la fiducia dei sodali e dei promotori progredendo nel ruolo, sino a rivestire incarichi di tipo direttivo e organizzativo all’interno della consorteria eversivo-terroristica oggetto dell’attività».
Le opposizioni, e in particolare il M5S, sono però sulle barricate, anche perché l’ampliamento dei poteri di intelligence non viene accompagnato da un rafforzamento dei poteri di controllo del COPASIR, organismo parlamentare che vigila sulle attività dei Servizi. «Riteniamo che questo tipo di approccio sia completamente sbagliato: segnaliamo a tutto il Parlamento che si tratta di una deriva potenzialmente pericolosa – aveva detto a settembre in Aula il deputato Marco Pellegrini del M5S, membro del COPASIR –. In maniera netta e decisa proponiamo l’abrogazione dell’intero articolo 31 e sottoporremo la questione, per la sua importanza e delicatezza, al presidente della Repubblica».
Sentito da L’Indipendente, Pellegrini ha aggiunto: «Mediaticamente, modifiche normative così clamorose passano quasi in sordina, mentre si sparano titoloni per giorni e giorni su aspetti molto meno importanti e invasivi».
Lo scenario è ancora più inquietante se si guarda a quanto appurato da inchieste e sentenze in merito alle stragi avvenute nel nostro Paese dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta – riconducibili alla «Strategia della tensione» – e gli attentati mafiosi del 1992 e 1993, in cui è stato messo il timbro sulla partecipazione morale e materiale di apparati deviati dello Stato sulla pianificazione di quegli eccidi e sui depistaggi andati in scena in seguito alla loro consumazione. Attività che, in passato, non erano scriminate. Sul punto, le novità introdotte dal DDL sembrano invece delineare uno scenario futuro – almeno in astratto – oltremodo nebuloso.
Ma c’è di più. La norma prevede infatti che le pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati «siano tenuti a prestare agli organismi del sistema di informazione per la sicurezza la collaborazione e l’assistenza richieste necessarie per la tutela della sicurezza nazionale e l’estensione di tale potere nei confronti di società partecipate e a controllo pubblico».
DIS, l’AISE e AISI potranno stipulare convenzioni con tali soggetti, università ed enti di ricerca, per la definizione delle modalità della collaborazione e dell’assistenza, che potranno prevedere la comunicazione di informazioni «anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza».
Vibranti sul punto le proteste delle opposizioni, che evidenziando il concreto pericolo che, consentendo l’accesso a banche date sensibili senza prevedere adeguati controlli, la norma possa aprire alla possibilità che le Procure della Repubblica e altri organi statali vengano abusivamente “spiati”.
«L’articolo 31 trasforma la pubblica amministrazione in una sorta di gigantesca Ovra – si legge in un comunicato degli esponenti del M5S –. È in gioco la sicurezza democratica del nostro Paese e serve cautela fino al completamento delle indagini in corso».
Fonte
Il nuovo dettato, in vista della tutela della sicurezza e degli interessi della Repubblica, autorizza infatti gli operatori di AISE e AISI non solo a infiltrarsi in organizzazioni criminali e terroristiche, ma addirittura a dirigerle, legittimando gravissimi reati quali associazione sovversiva, terrorismo interno e banda armata.
La norma obbliga inoltre enti pubblici, università, aziende statali e concessionarie di servizi pubblici a un ruolo di collaborazione e assistenza verso i Servizi. Se il provvedimento diventasse legge, esse potranno essere chiamate a fornire informazioni in deroga alle normative sulla privacy.
L’art. 31 del nuovo DDL Sicurezza introduce nuove disposizioni inerenti all’attività dei Servizi, prevedendo non solo che gli operatori di AISI e AISE possano partecipare con un ruolo defilato a organizzazioni illegali, ma perfino arrivare a guidarle. Come chiarisce il Dossier del Servizio Studi del Senato, infatti, vengono contemplate «ulteriori condotte di reato per finalità informative, scriminabili, concernenti la direzione o l’organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico e la detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reato quest’ultimo introdotto dall’articolo 1 del provvedimento), la fabbricazione o detenzione di materie esplodenti».
