31/07/2014
Nibali vince, il ciclismo italiano fallisce
Riceviamo e pubblichiamo da un nostro lettore in seguito alla vittoria del Tour de France da parte di Nibali.
Domenica, guardando l’ultima tappa del Tour ricevo una email che mi segnala l’articolo di infoaut sul tema. Credo sia la prima volta che in ambito antagonista qualcuno parla di ciclismo e mi butto a leggere (dividendo il monitor tra Raisport e Firefox).
Renzi cerca Nibali per un “selfie”… #fastidio. Da fiorentino, cicloamatore: tanto fastidio. Ma perché? L’articolo di Infoaut pone – giustamente – due problemi: in primis la questione della retorica, e in seconda battuta la questione doping. Secondo me si può aggiungere anche qualcos’altro.
Spesso, per non dire sempre, i rappresentanti delle classi dominanti, per motivi quasi “d’ufficio”, si complimentano con gli atleti nazionali: a seconda poi della sensibilità sportiva dei singoli si hanno casi più o meno folcloristici: dai recentissimi selfie della Merkel negli spogliatoi in Brasile, alle sgambatelle di Bush con Armstrong, dalle foto di Mortadella Prodi con il Pirata, fino, a ritroso, alle foto di Bartali (icona democristiana) e Coppi (lettore de “l’Unità” e icona dell’allora “sinistra”) dal Papa Pio XII (già, a proposito di compromesso storico). E che dire della telefonata di De Gasperi a Bartali il giorno dopo l’attentato a Togliatti? Altro che “selfie”… Povero Renzino, ora che non può più sostenere il renziano Perdelli ai mondiali, lasciamogli almeno Vincenzo (sperando che non gli porti sfiga!).
Il problema, quindi, non è il rapporto tra classe dominante e vincitori “in sé”… ma andiamo avanti.
L’articolo di Infoaut tocca anche la questione del doping e della sua retorica, che è vecchia quanto il cucco. Per chi segue questo sport da vicino, per chi non festeggia San Valentino perché è il giorno in cui morì il Pirata, per chi in estate inizia a pulire la bici da corsa tutte le domeniche, per chi sulle Tre Cime di Lavaredo a tifare Riccò c’era, per chi ha corso da ragazzino fino ai dilettanti, insomma per noi, è quasi diventato un tema abbastanza “noioso”. Il doping c’è, c’è sempre stato, dai tempi dell’intervista a Coppi dove spiegava che nella seconda borraccia c’era “la bomba”, fino ad oggi. Si può solo fissare delle quantità da non superare in modo da non creare disparità tra i ciclisti, ma non si può eliminare; nel ciclismo come altrove, ma nel ciclismo, dalla morte di Simpson in poi, è diventato argomento di discussione: fa vendere giornali e, per riflesso mediatico, convince una ciurma di poveri ciclo-babbei con i capelli brizzolati a iniettarsi sostanze rischiose per far bella figura una domenica all’anno nelle gare amatoriali, creando un notevole business a tutti i livelli.
Il doping non intaccherà mai di una virgola le imprese epiche del ciclismo. Per qualsiasi amante delle due ruote, cicloturista, appassionato di ciclismo, Merckx era “il cannibale” prima e dopo le lacrime per l’accusa di doping; noi sappiamo che Marco non è morto né di doping né di cocaina, ma semplicemente di giornalismo.
Quindi: cos’è che dà noia nella retorica Renziana? Il fatto che si complimenti con un campione nazionale? Il fatto che lo usi come icona? Sì ma c’è di più. La questione doping? No, non è lì il problema.
Dà noia la retorica dell’ennesimo presidente del consiglio del Belpaese che parla e non fa. Se fa, fa poco, e male. Come sempre. Dalla ricerca al lavoro, dalla disoccupazione ai trasporti, dalle “riforme” allo sport, tra cui il ciclismo.
Il problema non è il selfie o il rapporto dello spaccone di Rignano (amici di Infoaut: Rignano, please, non Firenze!) con il campione: il problema è chi è Renzi, cosa sta facendo, e, nella fattispecie, cosa non sta facendo per l’italia, e per il ciclismo.
Questa è l’ultima stagione ciclistica che coinvolgerà direttamente capitali italiani: le case produttrici italiane di bici che hanno fatto la storia del ciclismo e della bicicletta stessa (Campagnolo per la componentistica, e Bianchi per i telai) trasferiscono i loro capitali altrove, là dove conviene, dove li porta il capitale; e per gli sponsor italiani la stagione (Pro-Tour) 2014 è l’ultimo canto del cigno.
Venti anni fa le squadre italiane erano 8 (senza contare la “Mercatone” di Re Leone Cipollini, poi del Pirata, di Baffi e Bartoli, con sede a San Marino):
1) “Carrera-Tassoni”, quella Carrera che ha vinto giri e tour con Visentin, Roche e che poi ha tirato fuori Chiappucci e Pantani, forse i ciclisti più spettacolari di tutti i tempi
2) “Gewis-Ballan” di Ugrumov, di Argentin, Furlan e Berzin primo secondo e terzo alla Freccia vallone di quell’anno, che se la giocarono al foto-finish
3) “GB-MG maglificio” di Pascal Richard, Musseuw e Fabio Baldato
4) “Lampre-Panaria” di Maurizio Fondiest, Jan Svorada e Abdoujaparov
5) “Mapei-CLAS” di Ballerini, Rominger e Tonkof
6) “Navigare Bluestorm” di Podenzana,
7) “Team Polti” di Gianni Bugno due volte campione del Mondo
8) “ZG Selle Italia” di Ghirotto, Perini e Cacaito Rodriguez.
Da 8 squadre a zero è un bel salto! Verrebbe da dire che è il salto dell’Italia tutta, non solo ciclistica, degli ultimi 20 anni, e di paragoni con l’economia e con la politica ne verrebbero molti in mente, ma restiamo concentrati sulle due ruote (per quanto è possibile…).
Il tempio del ciclismo su pista, il velodromo Vigorelli, è lasciato a se stesso perché “non ci sono fondi”, il velodromo delle Cascine a Firenze, di cui Renzi è pur stato sindaco, è stato lasciato alle corse dei topi e dalle pantegane più intraprendenti, stufe dei marciapiedi del lungarno.
Da noia, anzi #fastidio, vedere tutti gli anni il gap tra il Tour de France e il Giro d’Italia, mai diventata una vera e propria gara internazionale; il giro di un paese che ha fatto il ciclismo, dall’inventare la bicicletta moderna, con Campagnolo, a produrne i più belli esemplari, e regalare, spesso a coppie di due, generazioni e generazioni di campioni storici: Binda e Guerra, Coppi e Bartali, Maspes e Gaiardoni, Pantani e Cipollini, fino a Basso e Gimondi, e oggi Nibali – augurando a Visconti di fare qualche passetto in più.
Renzi si vuole fare un selfie con Enzo? Ma con che faccia? Cosa fa, festeggia i capitali kazaki dell’Astana che sponsorizzano Nibali? Festeggia la ditta – americana, la Specialized – che produce la bici? La base economica del ciclismo italiano è morta e sepolta, Renzi se ne frega e si bea di un successo non suo, che, pur essendo un successo “italiano”, non verrà utilizzato a vantaggio della “nostra” economia, non aiuterà i disoccupati a trovare lavoro o le “nostre” ditte di bici ad assumere, grazie al fantomatico “job’s act” i nostri coetanei ingegneri, meccanici, designer, che magari dovranno impararsi il kazako.
Altri “selfie” storici, o recenti, di presidenti del consiglio che rappresentano (o rappresentavano) borghesie mature, alle quali andrà contrapposta, prima o poi (più prima che poi, si spera), una forte organizzazione rivoluzionaria, (a me) non danno noia, tutto (mi) sembra nella norma.
La retorica di un contadinello rifatto, pane e chiesa, che ha delle serie difficoltà persino con l’asfalto (dalle piste ciclabili ai marciapiedi), rappresentante di una borghesia idiota che non sa manco fare il suo – sporco – compito, infastidisce, annoia, tedia… #disagia. Vedere un grande campione accanto a un inutile sacco di patate mi darà proprio noia, verrebbe quasi da dirgli, citando il suo slang della campagna elettorale “Prima di parlare di ciclismo, sciacquati la bocca”. Male che vada quando vedrò ‘sto selfie mi prenderò un Maalox, #BeppeGrillo-style.
In attesa di tempi migliori, quando esploderanno definitivamente le contraddizioni di questo modo di produzione, tempi in cui la bici la dovremo usare magari come fece Bartali mettendo nella canna documenti falsi per chi voleva scappare tanto da Auschwitz quanto dalle prigioni fasciste, forse si fa prima a spegnere la televisione e andare ad allenarsi un po’… (magari l’anno prossimo ci organizziamo una granfondo autogestita, in valle da voi, o qui nelle nostre campagne).
Fonte
Sfida dell’Argentina al potere mondiale degli speculatori
L’Argentina sola contro tutti viene dichiarata fallita dalla finanza planetaria con l’aiuto di Standard & Poor’s ma Buenos Aires nega. S&P taglia il rating. Non c’è accordo per il pagamento dei vecchi ‘Tango Bond’. Scadenza superata alle 6 ora italiana. Argentina a rischio 2° default in 13 anni.
L’Argentina è in default, fallimento, per la seconda volta in 13 anni. Almeno a dar retta ai gufi della Finanza mondiale che ragionano con la calcolatrice al posto del cervello e con i sentimenti in cassaforte. Nessun accordo alla scadenza per il pagamento dei titolari di bond ai fondi speculativi che avevano accettato un rivalutazione del debito. ”L’Argentina ha scelto il default”, accusa Elliot Management, rappresentante di uno dei fondi che insieme ad altri ha fatto causa all’Argentina e l’ha vinta (fondi americani per un tribunale americano -nd Re-carbonized). Buenos Aires però nega il default, che avviene quando non si paga il giusto.
L’Argentina ha pagato ma i fondi - attacca il ministro dell’Economia Axel Kicillof - sono stati bloccati. ”Responsabilità” - eufemismo diplomatico - del giudice federale statunitense Thomas Griesa, “che non ha capito la complessità del caso ed è andato al di là della sua giurisdizione”. Ma sempre in casa statunitense, dati i titolari dei fondi di investimento cui ha dato ragione. Che le trattative non sarebbero state facili si era capito da subito. Kicillof smentisce si tratti di ‘default’ e attacca le agenzie di rating, ”non credibili” in quanto coinvolte. La Standard & Poor’s prima tra tutte.
Buenos Aires - spiega Kicillof - ”non può rispettare” la sentenza americana: i fondi speculativi ”hanno cercato di imporci qualcosa di illegale”. ”Vogliono di più e lo vogliono subito, non possiamo firmare accordi sotto estorsione”. I fondi speculativi Usa hanno rifiutato la rinegoziazione offerta dal governo argentino accettata invece dal 92,4% dei possessori. Questi fondi comprarono per 50 milioni ben 1500 milioni di dollari nel 2008 (7 anni dopo il vecchio default) con il chiaro intento di andare a giudizio, visto che il tribunale competente era quello statunitense. Pessima vicenda.
Detta in parole più semplici, sta accadendo questo. I fondi speculativi statunitensi hanno avuto la sentenza a favore, ma l’Argentina non può pagare a quei signori Usa più di quello che ha pagato al restante 96,4 dei possessori di bond. Si scatenerebbe una interminabile serie di ricorsi. La finanza speculativa talmente potente da mettere in ginocchio un intero paese? Oltre alla morale, qualche conto in tasca. L’Argentina offre a questi fondi un guadagno vicino al 300% ma il giudice federale Usa onorevole Thomas Poole Griesa di New York ha detto che possono volare anche al 2500%.
Fonte
L’Argentina è in default, fallimento, per la seconda volta in 13 anni. Almeno a dar retta ai gufi della Finanza mondiale che ragionano con la calcolatrice al posto del cervello e con i sentimenti in cassaforte. Nessun accordo alla scadenza per il pagamento dei titolari di bond ai fondi speculativi che avevano accettato un rivalutazione del debito. ”L’Argentina ha scelto il default”, accusa Elliot Management, rappresentante di uno dei fondi che insieme ad altri ha fatto causa all’Argentina e l’ha vinta (fondi americani per un tribunale americano -nd Re-carbonized). Buenos Aires però nega il default, che avviene quando non si paga il giusto.
L’Argentina ha pagato ma i fondi - attacca il ministro dell’Economia Axel Kicillof - sono stati bloccati. ”Responsabilità” - eufemismo diplomatico - del giudice federale statunitense Thomas Griesa, “che non ha capito la complessità del caso ed è andato al di là della sua giurisdizione”. Ma sempre in casa statunitense, dati i titolari dei fondi di investimento cui ha dato ragione. Che le trattative non sarebbero state facili si era capito da subito. Kicillof smentisce si tratti di ‘default’ e attacca le agenzie di rating, ”non credibili” in quanto coinvolte. La Standard & Poor’s prima tra tutte.
Buenos Aires - spiega Kicillof - ”non può rispettare” la sentenza americana: i fondi speculativi ”hanno cercato di imporci qualcosa di illegale”. ”Vogliono di più e lo vogliono subito, non possiamo firmare accordi sotto estorsione”. I fondi speculativi Usa hanno rifiutato la rinegoziazione offerta dal governo argentino accettata invece dal 92,4% dei possessori. Questi fondi comprarono per 50 milioni ben 1500 milioni di dollari nel 2008 (7 anni dopo il vecchio default) con il chiaro intento di andare a giudizio, visto che il tribunale competente era quello statunitense. Pessima vicenda.
Detta in parole più semplici, sta accadendo questo. I fondi speculativi statunitensi hanno avuto la sentenza a favore, ma l’Argentina non può pagare a quei signori Usa più di quello che ha pagato al restante 96,4 dei possessori di bond. Si scatenerebbe una interminabile serie di ricorsi. La finanza speculativa talmente potente da mettere in ginocchio un intero paese? Oltre alla morale, qualche conto in tasca. L’Argentina offre a questi fondi un guadagno vicino al 300% ma il giudice federale Usa onorevole Thomas Poole Griesa di New York ha detto che possono volare anche al 2500%.
