Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

31/10/2022

Salvador (1986) di Oliver Stone - Minirece

La truffa della sovranità alimentare del Governo Meloni

La crisi ucraina: origine, sviluppi e prospettive (parte III)


Da piazza Maidan all’Operazione militare speciale russa

I principali media nazionali e internazionali dell’emisfero occidentale, anche tramite nutrita schiera di inviati sul campo, hanno proposto una narrazione della crisi ucraina che fa leva su due elementi principali: l’inizio del conflitto armato il 24 febbraio 2022 e l’attribuzione di ogni responsabilità alla Russia che avrebbe sferrato l’attacco militare in modo “non motivato e non provocato”.

Proviamo a sintetizzare il percorso delle vicende ucraine partendo dal golpe di piazza Maidan del febbraio 2014 che sostenuto e finanziato dagli Usa, come rivelato dal finanziere George Soros e dalla Vice Segretaria di Stato Usa Victoria Nunlnad, ha portato alla destituzione del legittimo presidente il filorusso Viktor Yanukovich. Il suo successore, il magnate Petro Poroshenko, si contraddistingue fin da subito per una decisa virata verso occidente e per la ripresa del percorso di avvicinamento alla Nato avviato già dal 1997. Nonostante la promessa Usa ai sovietici del 1990 di «non allargarsi di un pollice a Est», la Nato nei 20 anni successivi è passata da 16 a 30 membri, tessendo la tela anche per l’ingresso dell’Ucraina. Il percorso di avvicinamento alla Nato implementato da Poroshenko innesca la reazione della popolazione russofona del sud-est del Paese che da origine a movimenti indipendentisti (Repubbliche Popolari del Donbass di Donetsk e di Lugansk) e della Russia stessa che annette la Crimea (marzo 2014). Di lì a breve, nella primavera 2014, il governo di Kiev e i battaglioni paramilitari neonazisti attaccano le forze separatiste russofone dando avvio a un conflitto armato che a inizio 2022 aveva provocato, nel disinteresse mediatico generale, 14.000 vittime.

Le pressioni contro la Russia salgono di intensità a partire dal 2014 quando forze e basi Usa e Nato con capacità di attacco missilistico vengono dislocate in Europa sempre più a ridosso della Russia, facendo progressivamente salire la tensione a Est. In particolare al summit Nato di Varsavia nel luglio 2016, viene decisa la costituzione di quattro gruppi tattici in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia con oltre 4.600 militari di oltre 20 Paesi. Al quadro va aggiunta la Divisione Multinazionale Sud Est in Romania, istituita fin dal 2015.

Numerose sono state in questi anni anche le esercitazioni militari a ridosso del territorio russo. Addirittura, nel luglio 2021, l’Ucraina e gli Usa hanno ospitato insieme un’importante esercitazione navale nel Mar Nero, l’operazione Sea Breeze, che ha coinvolto le marine di 32 Paesi e durante la quale un cacciatorpediniere britannico è entrato deliberatamente in quelle che la Russia considera le sue acque territoriali.

Mosca trovando intollerabile questa situazione per la propria sicurezza nazionale, nella primavera del 2021, ha iniziato a mobilitare il suo esercito al confine con l’Ucraina per segnalare la sua determinazione a Washington senza tuttavia ottenere particolari risultati, poiché l’amministrazione Biden ha continuato ad avvicinarsi all’Ucraina. Infatti, il 10 novembre 2021 Antony Blinken, segretario di Stato Usa, e Dmytro Kuleba, Ministro degli Esteri ucraino sottoscrivono la «Carta Usa-Ucraina sul partenariato strategico» con l’obiettivo di «sottolineare... un impegno per l’attuazione da parte dell’Ucraina delle riforme profonde e globali necessarie per la piena integrazione nelle istituzioni europee ed euro-atlantiche». Il documento si basa esplicitamente sugli «impegni presi per rafforzare l’Ucraina-Usa partnership strategica dei presidenti Zelensky e Biden», e sottolinea inoltre che i due Paesi saranno guidati dalla «Dichiarazione del vertice di Bucarest 2008», nel cui contesto venne ufficialmente offerta all’Ucraina la possibilità di ingresso nella Nato.

Il successivo passo dell’escalation avviene nel dicembre 2021 e porta direttamente alla guerra in corso. L’Ucraina stava diventando un membro de facto della Nato, un processo iniziato nel dicembre 2017, quando l’amministrazione Trump ha deciso di vendere a Kiev «armi difensive». Queste armi, non a torto, vengono ritenute offensive da Mosca e dai suoi alleati nella regione del Donbass. Anche altri paesi della Nato hanno contribuito, inviando armi all’Ucraina, addestrando le sue forze armate e consentendole di partecipare a esercitazioni aeree e navali congiunte.

A questo punto, la Russia ha chiesto garanzia scritta che l’Ucraina non sarebbe mai entrata a far parte della Nato e che l’alleanza rimuovesse le risorse militari che aveva dispiegato nell’Europa orientale fin dal 1997. Il 15 dicembre 2021 la Federazione Russa ha consegnato agli Stati Uniti d’America un articolato progetto di Trattato per disinnescare questa esplosiva situazione. Non solo è stato anch’esso respinto ma, allo stesso tempo, è cominciato lo schieramento di forze ucraine, di fatto sotto comando Usa e Nato, per un attacco su larga scala ai russofoni del Donbass.