Il provvedimento legittima infatti reati di natura terroristica, tra cui anche l’addestramento e le attività con finalità di terrorismo interno, il finanziamento di condotte con finalità di terrorismo interno, l’istigazione a commettere alcuni di questi delitti, la banda armata, l’apologia di attentato allo Stato.
Il DDL rende permanenti le disposizioni introdotte in via transitoria dal decreto-legge 7/2015 per il potenziamento dell’attività dei Servizi, come l’«estensione delle condotte di reato scriminabili, che possono compiere gli operatori dei servizi di informazione per finalità istituzionali su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, a ulteriori fattispecie concernenti reati associativi per finalità di terrorismo», nonché la «tutela processuale» per gli 007 «attraverso l’utilizzo di identità di copertura negli atti dei procedimenti penali e nelle deposizioni».
A difendere la norma è il sottosegretario Alfredo Mantovano, delegato ai Servizi, che in una nota ha scritto: «Alcune informazioni di rilevanza operativa e destinate a una ristretta cerchia di persone sono acquisibili solo da chi, in qualità di partecipe al sodalizio, riesce a guadagnare la fiducia dei sodali e dei promotori progredendo nel ruolo, sino a rivestire incarichi di tipo direttivo e organizzativo all’interno della consorteria eversivo-terroristica oggetto dell’attività».
Le opposizioni, e in particolare il M5S, sono però sulle barricate, anche perché l’ampliamento dei poteri di intelligence non viene accompagnato da un rafforzamento dei poteri di controllo del COPASIR, organismo parlamentare che vigila sulle attività dei Servizi. «Riteniamo che questo tipo di approccio sia completamente sbagliato: segnaliamo a tutto il Parlamento che si tratta di una deriva potenzialmente pericolosa – aveva detto a settembre in Aula il deputato Marco Pellegrini del M5S, membro del COPASIR –. In maniera netta e decisa proponiamo l’abrogazione dell’intero articolo 31 e sottoporremo la questione, per la sua importanza e delicatezza, al presidente della Repubblica».
Sentito da L’Indipendente, Pellegrini ha aggiunto: «Mediaticamente, modifiche normative così clamorose passano quasi in sordina, mentre si sparano titoloni per giorni e giorni su aspetti molto meno importanti e invasivi».
Lo scenario è ancora più inquietante se si guarda a quanto appurato da inchieste e sentenze in merito alle stragi avvenute nel nostro Paese dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta – riconducibili alla «Strategia della tensione» – e gli attentati mafiosi del 1992 e 1993, in cui è stato messo il timbro sulla partecipazione morale e materiale di apparati deviati dello Stato sulla pianificazione di quegli eccidi e sui depistaggi andati in scena in seguito alla loro consumazione. Attività che, in passato, non erano scriminate. Sul punto, le novità introdotte dal DDL sembrano invece delineare uno scenario futuro – almeno in astratto – oltremodo nebuloso.
Ma c’è di più. La norma prevede infatti che le pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati «siano tenuti a prestare agli organismi del sistema di informazione per la sicurezza la collaborazione e l’assistenza richieste necessarie per la tutela della sicurezza nazionale e l’estensione di tale potere nei confronti di società partecipate e a controllo pubblico».
DIS, l’AISE e AISI potranno stipulare convenzioni con tali soggetti, università ed enti di ricerca, per la definizione delle modalità della collaborazione e dell’assistenza, che potranno prevedere la comunicazione di informazioni «anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza».
Vibranti sul punto le proteste delle opposizioni, che evidenziando il concreto pericolo che, consentendo l’accesso a banche date sensibili senza prevedere adeguati controlli, la norma possa aprire alla possibilità che le Procure della Repubblica e altri organi statali vengano abusivamente “spiati”.
«L’articolo 31 trasforma la pubblica amministrazione in una sorta di gigantesca Ovra – si legge in un comunicato degli esponenti del M5S –. È in gioco la sicurezza democratica del nostro Paese e serve cautela fino al completamento delle indagini in corso».
Fonte
La Casa Bianca chiede a Kiev di mandare al fronte anche i diciottenni
La notizia, come direbbero i sedicenti fact-checker, è “certificata”: la rende nota un lungo articolo dell’Associated Press, insieme a Reuters tra le principali agenzie di informazione occidentali.