Fonte
Cina, la purga di Xi Jinping
di Mario Lombardo
Con una comunicazione apparsa martedì sul sito web della Commmissione Centrale per le Ispezioni Disciplinari del Partito Comunista Cinese (PCC), il governo di Pechino ha annunciato in maniera ufficiale l’apertura di un’inchiesta ai danni del potente ex membro del Comitato Permanente del Politburo, Zhou Yongkang, sospettato di “gravi violazioni della disciplina”. Mai nei 65 anni di storia della Cina “comunista” un esponente così autorevole della classe dirigente era stato messo sotto accusa per reati di corruzione.
72 anni ancora da compiere, Zhou si era ritirato dalla politica attiva nel novembre del 2012 dopo una carriera che lo aveva visto raggiungere i vertici del governo. Tra il 1988 e il 1998 era stato vice-presidente e poi presidente del colosso pubblico petrolifero China National Petroleum Corporation (CNPC), per poi assumere incarichi prettamente politici in qualità di ministro delle Terre e delle Risorse e segretario del PCC nella provincia di Sichuan.
Nel 2002 Zhou era entrato per la prima volta nel Politburo del partito e nel 2007 nel Comitato Permanente di quest’ultimo, di fatto il più alto organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese. Tra il 2007 e il 2012, Zhou aveva assunto infine la guida dell’intero apparato della sicurezza, con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i servizi segreti civili.
Secondo quanto riportato a dicembre dalla Reuters, Zhou era stato messo agli arresti domiciliari già sul finire dello scorso anno, a conferma delle voci che circolavano sul suo conto e dopo che dal 1° ottobre precedente non era più stato visto in pubblico.
La decisione presa con ogni probabilità direttamente dal presidente cinese, Xi Jinping, era seguita alla creazione di una speciale task force con l’incarico di indagare sulle accuse di corruzione nei suoi confronti. Sempre secondo la Reuters, poi, nel marzo di quest’anno le autorità avevano sequestrato beni per il valore di quasi 15 miliardi di dollari a vari membri della famiglia e della cerchia di potere di Zhou Yongkang.
Agli arresti sono finiti anche il figlio di quest’ultimo, Zhou Bin, nonché la moglie, Jia Xiaoye, e il fratello, Zhou Yuanqing. Il figlio, in particolare, svolgerebbe un ruolo centrale nell’indagine interna al partito e, secondo il New York Times, avrebbe recentemente testimoniato contro il padre.
Complessivamente, più di 300 persone vicine a Zhou negli ultimi mesi sono state arrestate o interrogate nell’ambito delle indagini. In un’escalation di incriminazioni e condanne che hanno fatto terra bruciata attorno a Zhou, numerose personalità di spicco vicine a quest’ultimo sono state vittime di vere e proprie purghe negli ultimi due anni.
Nel dicembre del 2012, ad esempio, il vice-segretario del partito nella provincia di Sichuan, Li Chuncheng, era stato il primo importante politico alleato di Zhou a essere oggetto di un’indagine nell’ambito della crociata anti-corruzione della leadership da poco installata.
Il numero uno della commissione incaricata di amministrare e supervisionare le aziende pubbliche, Jiang Jiemin, finì invece sotto inchiesta nel settembre del 2013. Tre mesi più tardi sarebbe poi toccato a Li Dongsheng, vice-ministro per la pubblica sicurezza.
Fonti cinesi citate dalla stampa occidentale riferiscono che Xi intenderebbe punire Zhou per avere cercato di installare propri uomini ai vertici dello stato alla vigilia del 18esimo congresso del PCC nel novembre del 2012, in occasione del quale avvenne il decennale cambio della leadership cinese che portò al potere lo steso Xi.
In particolare, per mantenere la propria influenza all’interno dei supremi organi di governo e proteggere le ricchezze accumulate dal suo entourage, Zhou puntava tutto sul carismatico Bo Xilai, l’ex segretario del partito di Chongqing attualmente in carcere. Entrambi considerati fedelissimi dell’ex presidente Jiang Zemin, Zhou Yongkang e Bo Xilai hanno rappresentato o rappresentano uno dei principali ostacoli al consolidamento del potere di Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang.
Zhou e Bo, infatti, fanno parte di una fazione all’interno della classe dirigente cinese legata alle grandi compagnie pubbliche, in particolare del settore petrolifero, e che si oppone al processo di ulteriore ristrutturazione del sistema economico del paese in senso capitalistico.
L’agenda di libero mercato di Xi e Li, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, trova resistenze molto forti negli ambienti delle aziende di stato che potrebbero essere penalizzate dall’apertura di alcuni settori strategici. La condanna di Bo Xilai lo scorso anno per corruzione e abuso di potere e l’incriminazione - peraltro non ancora annunciata ufficialmente - di Zhou Yongkang rappresentano perciò il tentativo più clamoroso di rimuovere questi ostacoli.
Gli attacchi ai leader rivali del partito vengono portati con la scusa della lotta alla corruzione che ha rappresentato un altro dei capisaldi del programma di Xi Jinping al momento della sua ascesa alla guida del partito e del paese. Dal momento che la corruzione pervade praticamente tutti gli ingranaggi della Repubblica Popolare e che gli appartenenti all’élite “comunista” si sono arricchiti enormemente negli ultimi decenni con sistemi a dir poco discutibili, indagini o incriminazioni a causa di “violazioni” delle regole posso essere pilotate a piacere da chi controlla un sistema giudiziario tutt’altro che indipendente.
L’annuncio dell’indagine aperta ai danni di Zhou indica dunque un certo progresso da parte del presidente Xi nel superamento delle resistenze e delle divisioni all’interno della leadership cinese circa la strada da percorrere nel prossimo futuro. Non a caso, infatti, sempre martedì è stato indetto per il mese di ottobre il quarto Plenum del Comitato Centrale del PCC, durante il quale verranno ad esempio avanzate proposte volte a “migliorare il clima per gli investimenti” e a “liberalizzare i settori industriali ancora dominati dai monopoli statali”.
Molti commentatori si sono chiesti fino a che punto arriveranno le purghe ordinate dal presidente Xi, visto che appare evidente il rischio di inasprire le rivalità all’interno di un sistema di potere basato sul consenso e tradizionalmente caratterizzato da fazioni che fanno capo, tra gli altri, ai leader che hanno abbandonato le loro cariche ufficiali nel partito e nel governo.
Secondo una rivelazione pubblicata mercoledì dalla Reuters e basata su fonti cinesi, tuttavia, Xi Jinping avrebbe ottenuto il consenso dei due suoi predecessori - Hu Jintao e Jiang Zemin - prima di ordinare l’apertura di un’indagine formale per corruzione contro Zhou Yongkang. Per la stessa agenzia di stampa, ciò suggerirebbe che l’indagine a un livello così alto “non provocherà spaccature nel Partito Comunista”, anche se è possibile che “l’élite inizi a innervosirsi per l’allargamento della campagna anti-corruzione del presidente”.
Xi, d’altra parte, con l’indagine ai danni di Zhou avrebbe violato una regola non scritta della classe dirigente cinese che prevedeva una sorta di immunità per i membri e gli ex membri del Comitato Permanente del Politburo, cioè la casta intoccabile della Repubblica Popolare.
In un commento alla notizia di martedì, il Quotidiano del Popolo ha comunque prospettato nuove incriminazioni, sostenendo che la lotta alla corruzione “non si fermerà” e che “la caduta di Zhou Yongkang… è solo un passo del processo in corso” inaugurato dal presidente Xi.
Fonte
Con una comunicazione apparsa martedì sul sito web della Commmissione Centrale per le Ispezioni Disciplinari del Partito Comunista Cinese (PCC), il governo di Pechino ha annunciato in maniera ufficiale l’apertura di un’inchiesta ai danni del potente ex membro del Comitato Permanente del Politburo, Zhou Yongkang, sospettato di “gravi violazioni della disciplina”. Mai nei 65 anni di storia della Cina “comunista” un esponente così autorevole della classe dirigente era stato messo sotto accusa per reati di corruzione.
72 anni ancora da compiere, Zhou si era ritirato dalla politica attiva nel novembre del 2012 dopo una carriera che lo aveva visto raggiungere i vertici del governo. Tra il 1988 e il 1998 era stato vice-presidente e poi presidente del colosso pubblico petrolifero China National Petroleum Corporation (CNPC), per poi assumere incarichi prettamente politici in qualità di ministro delle Terre e delle Risorse e segretario del PCC nella provincia di Sichuan.
Nel 2002 Zhou era entrato per la prima volta nel Politburo del partito e nel 2007 nel Comitato Permanente di quest’ultimo, di fatto il più alto organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese. Tra il 2007 e il 2012, Zhou aveva assunto infine la guida dell’intero apparato della sicurezza, con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i servizi segreti civili.
Secondo quanto riportato a dicembre dalla Reuters, Zhou era stato messo agli arresti domiciliari già sul finire dello scorso anno, a conferma delle voci che circolavano sul suo conto e dopo che dal 1° ottobre precedente non era più stato visto in pubblico.
La decisione presa con ogni probabilità direttamente dal presidente cinese, Xi Jinping, era seguita alla creazione di una speciale task force con l’incarico di indagare sulle accuse di corruzione nei suoi confronti. Sempre secondo la Reuters, poi, nel marzo di quest’anno le autorità avevano sequestrato beni per il valore di quasi 15 miliardi di dollari a vari membri della famiglia e della cerchia di potere di Zhou Yongkang.
Agli arresti sono finiti anche il figlio di quest’ultimo, Zhou Bin, nonché la moglie, Jia Xiaoye, e il fratello, Zhou Yuanqing. Il figlio, in particolare, svolgerebbe un ruolo centrale nell’indagine interna al partito e, secondo il New York Times, avrebbe recentemente testimoniato contro il padre.
Complessivamente, più di 300 persone vicine a Zhou negli ultimi mesi sono state arrestate o interrogate nell’ambito delle indagini. In un’escalation di incriminazioni e condanne che hanno fatto terra bruciata attorno a Zhou, numerose personalità di spicco vicine a quest’ultimo sono state vittime di vere e proprie purghe negli ultimi due anni.
Nel dicembre del 2012, ad esempio, il vice-segretario del partito nella provincia di Sichuan, Li Chuncheng, era stato il primo importante politico alleato di Zhou a essere oggetto di un’indagine nell’ambito della crociata anti-corruzione della leadership da poco installata.
Il numero uno della commissione incaricata di amministrare e supervisionare le aziende pubbliche, Jiang Jiemin, finì invece sotto inchiesta nel settembre del 2013. Tre mesi più tardi sarebbe poi toccato a Li Dongsheng, vice-ministro per la pubblica sicurezza.
Fonti cinesi citate dalla stampa occidentale riferiscono che Xi intenderebbe punire Zhou per avere cercato di installare propri uomini ai vertici dello stato alla vigilia del 18esimo congresso del PCC nel novembre del 2012, in occasione del quale avvenne il decennale cambio della leadership cinese che portò al potere lo steso Xi.
In particolare, per mantenere la propria influenza all’interno dei supremi organi di governo e proteggere le ricchezze accumulate dal suo entourage, Zhou puntava tutto sul carismatico Bo Xilai, l’ex segretario del partito di Chongqing attualmente in carcere. Entrambi considerati fedelissimi dell’ex presidente Jiang Zemin, Zhou Yongkang e Bo Xilai hanno rappresentato o rappresentano uno dei principali ostacoli al consolidamento del potere di Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang.
Zhou e Bo, infatti, fanno parte di una fazione all’interno della classe dirigente cinese legata alle grandi compagnie pubbliche, in particolare del settore petrolifero, e che si oppone al processo di ulteriore ristrutturazione del sistema economico del paese in senso capitalistico.
L’agenda di libero mercato di Xi e Li, dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali, trova resistenze molto forti negli ambienti delle aziende di stato che potrebbero essere penalizzate dall’apertura di alcuni settori strategici. La condanna di Bo Xilai lo scorso anno per corruzione e abuso di potere e l’incriminazione - peraltro non ancora annunciata ufficialmente - di Zhou Yongkang rappresentano perciò il tentativo più clamoroso di rimuovere questi ostacoli.
Gli attacchi ai leader rivali del partito vengono portati con la scusa della lotta alla corruzione che ha rappresentato un altro dei capisaldi del programma di Xi Jinping al momento della sua ascesa alla guida del partito e del paese. Dal momento che la corruzione pervade praticamente tutti gli ingranaggi della Repubblica Popolare e che gli appartenenti all’élite “comunista” si sono arricchiti enormemente negli ultimi decenni con sistemi a dir poco discutibili, indagini o incriminazioni a causa di “violazioni” delle regole posso essere pilotate a piacere da chi controlla un sistema giudiziario tutt’altro che indipendente.
L’annuncio dell’indagine aperta ai danni di Zhou indica dunque un certo progresso da parte del presidente Xi nel superamento delle resistenze e delle divisioni all’interno della leadership cinese circa la strada da percorrere nel prossimo futuro. Non a caso, infatti, sempre martedì è stato indetto per il mese di ottobre il quarto Plenum del Comitato Centrale del PCC, durante il quale verranno ad esempio avanzate proposte volte a “migliorare il clima per gli investimenti” e a “liberalizzare i settori industriali ancora dominati dai monopoli statali”.
Molti commentatori si sono chiesti fino a che punto arriveranno le purghe ordinate dal presidente Xi, visto che appare evidente il rischio di inasprire le rivalità all’interno di un sistema di potere basato sul consenso e tradizionalmente caratterizzato da fazioni che fanno capo, tra gli altri, ai leader che hanno abbandonato le loro cariche ufficiali nel partito e nel governo.
Secondo una rivelazione pubblicata mercoledì dalla Reuters e basata su fonti cinesi, tuttavia, Xi Jinping avrebbe ottenuto il consenso dei due suoi predecessori - Hu Jintao e Jiang Zemin - prima di ordinare l’apertura di un’indagine formale per corruzione contro Zhou Yongkang. Per la stessa agenzia di stampa, ciò suggerirebbe che l’indagine a un livello così alto “non provocherà spaccature nel Partito Comunista”, anche se è possibile che “l’élite inizi a innervosirsi per l’allargamento della campagna anti-corruzione del presidente”.
Xi, d’altra parte, con l’indagine ai danni di Zhou avrebbe violato una regola non scritta della classe dirigente cinese che prevedeva una sorta di immunità per i membri e gli ex membri del Comitato Permanente del Politburo, cioè la casta intoccabile della Repubblica Popolare.