Ciò ha portato la Russia, che nel contempo aveva schierato le sue truppe ai confini con l’Ucraina, a precipitare in un vero e proprio stallo diplomatico a dicembre come ha affermato anche Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo: «Abbiamo raggiunto il punto di ebollizione».

I negoziati successivi sono, infatti, falliti come ha chiarito a fine gennaio 2022 lo stesso Blinken: «Non c’è alcun cambiamento. Non ci sarà alcun cambiamento». Dal vertice Nato di Bucarest del 2008 i leader russi hanno ripetutamente affermato di considerare l’adesione dell’Ucraina alla Nato come una minaccia esistenziale che deve essere prevenuta. Come ha osservato Lavrov a gennaio: «la chiave di tutto è la garanzia che la Nato non si espanda verso est».

L’empasse diplomatico si sblocca il 21 febbraio quando Putin, poche ore dopo l’appello rivoltogli dai leader della Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pushilin, e di quella di Lugansk, Leonid Passetchnik, riconosce le Repubbliche Popolari del Donbass. L’Occidente “non è pronto ad accettare le proposte russe per risolvere la crisi ucraina” ha dichiarato Lavrov durante il vertice, aggiungendo che “i risultati della conferenza sulla Sicurezza di Monaco (18 febbraio) hanno confermato che i paesi occidentali si allineano alle posizione di Washington”. Il 24 febbraio dopo mesi di sterili trattative con gli Usa e la Nato, la Russia inizia l’invasione militare dell’Ucraina per respingere la minaccia rappresentata dalla Nato e difendere la popolazione russofona del Sud-est del Paese.

Il conflitto in atto in Ucraina è frutto di un ben congegnato piano strategico Usa contro la Russia elaborato nel 2019 dalla Rand Corporation («una organizzazione globale di ricerca che sviluppa soluzioni per le sfide politiche» ufficialmente finanziata dal Pentagono, dall’Esercito e l’Aeronautica Usa, dalle Agenzie di sicurezza nazionale – Cia e altre), da agenzie di altri paesi e da potenti Ong. Il piano in questione, «Overextending and Unbalancing Russia» ossia costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo, prevede di attaccare la Russia sul lato più vulnerabile, quello della sua economia fortemente dipendente dall’export di gas e petrolio utilizzando a tale scopo le sanzioni commerciali e finanziarie e, allo stesso tempo, far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto statunitense. In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno. In campo militare operare affinché i paesi europei della Nato accrescano le proprie forze in funzione anti-Russia portando la loro spesa militare al 2% del Pil.

Secondo il piano della Rand «gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia. Schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi. Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma questi e i loro alleati dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi». Nel quadro di tale strategia il «fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della consulenza militare fornite dagli Usa all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi». E proprio sul punto che la Rand Corporation definiva «il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia» è avvenuta la rottura ed è scattata la reazione di Mosca.

Gli sviluppi successivi mettono in chiara evidenza le fallimentari previsioni del piano della Rand: nonostante il gravoso sostegno finanziario e militare occidentale, ormai giunto a 100 miliardi di $, e la controffensiva delle ultime settimane, l’Ucraina ha scarse possibilità di vincere il conflitto iniziato nel 2014 e salito di livello nel 2022 con la reazione russa. Le 8 tranche di sanzioni imposte alla Russia, inoltre, si stanno rivelando un boomerang che ha già spinto in recessione tecnica l’economia Usa nei primi due trimestri 2022 e, insieme alla speculazione finanziaria, ha fatto impennare il costo delle materie prime creando inflazione e rallentamento dell’economia globale[1], non che crisi energetica in Europa e alimentare nel Sud del mondo. Dall’altro lato, la Russia ha registrato un forte incremento del saldo positivo della bilancia commerciale[2] e ha rinsaldato i propri rapporti economici e politici con Cina, India e altri Paesi asiatici e africani, senza contare che la recessione prevista dal Fmi a -8,5% ad aprile è stimata dallo stesso istituto l’11 ottobre al -3,4%[3].

Il disastro frutto della scellerata guerra per procura, combattuta dagli Usa per interposta Ucraina contro la Russia, che i media nazionali e internazionali asserviti agli interessi imperialistici tendono a nascondere, viene pagato in primis dalla popolazione civile delle zone di guerra e dai ceti subalterni dei Paesi sviluppati e, in genere, dal Sud mondo, mentre le imprese multinazionali, in primis quelle energetiche[4] e degli armamenti, hanno visto lievitare i loro profitti in modo esponenziale nel primo semestre di quest’anno.

Andrea Vento – 16 ottobre 2022

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati


Note

1. Come conferma l’ultimo Outlook del Fmi dell’11 ottobre2022 che prevede per l’anno in corso un rallentamento della crescita dell’economia mondiale al 3,2% rispetto al 4,4% di gennaio e al 4,9% di ottobre 21.

