di RICCARDO BELLOFIORE, GIOVANNA VERTOVA
Sottoposta negli ultimi anni a un processo di revisione normativa che non ha pari nell'ambito della pubblica amministrazione, l'università italiana appare profondamente in crisi. Ma quali sono le ragioni che l'hanno ridotta in queste condizioni? Se lo chiedono Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova nell'Introduzione al volume "Ai confini della docenza. Per la critica dell'Università", uscito per i tipi della Accademia University Press (Torino), che può essere scaricato gratuitamente qui. Ringraziamo i curatori e la casa editrice per averci gentilmente concesso di pubblicare il testo.
Non è facile parlare di Università, per una serie di motivi. Prima di tutto perché, nonostante il comune sentire, da quando è stata introdotta la prima riforma di cui parliamo, la riforma Berlinguer del 2000 (anche se certo si dovrebbe e potrebbe andare indietro, sino alle molte ambiguità della legge Ruberti del 1990) l’Università è diventata la cavia per una sequenza di innovazioni organizzative permanenti, e devastanti, che stanno distruggendo un ciclo superiore di insegnamento che spesso poteva essere di esempio per gli altri paesi. Da allora, ogni Governo ha legiferato sull’Università. Ogni Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha continuato, con scadenza quasi mensile, a emanare decreti che (contro-)rivoluzionano la vita accademica. L’Università è così sottoposta ad un permanente riassetto organizzativo, e ad uno stravolgimento della sua filosofia e della sua funzione, che è di grave danno per la struttura degli studi e dell’insegnamento: qualsiasi teoria dell’organizzazione degna di questo nome sa che, introdotta una innovazione, occorre lasciar passare del tempo, metterla pienamente in pratica, prima di introdurre nuove modifiche: non si ha, altrimenti, la possibilità di valutarne gli effetti. Una Università in cambiamento perenne impedisce di prendere atto dell’esito delle riforme introdotte e diventa un ammasso di macerie, coperto dalla retorica ‘nuovista’.
Secondariamente, i meccanismi di funzionamento dell’Università sono opachi e pressoché incomprensibili per gli ‘esterni’, e spesso anche gli ‘interni’ non sanno molto di ciò che direttamente non li riguardi. La stampa e l’informazione hanno più volte mostrato di non sapere di cosa stavano scrivendo quando si occupavano di Università; ma anche la più parte dei partiti, dei sindacati e degli stessi lavoratori del comparto hanno una conoscenza vaga e approssimativa della loro realtà. Non stupisce che le ricadute che ogni singolo nuovo decreto ministeriale ha sugli studenti, sui docenti, sul personale tecnico-amministrativo rimanga ignota al largo pubblico, e soggetta a commenti ed editoriali di rara superficialità, sempre più improntati ad un populismo becero.
Ultimo punto, in questo elenco senz’altro incompleto: nel nostro paese è in corso da anni, anzi da decenni, un processo dai toni denigratori contro i lavoratori del pubblico impiego; all’interno di questa categoria, i docenti universitari vengono considerati una categoria privilegiata, ricorrendo a statistiche internazionali che sono dei falsi e che rovesciano la realtà. Questo clima di ostilità crea le condizioni affinché qualsiasi critica all’Università, qualsiasi voce fuori dal coro, soprattutto se formulata da chi non sia inquadrato in organizzazioni politiche o sindacali, venga tacciata come un mero tentativo di salvare il proprio ‘particulare’ a scapito della collettività.
Questo volume prova a presentare una critica dell’Università un po’ diversa da quelle correnti, e forse originale in alcuni dei suoi snodi principali. Riproponiamo, in larga parte, scritti già pubblicati altrove, ma dispersi su vari quotidiani e/o riviste, che ci pare siano agili e di facile lettura, e che però facciano sistema e costituiscano un filo di ragionamento unitario, adeguato ad affrontare di petto le questioni che abbiamo appena richiamato.
La prima parte, dedicata a
La crisi dell’Università, si apre con alcuni contributi di Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova e propone, in sequenza, una analisi delle riforme Berlinguer, Gelmini e Moratti, e dei suoi primi risultati: la conoscenza svilita alle competenze e alla triade autodistruttiva sapere-saper essere-saper fare; il sapere ‘pesato e venduto un tanto al chilo’; l’accelerazione del ritmo degli studi e l’impoverimento della loro sedimentazione; la morte dell’università come luogo primo del pensiero critico. A ciò si accompagna la questione della valutazione della ricerca, che è invece ben presente nella discussione, e a cui si dedica con efficacia l’attenzione e l’azione di ROARS, che ci pare svolga un ruolo meritorio e insostituibile. Al tempo stesso, crediamo però che quella questione vada inquadrata nella realtà più ampia dell’università di oggi: la rinascita ancora più feroce e fuori da ogni controllo del ‘baronato’ degli ordinari, l’arbitrarietà del governo dell’università (la famigerata
governance) spesso accompagnata all’arbitrio della conduzione rettorale, il sostanziale tacitare il dissenso, l’aggiramento di quelle che erano norme e consuetudini di una vera e propria civiltà universitaria stravolta ora a ‘comunità’ che deve essere ‘solidale’ e in ‘competizione’ con le altre sedi. È la dura realtà dell’‘autonomia’, non nelle parole ma nei fatti.