In un commento alla notizia di martedì, il Quotidiano del Popolo ha comunque prospettato nuove incriminazioni, sostenendo che la lotta alla corruzione “non si fermerà” e che “la caduta di Zhou Yongkang… è solo un passo del processo in corso” inaugurato dal presidente Xi.
Fonte
Ucraina. Taglieggiata dai nazisti, la russa Lukoil vende agli austriaci
Il gruppo petrolifero russo Lukoil ha annunciato di aver raggiunto un'intesa preliminare per la vendita della sua rete di stazioni di servizio in Ucraina, dopo che i gruppi nazionalisti radicali e fascisti hanno tentato di estorcere benzina alle filiali della compagnia.
Nei giorni scorsi il gruppo paramilitare neonazista ucraino Pravyi Sektor ha bloccato varie pompe di benzina Lukoil in Ucraina occidentale nel tentativo di estorcere carburante per le proprie milizie impegnate nella repressione delle popolazioni russofone dell’est del paese. A denunciare quanto accadeva non è stata solo la compagnia russa ma anche gli ispettori Osce operanti nel Paese.
Il prezzo di vendita di circa 240 stazioni e di sei depositi di benzina all'austriaca AMIC Energy Management GmbH non è però stato reso noto. "La vendita della rete di stazioni di servizio e dei depositi di benzina in Ucraina ad AMIC aiuterà Lukoil a ottimizzare la struttura dei suoi asset in Europa dell'Est" ha commentato in una nota il vicepresidente di Lukoil Vadim Vorobyov. La maggiore società petrolifera russa a capitale privato non ha indicato se la cessione sia legata alla crisi in Ucraina e alle sue recenti difficoltà nel Paese.
Finora Lukoil non è stata colpita dalla sanzioni occidentali che hanno penalizzato varie aziende di Stato russe per la reazione di Mosca al colpo di stato filoccidentale di febbraio in Ucraina, ma martedì sono state decise a Bruxelles e Washington misure punitive settoriali. Il numero uno del gruppo Vagit Alekperov ha detto a giugno che "le sanzioni hanno ripercussioni su tutte le società" russe.
E appare decisamente come una forma di sanzione mascherata la decisione della Corte europea per i diritti umani che ha condannato la Russia a versare quasi 1,9 miliardi di euro agli azionisti del defunto gruppo petrolifero Yukos, a titolo di risarcimento per le irregolarità nel procedimento fiscale aperto nei confronti della società negli anni 2000. Gli ex azionisti chiedevano una somma molto più elevata, quasi 38 miliardi di euro, comunque la Corte ha dato torto al governo russo.
Lunedì un tribunale arbitrale olandese ha inoltre condannato Mosca a un risarcimento record di 50 miliardi di dollari per i soci di Yukos, società petrolifera fondata da Mikhail Khodorkovsky, oligarca entrato in rotta di collisione con il leader del Cremlino Vladimir Putin.
Fonte
Gaza - Israele richiama altri 16mila riservisti, bilancio delle vittime come Piombo
86mila.
Questo il numero totale di riservisti richiamati dall’esercito
israeliano per l’operazione militare contro Gaza. Oggi l’ultimo round: altri 16mila soldati per proseguire un’offensiva che si fa ogni giorno più sanguinosa e drammatica.
La decisione di incrementare il numero di militari impiegati è stata
presa ieri nella riunione di gabinetto, meeting che si terrà anche oggi
pomeriggio. Oltre alle truppe, Israele ha anche bisogno di armi e, dopo
una serie di commenti stizziti con l’amministrazione Washington e il
presidente Obama, la Casa Bianca ha comunque accettato di inviare a Tel
Aviv altre munizioni: mortai 120mm e munizioni per lanciagranate da 40
mm.
Intanto proseguono i bombardamenti: stamattina 15 palestinesi –
sfollati in una scuola dell’Onu nel campo profughi di Jabaliya, a nord –
sono stati feriti quando colpi sparati dall’esercito israeliano hanno
centrato una moschea.
Siamo ormai al 24 esimo giorno di “Barriera Protettiva” e i numeri ormai toccano quelli di Piombo Fuso. Per
molti l’operazione in corso è molto più devastante di quella che fu
l’offensiva del 2008-2009 per il livello altissimo di distruzione e il
numero di sfollati, elevatissimo a causa dei bombardamenti
diretti contro abitazioni civili. A Gaza non c’è più elettricità: dopo
il bombardamento dell’unico impianto elettrico della Striscia, gran
parte della popolazione ha la corrente per due ore al giorno, ma nel
centro dell’enclave è completamente assente.
I target colpiti negli ultimi due giorni – scuole Unrwa,
ospedali, parchi giochi, mercati – hanno fatto alzare la voce anche ai
più silenziosi alleati israeliani. Ieri sia il presidente Obama che il
segretario generale dell’Onu hanno condannato gli attacchi ai civili,
con il Palazzo di Vetro che definiva “oltraggioso” il bombardamento
della scuola Unrwa di Jabaliya.
Parole dure anche dall’Unrwa, l’agenzia
Onu per i rifugiati, a corto di fondi e spazio per gli oltre 215mila
rifugiati interni a Gaza. Impossibile accoglierli tutti: con 4.987 case
completamente e 26.270 parzialmente distrutte, è diventato estremamente
difficile trovare riparo a Gaza. Nelle scuole dell’Unrwa,
affollate, carenti di bagni, cibo e acqua e comunque target dei raid
israeliani, la popolazione vive in condizioni pessime. Da cui la
dichiarazione di ieri sera: l’Unrwa non ce la fa più a prendersi cura
degli sfollati che Israele ha provocato, per cui Israele – in quanto
potere occupante – se ne assuma la responsabilità.
Ma se qualcuno alza la voce ed esprime almeno disappunto per l’operazione in corso, la diplomazia non si muove. Oggi al Cairo dovrebbero volare una delegazione di Hamas e dell’Olp per discutere di nuovo della proposta di tregua egiziana. All’orizzonte
non c’è nulla. Israele non apre ad alcuna discussione ed intensifica
l’operazione, Hamas sa di non poter tornare al precedente status quo,
all’assedio, come se niente fosse successo, come se non fossero morte
ammazzate 1.360 persone.
La Bolivia dichiara Israele ‘Stato Terrorista’
Con un gesto significativo ed eclatante, alcune ore fa il governo della Bolivia ha deciso di includere Israele nella propria lista di "Stati terroristi" per protestare contro il massacro in corso ormai da decine di giorni nella Striscia di Gaza e costato finora la vita a più di 1300 palestinesi, per lo più civili, donne e bambini inermi.
L'offensiva militare delle forze armate di Tel Aviv contro la popolazione della piccola enclave assediata "dimostra come Israele non sia il garante dei principi del rispetto della vita e dei diritti fondamentali che garantiscono la coesistenza pacifica della nostra comunità internazionale" ha dichiarato il presidente socialista boliviano, Evo Morales.
La Paz ha interrotto le relazioni diplomatiche con Israele nel 2009, dopo un'altra operazione militare nella Striscia; tuttavia, la Bolivia ha fino ad ora rispettato un accordo del 1972, firmato dall’allora giunta militare di estrema destra, che permetteva il libero ingresso dei cittadini israeliani nel Paese.
Ma ora La Paz ha deciso di interrompere l’accordo, il che vuol dire che i cittadini del cosiddetto ‘stato ebraico’ che vorranno entrare in territorio boliviano dovranno chiedere anticipatamente il visto d’ingresso e che in alcuni casi le autorità del paese potranno rifiutarlo. “A partire da ora Israele passa al gruppo di paesi i cui cittadini sono obbligati a richiedere un visto per entrare in Bolivia previa autorizzazione della Direzione Nazionale di Immigrazione che valuterà caso per caso” ha spiegato lo stesso presidente annunciando la decisione presa all’unanimità dal consiglio dei ministri di La Paz.
Il presidente Evo Morales ha annunciato l'iniziativa durante un incontro con un gruppo di docenti ed educatori nella città di Cochabamba.
Già nei giorni scorsi lo stesso presidente aveva inviato all’Alto Commissariato dei Diritti Umani dell’Onu una richiesta di intervento contro Israele nei confronti della Corte Internazionale di Giustizia per ‘crimini contro l’umanità’ in riferimento al massacro in corso nella Striscia di Gaza e aveva annunciato un rafforzamento delle relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese dopo aver riconosciuto la Palestina tra i primi paesi al mondo indispettendo non poco Tel Aviv.
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Finalmente qualcosa si muove, non soltanto in Bolivia!
Senza investimenti né credito. La crisi italiana parte da qui
Alla fine ci arrivano anche gli economisti normali: la crisi italiana è parte – ovviamente – della crisi golbale, ma possiede una sua specificità: gli imprenditori italiani non vogliono investire soldi propri (a proposito di “amore per il rischio di impresa”) e le banche non intendono fare credito alle imprese impegnate nell'economia reale (troppo lunghi i tempi di ritorno del profitto).
Le ragioni che mantengono in vita questa paralisi totale sono oggetto di interpretazioni anche diverse, alcune persino condivisibili – sul piano puramente analitico – quando incentrate sul carattere “oggettivo”, non superabile volontaristicamente, del “sistema” in cui ogni soggetto economico è costretto. Le banche, per esempio, trovano più “facile” e soprattutto redditizio investire in prodotti finanziari, in fusioni societarie, ecc; mentre – dice ad esempio Alessandro Pansa sul Corriere della Sera – “non hanno più le competenze interne per valutare lo sviluppo di una nuova macchina utensile o di una linea di montaggio”. O sei un'azienda già quotata in borsa, oppure ti guardano come un rebus, non un'occasione di business.
È il risultato di aver trasformato l'attività finanziaria in una “industria a sé stante”, superando la fase “eroica” del servizio alla manifattura. Chiaro che dopo vent'anni non ci sono più crediti a disposizione di imprenditori peraltro già restii a metterci capitale proprio. Il “paese” perde competenze in tutti i campi e diventa “inadeguato sul piano strutturale, quanto a patrimonio tecnologico, infrastrutture, sistema dei prodotti, dimensione e composizione azionaria delle imprese”.
Una situazione del genere non la rianimi abbassando i salari o cancellando le regole del mercato del lavoro, perché il vantaggio competitivo derivante dai salari più bassi (siamo già al “lavoro volontario e gratuito”, nel caso dell'Expo 2015) è sensibile soltanto per le imprese tecnologicamente più arretrate, le uniche in cui la voce “costo del lavoro” rappresenta una percentuale maggioritaria della struttura dei costi.
È per questo che aumenta il numero di coloro (da Confindustria a Confcommercio, ed ora anche a numerosi analisti mainstream) che chiedono ora una “banca di investimento”, appositamente dedicata al credito per le imprese. Qualcuno, come il già citato Pansa, pensa che questo possa essere l'avvio di una “politica industriale”, inesistente da decenni in questo paese (grosso modo da quando è stata sciolta l'Iri e sono entrati in vigore i trattati di Maastricht, con i relativi divieti per gli investimenti pubblici). Un'illusione, naturalmente. Ma anche un segnale che il punto di non ritorno del “sistema paese” sta per essere superato. Se ciò è vero – e lo è certamente – non ha più senso continuare a recitare le giaculatorie neoliberiste (specialità renziana, così come lo erano per Monti e Letta, e tutti quelli al servizio diretto della Troika) sulla “mano invisibile del mercato” che mette spontaneamente tutto a posto.
Bisogna aumentare gli investimenti e serve una banca per metterli in moto.
Ovvio. Ma che banca dovrebbe essere? O meglio, chi dovrebbe metterci il capitale iniziale? Difficile che possa essere un “grande istituto di credito” (se non in piccolissima parte) o un grande gruppo assicurativo (per le stesse ragioni). Non è il loro business, non sanno dove mettere le mani se qualcuno gli presenta un piano industriale fatto di macchine industriali. E allora non resta che chiedere all'odiato “pubblico”, ovvero allo Stato, di mettere in moto la prima palla di bene, sperando che diventi valanga. Non si contano più quelli che suggeriscono di usare parte del patrimonio liquido della Cassa Depositi e Prestiti (ci aveva provato già Tremonti) come “sangue fresco” per una nuova banca così finalizzata.
L'idea è in fondo semplice: prendiamo un po' di risparmi popolari (la Cdp è nutrita dai risparmi depositati presso Poste Italiane, in pratica la cassaforte dei pensionati) e diamo soldi agli imprenditori che non vogliono rischiare soldi propri.
Alla canna del gas, vogliono fare i keynesiani coi risparmi del vecchio nonno. Davvero “innovativi”...
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Sopravviverà Putin? Analisi e desiderio nei pensatoi Usa
Il titolo in inglese è essenziale e micidiale: «Can Putin Survive?». Ce la farà Putin a sopravvivere? Si fa intendere che sta rischiando se non proprio la pelle, certamente la posizione di potere. «There is a general view that Vladimir Putin governs the Russian Federation as a dictator, that he has defeated and intimidated his opponents and that he has marshaled a powerful threat to surrounding countries». E’ un dittatore, una minaccia per i vicini o non lo è? Se a chiederselo è George Friedman su Stratfor è opportuno leggere. Non sarà il punto di vista della Casa Bianca o del Dipartimento di Stato o della Cia, ma lo è di una fetta di “think tank” americane molto vicine alle istituzioni citate prima. George Friedman è il presidente di Stratfor, società leader nel campo dell’intelligence globale. Pensate che Friedman è l’autore che prevede i principali eventi e le sfide che metteranno alla prova l’America e i suoi presidenti nel corso del decennio che verrà sul The New York Time. Da averne paura, da prendere con le molle ciò che scrive, ma certamente da leggerlo con estrema attenzione. Certamente lo starà facendo Putin e il suo entourage di ex spie del vecchio KGB, l’attuale FSB.