2. Nei primi sei mesi del 2022 il surplus delle partite correnti della Russia – la misura più ampia dei flussi commerciali e di investimento, spiega Bloomberg – è più che triplicato rispetto all’anno scorso: ha sfiorato i 167 miliardi di dollari, contro i circa 50 miliardi del periodo gennaio-luglio del 2021. A contribuire al surplus è stato il collasso delle importazioni dopo l’imposizione delle sanzioni internazionali imposte per l’invasione dell’Ucraina. Nel contempo, l’aumento dei prezzi del gas naturale e la crescita delle esportazioni di petrolio – gli idrocarburi valgono il 40 per cento delle entrate del paese – permetterà quest’anno alla Russia di registrare ricavi per 337,5 miliardi, il 38 per cento in più rispetto al 2021.

3. https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2022/04/19/world-economic-outlook-april-2022
https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2022/10/11/world-economic-outlook-october-2022

4. Secondo un’indagine di ReCommon le sei principali società energetiche europee nel primo semestre del 2022 hanno realizzato extraprofitti per oltre 74 miliardi di euro che sono stati impiegati per incrementare i dividendi e per operazioni di share buybuck (acquisto di proprie azioni sul mercato), mentre gli investimenti per la transizione energetica, vera priorità, sono rimasti sostanzialmente al palo. 

*****
*****

Balcani a rischio esplosione

Sotto le pressioni delle ambasciate occidentali e dell’opposizione locale europeista, c’è stata la decisione di ricontare i voti delle elezioni presidenziali nella Republika Srpska del 2 ottobre, presa dalla Commissione elettorale centrale (CEC) della Bosnia ed Erzegovina, nonostante ancora non siano stati dati ufficialmente i risultati finali della votazione, che hanno visto la vittoria con uno scarto di oltre 30.000 voti del presidente uscente Milorad Dodik contro l’esponente filooccidentale Jelena Trivic.

Questa decisione, presa assolutamente in contrasto con la legislazione della BiH, è stata interpretata dalla forze vincitrici le elezioni, come lo scenario per la preparazione di una nuova Rivoluzione colorata, un colpo di stato oggettivo, contro l’autonomia serba all’interno della Bosnia-Erzegovina. Dietro questo scenario ci sono l’Occidente e le autorità di Sarajevo, è stato denunciato dai massimi esponenti dell’Unione dei Socialdemocratici Indipendenti di Dodik.

I due candidati di opposizione il Partito del Progresso Democratico di Jelena Trivic ha ricevuto meno del 10% dei voti alle elezioni parlamentari, mentre il Partito Democratico Serbo ha ricevuto circa il 15% dei voti. L’Unione dei socialdemocratici indipendenti di Dodik e Zelika Cviyanovich ha ricevuto circa il 63% dei voti, molto di più di quanto l’intera opposizione filo-occidentale abbia ricevuto insieme alle elezioni parlamentari. In questo scenario come può essere credibile una vittoria dell’opposizione?

L’ambasciatore della Bosnia ed Erzegovina in Croazia, A. Vranješ, ha affermato che “...l’intero processo post-elettorale è un tentativo di colpo di stato guidato da alcune ambasciate occidentali, da una parte dei media e dei social network e dall’opposizione, che ha perso le elezioni per l’ennesima volta... I rappresentanti dell’opposizione già nella notte delle elezioni hanno iniziato a prepararlo, anche se sapevano di avere perso, cercando di creare una atmosfera tesa e confusa, per annullare le decisioni popolari, portare il caos nelle strade e tentare di destabilizzare la Republika Srpska...”.

Queste accuse sono legate al fatto giuridico che la Commissione elettorale centrale della BiH non è un organo tecnico neutrale che sovrintende allo svolgimento del processo elettorale, di fatto è un organismo politico, come si è visto più volte in passato, imputato di assecondare gli obiettivi dell’establishment politico musulmano di Sarajevo e la cosiddetta Comunità internazionale. Esso è formata da tre rappresentanti dei popoli che formano lo stato bosniaco: un serbo, un croato e un bosniaco, oltre a rappresentanti di stati stranieri.

Il cuore del problema sta nel fatto che la Repubblica Srpska ha raggiunto oggi una solidità politica ed economica, anche in una prospettiva internazionale. Per questo le forze e i politici legati agli scenari occidentali e atlantisti, stanno mettendo sotto pressione le autorità serbe ed in particolare il suo presidente M. Dodik, visto come un politico non asservito agli interessi stranieri e non disponibile alla creazione di una sorta di BiH centralizzata a Sarajevo, con egemonia dei politici musulmani completamente dipendenti dai paesi occidentali, come continuamente suggerito e indicato da rappresentanti della cosiddetta Comunità internazionale, come, ad esempio, il rappresentante speciale degli Stati Uniti Gabriel Escobar.

Tutte queste azioni sono intraprese per indebolire in anticipo la posizione di Dodik, un politico indipendente che ha ottimi rapporti con la Russia, in un momento in cui lui e la Republika Srpska dovranno affrontare una serie di nuove sfide. Non sorprende che Dodik si sia affrettato a recarsi a Budapest in questi giorni, per ricevere le congratulazioni e il sostegno del leader di uno dei paesi della UE, il primo ministro ungherese Viktor Orban. E anche Mosca ha mandato le congratulazioni al presidente serbo. Di fatto non si vuole accettare che vi sia una politica indipendente nelle retrovie del fronte antirusso della NATO.