I due capitoli che seguono, di Gugliemo Forges Davanzati, intersecano queste riforme con lo stato non brillante del capitalismo italiano, sottolineando i forti legami tra le specificità del sistema produttivo italiano e il modello di Università che tanto ferocemente viene perseguito e imposto. Anche in questi due contributi non manca la critica alla valutazione della ricerca, soprattutto nelle discipline economiche che l’autore come noi conosce meglio (ma il problema è trasversale, visto anche l’‘imperialismo’ dell’economica), per mostrare come anche il sistema di valutazione che è stato introdotto sia organico ai desiderata della classe dominante. Il discorso di Forges Davanzati tocca anche la questione – cruciale, ma inevasa – del lavoro in Università, sfatando molti miti. Quando si osserva l’Università come ‘luogo di lavoro’ al pari di una fabbrica o di un ufficio, e la si analizza senza i paraocchi della sua condizione ritenuta speciale, emergono i problemi tipici degli altri luoghi di lavoro: la crescente precarietà scambiata per flessibilità, i rapporti di potere su base gerarchica (ma non solo) sempre più violenti, i sotto-finanziamenti e i bassi salari ormai generalizzati, ma in cui ognuno vede l’altro come un avversario.
I successivi due capitoli di Michele dal Lago allargano l’orizzonte oltre i confini dell’Italia, e fanno vedere bene come le nuove politiche sull’istruzione, fortemente volute dalle grandi istituzioni mondiali – Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in testa – esemplifichino l'ideologia neoliberista che pretende (in modo miope, perché ciò è controproduttivo anche dal punto di vista capitalistico) che l’istruzione si riduca il più possibile a variabile dipendente del mondo delle imprese. La ristrutturazione dei sistemi formativi è stata la risposta all’impellente domanda da parte delle aziende di fornire loro lavoratori più ‘flessibili’, più ‘competenti’, più mansueti, sino al mito che il singolo lavoratore vada visto come l’imprenditore di se stesso (qualcosa che non può che scatenare una guerra individuale di tutti contro tutti, in cui la competizione si riduce a concorrenza distruttiva). Alla fine, diciamo noi, cittadini e lavoratori più ignoranti e meno critici, dunque più subalterni.
Questa prima parte si chiude con la ripubblicazione di un articolo fondamentale di Lucio Magri, uno dei suoi più belli, che mostra come la riforma della scuola, ma ciò vale per tutto il sistema di istruzione, non possa che essere ‘la madre di tutte le riforme’, affrontando l’annoso problema della scuola o istruzione di massa.
La seconda parte del volume si volge alla critica dell’economia politica, ponendosi in dialogo con il benvenuto movimento di
Rethinking Economics (‘Ripensare la scienza economica’). Siamo convinti che quanto diciamo nel caso ‘estremo’ dell’economia valga in larga misura anche in altre discipline, senz’altro nelle scienze umane e sociali (ma forse, appunto, non solo). Non ci si vuole limitare a sostenere le legittime obiezioni e critiche del movimento, la via facile della docenza di sinistra pronta ad applaudire. Si vuole anche ragionare su quelle che a noi paiono alcune debolezze e forse ingenuità.
Un punto è l’invocazione di un maggiore ‘pluralismo’ nell’insegnamento universitario della scienza economica: nessuno negherà l’opportunità del pluralismo, che è il requisito minimo al pari della buona educazione; ma il pluralismo non risolve nessuno dei problemi dell’università, né costituisce una risposta efficace alle difficoltà attuali. Nelle sue ‘Undici tesi’ Riccardo Bellofiore ricorda che la specificità della migliore tradizione del pensiero economico italiano degli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta del Novecento, allora decisamente più avanzata rispetto ad altri paesi, non si è mai concretata nell’invocazione di un maggior ‘pluralismo’. In modi diversi, i Maestri di allora davano piuttosto l’esempio di una pratica della ‘pluralità’ nella ricerca, nella didattica, nella selezione. Si riconosceva l’opposizione simultanea di diversi ‘stili di ragionamento scientifico’ che si incarnavano in teorie economiche in conflitto, che dovevano tutte avere pari dignità nella didattica anche di base, e che tutte dovevano essere maneggiate anche dall’economista in erba per avere una idea dello stato delle cose in una scienza sociale come l’economia.