Quesito di partenza, Putin è così cattivo come sembra? Si parte dall’Ucraina che sembra essere il catalizzatore di tutti gli attuali interessi geostrategici americani. Bignami per distratti: l’Ucraina è di vitale importanza per la Russia come un cuscinetto contro l’Occidente e come percorso per la fornitura di energia per l’Europa. Poi Friedman divaga sui predecessori di Putin, sino all’alcolista Eltsin, con una osservazione interessante sul Kosovo. La Russia si alleò con i serbi ma quando la guerra aerea non riuscì a forzare la capitolazione di Belgrado, i russi negoziarono un accordo con la NATO per entrare e amministrare il Kosovo. Detto altrimenti, Eltsin vendette Belgrado per poi farsi tagliar fuori dal Kosovo. Umiliazione dell’orgoglio russo ed economia allo sfascio. La cacciata di Eltsin e il potere a Putin nascono da questo. Putin ha risposto. Interessi nazionali russi sempre e comunque. Ci sono le zampine-one della CIA e - memento storico - dei mercenari di Otpor da Belgrado. Dal Kosovo e dall’Ucraina la diffidenza di Putin. La ‘rivoluzione arancione’ alla fine mangia se stessa e Mosca esibisce a Kiev la nuova efficienza dell’esercito russo nell’invasione della Georgia.
Con gli Stati Uniti ancora impantanati in Iraq e in Afghanistan è cosa facile. L’amministrazione Usa - analisi di Friedman - con Obama e Hillary Clinton provano a ripristinare relazioni come ai “vecchi tempi”. Ma Putin non ci sta e la sfida continua. Siria: i russi appaiono decisivi e capaci e gli Stati Uniti indecisi e inetti. In Europa la sempre maggior dipendenza energetica dal Cremlino. Ma la trappola per Putin scatta nell’Ucraina bis. La ricostruzione di Friedman è storicamente discutibile ma essenziale. La Crimea da sempre russa non merita molte parole. Registra il fatto che il governo di Kiev è gestito dai consiglieri occidentali, e che i russi controllano solo piccole parti dell’Ucraina nel triangolo da Donetsk a Lugansk a Severodonetsk e una dozzina di città. Putin che cerca di dividere gli Stati Uniti dall’Europa e Obama che cerca di portare la Nato sui confini russi. Per Friedman l’incidente della Malaysia Airlines è cruciale per gettare discredito, quali che siano i fatti. E Putin, da zar che usa spietatamente il potere vincendo, ora parrebbe incapace di sostenere una insurrezione definita ‘senza speranza’. Buco clamoroso di analisi, la crisi politica ucraina e il prossimo inverno.
Friedman, per dare sostanza alla sua tifoseria poco analitica, si appella alla storia. A gufare contro il non simpaticissimo Putin. Nikita Kruscev, umiliato nella crisi dei missili cubani che, tornato dalle vacanze nell’ottobre del 1964 si trova sostituito dal suo protetto, Leonid Breznev. Orgoglio russo e pregiudizio. Una battuta d’arresto negli affari esteri e ripetuti fallimenti economici avevano deciso su Krusciov. La situazione economica della Russia non è neanche lontanamente catastrofica come lo era sotto Krusciov o Eltsin, ma l’embargo occidentale pesa, anche se il bilancio finale su chi pagherà il prezzo più alto è ancora da verificare. Ma intanto - analisi Usa-Stratfor - Putin rischia pur senza il sovietico Politburo. E già si disegnano posizioni e nomi di amici-coltello attorno a Putin in difficoltà. Secondo Friedman il ministro della Difesa Shoigu e il sindaco di Mosca Sobyanin sono i più popolari. In una lotta in stile sovietico il Capo di Stato Maggiore Ivanov e il capo del consiglio di sicurezza Patryushev sarebbero i contendenti. Un Putin in difficoltà sarà più o meno aggressivo? Friedman tace. Pensiero flash: Lenin fu durissimo, Stalin fu molto peggio. Tra Kissinger e Friedman?
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30/07/2014
La Libia brucia. L’Europa scappa. L’Italia ritorna?
«Out of control», fuori controllo l’incendio esploso nel deposito di carburante all’aeroporto di Tripoli, a 10 km dal centro città. Minaccia di esplosioni devastanti e di disastro ambientale. Ma è tutta la Libia che brucia. Guerra per bande, le ambasciate chiudono, salvo quella italiana.
Grande attenzione ma forse non soltanto. L’Italia guarda oltre il Canale di Sicilia e vede le fiamme che minacciano Tripoli, e non soltanto. Nessun intervento ufficiale. La Farnesina smentisce l’invio in Libia di 7 Canadair per contrastare gli incendi nei depositi di carburante dell’aeroporto di Tripoli colpiti da razzi. L’Italia - aggiunge la nota d’agenzia - continua tuttavia a valutare tutte le opzioni per ‘fornire aiuti alla Libia’. Difficoltà tecniche e soprattutto gli scontri tra milizie. L’ambasciata d’Italia resta aperta mentre tutte le altre rappresentanze diplomatiche occidentali chiudono. Segnale preciso.
Ambasciata italiana a Tripoli |
Ma torniamo al ruolo dell’Italia in questa crisi travolgente per la Libia. L’ufficio del primo ministro libico, nel fare appello “a tutte le parti per smettere di combattere e consentire agli esperti di mettere in atto con successo un piano per arrestare le fiamme il più presto possibile”. “I tecnici del nostro governo, insieme alla compagnia petrolifera italiana ENI, si sarebbero attivati per aiutare Tripoli a spegnere l’incendio”, dice la nota del governo libico. Palazzo Chigi prudentemente tace mentre alla Farnesina il compito di smentire la stupidaggine di Canadair a sganciare acqua sui combattenti.
In gioco, dicevamo, un intero Paese che brucia. E un’intera regione, quella della Mezzaluna Fertile - da Tripoli fino a Baghdad passando per Gaza - che sta cambiando natura. Dirimpettai mediterranei che ci coinvolgono da vicino, non solo per il flusso di migranti. Questo mentre Usa e Ue o sono distratti - eufemismo - o fanno finta di esserlo. Ormai Clan e tribù - le Kabile - si fronteggiano in tutto il Paese, contribuendo a dividere la Libia in città-Stato indipendenti che non riconoscono né il nuovo parlamento né il risultato delle elezioni. La spaccatura tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.
Un aereo in fiamme sulla pista dell’aeroporto di Tripoli |
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Ha chiuso l'Unità, non restera l'unica
L'Unità chiude ancora una volta, ma Gramsci c'entra solo marginalmente. È importante però capire bene che questo ha un significato preciso: per il Pd di Renzi quel “background vetero-comunista” è ormai un peso sull'immagine e un contributo elettorale quasi marginale.
Lo diciamo in modo meno sintetico: al Pd attuale non gliene frega niente se quelli che pensano ancora a Gramsci e al socialismo non voteranno più Pd. I loro sondaggi dicono che quella banda di nostalgici (che credono ancora che la Coop sia la forma societaria del socialismo in terra, l'Unipol sia l'unica assicurazione da sottoscrivere nonostante Consorte e l'alleanza con Ligresti, che il sindaco di Bologna sia per forza di cose "un bravo compagno", ecc.) pesa elettoralmente per uno zero virgola. Gente che in buona parte va già da un'altra parte e che comunque è sottoposta alle dure leggi oggettive della fisiologia: sono in maggioranza anziani, e ogni anno sono sempre di meno.
Sia chiaro, per completezza: l'Unità entra nella procedura di liquidazione coatta amministrativa. Questo implica che il governo – il ministero dello sviluppo, ossia Lupi – dovrà nominare un commissario liquidatore (in genere un trio di professionisti in materia, non necessariamente esperti in campo editoriale). Il quale esaminerà, se ci saranno, delle offerte per l'acquisto della testata. Per ora si conosce solo quella della strana coppia Daniela Santanché/Paola Ferrari De Benedetti (sì, proprio la giornalista sportiva della Rai, sì proprio il De Benedetti di Repubblica, di cui ha sposato un figlio; dell'altra è impossibile ignorare alcunché...).
Insomma: potrebbe ancora risorgere, come testata (letteralmente: quel marchio in cima alla prima pagina che “certifica” l'identità del giornale che avete in mano). Ma non somiglierà per nulla alle molte versioni viste (e non molto lette, da qualche anno) nel secolo che abbiamo alle spalle.
Detto quel che la cronaca impone, cosa c'è da imparare da questa vicenda?
Che il giornalismo “di partito”, in questo nuovo mondo, come si sente ripetere in ogni tg o talk show, è finito? Ci riesce difficile consentire. Mai come in questi ultimi anni abbiamo affrontato giornali esclusivamente “di partito”. Per parlare solo dell'Italia, abbiamo davanti la corazzata berlusconiana (Mediaset con le sue tre reti, Il Giornale, una serie infinita – e indistinguibile – di periodici per pensionati/e in fila dal dentista, affiancati da testate regionali più di nome che di fatto, ecc.); l'incrociatore L'Espresso-Repubblica, gruppo De Benedetti, che ciurla nel manico dell'immaginario della “sinistra perbenista”, di recente approdato al renzismo spinto e senza contraccetivi; la Rai e dintorni, con i cambi di bandiera successivi a ogni tornata elettorale (cambia "l'azionista di riferimento", non la logica aziendale filo-governativa). Poi ci sono (pochi) battitori liberi, come Il Fatto, praticamente al centro di un rifiuto non rivoluzionario (solo “legalitario”) dell'esistente, e qualche decina di testate online equamente sovrapposte al panorama esistente nella carta stampata. Essere (quasi) soli contro tanta potenza non ci inorgoglisce: ci preoccupa. Sa un po' troppo di regime. Peggio: di un regime che pretende di aver liquefatto qualsiasi “identità” differenziata dal format prevalente. “Liberi”, insomma, di pensarla come viene imposto...
Anche perché tutte queste navi potenti, ancorché battano bandiere di partiti teoricamente differenti (Berlusconi, Renzi, Grillo), garriscono all'unisono in onore del Partito liberista nazionale, quello che deve fare le “riforme strutturali” – dopo quelle costituzionali, legge elettorale compresa – per allineare la governance di questo paese agli standard imposti dall'Unione Europea e dal Fmi.
Insomma: i giornali “di partito” sono morti perché c'è un solo partito al potere. Con qualche problemino interno, certo, ma non irrisolvibile.
Che muoia dunque l'Unità, subito dopo Il Manifesto (sì, certo, è ancora in edicola; ma somiglia in qualcosa a quello di Pintor, Rossanda, Parlato, Chiarini, Franco Carlini, Casalini, Matteuzzi, Pascucci, Polo, Galapagos?), è solo la conferma del fatto che c'è un solo giornale possibile: quello strettamente di regime.
Ti strozza la pubblicità, prima ancora del pubblico che non c'è più.
Ma il vero cuore della questione è proprio qui. Non c'è più il pubblico che compra i giornali. Perché?
La prima ragione è la moltiplicazione delle “fonti di informazione”, ovviamente a partire da Internet e dalle migliaia di fonti disponibili nella nostra lingua (praticamente infinite in inglese). Anche a “lettori forti”, quelli che come noi leggono di tutto anche al bagno, capita sempre più spesso di sentirsi “pienamente informati” anche solo dalla frequentazione dei notiziari online; anche facendo la necessaria “tara” sull'affidabilità di ogni fonte.
Non è vero, naturalmente. Quell'informazione è strutturalmente deficitaria per ragioni oggettive. È scritta di corsa, spesso – quasi sempre – col copia-e-incolla non dichiarato (esempio: noi in questi giorni postiamo i pezzi di Nena News sui bombardamenti di Gaza, ma ve lo dichiariamo e vi invitiamo a collegarvi con quel sito; più piratesco, e anche infame, sarebbe darvi i loro “contenuti” come se li avessimo prodotti noi).
È prodotta da “non professionisti” in senza lato. Non perché il tesserino da “giornalista professionista” garantisca un'obiettività maggiore (ne conosciamo a tonnellate di cronisti “embedded” pronti a propinare merda riciclata per fini di guerra psicologica!). Ma per un motivo molto più semplice: “scrivere” giornalisticamente significa guardare l'oggetto che cerchiamo di descrivere “dall'esterno”. Anche se siamo parte organizzativa centrale di una manifestazione o di uno sciopero, insomma, nel momento di descrivere ciò che accade cerchiamo di non rimanere “dentro” quella logica che produce al massimo un volantino (leggibile solo dai diretti interessati), ma cerchiamo di “far vedere” ciò che accade in modo che anche un altro “esterno” possa vedere quel che abbiamo visto.
Quando questo non c'è – perché chi scrive non è presente-ma-esterno all'evento, oppure perché è presente-ma-troppo-interno – l'informazione diventa creta con cui si può fare qualsiasi cosa. Di più. Di questo tipo di “informazione” siamo sommersi secondo per secondo, senza neanche il tempo di farci le domande classiche (sarà vero? Sarà falso? Ma chi è che me lo dice? Ecc).
La cosa più tragica è che “il pubblico” è stato abituato a questo andazzo. Non si chiede più molto, nella sua dimensione di stragrande maggioranza. Il dubbio è filosofico, quindi ristretto a un numero risibile (in percentuale, certo) di lettori/fruitori. E' avvelenato, in senso stretto.
Soprattutto è abituato a testi brevi, assertivi, non problematici, che non (ti) chiedono uno sforzo di partecipazione critica. Soprattutto, assolutamente gratuiti. E questo taglia la testa a qualsiasi toro. Il pubblico “vuole sapere”, ma “non pagare”. È stato abituato così, in rete. Senza nemmeno distinguere tra una prenotazione d'albergo e un saggio sui destini del pianeta (che, siamo costretti a farlo notare, richiedono uno “sforzo produttivo” alquanto differente, e che andrebbero semmai retribuiti almeno in proporzione al tempo di lavoro per produrli). Perciò necessariamente, dovrà essere “di bocca buona”. E al discount dell'informazione-spazzatura troverà certamente quel che basta a soddisfare una così magra curiosità.
Per questo, oltre che per il cambiamento “genetico” del Pd, l'Unità e cento altri giornali sono destinati alla chiusura definitiva. Per questo, senza proclami ridicoli, gente come noi cerca di fare informazione “strutturata”. Ovvero che restituisca a chi legge l'immagine unitaria del mondo, al di là dei milioni di frammenti di cui sembra – sembra soltanto, sveglia! – composto.
Sapendo che nessuno di noi, da solo o in piccoli gruppi, può riuscire nell'impresa di cambiare la visione del mondo – prima – e il mondo poi.
Quell'Unità di carta non c'è più. La nostra – di testa e di cuore – è tutta da costruire.