Il popolo serbo, per l’Occidente è un tangibile ostacolo che deve essere superato, prima di un delineato attacco alla Russia e quindi i politici serbi indipendenti sono sotto pressione, così come negli anni passati, la RFJ e la Serbia sono stati sottoposti all’aggressione diretta con i bombardamenti NATO del 1999. Pertanto, non sorprende che i serbi nella Republika Srpska abbiano votato per Dodik, che è a favore della difesa dell’identità e indipendenza serba, del mantenimento di buone relazioni con la Russia e con i paesi non facenti parte del blocco egemonico unipolare guidato dagli USA. Ai tempi odierni questa è una colpa gravissima.

Elena Trivic vorrebbe diventare la novella Tikhanovskaya della Republika Srpska. Probabilmente il “Piano A“ consisteva nel dichiarare la vittoria dell’opposizione la notte dopo le elezioni, con un gran numero di manifestanti scesi in piazza.

Ma questo piano è fallito per due ragioni: in primo luogo, il divario tra Dodik e la Trivic era troppo ampio e, in secondo luogo, poche persone sono scese in strada, in quanto non gode di molto sostegno tra la popolazione. Pertanto, il giorno successivo, una delegazione del partito di Elena Trivic si è recata all’ambasciata britannica. Questo è stato riferito dai media locali e l’ambasciata non ha smentito queste informazioni.

A quel punto è scattato il “Piano B”, che prevedeva il riconteggio dei voti. Ma questa è stata una decisione illegale, come spiegato sopra. Se l’opposizione insisterà sul fatto che Trivic è il vincitore, questo potrebbe causare una crisi prolungata nella Republika Srpska e una frattura nella società serbo bosniaca, e tutto ciò è lo schema delle varie Rivoluzioni colorate, che è l’usuale obiettivo dell’Occidente.

Ma questo potrebbe far accadere che l’opposizione non riconoscerà il risultato del riconteggio e chiederà nuove elezioni. Dodik ha già dichiarato che non lo accetterà. Questo sarebbe l’inizio del “Tempo dei problemi” nella Republika Srpska. L’alto rappresentante della Comunità internazionale in BiH, Christian Schmidt, non riconosciuto dalle Nazioni Unite e le autorità di Sarajevo userebbero questo per minare l’autonomia della Serbia dall’interno.

Il Vice Ministro degli Esteri russo A. Gruško ha confermato che la Serbia è sottoposta a pressioni senza precedenti: “Sappiamo molto bene la pressione senza precedenti a cui è sottoposta la Srpska ora. Questa pressione va oltre la portata delle relazioni diplomatiche tra gli stati, noi apprezziamo che la leadership serbo bosniaca stia lavorando in conformità con i suoi interessi nazionali.

La Russia farà di tutto affinché la cooperazione russo-serbo continui a essere un esempio di relazioni interstatali nel mondo moderno e in evoluzione... Un nuovo conflitto in Europa non è nell’interesse di nessuno. È evidente che la Bosnia Erzegovina si trova in una posizione piuttosto vulnerabile, e questo ci preoccupa, perché un altro conflitto nel cuore dell’Europa non è nell’interesse di nessuno, ma ovviamente ci sono circoli per i quali gli interessi di sicurezza non significano nulla, per essi la cosa più importante è continuare la lotta per l’egemonia mondiale e impedire ai paesi di fare scelte libere. L’Occidente vede la regione dei Balcani occidentali come un campo di lotta geopolitica con la Russia.”


In effetti la cooperazione tra RSrpska e Russia avanza in settori chiave come quelli del petrolio, del gas, dell’energia e dell’hi-tech.

L’analista politico e pubblicista N. Kecmanović, in passato membro della presidenza della BH, ha dichiarato che: “il compito storico di Dodik sarà di guidare la difesa della Srpska e del popolo serbo dall’ultimo assalto che l’Occidente sta preparando per distruggerla. Egli ha ottenuto una tripla vittoria e l’opposizione ha perso in tutte e tre le ultime consultazioni elettorali.”

Secondo l’esponente serbo bosniaco di Sarajevo, è un dato storico che, per vincere le elezioni nella RS ci devono essere, oltre al sostegno autonomo della maggioranza degli elettori, diversi fattori esterni che influenzano in modo significativo chi sceglierà il popolo. I primi tre fattori senza i quali non si può vincere sono l’appoggio della “madre patria”, cioè lo stato serbo, della Chiesa Ortodossa serba, come radice spirituale e poi della Russia, intesa come fratellanza identitaria storica e politica slava. In questi tempi a questo si sono aggiunti altri due fattori risultati decisivi: l’atteggiamento di ostracismo e arrogante della cosiddetta Comunità internazionale, intesa come l’Occidente e infine la scelta auto distruttrice e sottomessa agli interessi stranieri, della comunità musulmana e dei suoi politici di Sarajevo.

In sintesi così si può capire perché Dodik ha vinto per l’ennesima volta.

Il sostegno russo è stato pubblico e visibile: due incontri in tre mesi con Putin, oltre a numerose dichiarazioni di Lavrov e Kalabukhov sull’amicizia inscalfibile e storica tra Russia e Serbia. E Dodik alla Presidenza della Bosnia-Erzegovina ha sempre fermamente preso le distanze da tutte le dichiarazioni di Džaferović e Komšić (i presidenti musulmano e croato della BH), nonché del ministro Turkovic sulle sanzioni e sull’Operazione Speciale in Ucraina.