“La Casa Bianca spinge l’Ucraina a reclutare diciottenni per avere abbastanza truppe per combattere contro la Russia”. Anni e anni a spiegarci che la guerra moderna è un problema di mezzi e tecnologie (missili, razzi, droni, aerei, satelliti, carri armati, ecc.) e poi, eccoli qui: serve più carne da cannone.
Il rimbambito che sta per uscire dalla Casa Bianca – quello che lo stesso establishment ha preferito sostituire preventivamente per il confronto con Trump – sta insomma facendo di tutto per seminare morte e distruzione fino all’ultimo giorno del suo mandato. E magari anche un po’ più in là.
Non gli basta aver chiesto altri 24 miliardi di dollari in aiuti economici e armi per Kiev, ricevendo il fermo stop di un Congresso che sa già di dover cambiare padrone. Vuole anche più sangue ucraino, peraltro senza alcuna speranza di “vittoria”. Anzi, solo per “continuare la guerra”.
L’articolo di Aamer Madhani descrive calcoli e “ragioni” statunitensi, come anche i problemi a Kiev.
“Un alto funzionario dell’amministrazione Biden, che ha parlato in condizione di anonimato per discutere delle consultazioni private, ha dichiarato mercoledì che l’amministrazione democratica uscente vuole che l’Ucraina abbassi l’età di mobilitazione da 25 a 18 anni, per ampliare il bacino di uomini in età da combattimento disponibili ad aiutare un’Ucraina gravemente in inferiorità numerica nella guerra con la Russia”.
Perché, detta in modo semplice, “Attualmente, l’Ucraina non sta mobilitando né addestrando un numero sufficiente di soldati per sostituire le perdite sul campo di battaglia e tenere il passo con il crescente esercito russo”. Una descrizione che svuota di senso la “narrazione” ancora diffusa dai media occidentali, che da anni ripetono delle “catastrofiche perdite russe”, tanto da rendere necessario l’arrivo di truppe nordcoreane (fin qui invisibili) e addirittura yemenite (come se l’abitudine a combattere nel deserto garantisse la stessa efficienza anche nella neve).
La Casa Bianca uscente ha così stabilito che l’Ucraina ha già le armi necessarie, ma deve ora aumentare drasticamente il numero delle sue truppe per continuare a combattere contro la Russia. L’opposto di quel che chiede ogni giorno Zelenskij, fra l’altro, ancora convinto – dopo tre anni... – che le armi occidentali possano supplire l’inferiorità di “forza lavoro” (espressione spesso usata dai militari per non dire “carne da cannone”).
Oltre un milione di ucraini indossano attualmente l’uniforme, compresi membri della Guardia Nazionale e di altre unità, ma i vertici di Kiev dichiarano di aver bisogno di altre 160.000 truppe aggiuntive per soddisfare le esigenze del campo di battaglia. L’amministrazione statunitense, freddamente, ritiene che probabilmente ne serviranno di più.
Le ultime campagne di reclutamento sono andate malissimo, con i “reclutatori” che fermavano per strada uomini da spedire al fronte, dove – coerentemente – appena arrivano provano a fuggire, disertando o arrendendosi.
Fin qui l’“età di leva” era stata abbassata progressivamente, fermandosi infine agli over 25. Ora il “grande capo di Washington” vuole abbassare ancora l’asticella.
Sono già milioni gli ucraini riparati all’estero, anche verso la Russia, per evitare sia i bombardamenti che l’arruolamento forzato. Questo ulteriore drenaggio di gioventù avrà effetti devastanti sul futuro di un popolo che dirigenti servili e incapaci hanno deciso di sacrificare per una missione impossibile.
Ma a questi dirigenti, e soprattutto alla Casa Bianca del “democratico” ottuagenario, che gliene frega?
Fonte
“La Casa Bianca spinge l’Ucraina a reclutare diciottenni per avere abbastanza truppe per combattere contro la Russia”. Anni e anni a spiegarci che la guerra moderna è un problema di mezzi e tecnologie (missili, razzi, droni, aerei, satelliti, carri armati, ecc.) e poi, eccoli qui: serve più carne da cannone.