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Napoli, acqua pubblica: mobilitazione contro la Delibera 423 della Giunta De Magistris
Si allarga – a Napoli e nell’area metropolitana – la preoccupazione circa la possibilità che l’unica Azienda Partecipata di diritto pubblico (l’ABC, Acqua Bene Comune) del Comune di Napoli venga spinta nelle spire della privatizzazione e della ristrutturazione antisociale.
Dopo la denuncia, ad opera dei compagni che animano il Controsemestre Popolare nella quale è stato reso noto che la Giunta Comunale di Napoli ha approvato una delibera in cui si mette mano, con intento privatistico, allo statuto di questa Azienda, si sta delineando un arco di forze politiche e sociali che intendono sventare questo autentico colpo di mano che aprirebbe il varco ai poteri forti che, da tempo, ambiscono a mettere le loro mani sulle Aziende partecipate del Comune e sull’intero sistema dei servizi a rete.
Già la presa di posizione del Consigliere Pietro Rinaldi ha contribuito alla rottura del silenzio istituzionale, mettendo a nudo le modalità occulte e perniciose con le quali è stata approntata questa pericolosa Delibera di giunta.
Registriamo ora un comunicato del gruppo consiliare della Federazione della Sinistra, scaturito dopo un incontro con i compagni della campagna del Controsemestre Popolare e del sindacalismo conflittuale, che riportiamo integralmente:
Acqua pubblica: De Magistris non tradisca le ragioni degli italiani
La Giunta De Magistris il 19 giugno ha votato una delibera (423) che cambia lo statuto dell’ABC prevedendo, all’art. 40, tra gli atti fondamentali da sottoporre al Consiglio Comunale, la costituzione di società di capitali e l’assunzione di partecipazioni.Intanto, sempre su sollecitazione della nostra denuncia pubblica, oggi pomeriggio si riuniranno i vari comitati e le associazioni che, a vario titolo, hanno contribuito alla vittoria del Referendum contro la privatizzazione dell’acqua per decidere, unitariamente, le prossime iniziative di mobilitazione per reclamare il ritiro immediato della Delibera dell’amministrazione comunale di Napoli e l’opposizione ad ogni tentativo di dismissione e svendita di ciò che residua del patrimonio e dei servizi pubblici.
Queste affermazioni tradiscono innanzitutto lo spirito di milioni di italiani che nel 2011 si sono espressi, inequivocabilmente, a favore dell’acqua pubblica, bene fondamentale per l’umanità.
Più di 27 milioni di italiani, il 54%, ha dato mandato alla politica affinché l’acqua non fosse commercializzata e garantita a tutti.
Questa delibera, che a breve dovrà trovare i voti del Consiglio Comunale, va immediatamente ritirata poiché, oltre a tradire il quesito referendario, viola il principio della neutralità delle scelte delle forme gestionali pretese proprio dall’UE. Si ripropone, surrettiziamente, solo la forma della privatizzazione. E’ politicamente inaccettabile proporre, in sordina e nella calura estiva, un principio statutario che lascia aperta la via della privatizzazione del ciclo idrico integrato.
La Federazione della Sinistra chiede al sindaco De Magistris la modifica della delibera con l’eliminazione delle lettere f) e g) dell’art. 40 dello statuto ABC.
La Federazione della Sinistra continuerà il confronto con i movimenti e le forze sociali che in questi anni hanno difeso l’acqua pubblica al fine di scongiurare ogni possibilità di ritorno al passato che non tenga conto della volontà referendaria.Il Presidente - Amodio Grimaldi
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Amira Hass: “La disfatta morale di Israele ci perseguiterà per anni”
La casa distrutta del leader di Hamas Ismail Haniyeh (Foto: Finbarr O’Reilly/Reuters) |
Se la vittoria si misura in base al numero dei morti, allora Israele e il suo esercito sono dei grandi vincitori. Da sabato, quando ho scritto queste parole, a domenica, quando voi le leggerete, il numero [dei morti palestinesi] non sarà più di 1.000 (di cui il 70-80% civili), ma anche di più [sono 1200, ndt].
Quanti altri ancora? Dieci corpi, diciotto? Altre tre donne incinte? Cinque bambini uccisi, con gli occhi semichiusi, le bocche aperte, i loro piccoli denti sporgenti, le loro magliette coperti di sangue e tutti trasportati su una sola barella? Se vittoria vuol dire causare al nemico una pila di bambini massacrati su una sola barella, perché non ce ne sono abbastanza, allora avete vinto, capo di stato maggiore Benny Gantz e ministro della Difesa Moshe Ya’alon, voi e la nazione che vi ammira.
E il trofeo va anche alla Nazione delle Start Up, questa volta alla start up premiata per sapere e riferire il meno possibile al maggior numero possibile di mezzi di comunicazione e siti web internazionali. “Buon giorno, è stata una notte tranquilla” ha annunciato plaudente il conduttore della radio militare giovedì mattina. Il giorno precedente il felice annuncio, l’esercito israeliano ha ucciso 80 palestinesi, 64 dei quali civili, compresi 15 bambini e 5 donne. Almeno 30 di loro sono stati uccisi durante quella stessa notte tranquilla da una devastante cannoneggiamento, bombardamento e fuoco di artiglieria israeliana, e senza contare il numero di feriti o di case distrutte.
Se la vittoria si misura con il numero di famiglie distrutte in due settimane – genitori e bambini, un genitore e qualche bambino, una nonna e alcune nuore, nipoti e figli, fratelli e i loro bambini, in tutte le variabili che si possono scegliere – allora noi siamo i vincitori. Ecco qui i nomi a memoria: Al-Najjar, Karaw’a, Abu-Jam’e, Ghannem, Qannan, Hamad, A-Salim, Al Astal, Al Hallaq, Sheikh Khalil, Al Kilani. In queste famiglie, i pochi membri sopravvissuti ai bombardamenti israeliani nelle scorse due settimane invidiano la loro morte.
E non bisogna dimenticare la corona di alloro per i nostri esperti giuridici, quelli senza i quali l’esercito israeliano non fa una mossa. Grazie a loro, far saltare in aria una casa intera – sia vuota o piena di gente – è facilmente giustificato se Israele identifica uno dei membri della famiglia come obiettivi legittimi (che si tratti di un importante dirigente o semplice membro di Hamas, militare o politico, fratello o ospite della famiglia). “Se questo è ammesso dalle leggi internazionali” mi ha detto un diplomatico occidentale, scioccato dalla posizione a favore di Israele del suo stesso Stato, “vuol dire che qualcosa puzza nelle leggi internazionali.”
E un altro mazzo di fiori per i nostri consulenti, i laureati delle nostre esclusive scuole di diritto in Israele e negli Stati Uniti, e forse anche in Inghilterra: sono certo siano loro che suggeriscono all’esercito israeliano perché è consentito sparare alle squadre di soccorso palestinesi e impedirgli di raggiungere i feriti. Sette membri delle equipe mediche che stavano cercando di soccorrere i feriti sono stati uccisi da colpi sparati dall’esercito israeliano in due settimane, gli ultimi due solo lo scorso venerdì. Altri sedici sono stati feriti. E questo non include i casi nei quali il fuoco dell’esercito israeliano ha impedito alle squadre di soccorso di arrivare sulla scena del disastro.
Ripeterete sicuramente quello che sostiene l’esercito: “Le ambulanze nascondevano dei terroristi” – poiché i palestinesi non vogliono veramente salvare i loro feriti, non voglio veramente evitare che muoiano dissanguati sotto le macerie, non è questo che pensate? Forse che i nostri acclamati servizi di sicurezza, che in tutti questi anni non hanno saputo scoprire la rete di tunnel, sanno in tempo reale che in ogni ambulanza colpita direttamente dal fuoco dell’esercito, o il cui cammino per salvare persone ferite è stato bloccato, ci sono davvero palestinesi armati? E perché è ammissibile salvare un soldato ferito al prezzo del bombardamento di un intero quartiere, ma non è consentito salvare un anziano palestinese sepolto sotto le macerie? E perché è proibito salvare un uomo armato, o meglio un combattente palestinese, ferito mentre respingeva un esercito straniero che ha invaso il suo quartiere?
Se la vittoria si misura con il successo nel provocare traumi permanenti a un milione ottocentomila persone (e non per la prima volta) che si aspettano in ogni momento di essere giustiziati – allora la vittoria è vostra.
Queste vittorie si aggiungono alla nostra implosione morale, la sconfitta etica di una società che ora si impegna a non fare un’auto-analisi, che si bea nell’autocommiserazione a proposito di ritardi nei voli aerei e che si fregia dell’arroganza di chi è di è libero da pregiudizi. È una società che ovviamente è in lutto per i propri oltre 40 soldati uccisi, ma allo stesso tempo indurisce il proprio cuore e la propria mente di fronte a tutte le sofferenze e al coraggio morale ed eroismo del popolo che stiamo attaccando. Una società che non capisce quale sia il limite oltre il quale l’equilibrio delle forze gli si ritorcerà contro.
“In tutte le sofferenze e la morte – ha scritto un mio amico da Gaza – ci sono tante manifestazioni di tenerezza e di gentilezza. Le persone si prendono cura le une delle altre, si confortano a vicenda. Soprattutto i bambini, che cercano il modo migliore per aiutare i loro genitori. Ho visto tanti bambini di meno di 11 anni che abbracciano e consolano i loro fratellini più piccoli, cercando di distrarli dall’orrore. Così i giovani si prendono in carico qualcun altro. Non ho incontrato un solo bambino che non abbia perso qualcuno un genitore, una nonna, un amico, una zia o un vicino. E penso: se Hamas è nato dalla generazione della prima Intifada, quando i giovani che tiravano pietre sono stati presi a fucilate, cosa nascerà dalla generazione che ha sperimentato i ripetuti massacri degli ultimi sette anni?”
La nostra sconfitta morale ci perseguiterà per molti anni in futuro.
Traduzione di Amedeo Rossi
Fonte
E' un dramma enorme constatare che il meglio della coscienza ebraica sia del tutto minoritaria all'interno della società israeliana.
Gaza. Colpita ancora una scuola dell’Unrwa, 20 morti
Tra le vittime registrate nelle ultime ore nella Striscia, secondo al-Qedra, ci sono anche dieci persone di una stessa famiglia morte e altre 25 ferite in un raid aereo condotto contro un'abitazione a Khan Yunis, nel sud del territorio palestinese. Dall'inizio delle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza, stando a fonti palestinesi, il bilancio è di almeno 1.258 morti e oltre 7.000 feriti. Da parte israeliana, riporta la Dpa, nelle ultime ore cinque soldati sarebbero rimasti feriti da colpi di mortaio. Nella notte sono proseguiti i lanci di razzi contro Israele da Gaza, dove da ieri migliaia di persone sono senza elettricità dopo che è stata colpita l'unica centrale elettrica della striscia. Dall'avvio delle operazioni l'8 luglio scorso, almeno 53 soldati israeliani e 3 civili sono morti, mentre i feriti sono centinaia. Ieri sera il leader delle Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, ha ribadito che un eventuale accordo di tregua con Israele deve prevedere la fine dell'offensiva contro la Striscia di Gaza e la revoca del blocco. In un messaggio audio diffuso dalla tv di Hamas, Mohamed Deif ha affermato che «la resistenza armata palestinese è più forte e potente dell'esercito del nemico».
La notte era iniziata con altri raid. Nel mirino Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, dove almeno cinque palestinesi di una stessa famiglia sono stati uccisi. Otto in tutto le vittime del raid, secondo l’ultimo bilancio reso noto dai servizi di soccorso palestinesi. Secondo le stesse fonti, l’aviazione israeliana ha distrutto anche tre mosche tra la città di Gaza, Rafah ed il campo profughi di Shati.
Chiarita nel frattempo e con assoluta certezza la responsabilità israeliana nell'attacco all'altra scuola Unrwa, a Jabalya. Almeno «cinque cannonate» sono infatti cadute nel perimetro della scuola dell'Unrwa (l'ente dell'Onu per i profughi) a Jabalya ed una di esse ha centrato una classe piena di sfollati. Lo ha affermato un portavoce dell'Unrwa, Adnan Abu Hasna, secondo cui nella scuola ci sono «circa 20 morti e diverse decine di feriti, molti dei quali in modo grave». «L'esercito israeliano conosceva l'ubicazione della scuola», ha precisato. E soprattutto i palestinesi non dispongono di artiglieria pesante.
In un primo commento un portavoce militare israeliano aveva provato a falsificare i fatti, come al solito, dicendo che l'episodio era oggetto di una inchiesta, ma siccome i combattimenti sono ancora in corso non era stato ancora possibile avere dal terreno informazioni dettagliate. Ha aggiunto che è probabile che dalla scuola sia stato aperto il fuoco verso l'esercito.
Sulla giornata di ieri, in attesa di ulteriori aggiornamenti, lasciamo la parola a Nena News, che ha il direttore, Michele Giorgio, a Gaza.
Fonte
La notte era iniziata con altri raid. Nel mirino Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, dove almeno cinque palestinesi di una stessa famiglia sono stati uccisi. Otto in tutto le vittime del raid, secondo l’ultimo bilancio reso noto dai servizi di soccorso palestinesi. Secondo le stesse fonti, l’aviazione israeliana ha distrutto anche tre mosche tra la città di Gaza, Rafah ed il campo profughi di Shati.
Chiarita nel frattempo e con assoluta certezza la responsabilità israeliana nell'attacco all'altra scuola Unrwa, a Jabalya. Almeno «cinque cannonate» sono infatti cadute nel perimetro della scuola dell'Unrwa (l'ente dell'Onu per i profughi) a Jabalya ed una di esse ha centrato una classe piena di sfollati. Lo ha affermato un portavoce dell'Unrwa, Adnan Abu Hasna, secondo cui nella scuola ci sono «circa 20 morti e diverse decine di feriti, molti dei quali in modo grave». «L'esercito israeliano conosceva l'ubicazione della scuola», ha precisato. E soprattutto i palestinesi non dispongono di artiglieria pesante.
In un primo commento un portavoce militare israeliano aveva provato a falsificare i fatti, come al solito, dicendo che l'episodio era oggetto di una inchiesta, ma siccome i combattimenti sono ancora in corso non era stato ancora possibile avere dal terreno informazioni dettagliate. Ha aggiunto che è probabile che dalla scuola sia stato aperto il fuoco verso l'esercito.