I due scritti successivi danno due esempi di questo discorso al più alto livello. Augusto Graziani sottolinea l’importanza dello studio della storia del pensiero economico nei curricula di Economia (e qui ci riferiamo non solo ai curricula strettamente economici, ma anche ai curricula dove l’economia non può non essere presente, come i curricula degli aziendalisti, degli scienziati sociali, degli scienziati politici). Ma Graziani, a leggere con attenzione, dice in realtà molto di più, e di molto più radicale. Dice che lo stesso discorso teorico e analitico può procedere in modo positivo solo se ha coscienza delle proprie origini storiche e le prolunga. Lo studio della storia del pensiero economico (Bellofiore preferisce la dizione schumpeteriana
‘storia dell’analisi economica’) e la costruzione della teoria economica non sono, a ben vedere, due cose distanti: sono, in fondo, la medesima cosa. Questa è la
‘pluralità’ di cui parla Bellofiore.
Lo scritto di Claudio Napoleoni che pubblichiamo risale addirittura al 1973-74, e che è conservato presso il Fondo Napoleoni, non ha perso nulla della sua attualità. Si tratta di un progetto che ‘disegna’ la struttura di un possibile Seminario di Economia Politica, e che tiene pienamente conto della necessità di integrare unitariamente storia della teoria, approfondimento analitico sulle questioni aperte, interpretazione della realtà. Secondo Napoleoni bisogna sottrarsi all’uso di una manualistica che pretenda di insegnare presunte ‘Istituzioni’ di economia. Sin dai corsi di base, si dovrebbe dare spazio allo studio delle fonti primarie del pensiero economico, rivelare la problematicità interna delle varie tradizioni, mostrarne l’utilità per l’analisi di situazioni concrete (tutti punti omogenei al discorso di Graziani, basta vedere la struttura inconsueta dei suoi manuali dalla metà degli anni Settanta). Interessante la durata del seminario che Napoleoni propone: non uno, ma due anni. Non c’è solo bisogno di studiare diversamente, c’è bisogno di studiare lentamente, in un contesto nel quale lo studente abbia la possibilità di sedimentare le conoscenze acquisite. Tutto il contrario dell’odierna Università. Il movimento studentesco – senza il quale la lotta per una diversa università non va da nessuna parte – dovrebbe, giustamente, rivendicare di ‘studiare con lentezza’, all’interno di percorsi di studi che concedano tempo per acquisire ed elaborare il sapere. Il diritto allo studio deve diventare diritto a studiare.
Un altro dei punti su cui dialogare con
Rethinking Economics sta nell’urgenza, a parer nostro, di evitare di focalizzarsi esclusivamente sulla parte didattica, separata dalle altre. Gli studenti chiedono un diverso insegnamento dell’economia: a nostro parere, non si può scollegare questa più che giustificata richiesta dalla questione del reclutamento della docenza. Se il reclutamento e/o l’avanzamento di carriera dei docenti è strutturato in modo da favorire solo gli economisti che aderiscono ai filoni dominanti, inevitabilmente la stessa didattica ne risentirà. Diciamocelo: l’economista tradizionale non è interessato ad insegnare teorie economiche alternative e in competizione tra di loro semplicemente perché non le conosce; e nessuno gli ha imposto questa conoscenza come requisito per l’accesso alla carriera di docente. Le rivendicazioni per una didattica diversa non possono, insomma, essere scollegate dal problema del reclutamento, ed entrambe non possono essere scollegate dal problema della valutazione della ricerca in economia. Anche per questo, a noi pare, la prima parte del volume non è separata dalla seconda parte. In questo legame stretto che poniamo tra le tre questioni sta, crediamo, una delle originalità dell’approccio che proponiamo per un discorso critico sull’università.
Il volume si chiude con la presentazione di una ricerca condotta nell’Ateneo di Bergamo. Nel solco della tradizione delle inchieste sui luoghi di lavoro, la ricerca è partita da un quesito unico e semplice, rivolto a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici: se ed in che modo tutti i lavoratori (non solo la docenza, ma anche i tecnici ed gli amministrativi, assunti regolarmente o precari; ed anche, idealmente, i dipendenti dalle cooperative come uscieri o per le pulizie) riescano a svolgere le loro mansioni per raggiungere i compiti che all’Università sono affidati dalla legge. La discussione si è svolta in gruppi collettivi che vedevano la presenza delle varie figure, e in parte per interviste. La ricerca è stata sostenuta finanziariamente dalla FLC provinciale e nazionale; ed è stata condotta da Francesco Garibaldo ed Emilio Rebecchi, non nuovi a inchieste del genere.