Non è mancato il supporto della Chiesa Ortodossa Serba: il patriarca Porfirije è andata spesso in Republika Srpska, parlando in diverse commemorazioni e celebrazioni con la presenza di Dodik.

E così dalla “Madre Patria“, la Serbia: i socialisti Dacic (presidente del parlamento serbo) e il ministro Vulin, oltre al radicale Seselj hanno esplicitamente sostenuto la rielezione della coalizione di Dodik , oltre ad alcuni media.

In merito agli altri due fattori che hanno permesso al leader serbo bosniaco di vincere le elezioni, l’ostracismo e l’arroganza del blocco dei paesi occidentali è stato più evidente che mai. Dopo le sanzioni personali statunitensi e della Gran Bretagna imposte a Dodik, queste sono state allargate anche alla sua vice, la candidata Željka Cvijanović, che così ha aumentato le simpatie e i voti dei serbo bosniaci verso di lei.

Le minacce dirette verso Dodik sono state così violente che, attraverso voci e “veline” mediatiche, il capo legale e legittimo (eletto) di uno stato riconosciuto a livello internazionale, è stato minacciato di arresto, rapimento e assassinio. Mentre le sanzioni della UE alla RS sono state bloccate dalla voce solitaria dell’Ungheria.

Tra gli analisti locali, già a maggio era evidente la probabile vittoria, dopo che a Banja Luka, un raduno di oltre 20.000 persone a sostegno di Dodik, organizzato dalla Organizzazione dei Veterani della RS, si era schierata contro i golpisti dell’EuroMaidan di Kiev e al fianco del Donbass. Questa organizzazione riunisce i veterani serbi che hanno combattuto nella guerra in Bosnia, ed è la più grande organizzazione non governativa della RS e della BH.

Per quanto riguarda il fattore sfavorevole portato dai politici musulmani di Sarajevo, essa ha sostenuto per tutta la campagna elettorale la tesi che per Dodik era “finita!”, appoggiando così l’opposizione ad esso, finendo sbugiardata e portando altri voti alla sua coalizione.

E così è stato: Željka Cvijanović è stata eletta membro serbo della presidenza della Bosnia-Erzegovina, mentre l’SNSD ha aumentato il numero di deputati nell’Assemblea della RS.

Gli elettori hanno capito che la coalizione dei partiti di opposizione, SDS, PDP e altri, hanno solo fatto una campagna elettorale contro Dodik, senza avere un candidato che potesse affrontarlo su un piano di parità ed esperienza politica.

Inoltre l’ostentata cooperazione con gli alti rappresentanti internazionali, in particolare con la figura non legittimata del tedesco Schmidt, con i funzionari dell’OHR (l’Ufficio di Alta Rappresentanza nella BH), ambasciatori occidentali, mediatori, giornalisti e agenti, si è dimostrata controproducente come le altre volte. Gli elettori lo percepiscono come un tradimento nazionale, non senza ragione. La percezione popolare è quella di come se stessero attaccando il loro paese dall’estero.

Il regista serbo bosniaco di Sarajevo Emir Kusturica ha dichiarato: “Dodik è un prodigio! Ha carisma, è intelligente, è capace. Dovreste prendere le cartoline di Banjaluka, Bijeljina, Trebinje... di 20 anni fa e vedere come è cambiato tutto con Dodik qui in Srpska, che è sopravvissuta nonostante tutto. Forse gli stessi elettori non sanno come spiegare il segreto del perché lo votano sempre. Ma eccolo di nuovo qui! E offre un governo di coalizione con i migliori quadri dei ranghi dei vari partiti patriottici... anche di esponenti di opposizione.

Sarebbe illogico che l’elettorato che segue quotidianamente il partito di Dodik, che ne è il leader, e della Cvijanović, che lo sostiene in tutto, non votasse per lui. Ma come si fa a dire che ha perso?! Come leader del SNSD, con l’aumento del numero di deputati nell’Assemblea della RS, questa volta è primo ministro, e la Cvijanović sarà membro serbo della Presidenza della Bosnia-Erzegovina e vicepresidente del partito.

Il PDP e i suoi dirigenti non riconosceranno mai il risultato delle elezioni, anche quando saranno annunciate ufficialmente dalla Commissione elettorale centrale, semplicemente perché con quel riconoscimento ammetterebbero allo stesso tempo, di aver ingannato il popolo della Republika Srpska e dovrebbero ammettere chi li ha creati e finanziati”
, ha proseguito Kusturica.

Il 28 giugno 2022 nella cittadina di Andricgrad costruita dal regista serbo, Kusturica con la presenza di Dodik hanno inaugurato il monumento a Mesa Selimovic, insieme a Ivo Andric i due più grandi scrittori musulmani della letteratura jugoslava. In quella occasione Dodik ha dichiarato che “così da oggi Mesa Selimović ha avuto un posto fisso insieme agli altri grandi, perché è fondamentale essere legati ai nostri grandi e alla nostra storia.”

Personalità della Serbia, della Republika Srpska e del mondo affermano: non toccare la volontà elettorale del popolo della RS, non toccare la vittoria di Dodik!