Sulla giornata di ieri, in attesa di ulteriori aggiornamenti, lasciamo la parola a Nena News, che ha il direttore, Michele Giorgio, a Gaza.
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L’algoritmo del profitto. Comandare il lavoro al tempo del technical intellect
Grazie allo sviluppo tecnologico di sicuro non diventeremo tutti uguali, ma almeno saremo gentlemen di fronte al lavoro. Suonava grosso modo così una promessa annunciata con una certa autorevolezza ormai più di un secolo fa. Alle
promesse di chi vorrebbe affidare all’evoluzione il nostro destino
abbiamo imparato a non dare ascolto, tanto più quando quell’evoluzione
oggi si presenta con il volto neutro dell’algoritmo. È quest’ultimo, infatti, la struttura portante di quelle che, all’alba della società post-industriale, Daniel Bell definiva intellectual technologies, il cui perfezionamento ha condotto oggi all’elaborazione di Computer Business Systems (CBS),
software preposti alla gestione e all’organizzazione di imprese sempre
più complesse, integrate e globali. Si tratta di strumentazioni adottate
regolarmente da grandi aziende multinazionali, spesso introdotte da
società esterne di consulenza come Accenture e Gartner, per procedere
tanto a ristrutturazioni aziendali, quanto alla normale amministrazione
della forza-lavoro in chiave iper-efficientista. Eppure, per quanto
diffuso sia il loro utilizzo, finora non esistevano studi
sull’argomento. Una lacuna che Simon Head ha provato a colmare andando
direttamente alla fonte, studiando cioè i manuali rilasciati dalle
aziende produttrici dei CBS (tra queste le più note sono IBM, Oracle,
SAP): un materiale impervio e spesso inaffrontabile, scritto da
specialisti per specialisti, in cui però, annota Head, si trovano
informazioni che di norma vengono occultate al pubblico di habitués delle celebrazioni del progresso tecnologico.
Attraverso le analisi di Mindless. Why Smarter Machines Are Making Dumber Humans (New
York, Basic Books, 2014), l’ultimo libro di Head, proveremo pertanto a
calarci nei segreti laboratori dove la scienza del capitale comanda un
lavoro immiserito, non solo e non tanto perché alleggerito sul
fronte salariale, ma in quanto privato di quel sapere sociale e
produttivo che sembrava aver acquisito nell’«età delle macchine». Il che
non comporta la scomparsa delle macchine utensili del fordismo, come se
di colpo fossimo tutti diventati lavorativi cognitivi, quanto piuttosto
una subordinazione della meccanica alla cibernetica e
all’elettronica che inevitabilmente riconfigura il ruolo delle macchine
stesse nell’organizzazione produttiva e, di converso, della forza lavoro. A fronte della comparsa di smarter machines, come recita il sottotitolo del volume di Head – ed è questa la sua tesi di fondo –, gli esseri umani stanno diventando più dumb, che in inglese ha un duplice significato: uno più colloquiale, in cui dumb equivale
a stupido, e uno più formale in cui significa muto, senza capacità di
articolare parole. Se l’intenzione di Head è più che altro quella di
mostrare come l’intelligenza artificiale delle macchine abbia impoverito
l’intelletto umano, è difficile però negare che la sottrazione di sapere, la sempre più accentuata privatizzazione del general intellect, ci renda inevitabilmente incapaci di stabilire un piano collettivo di comunicazione, ci privi cioè delle parole per articolare una piattaforma politica comune in grado di rovesciare lo stato di cose presenti.
Per chiarire questo punto, che inevitabilmente tocca il problema centrale del «governo tecnico delle scienze»,
occorre iniziare dalle modalità concrete di funzionamento dei CBS.
Anzitutto, tali software si basano su reti telematiche per mettere in
connessione spazi e tempi differenti del processo produttivo, ottenendo
così il duplice effetto di monitorare costantemente le attività dei lavoratori e mappare l’intera catena globale dello sfruttamento. I dati così ricavati vengono stipati in data warehouses,
magazzini digitali il cui contenuto viene poi filtrato, setacciando le
informazioni giudicate rilevanti per ottimizzare il processo di
produzione, e riversato in data smarts. In questo deposito
digitale ripulito, il management può trovare in tempo reale tutte le
informazioni necessarie a valutare l’efficienza tanto dei singoli
lavoratori quanto dell’intero ciclo produttivo. Alla fase di raccolta e
analisi dei dati segue poi quella del problem-solving, che si traduce in una molteplicità di pratiche volte a massimizzare i profitti e a rendere i lavoratori muti esecutori dei piani formulati dai CBS.
Nelle loro versioni più sofisticate, questi ultimi sono dotati di
apparati che mimano l’intelligenza umana e sono perciò in grado di
elaborare autonomamente delle risposte alle criticità riscontrate in
fase di analisi e di valutazione. In particolare, questo surplus di
intelligenza artificiale consente ai CBS di estendere la loro disciplina
industriale in settori diversi da quelli tradizionalmente legati
all’attività manifatturiera e di introdursi nel mondo dei servizi, come
nelle università e negli ospedali. Non sarà sfuggito che questo
complesso di funzioni sia di fatto tenuto insieme da una minuziosa
attività di controllo del lavoro che compete ai piani più alti del management aziendale. È solo a questi ultimi che spetta la visione d’insieme del processo produttivo, mentre gli strati intermedi devono accontentarsi di una visione parziale
e perciò inadatta a formulare proposte sul piano di una politica
aziendale che deve fare i conti con una realtà del lavoro che si
manifesta sotto forma di «complessità organizzata».
Tuttavia, perfino questa angolatura parziale risulta negata agli strati più bassi della gerarchia aziendale, quei low e unskilled workers che a Walmart si muovono freneticamente tra piantane e scaffali, sorvegliati a partire dal 2010 da «Task Manager»,
una tipologia di CBS che, nel momento in cui il singolo lavoratore
striscia il badge identificativo, impartisce ordini su ciò che deve fare
e in quanto tempo deve portarlo a termine, mentre a fine turno emette
l’agognato responso sul raggiungimento o meno degli obiettivi
giornalieri. L’insuccesso può decretare diverse sanzioni, che vanno
dalla paternalistica «lavata di capo» al licenziamento, passando per una
messa in scena in cui il lavoratore deve mostrarsi pentito e convincere
i propri superiori della propria lealtà e abnegazione alla causa del
profitto altrui. Sempre per evitare fastidiosi «furti di tempo», peccato
mortale contro lo spirito del capitale, anche Amazon (già
sperimentatore del famigerato «turco meccanico»)
si è dotato di un software gestionale capace di monitorare ogni
spostamento del lavoratore, a cui viene applicato un navigatore
satellitare in maniera tale che i superiori abbiano accesso in tempo
reale alla sua posizione e possano stabilire se è in linea con gli
obiettivi di giornata. Qualora non lo fosse, il lavoratore riceve un sms
di avvertimento, corredato dalle eventuali sanzioni che potrebbero
scattare se non provvede immediatamente a mettersi al passo con il suo
piano giornaliero.
Come si accennava in precedenza, questo distillato di taylorismo sotto forma di A Brave New World non rimane confinato nei magazzini, né tantomeno nei supermercati, ma si estende anche nei settori più avanzati del terziario,
dove non si tratta di produrre e/o distribuire merci ma di organizzare
relazioni umane. I CBS sono penetrati perfino nella secolare Oxford
University, ci racconta con una punta di nostalgia Head che nell’ateneo
britannico si è laureato. Nell’accademia britannica impera ormai il Research Assessment Exercise che, attraverso una serie di Key Performance Indicators,
monitora la produttività dei singoli ricercatori e lega le loro
carriere e i destini del loro dipartimento di afferenza a precisi
obiettivi di produzione, trasferendo le informazioni necessarie alla
valutazione a un organismo centrale che è l’Higher Education Funding
Council for England. Quanto avvenuto a Oxford è, secondo Head, il
risultato di un processo di misindustrialization, ovvero il trasferimento di logiche produttive industrialiste e privatistiche nell’area dei cosiddetti commons, beni sociali indivisibili sempre più oggetto di valorizzazione.
Nel complesso, l’esito di questi processi diffusi e ramificati si traduce secondo Head in un Corporate Panopticon,
un sistema di controllo automatizzato che raccoglie dati al livello più
basso dell’organizzazione aziendale, generando poi un flusso
informativo che aggiorna just in time una ristretta cerchia di manager che
sulla base del monopolio dell’informazione possono esercitare il loro
dominio incontrastato sul lavoro. Come avviene ad Amazon, il management può
sì servirsi di capireparto dislocati nei luoghi di lavoro, a riprova
del suo gusto pleonastico per le ostentazioni di forza, ma in realtà
quella funzione di controllo che l’ingegner Taylor assegnava agli uomini
viene ora egregiamente svolta dalle macchine. Di fronte a un sistema
così congegnato e animato da una logica interna inattaccabile sul piano
formale, le vecchie contestazioni sul ritmo e il carico di lavoro suonano eccentriche perché parlano un linguaggio sconosciuto al sistema: possono essere tutt’al più un imprevisto, se non un errore di sintassi da risolvere con la dovuta urgenza. Il paragone con il Panopticon originale di fattura benthamiana
rivela d’altronde come queste nuove prigioni/fabbrica si disinteressino
perfino della psicologia dei loro «ospiti», nella misura in cui, stando
alle parole sprizzanti retorica e marginalismo da tutti i pori di Mark
Onetto (manager di Amazon), uomini e donne al lavoro non devono neanche
più pensare al proprio interesse personale, perché il fine unico della
loro attività è soddisfare il consumatore. La conclusione, del tutto
logica, è che per Onetto lo sciopero è un non-sense.
La giustapposizione di controllo umano e
controllo digitale nel mondo del lavoro organizzato dai CBS segnala
però una contraddizione interna al processo di spersonalizzazione del
comando che l’evoluzione del sistema capitalistico ambisce a portare con
sé. Mentre pretende di fare affidamento su un’intelligenza
artificiale generale, il capitalismo post-industriale si basa in realtà
su algoritmi «umani, troppo umani», elaborati da specialisti nelle Information Technologies (IT)
che conoscono bene il materialismo volgare dei propri clienti e che
vengono in seguito perfezionati dagli stessi management aziendali a
seconda delle proprie esigenze. Nonostante la loro matematica
neutralità, gli algoritmi si rivelano in realtà delle merci particolari –
e a caro prezzo – perché, «piene di sottigliezze metafisiche»,
ambiscono a obliterare il carattere sociale del rapporto di capitale
spacciandolo per una incontestabile formula matematica. In virtù di una
superiore razionalità formale, gli algoritmi sostituiscono
all’ingombrante fisicità delle macchine l’immaterialità di un comando
onnipervasivo e computabile, che può essere messo in discussione solo da
un sapere altrettanto quantificato che risulta però inaccessibile a
proletari in formato digitale. In altre parole, gli algoritmi
puntano a essere inoppugnabili norme logiche del sociale, che si
sottraggono a ogni confronto che non sia condotto secondo il loro
astruso linguaggio. Essi sono le armi più raffinate del technical intellect del
capitale, che trasforma i lavoratori in carne e ossa nella loro
rappresentazione elettronica. Se di fronte alla vecchia macchina
utensile il lavoro umano finiva per svolgere un’attività di mediazione
tra l’oggetto e la macchina stessa, ne costituiva cioè il braccio
animato, i CBS esprimono una normatività sociale che ingloba al suo
interno tutti i fattori del ciclo produttivo, lavoro compreso. La
scienza digitale del capitale non stabilisce più un’antitesi con il
lavoro, non si presenta più come una potenza estranea ad esso, perché i
CBS puntano a incorporare il lavoro stesso, destinato a diventare uno dei tanti fattori costitutivi dell’algoritmo del profitto che lo governa.
Di fronte alle trasformazioni prodotte
dall’adozione sempre più diffusa delle IT non basta nasconderci dietro
la rassicurante (?) ipotesi che siamo ormai tutti operai di fronte al
capitale, nell’attesa che una nouvelle classe ouvrière di colletti bianchi e blu finalmente si desti. Semplicemente perché il technical intellect contenuto
in questi software è uno strumento all’altezza dei tempi: è duttile, sa
operare classificazioni, non presta il fianco a concetti vaghi e non è
così diabolico da perseverare nei vecchi errori. Né basta a confortarci
un ideale di cooperazione difficile a tradursi in pratica, quando essa
dovrebbe sgorgare proprio da una riappropriazione di saperi che appaiono
talmente rarefatti da risultare inafferrabili. Riconosciamo
all’astuzia del capitale la capacità di aver aggredito la contraddizione
che lo innerva, tra il carattere sociale e cooperativo della produzione
e l’appropriazione dei suoi prodotti. E di averlo fatto
operando su quella che Marx chiamava la «capacità scientifica
oggettivata», che volevamo trasformare in organo del general intellect per far saltare in aria la predetta contraddizione. Mentre erode il nostro sapere sociale, il rinnovato technical intellect del capitale riscrive le regole della cooperazione a suo uso e consumo. Il suo lessico parla agli odierni lavoratori dumb con modi che non richiedono risposte se non quelle già previste dal sistema stesso.
Ciò non significa che nella realtà i lavoratori siano soltanto dei muti esecutori. Le lotte dei lavoratori di Walmart
e il coraggioso esperimento di dare vita a quell’ibrido organizzativo,
metà associazione e metà sindacato, che è OUR Walmart dimostra che c’è
uno spazio aperto all’azione, per una prassi che intervenga nello spazio
concreto della lotta. Dimostra cioè che la potenza normativa
dell’algoritmo ha un limite. E, però, dal libro di Head, che sul piano
prescrittivo si limita di fatto a raccomandare più sindacati e più
consumo responsabile, sembra che la via d’uscita resti confinata in una
dimensione empirica e pertanto incapace di aggredire il capitale sul
piano della sua astratta razionalità, ovvero nella dimensione in cui si
palesano le ragioni stesse della lotta di classe e la possibilità di
estenderne la portata complessiva. Non ci sono mai piaciuti i consigli
per gli acquisti ai proletari e del sindacato riconosciamo l’importanza
ma sappiamo che non è la soluzione. Forse varrebbe la pena di
interrogarci sul perché il capitale stia vincendo non soltanto grazie
alla sua forza bruta e materiale, ma anche in virtù di una capacità di
astrazione che invero aveva fatto notare fin dall’infanzia.