Il rimbambito che sta per uscire dalla Casa Bianca – quello che lo stesso establishment ha preferito sostituire preventivamente per il confronto con Trump – sta insomma facendo di tutto per seminare morte e distruzione fino all’ultimo giorno del suo mandato. E magari anche un po’ più in là.
Non gli basta aver chiesto altri 24 miliardi di dollari in aiuti economici e armi per Kiev, ricevendo il fermo stop di un Congresso che sa già di dover cambiare padrone. Vuole anche più sangue ucraino, peraltro senza alcuna speranza di “vittoria”. Anzi, solo per “continuare la guerra”.
L’articolo di Aamer Madhani descrive calcoli e “ragioni” statunitensi, come anche i problemi a Kiev.
“Un alto funzionario dell’amministrazione Biden, che ha parlato in condizione di anonimato per discutere delle consultazioni private, ha dichiarato mercoledì che l’amministrazione democratica uscente vuole che l’Ucraina abbassi l’età di mobilitazione da 25 a 18 anni, per ampliare il bacino di uomini in età da combattimento disponibili ad aiutare un’Ucraina gravemente in inferiorità numerica nella guerra con la Russia”.
Perché, detta in modo semplice, “Attualmente, l’Ucraina non sta mobilitando né addestrando un numero sufficiente di soldati per sostituire le perdite sul campo di battaglia e tenere il passo con il crescente esercito russo”. Una descrizione che svuota di senso la “narrazione” ancora diffusa dai media occidentali, che da anni ripetono delle “catastrofiche perdite russe”, tanto da rendere necessario l’arrivo di truppe nordcoreane (fin qui invisibili) e addirittura yemenite (come se l’abitudine a combattere nel deserto garantisse la stessa efficienza anche nella neve).
La Casa Bianca uscente ha così stabilito che l’Ucraina ha già le armi necessarie, ma deve ora aumentare drasticamente il numero delle sue truppe per continuare a combattere contro la Russia. L’opposto di quel che chiede ogni giorno Zelenskij, fra l’altro, ancora convinto – dopo tre anni... – che le armi occidentali possano supplire l’inferiorità di “forza lavoro” (espressione spesso usata dai militari per non dire “carne da cannone”).
Oltre un milione di ucraini indossano attualmente l’uniforme, compresi membri della Guardia Nazionale e di altre unità, ma i vertici di Kiev dichiarano di aver bisogno di altre 160.000 truppe aggiuntive per soddisfare le esigenze del campo di battaglia. L’amministrazione statunitense, freddamente, ritiene che probabilmente ne serviranno di più.
Le ultime campagne di reclutamento sono andate malissimo, con i “reclutatori” che fermavano per strada uomini da spedire al fronte, dove – coerentemente – appena arrivano provano a fuggire, disertando o arrendendosi.
Fin qui l’“età di leva” era stata abbassata progressivamente, fermandosi infine agli over 25. Ora il “grande capo di Washington” vuole abbassare ancora l’asticella.
Sono già milioni gli ucraini riparati all’estero, anche verso la Russia, per evitare sia i bombardamenti che l’arruolamento forzato. Questo ulteriore drenaggio di gioventù avrà effetti devastanti sul futuro di un popolo che dirigenti servili e incapaci hanno deciso di sacrificare per una missione impossibile.
Ma a questi dirigenti, e soprattutto alla Casa Bianca del “democratico” ottuagenario, che gliene frega?
Fonte
Israele impedisce l’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza
A metà mese scrivevamo di come l’ultimatum statunitense sull’invio di armi a Israele si fosse rivelato per quello che era, ovvero una mossa propagandistica. Ma da Washington avevano giustificato il mantenimento delle forniture militari col fatto che Israele aveva concesso l’arrivo di alcuni aiuti nel nord di Gaza.
Già allora più voci avevano denunciato come ciò fosse reso vano dalle restrizioni che lo stesso occupante sionista imponeva alla distribuzione di questi aiuti. Ora arrivano i dati dell’ONU: dal 26 ottobre, Israele ha negato 82 delle 91 richieste di consegnare gli aiuti umanitari nell’area settentrionale della Striscia.