Subito dopo le elezioni è stata lanciata una petizione con l’appello:

“NESSUNO DEVE CAMBIARE E ANNULLARE I RISULTATI DELLE ELEZIONI”

Il Testo della petizione:

Noi sottoscritti, guidati dal nostro amore per la Republika Srpska e tutti i suoi cittadini, con la nostra reputazione e parola, diamo sostegno pubblico al neoeletto Presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, vincitore delle elezioni del 2 ottobre 2022 .

“Allo stesso tempo, diamo un sostegno inequivocabile alla volontà democraticamente espressa del popolo serbo nella Republika Srpska, il cui diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti politici, che non deve essere contestato, alterato, cambiato o annullato da nessuno.

D’altra parte, condanniamo pubblicamente tutti i tentativi di violazione e le azioni illegali della Commissione elettorale centrale della Bosnia ed Erzegovina, nonché il sostegno a tali azioni da parte di alcuni attori internazionali in Bosnia ed Erzegovina, con l’obiettivo di contestare l’indiscutibile vittoria di Milorad Dodik e indirizzando così la Republika Srpska e il popolo serbo in uno stato di instabilità politica ed economica.

Tenendo presente tutto quanto sopra, sosteniamo fortemente il Presidente Dodik e le istituzioni della Republika Srpska nella difesa dell’integrità del processo elettorale, della volontà democratica del popolo serbo e della protezione dell’ordine costituzionale garantito dall’Accordo di pace di Dayton”.

La petizione ha già raccolto centinaia di firme. Tra gli altri, il professore francese di geopolitica Alexis Trud, gli accademici Jelena Guskova e Darko Tanasković, gli ex ministri degli affari esteri della FRY Vladislav Jovanović e Živadin Jovanović, poi i registi Emir Kusturica e Predrag Gaga Antonijević, il produttore Maksut Maksa Ćatović, l’attore Vuk Kostić, gli scrittori Slobodan Vladušić e Vladimir Kecmanović, gli storici Miloš Ković, Aleksandar Raković e Čedomir Antić, i professori Bogoljub Šijaković, Slobodan Antonić, Milomir Stepić, Miloš Jovanović, Srđa Trifković, Časlav Koprivica, poi i pubblicisti Aleksandar Pavić, Đorđe Vukadinović, giornalista Zoran e Dragovic Ljiljana Bogdanović e Siniša Ljepojević e altri numerosi professori universitari, scrittori, medici specialisti, pubblicisti, senatori, ambasciatori, ecc.

Fonte

Giorgia Meloni, un falso passato per governare il presente

Nelle elezioni politiche del 7 giugno 1953 il MSI triplicò i suoi voti rispetto al 1948, portando in Parlamento 38 tra deputati e senatori. I fascisti, da poco rientrati da latitanze e fughe dopo il crollo dello stato fantoccio di Salò, cominciavano ad accomodarsi.

Sistemandosi all’interno di quelle istituzioni democratiche che avevano combattuto e che disprezzavano dalla radice. «Il 25 aprile è nata una puttana, le hanno dato nome, Repubblica italiana», cantavano quei camerati, salvati alla fine del conflitto mondiale dagli Alleati anglo-americani ormai protesi verso la Guerra Fredda anticomunista.

Junio Valerio Borghese, già alla guida della X Mas, fu messo in salvo da James Jesus Angleton, un agente di vertice dell’OSS (antesignana della CIA) che lo caricò su una jeep statunitense. Diventerà presidente del MSI e organizzerà il golpe del 7-8 dicembre 1970.

Giorgio Almirante scappò in abiti civili dalla porta di servizio della Prefettura di Milano il giorno della Liberazione indossando un bracciale tricolore partigiano. Diverrà il principale capo missino nei decenni repubblicani.

Augusto De Marsanich, già deputato fascista e membro del governo Mussolini, in quel 1953 ricopriva la carica di segretario del partito, il cui presidente onorario, dal 1952, era il criminale di guerra Rodolfo Graziani.

Forse erano loro «le persone che non ci sono più» a cui la neo Presidente del Consiglio ha dedicato la vittoria la notte dei risultati elettorali del 25 settembre scorso. Oppure erano figure di quella «destra democratica» di cui si è vantata di aver fatto parte nel suo discorso in Parlamento il giorno della fiducia al suo governo.

Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo ovvero il gruppo responsabile delle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia. Oppure Mario Tedeschi, direttore de «Il Borghese» e della formazione scissionista missina di «Democrazia Nazionale», oggi indicato dalla procura di Bologna come uno dei responsabili della strage del 2 agosto 1980 alla stazione.

Forse Giorgia Meloni pensava ai protagonisti della «rivolta di Reggio Calabria» guidati dal deputato missino Ciccio Franco oppure ai «ragazzi» di Piazza San Babila a Milano, primattori degli scontri che il 12 aprile 1973 portarono alla morte dell’agente Antonio Marino e che videro in piazza anche un giovane dirigente del MSI oggi seconda carica dello Stato e collezionista privato di busti di Mussolini.

Di fronte al formarsi del governo di oggi tornano alla mente le parole dell’epigrafe che Piero Calamandrei scrisse, all’indomani delle elezioni del giugno 1953, rivolgendosi ai partigiani caduti della Resistenza: «Non rammaricatevi dai vostri cimiteri di montagna se giù al piano, nell’aula dove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue, sono tornati, da remote calingi, i fantasmi della vergogna».