L’apparentemente incontrastabile sussunzione della società globale al
capitale ci lascia con il dubbio che gli attuali tempi di magra abbiano
generato un’iperfascinazione per la lotta, «quella vera», che talvolta
serve più a eccitare le coscienze infelici dei militanti – e al tempo
stesso a sedarle, rassicurandole sulla retta via della storia – che non a
rovesciare i rapporti di forza reali. Una lotta di classe che
si ferma all’empiria, che non è capace di produrre una diversa
razionalità a partire dalla concretezza in cui è immersa, è destinata
alla sconfitta. O, tutt’al più, a diventare una variabile dipendente
facilmente calcolabile da un algoritmo.
Ucraina: le truppe golpiste avanzano, decine di morti
Continua anche nelle ultime ore l’offensiva militare delle forze fedeli al governo golpista di Kiev contro le sempre più ristrette aree dell’est dell’Ucraina ancora in mano agli insorti. Negli ultimi giorni l'offensiva delle forze lealiste si è nuovamente intensificata e diverse località sono tornate sotto il controllo di Kiev, non senza uno spargimento di sangue completamente ignorato dai media occidentali. Le truppe di Kiev e le milizie di estrema destra inquadrate nella Guardia Nazionale stanno rapidamente avanzando su tutti i fronti, e dal punto di vista militare le sorti del conflitto sembrano, tranne miracoli dell'ultim'ora, volgendo a vantaggio delle forze nazionaliste.
L’altro ieri i soldati ucraini sono entrati a Shakhtarsk, Torez e Debaltsev, e hanno riconquistato la collina di Savur-Moguyla, strategicamente fondamentale. I combattimenti hanno causato la morte di almeno otto civili secondo le autorità locali, ma il timore è che si tratti di una cifra al ribasso, e centinaia di auto cariche di sfollati continuano a cercare di allontanarsi dalla zona, mentre chi non ha un mezzo cerca di fuggire a piedi portandosi dietro ciò che può.
Oggi le forze regolari ucraine hanno invece annunciato di aver ripreso il controllo della città di Avdiivka, una decina di chilometri a nord di Donetsk e di aver lanciato un massiccio attacco contro Ilovaisk, a 20 km a est di Donetsk.
Ieri è continuata anche la battaglia nella città di Gorlovka, presa di mira da massicci bombardamenti che sono costati la vita a decine di persone, per lo più civili falciati dalle bombe sganciate dai caccia o lanciate sull’abitato da obici e mortai. Solo ieri, secondo quanto dichiarato da un portavoce del consiglio comunale locale, sarebbero rimasti uccisi diciassette civili, e tra questi tre bambini, mentre altre 43 persone sono rimaste ferite.
L’accerchiamento delle aree ancora in mano alle forze ribelli – che di tanto in tanto riescono comunque a contrattaccare e ad infliggere pesanti perdite ad un esercito ucraino sempre più demotivato – si fa sempre più stretto e ieri le autorità della Repubblica Popolare del Donbass hanno deciso di evacuare la loro sede di governo nel centro di Donetsk a causa dei massicci bombardamenti. “Due proiettili sono caduti su un vicino edificio residenziale” ha informato il servizio stampa dell’autorità parallela mentre il sindaco nominato dai golpisti ha confermato i bombardamenti sulla città e l’evacuazione dei residenti da alcuni quartieri del centro della capitale dell’omonimo Oblast.
A causa della recrudescenza dei combattimenti i poliziotti olandesi e australiani incaricati di investigare sull’abbattimento, alcuni giorni fa, di un aereo di linea malese sui cieli ucraini, hanno dovuto rinunciare alla missione per il terzo giorno di seguito. Una situazione imbarazzante per i paesi occidentali che se da una parte accusano la Russia e i ‘separatisti’ di essere responsabili dell’abbattimento del velivolo commerciale dall’altra insistono inascoltati con il presidente di Kiev Poroshenko affinché dichiari un cessate il fuoco di 24 ore per permettere agli ispettori di raggiungere il relitto dell’aereo abbattuto il 17 luglio scorso. Una richiesta finora completamente inascoltata da parte dell’oligarca a capo del regime nazionalista ucraino.
Ad essere presa di mira è anche l'altra grande città dell'est ancora controllata dai ribelli, Lugansk. Il 28 luglio scorso alcuni colpi di artiglieria sparati dall'esercito ucraino hanno centrato una casa di riposo uccidendo cinque persone e ferendone dodici.
Fonte
One Direction. Minacce di morte per la solidarietà a Gaza
Un briciolo di coscienza si annida ovunque, a volerla ascoltare. Persino nel mondo ultraplastificato del pop per minorenni...
Leggiamo dal Corriere della Sera online:
Zayn Malik, uno dei componenti degli One Direction, ha ricevuto in poche ore centinaia di minacce di morte su Twitter dopo aver postato un appello a favore della Palestina. Il giovane, idolo delle ragazzine di tutto il mondo, salito alla ribalta con il suo gruppo dopo aver vinto una edizione di «X Factor» e nelle scorse settimane in tour in Italia, dopo aver twittato ai suoi 13 milioni di follower «#FreePalestine» è stato infatti sommerso di attestati di stima, 130 mila condivisioni ma anche da moltissimi insulti e gravi minacce. «Ammazzati» o «Fatti ammazzare» sono stati i commenti meno aggressivi di chi non ha condiviso l’appello.
Vedi qui.
Non c'è che dire, la democrazia occidentale sta facendo passi da gigante... verso la fine.
Fonte
Il fascismo non è mai passato di moda.
Leggiamo dal Corriere della Sera online:
Zayn Malik, uno dei componenti degli One Direction, ha ricevuto in poche ore centinaia di minacce di morte su Twitter dopo aver postato un appello a favore della Palestina. Il giovane, idolo delle ragazzine di tutto il mondo, salito alla ribalta con il suo gruppo dopo aver vinto una edizione di «X Factor» e nelle scorse settimane in tour in Italia, dopo aver twittato ai suoi 13 milioni di follower «#FreePalestine» è stato infatti sommerso di attestati di stima, 130 mila condivisioni ma anche da moltissimi insulti e gravi minacce. «Ammazzati» o «Fatti ammazzare» sono stati i commenti meno aggressivi di chi non ha condiviso l’appello.
Vedi qui.
Non c'è che dire, la democrazia occidentale sta facendo passi da gigante... verso la fine.
Fonte
Il fascismo non è mai passato di moda.
La polizia carica anche i No Tav del Terzo Valico
Cariche indiscriminate contro i No Tav. Ma non siamo in Val di Susa, dove a certe modalità manesche della polizia ormai sono abituati. Bensì sull'Appennino tra Liguria e Piemonte, dove dovrebbe esser costruita la più inutile di tutte le grandi opere immaginabili: il “terzo valico”. Ce ne sono infatti già due, ma gli sfondatori di montagne per fare altre gallerie, per treni o automobili - per loro è indifferente, tanto paghiamo noi - temono di restare a corto di profitti, e di conseguenza il governo Renzi, come tutti quelli che l'hanno preceduto, alla faccia del “cambiamento”, manda la polizia a liberare il terreno dalla popolazione residente e resistente per fare un'altra bella, costosa, ultronea serie di gallerie e binari tecnologici per treni ultraveloci.
L'imprevisto assalto delle “forze dell'ordine” si è verificato, in provincia di Alessandria, nelle zone di Arquata, Serravalle e Pozzolo, dove alcune decine di attivisti No Tav Terzo Valico stanno opponendosi al nuovo tentativo del Cociv di espropriare le aree indicate nel progetto. Si cominciava stamattina a Libarna. E qui la polizia ha cominciato a lanciare quasi subito alcuni lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Tensioni anche a Moriassi di Arquata, dove sono previsti altri espropri.
I poliziotti hanno rimosso le piccole barricate realizzate dai No Tav con gli arbusti, a ridosso del bosco. Poi i manifestanti si sono spostati verso un'altra area, dove sono previsti nuovi espropri. «Hanno offerto ai proprietari fino a cinque volte il prezzo di mercato dei loro terreni e delle loro case per raggiungere un accordo bonario. E, si badi bene, lo hanno fatto con soldi pubblici che dovrebbero essere utilizzati per scopi più nobili». In effetti, per un governo che deve tagliare tutto, si tratta proprio di uno spreco...
Alcuni NoTav sono rimasti feriti, altri intossicati dai lacrimogeni particolarmente urticanti usati dalle cosiddette “forze dell'ordine”. Ma nessuno promette di smettere con la protesta...
Fonte
USA e UE contro la Russia
di Michele Paris
I toni della campagna di aggressione orchestrata dai governi occidentali nei confronti della Russia con la giustificazione della crisi ucraina sono aumentati sensibilmente questa settimana in seguito ad una serie di eventi appositamente studiati per mettere ancora maggiore pressione su Mosca. Oltre alle nuove sanzioni economiche decise dall’Unione Europea, sono giunte infatti un’aperta accusa da parte americana circa la violazione di un trattato missilistico risalente al periodo della Guerra Fredda e una sentenza di un tribunale internazionale sfavorevole al Cremlino nella vicenda dell’ex gigante petrolifero Yukos.
Martedì sono state quindi finalizzate le più dure sanzioni economiche contro Mosca finora approvate dai paesi europei. Mentre in precedenza erano stati colpiti solo singoli individui con misure relativamente modeste, il pacchetto appena deciso dovrebbe penalizzare interi settori dell’economia russa, in particolare quelli finanziario, militare ed energetico.
La decisione è stata presa nel corso di una videoconferenza tra il presidente americano Obama e i leader dei governi tedesco, francese, britannico e italiano. Una volta superate le resistenze della cancelliera Merkel a un’azione più incisiva contro la Russia, gli altri capi di governo hanno pateticamente acconsentito a una serie di iniziative che finiranno per pesare in maniera più o meno grave sulle economie dei loro stessi paesi.
Ben consapevoli dei danni che le nuove sanzioni potrebbero provocare, i governi UE hanno fissato alcune eccezioni. Tra di esse spicca l’esclusione dalle sanzioni delle importazioni di gas dalla Russia, così come dei contratti in essere per le forniture militari. Quest’ultima eccezione è stata richiesta in particolare dalla Francia, da mesi al centro delle pressioni di Washington e Londra per annullare la vendita a Mosca di due gigantesche navi da guerra Mistral commissionate da tempo.
La vastità delle nuove sanzioni europee, secondo i media, è tale che gli stessi Stati Uniti dovranno a loro volta inasprire le misure già adottate per stare al passo con quelle di Bruxelles.
Il livello di ipocrisia al limite dell’inverosimile dei governi occidentali nell’adottare le misure punitive contro la Russia è apparso evidente dalle parole del primo ministro britannico, David Cameron, il quale, dopo avere ammesso che le sanzioni avranno conseguenze negative anche sulle attività finanziarie della City di Londra, ha affermato che l’accelerazione è dovuta all’abbattimento quasi due settimane fa del volo Malaysia Airlines MH17 sui cieli dell’Ucraina orientale.
Individui come Cameron non hanno nemmeno la decenza di ricordare che le responsabilità di questo atto criminale sono ancora ben lontane dall’essere assegnate e che, anzi, vari indizi emersi in questi giorni indicano piuttosto un possibile coinvolgimento delle forze del regime golpista di Kiev nell’abbattimento del velivolo civile malese che ha fatto 298 vittime.
Dietro istruzione di Washington, d’altra parte, i lacchè europei degli americani continuano a ignorare le informazioni fornite sull’incidente aereo dalla Russia, da dove si continua anche a chiedere inutilmente di consentire un’indagine internazionale imparziale sulla sorte del volo MH17.
I governi occidentali continuano inoltre ad assicurare il pieno appoggio alla repressione messa in atto dall’Ucraina contro i ribelli filo-russi e la popolazione civile nelle provincie orientali del paese, costretta a fare i conti con un’aggressione guidata da forze neo-fasciste che questa settimana si è intensificata in maniera sensibile.
Gli Stati Uniti e i loro alleati possono così vantare il sostegno contemporaneo a due operazioni belliche condotte da governi di estrema destra - come quelli di Ucraina e Israele - le cui vittime sono in larghissima misura civili. Il regime di Kiev continua poi a trasgredire una recente risoluzione ONU che chiedeva l’accesso senza impedimenti al luogo del disastro aereo da parte degli investigatori internazionali, visto che in quest’area sta conducendo operazioni militari contro i ribelli e la popolazione.
Le nuove sanzioni, in ogni caso, dovrebbero servire per far cessare il presunto sostegno militare della Russia ai ribelli e prevenire un’improbabile invasione dell’Ucraina orientale sul modello dell’operazione in Crimea, anche se l’aggressione occidentale proseguirà indifferentemente dalle mosse del presidente Putin.
A sostegno delle proprie tesi, il Dipartimento di Stato americano domenica scorsa aveva mostrato alcune immagini satellitari di bassa qualità che avrebbero dovuto provare come le forze armate russe avessero colpito bersagli in territorio ucraino. Il Cremlino, da parte sua, ha respinto le accuse, citando piuttosto i numerosi sconfinamenti in territorio russo del fuoco ucraino nelle ultime settimane con conseguenze anche molto gravi, come conferma una vittima registrata nella città di Donetsk, in Russia.
Il cambio di marcia sulle sanzioni è comunque di grande rilievo, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento della Germania. Con il contributo di molti commentatori sui principali media, che da mesi vomitano retorica bellicista e puntano il dito contro le attitudini pacifiste della popolazione, il governo di Berlino ha valutato l’affermazione dei propri interessi strategici in un’area tradizionalmente di influenza russa di importanza superiore anche agli interessi economici immediati del capitale tedesco, fortemente legato al mercato russo.
Allo stesso modo, il rischio di compromettere le ingenti forniture di gas russo non ha alla fine impedito al governo della CDU/CSU e della SPD di allinearsi alle richieste degli Stati Uniti, per i quali la crisi ucraina - creata a tavolino dalle proprie ONG e dalle forze politiche filo-occidentali a Kiev - e ancora più l’abbattimento di un aereo civile rappresentano l’occasione per ostacolare il processo di integrazione economica euro-asiatica in cui la Germana svolge appunto un ruolo fondamentale.