Alcuni docenti dell’Ateneo hanno provato, in un incontro con il Rettore e il Direttore Generale di allora, a sollecitare una collaborazione attiva dell’Ateneo stesso, chiedendo al Consiglio di Amministrazione di farsi anch’esso promotore dell’iniziativa. La risposta è stata seccamente negativa, ed istruttiva. Attraverso una serie di obiezioni, dalle minime alle massime, ci è risultato chiaro che i vertici dell’Ateneo bergamasco non gradiscono che l’organizzazione del lavoro in Università sia oggetto di studio (e, putacaso, di critica) in una ricerca che coinvolge trasversalmente chi in Università lavora, al fine di evidenziare carenze e fare proposte per migliorare la situazione. Una ricerca che aveva tutte le caratteristiche di una ricerca pilota. La ricerca è stata una assoluta novità nel panorama italiano. Al momento in cui scriviamo non siamo a conoscenza di ricerche analoghe, anche se la FLC aveva intenzione di programmarne altre.
Siamo convinti che a dar fastidio alle gerarchie accademiche era anche quest’altra circostanza – un altro, ci pare, dei punti originali della visione che proponiamo. Con questa ricerca, forse, per la prima volta l’Università viene considerata anche in quanto luogo di lavoro in senso stretto, non soltanto un luogo di alta formazione. Una realtà dove lavoratrici e lavoratori in carne ed ossa si scontrano quotidianamente con tutti i processi di riorganizzazione di cui si è parlato precedentemente. È un peccato che non ci siano maggiori inchieste di questo tipo perché, se si guardasse all’Università come luogo di lavoro ‘come tutti gli altri’, si scoprirebbe come essa sia stata investita dalla gran parte dei processi che hanno interessato il mondo del lavoro in generale: decentramento (quanti servizi dell’Università sono subappaltati a cooperative?); flessibilizzazione (quanti dipendenti dell’Università, sia della componente docenza che di quella tecnica e amministrativa, sono assunti con contratti precari?); misurazione ossessiva dei risultati al fine di integrazioni salariali o, in questo caso, di finanziamenti ministeriali (quanti dati vengono raccolti per misurare il non misurabile? Competenze degli studenti, valutazione della ricerca, ecc.); burocratizzazione (quanti documenti vanno redatti al fine di svolgere anche solo una singola mansione?).
I risultati della ricerca sottolineano come i ‘peggiori’ nemici delle lavoratrici e dei lavoratori – che, si noti, dalla ricerca risultano sentirsi ancora orgogliosi di far parte di una istituzione pubblica – siano le due caratteristiche principali, introdotte fin dalle prime riforme: l’aziendalizzazione (cioè la gestione della organizzazione del lavoro in università come se fosse una azienda) e la dipendenza troppo forte da una domanda di lavoro, oltretutto povera, idiosincratica, incapace di guardare lontano. Sempre più in difficoltà l’idea, che in fondo rimanda alla nostra Costituzione, che l’Università debba formare cittadini istruiti, non solo lavoratori. Forse, se si fossero ascoltate ieri e si ascoltassero oggi anche le opinioni di chi lavora in Università, le riforme avrebbero avuto altri contenuti.
Chiudiamo questo volume nell’anniversario del Sessantotto. Non si tratta di mitizzare la ricorrenza (anche se certo è inaccettabile la sbrigativa liquidazione, anche da sinistra, di quel fondamentale episodio storico che è diventata sempre più di moda). Il Sessantotto fu molte cose insieme: ma certo fu anche, e crucialmente, un movimento che assumeva l’Università come luogo cruciale della trasformazione sociale. Dall’università, come dalla scuola, il conflitto si estese a macchia d’olio ovunque. Non fu solo in grado di connettersi alle lotte del mondo del lavoro. Pur perdendo progressivamente il fuoco sul mondo dell’istruzione (e fu un male), divenne parte di una ‘lunga marcia’ nella società, di una universale rimessa in discussione del proprio ruolo. Insieme agli altri momenti di questo conflitto trasversale, fu capace di promuovere una vera e propria rivoluzione in una realtà che nei primi anni Sessanta si presentava ‘chiusa’, totalitaria, senza prospettive, come a noi sembra quella in cui viviamo.
Un discorso sull’università come sulla scuola potrà nuovamente aver presa sullo stato delle cose, e promuoverne una trasformazione, soltanto quando le diverse realtà che vivono e lavorano nel mondo dell’istruzione sapranno guardare a se stesse, ma anche alle loro relazioni reciproche, con la stessa radicalità e lo stesso coraggio di allora.
Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova insegnano Economia Politica all’Università di Bergamo.
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