Il falso racconto del passato, finalizzato al governo del presente, propalato oggi dalle alte cariche dello Stato e dell’esecutivo ha iniziato il suo cammino.

Con il silenzio nel centenario della «marcia su Roma»; con la dichiarata ostilità all’antifascismo ed alla Resistenza scandalosamente criminalizzati e negati da Meloni nella sua improbabile ricostruzione della storia d’Italia; con la «fuga», attraverso il vittimismo, dagli anni Settanta delle stragi e dello squadrismo nelle fabbriche e nelle università.

Nelle aule del Parlamento italiano abbiamo visto concretarsi ciò che Calamandrei preconizzava: «Apprenderemo, da fonte diretta, la storia vista dai carnefici». Non ci troviamo certo di fronte a un ritorno del «fascismo eterno».

Tuttavia le radici profonde di questa destra (fin dal dopoguerra radicalmente «atlantica») riemergono oggi dalla voce di Giorgia Meloni o nel loro identitarismo classista che dichiara di «non voler disturbare» industriali e ceti proprietari; di voler avversare i migranti; di promuovere la guerra contro le donne che non vogliono omologarsi all’essere soltanto «madri e cristiane», come urlato nei comizi filo-franchisti di Vox in Spagna.

L’inquietudine che suscita il bagaglio storico rivendicato dalla destra è pari soltanto a quella alimentata dalla lettura della stampa italiana, l’unica restìa a chiamare postfascista il partito Fratelli d’Italia; l’unica incapace di raccontare la natura profonda di una Presidente del Consiglio politicamente accarezzata dalle familistiche ed eterne (quelle si) classi dirigenti nazionali che ieri ebbero tra i loro padri e nonni fondatori i veri sostenitori del regime fascista e che oggi posseggono di tutti i principali mezzi di informazione.

Da queste consapevolezze sarà necessario ripartire per una battaglia culturale e politica di difesa della verità storica, della Costituzione e dei diritti della persona.

«Troppo presto li avevamo dimenticati – ammoniva Calamandrei – è bene che siano esposti in vista su questo palco. Perché tutto il popolo riconosca i loro volti e si ricordi».

Fonte

Morire per Halloween?


Si resta attoniti e sconvolti a fronte delle immagini provenienti da Seul.

Corpi accatastati nei sacchi anonimi sui marciapiedi, cifre incredibili di morti, feriti e “dispersi” e un età media dei deceduti bassissima. Insomma una catastrofe.

Il tutto – come ci rimbalzano i video provenienti dai circuiti internazionali – in un contesto surreale dove il luccichio sfavillante della metropoli coreana continua incessantemente la sua (pacchiana) ostentazione e dove, persino, i lampeggianti delle autoambulanze sembrano in sintonia scenografica con gli effetti della devastazione.

Il presente come catastrofe.

È evidente che una tragedia di questo tipo non può essere classificata, unicamente, come il prodotto di una maledetta casualità o le conseguenze drammatiche di una particolare tipologia architettonica dello spicchio della metropoli coreana abitualmente attraversato dalla movida.

Il tema – meglio ancora il vero e proprio dilemma – che una simile vicenda segnala è come sia concepibile e possibile che centinaia di migliaia di persone siano – tutte assieme – mosse da un fremito e da una potente voglia di “agitarsi” che riempie strade e piazze per “festeggiare” un “capodanno celtico” che nel corso degli ultimi decenni – a partire dagli Stati Uniti – si è configurato, sempre più come un orgia consumistica.

Una colossale speculazione – immaginaria e materiale – con buona pace di tutta la mitologia, la simbologia e i variegati significati, più o meno mistici ed allusivi, che si richiamano ad Halloween.

Alcuni commentatori hanno fatto notare che questa festa a Seul è stata tra i primi mega/eventi dopo un lungo periodo di limitazioni a seguito della Crisi Pandemica e che lo straordinario afflusso di giovani è ascrivibile al desiderio di “socialità” che era stato compresso e limitato durante le restrizioni.

Probabilmente tale dato è tra i fattori che hanno determinato il grande afflusso ma – sempre a mò di dilemma irrisolto – restano confuse e poco chiare le motivazioni vere per cui una “festa di questo tipo” genera una attrattività esagerata ed un fattore emulativo a scala internazionale.

Nelle moderne metropoli imperialiste in tutto il globo – Seul è tra le più titolate da questo punto di vista – l’industria dell’intrattenimento non è solo produzione, vendita e consumo di merci (tra cui una di tipo particolare e devastante: la droga) ma è, soprattutto, costruzione ideologica di “senso” e di “modelli comportamentali” che avviluppano le fasce giovanili e non solo.

Stiamo parlando di uno sfrenato accumulo di “miti”, di “valori” e di “stili di vita” in cui si mischiano una genuina ricerca di amicizia, socialità e spinta umana ad una auspicabile rottura dei dispositivi di “nuova e vecchia” solitudine con i meccanismi spietati del Mercato, con quella specificità che Marx definiva “il carattere feticcio della merce” e con quell’insano cocktail di sessismo, razzismo, individualismo e classismo su cui si fondono le immanenti ed inumane relazioni sociali e comunitarie vigenti.