La fissazione di Washington sulla Russia è determinata anche da altri fattori, dall’asilo concesso a Edward Snowden agli impedimenti posti da Mosca ad un intervento militare in Siria, ma soprattutto dalla nascita inevitabile di un blocco economico alternativo fatto di paesi “emergenti” che minaccia seriamente la declinante leadership americana nel pianeta.
In questa prospettiva, è significativo che l’intensificarsi delle pressioni sulla Russia - così come sulla Cina in Estremo Oriente - siano giunte in parallelo ad alcune importanti iniziative su scala globale indipendenti dagli Stati Uniti.
Tra quelle che devono avere occupato i pensieri degli strateghi di Washington impegnati a progettare la rivolta ucraina contro l’ex presidente Yanukovich e l’aggressione contro la Russia ci sono, ad esempio, la firma nel mese di maggio di un colossale accordo per la fornitura di gas tra Mosca e Pechino e il più recente summit dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) in Brasile. Durante quest’ultimo evento, è stata sancita la nascita di due istituzioni finanziarie globali potenzialmente in grado, sia pure nel lungo periodo, di mettere in discussione il dominio di quelle nate a Bretton Woods sotto l’egida americana.
La campagna occidentale contro la Russia è dunque ormai a tutto campo e non sembra più limitata alla sola questione ucraina. A conferma di ciò, all’inizio di questa settimana si sono registrati due veri e propri attacchi contro Mosca, curiosamente avvenuti nel momento di maggiore tensione tra la Russia e l’Occidente negli ultimi due decenni.
Come già anticipato, nel primo caso l’amministrazione Obama ha notificato lunedì al Cremlino quella che viene definita una violazione del Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (I.N.F.) in seguito ad un test russo, avvenuto nel 2008, di un missile Cruise lanciato da terra che rientra in questa categoria.
I sospetti americani risalgono al 2011 e già nella primavera del 2013 il Dipartimento di Stato USA aveva avanzato l’ipotesi di dichiarare la Russia in violazione del trattato siglato da Reagan e Gorbachev nel 1987, dando seguito però alla minaccia solo ora nel pieno dello scontro sull’Ucraina.
Alla denuncia si è accompagnata la consueta retorica guerrafondaia dei vertici militari USA. Il comandante delle forze NATO, generale Philip Breedlove, ha infatti affermato che “la violazione [del trattato I.N.F.], se non risolta, richiederà una qualche risposta”. Tra le ipotesi già avanzate per reagire alla “violazione” russa c’è il dispiegamento di missili Cruise lanciabili da nave e da aereo, permessi dal trattato a differenza di quelli lanciabili da terra.
In maniera poco sorprendente, anche in questo caso le accuse americane grondano ipocrisia, visto che lo scorso anno la Russia aveva puntato il dito contro gli Stati Uniti in seguito al progetto di installare in Romania il sistema missilistico Aegis, teoricamente utilizzabile per il lancio di missili Cruise proibiti dal trattato.
Il secondo affondo di questa settimana contro la Russia è giunto infine da una sentenza della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia, in Olanda, sulla vicenda Yukos. Il verdetto del tribunale internazionale apparentemente indipendente ha imposto al governo russo di pagare circa 50 miliardi di dollari agli azionisti della defunta compagnia che fu dell’oligarca decaduto Mikhail Khodorkovsky.
La decisione, tutta politica, rappresenta uno schiaffo al presidente Putin, il quale nel 2003 sarebbe stato dietro all’arresto di Khodorkovsky - del quale temeva forse le ambizioni politiche - con le accuse di evasione fiscale e appropriazione indebita, confiscando la sua azienda petrolifera, successivamente acquistata dalla compagnia pubblica Rosneft a condizioni di favore durante il procedimento di bancarotta.
La dichiarazione da parte della Corte de L’Aia dell’illegalità dello smantellamento di Yukos è stata subito sfruttata dai media occidentali per mettere in imbarazzo un Cremlino già sotto assedio per l’Ucraina e in seguito all’accusa di avere violato il trattato sui missili.
La sentenza che assegna una qualche vittoria all’ex detenuto Khodorkovsky oscura tuttavia il fatto che quest’ultimo e molti altri oligarchi in Russia e nei paesi dell’ex blocco comunista erano entrati in possesso delle aziende pubbliche dell’URSS svendute - come appunto Yukos - con sistemi criminali e grazie a legami mafiosi con i vertici dei governi seguiti alla fine dell’impero sovietico.
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I toni della campagna di aggressione orchestrata dai governi occidentali nei confronti della Russia con la giustificazione della crisi ucraina sono aumentati sensibilmente questa settimana in seguito ad una serie di eventi appositamente studiati per mettere ancora maggiore pressione su Mosca. Oltre alle nuove sanzioni economiche decise dall’Unione Europea, sono giunte infatti un’aperta accusa da parte americana circa la violazione di un trattato missilistico risalente al periodo della Guerra Fredda e una sentenza di un tribunale internazionale sfavorevole al Cremlino nella vicenda dell’ex gigante petrolifero Yukos.
Martedì sono state quindi finalizzate le più dure sanzioni economiche contro Mosca finora approvate dai paesi europei. Mentre in precedenza erano stati colpiti solo singoli individui con misure relativamente modeste, il pacchetto appena deciso dovrebbe penalizzare interi settori dell’economia russa, in particolare quelli finanziario, militare ed energetico.
La decisione è stata presa nel corso di una videoconferenza tra il presidente americano Obama e i leader dei governi tedesco, francese, britannico e italiano. Una volta superate le resistenze della cancelliera Merkel a un’azione più incisiva contro la Russia, gli altri capi di governo hanno pateticamente acconsentito a una serie di iniziative che finiranno per pesare in maniera più o meno grave sulle economie dei loro stessi paesi.
Ben consapevoli dei danni che le nuove sanzioni potrebbero provocare, i governi UE hanno fissato alcune eccezioni. Tra di esse spicca l’esclusione dalle sanzioni delle importazioni di gas dalla Russia, così come dei contratti in essere per le forniture militari. Quest’ultima eccezione è stata richiesta in particolare dalla Francia, da mesi al centro delle pressioni di Washington e Londra per annullare la vendita a Mosca di due gigantesche navi da guerra Mistral commissionate da tempo.
La vastità delle nuove sanzioni europee, secondo i media, è tale che gli stessi Stati Uniti dovranno a loro volta inasprire le misure già adottate per stare al passo con quelle di Bruxelles.
Il livello di ipocrisia al limite dell’inverosimile dei governi occidentali nell’adottare le misure punitive contro la Russia è apparso evidente dalle parole del primo ministro britannico, David Cameron, il quale, dopo avere ammesso che le sanzioni avranno conseguenze negative anche sulle attività finanziarie della City di Londra, ha affermato che l’accelerazione è dovuta all’abbattimento quasi due settimane fa del volo Malaysia Airlines MH17 sui cieli dell’Ucraina orientale.
Individui come Cameron non hanno nemmeno la decenza di ricordare che le responsabilità di questo atto criminale sono ancora ben lontane dall’essere assegnate e che, anzi, vari indizi emersi in questi giorni indicano piuttosto un possibile coinvolgimento delle forze del regime golpista di Kiev nell’abbattimento del velivolo civile malese che ha fatto 298 vittime.
Dietro istruzione di Washington, d’altra parte, i lacchè europei degli americani continuano a ignorare le informazioni fornite sull’incidente aereo dalla Russia, da dove si continua anche a chiedere inutilmente di consentire un’indagine internazionale imparziale sulla sorte del volo MH17.
I governi occidentali continuano inoltre ad assicurare il pieno appoggio alla repressione messa in atto dall’Ucraina contro i ribelli filo-russi e la popolazione civile nelle provincie orientali del paese, costretta a fare i conti con un’aggressione guidata da forze neo-fasciste che questa settimana si è intensificata in maniera sensibile.
Gli Stati Uniti e i loro alleati possono così vantare il sostegno contemporaneo a due operazioni belliche condotte da governi di estrema destra - come quelli di Ucraina e Israele - le cui vittime sono in larghissima misura civili. Il regime di Kiev continua poi a trasgredire una recente risoluzione ONU che chiedeva l’accesso senza impedimenti al luogo del disastro aereo da parte degli investigatori internazionali, visto che in quest’area sta conducendo operazioni militari contro i ribelli e la popolazione.
Le nuove sanzioni, in ogni caso, dovrebbero servire per far cessare il presunto sostegno militare della Russia ai ribelli e prevenire un’improbabile invasione dell’Ucraina orientale sul modello dell’operazione in Crimea, anche se l’aggressione occidentale proseguirà indifferentemente dalle mosse del presidente Putin.
A sostegno delle proprie tesi, il Dipartimento di Stato americano domenica scorsa aveva mostrato alcune immagini satellitari di bassa qualità che avrebbero dovuto provare come le forze armate russe avessero colpito bersagli in territorio ucraino. Il Cremlino, da parte sua, ha respinto le accuse, citando piuttosto i numerosi sconfinamenti in territorio russo del fuoco ucraino nelle ultime settimane con conseguenze anche molto gravi, come conferma una vittima registrata nella città di Donetsk, in Russia.
Il cambio di marcia sulle sanzioni è comunque di grande rilievo, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento della Germania. Con il contributo di molti commentatori sui principali media, che da mesi vomitano retorica bellicista e puntano il dito contro le attitudini pacifiste della popolazione, il governo di Berlino ha valutato l’affermazione dei propri interessi strategici in un’area tradizionalmente di influenza russa di importanza superiore anche agli interessi economici immediati del capitale tedesco, fortemente legato al mercato russo.
Allo stesso modo, il rischio di compromettere le ingenti forniture di gas russo non ha alla fine impedito al governo della CDU/CSU e della SPD di allinearsi alle richieste degli Stati Uniti, per i quali la crisi ucraina - creata a tavolino dalle proprie ONG e dalle forze politiche filo-occidentali a Kiev - e ancora più l’abbattimento di un aereo civile rappresentano l’occasione per ostacolare il processo di integrazione economica euro-asiatica in cui la Germana svolge appunto un ruolo fondamentale.
La fissazione di Washington sulla Russia è determinata anche da altri fattori, dall’asilo concesso a Edward Snowden agli impedimenti posti da Mosca ad un intervento militare in Siria, ma soprattutto dalla nascita inevitabile di un blocco economico alternativo fatto di paesi “emergenti” che minaccia seriamente la declinante leadership americana nel pianeta.
In questa prospettiva, è significativo che l’intensificarsi delle pressioni sulla Russia - così come sulla Cina in Estremo Oriente - siano giunte in parallelo ad alcune importanti iniziative su scala globale indipendenti dagli Stati Uniti.
Tra quelle che devono avere occupato i pensieri degli strateghi di Washington impegnati a progettare la rivolta ucraina contro l’ex presidente Yanukovich e l’aggressione contro la Russia ci sono, ad esempio, la firma nel mese di maggio di un colossale accordo per la fornitura di gas tra Mosca e Pechino e il più recente summit dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) in Brasile. Durante quest’ultimo evento, è stata sancita la nascita di due istituzioni finanziarie globali potenzialmente in grado, sia pure nel lungo periodo, di mettere in discussione il dominio di quelle nate a Bretton Woods sotto l’egida americana.
La campagna occidentale contro la Russia è dunque ormai a tutto campo e non sembra più limitata alla sola questione ucraina. A conferma di ciò, all’inizio di questa settimana si sono registrati due veri e propri attacchi contro Mosca, curiosamente avvenuti nel momento di maggiore tensione tra la Russia e l’Occidente negli ultimi due decenni.
Come già anticipato, nel primo caso l’amministrazione Obama ha notificato lunedì al Cremlino quella che viene definita una violazione del Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (I.N.F.) in seguito ad un test russo, avvenuto nel 2008, di un missile Cruise lanciato da terra che rientra in questa categoria.
I sospetti americani risalgono al 2011 e già nella primavera del 2013 il Dipartimento di Stato USA aveva avanzato l’ipotesi di dichiarare la Russia in violazione del trattato siglato da Reagan e Gorbachev nel 1987, dando seguito però alla minaccia solo ora nel pieno dello scontro sull’Ucraina.
Alla denuncia si è accompagnata la consueta retorica guerrafondaia dei vertici militari USA. Il comandante delle forze NATO, generale Philip Breedlove, ha infatti affermato che “la violazione [del trattato I.N.F.], se non risolta, richiederà una qualche risposta”. Tra le ipotesi già avanzate per reagire alla “violazione” russa c’è il dispiegamento di missili Cruise lanciabili da nave e da aereo, permessi dal trattato a differenza di quelli lanciabili da terra.
In maniera poco sorprendente, anche in questo caso le accuse americane grondano ipocrisia, visto che lo scorso anno la Russia aveva puntato il dito contro gli Stati Uniti in seguito al progetto di installare in Romania il sistema missilistico Aegis, teoricamente utilizzabile per il lancio di missili Cruise proibiti dal trattato.
Il secondo affondo di questa settimana contro la Russia è giunto infine da una sentenza della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia, in Olanda, sulla vicenda Yukos. Il verdetto del tribunale internazionale apparentemente indipendente ha imposto al governo russo di pagare circa 50 miliardi di dollari agli azionisti della defunta compagnia che fu dell’oligarca decaduto Mikhail Khodorkovsky.
La decisione, tutta politica, rappresenta uno schiaffo al presidente Putin, il quale nel 2003 sarebbe stato dietro all’arresto di Khodorkovsky - del quale temeva forse le ambizioni politiche - con le accuse di evasione fiscale e appropriazione indebita, confiscando la sua azienda petrolifera, successivamente acquistata dalla compagnia pubblica Rosneft a condizioni di favore durante il procedimento di bancarotta.
La dichiarazione da parte della Corte de L’Aia dell’illegalità dello smantellamento di Yukos è stata subito sfruttata dai media occidentali per mettere in imbarazzo un Cremlino già sotto assedio per l’Ucraina e in seguito all’accusa di avere violato il trattato sui missili.
La sentenza che assegna una qualche vittoria all’ex detenuto Khodorkovsky oscura tuttavia il fatto che quest’ultimo e molti altri oligarchi in Russia e nei paesi dell’ex blocco comunista erano entrati in possesso delle aziende pubbliche dell’URSS svendute - come appunto Yukos - con sistemi criminali e grazie a legami mafiosi con i vertici dei governi seguiti alla fine dell’impero sovietico.
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