Queste sono le informazioni diffuse da Georgios Petropoulos, a capo dell’ufficio umanitario delle Nazioni Unite a Gaza. Inoltre, quei materiali che raggiungono le zone sotto assedio vengono spesso saccheggiati da bande illegali, sotto gli occhi dei soldati e dei droni dell’IDF che non fanno nulla per evitarlo.
Petropoulos ha anche aggiunto alla BBC che “si tratta di un saccheggio tattico, sistematico e criminale”, e non è dunque il risultato di singoli casi isolati. Del resto, sempre la BBC ha reso noto che “i beni rubati vengono apparentemente immagazzinati all’esterno o in magazzini in aree sotto il controllo militare israeliano”.
In sostanza, appare chiaro che i furti sono avallati se non addirittura organizzati dai sionisti, con la garanzia di impunità da parte dell’esercito di occupazione. E si palesa ancora una volta come Hamas sia solo una scusa per portare avanti una vera e propria pulizia etnica, che passa anche attraverso la fame.
La polizia della Striscia è stata decimata dalle armi israeliane, mentre il “controllo di sicurezza di Hamas è sceso al di sotto del 20%”, ha detto alla BBC l’ex capo delle indagini della polizia di Hamas. Si sta cercando di implementare dei piani per migliorare questo numero.
Non sappiamo a che livello si potrà ancora arrivare, ma di certo già impedire l’arrivo di aiuti umanitari è un grave crimine. Il loro furto sistematico si delinea come un’azione criminosa ancor peggiore, e anche tra le più vergognose di cui Israele si sta macchiando.
Non bisogna scordare che appena qualche giorno fa Smotrich ha detto che il suo governo può svuotare Gaza di metà della sua popolazione attraverso la migrazione “volontaria”. Per volontaria, è chiaro, Tel Aviv intende la fuga per evitare di morire tra i crampi della fame o sotto le bombe.
Fonte
Già allora più voci avevano denunciato come ciò fosse reso vano dalle restrizioni che lo stesso occupante sionista imponeva alla distribuzione di questi aiuti. Ora arrivano i dati dell’ONU: dal 26 ottobre, Israele ha negato 82 delle 91 richieste di consegnare gli aiuti umanitari nell’area settentrionale della Striscia.
Queste sono le informazioni diffuse da Georgios Petropoulos, a capo dell’ufficio umanitario delle Nazioni Unite a Gaza. Inoltre, quei materiali che raggiungono le zone sotto assedio vengono spesso saccheggiati da bande illegali, sotto gli occhi dei soldati e dei droni dell’IDF che non fanno nulla per evitarlo.
Petropoulos ha anche aggiunto alla BBC che “si tratta di un saccheggio tattico, sistematico e criminale”, e non è dunque il risultato di singoli casi isolati. Del resto, sempre la BBC ha reso noto che “i beni rubati vengono apparentemente immagazzinati all’esterno o in magazzini in aree sotto il controllo militare israeliano”.
In sostanza, appare chiaro che i furti sono avallati se non addirittura organizzati dai sionisti, con la garanzia di impunità da parte dell’esercito di occupazione. E si palesa ancora una volta come Hamas sia solo una scusa per portare avanti una vera e propria pulizia etnica, che passa anche attraverso la fame.
La polizia della Striscia è stata decimata dalle armi israeliane, mentre il “controllo di sicurezza di Hamas è sceso al di sotto del 20%”, ha detto alla BBC l’ex capo delle indagini della polizia di Hamas. Si sta cercando di implementare dei piani per migliorare questo numero.
Non sappiamo a che livello si potrà ancora arrivare, ma di certo già impedire l’arrivo di aiuti umanitari è un grave crimine. Il loro furto sistematico si delinea come un’azione criminosa ancor peggiore, e anche tra le più vergognose di cui Israele si sta macchiando.
Non bisogna scordare che appena qualche giorno fa Smotrich ha detto che il suo governo può svuotare Gaza di metà della sua popolazione attraverso la migrazione “volontaria”. Per volontaria, è chiaro, Tel Aviv intende la fuga per evitare di morire tra i crampi della fame o sotto le bombe.
Fonte
Iscriviti a:
Post (Atom)