Insomma – a parere di chi scrive – la tragedia di Seul è un ulteriore aspetto di quel processo di sussunzione totale che l’egemonia dominate (nei suoi aspetti parossistici) provoca anche in ambiti e sfere che – apparentemente – ad uno sguardo veloce possono sembrare astratti e che invece sono la cartina tornasole di una produzione di morte ideale e, spesso, fisica che il corso del capitalismo genera inesorabilmente nel suo dipanarsi.

Ovviamente – di fronte ai morti e al complesso del carico di dolore proveniente da Seul – occorre discutere con sobrietà evitando superficiali approssimazioni o inutili “scomuniche”.

Da comunisti – che agiscono in questa complessa contemporaneità – dobbiamo interpretare questa fenomenologia riconducendola, oltre il dato drammatico ed emotivo della cronaca, all’analisi complessiva della “Sovrastruttura e dell’Egemonia” e di come il combinato disposto tra questi fattori agisce, prepotentemente, fin dentro la vita e la testa degli individui sociali e delle loro relazioni.

La necessità della rottura sistemica e rivoluzionaria deve fare i conti con questo tipo di “complicazioni sociali”, con l’intero arco di questioni che né derivano e che riverberano, a vario titolo, tra tutte le classi sociali.

Un compito analitico e pratico dell’oggi di cui la tragedia di Seul è solo un ulteriore triste campanello d’allarme.

Fonte

“Non dimenticare i palestinesi. Sono un popolo di carcerati”

Riproduciamo qui di seguito l’intervista di Stefania Maurizi allo storico israeliano Ilan Pappè su Il Fatto Quotidiano del 28/1/22.

*****

È stato definito lo storico israeliano più coraggioso. Ilan Pappé ha da poco dato alle stampe La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (Fazi editore), un libro che ricostruisce rigorosamente, con dati e materiali d’archivio, una mostruosa ingiustizia sotto gli occhi del mondo, eppure tollerata: come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza siano state trasformate da Israele in un immenso carcere.

Maurizi: Il libro è dedicato ai bambini della Palestina che sono stati uccisi, feriti e traumatizzati e scrive che nella prima Intifada (la rivolta palestinese dal 1987 al 1993) la sezione svedese di Save The Children stimò che tra i 23.600 e 29.000 bambini, un terzo dei quali con meno di 10 anni, dovettero essere curati a causa delle ferite provocate dalle percosse. È figlio di gente sfuggita al nazismo, quando ha iniziato a mettere in discussione le brutali politiche di Israele contro i palestinesi?

Pappe’: Iniziai a notare la brutalità, e a rendermi conto quanto fosse strutturale, in due fasi. La prima volta quando lavorai al mio Ph.D. all’Università di Oxford sugli eventi del 1948 (la cacciata dei palestinesi dalla loro terra, ndr) ed esaminai freddi materiali d’archivio, che includevano immagini strazianti di massacri, espulsioni e altri crimini di guerra. Mi resi conto che la convinzione con cui ero cresciuto, che le forze armate israeliane fossero le più etiche del mondo, era discutibile. La seconda volta fu quando vidi con i miei occhi la brutalità dell’esercito d’Israele nella seconda guerra del Libano nel 1982, poi durante la prima Intifada e, a distanza ravvicinata, durante la seconda nel 2000, quando iniziai a scrivere La pulizia etnica della Palestina.

Maurizi: La sua posizione senza compromessi l’ha resa un reietto in Israele. Riceve ancora minacce di morte?

Pappe’: Non più tanto, dopotutto ho lasciato il Paese per un lungo periodo e ci sono altri che ora vengono presi molto più di mira. Poiché sono ancora una figura pubblica, le paure ci sono ancora, così come le minacce, ma con il passare del tempo ci si abitua e ci si preoccupa meno. Mi pento solo di non aver iniziato prima, perché avrei potuto fare molto di più.

Maurizi: Abbiamo visto il supporto all’Ucraina: sanzioni, armi e solidarietà con i rifugiati. Come guarda ai due pesi e alle due misure del mondo occidentale: grandissimo supporto per gli ucraini, mentre Israele può uccidere i palestinesi quanto vuole?

Pappe’: Credo che la crisi dell’Ucraina abbia davvero rivelato questo doppio standard e questa ipocrisia, come mai prima d’ora. Ovviamente questa ipocrisia c’è sempre stata, ma quando l’Occidente sostiene che un’occupazione anche di una settimana è illegale e che l’occupante dovrebbe essere punito con sanzioni, e quando acclama la lotta del popolo occupato, in particolare il suo uso della violenza contro l’occupante, e fornisce aiuto militare all’occupato, colpisce che non una piccola parte di questo comportamento sia stata applicata a Israele e alla Palestina. Abbiamo potuto vedere immediatamente i risultati di questa ipocrisia. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, il governo israeliano ha intensificato le uccisioni. A partire dalla guerra, uccidere palestinesi, inclusi i bambini, è un’attività quotidiana. L’Israele ufficiale ritiene di avere l’immunità internazionale per portare avanti questa politica criminale, sotto la protezione dell’ipocrisia.

Maurizi: Lei sostiene la soluzione dello Stato unico: quanto è realistica la possibilità che israeliani e palestinesi vivano nello stesso Stato, dopo decenni di brutalità?

Pappe’: Storicamente, ci sono casi peggiori in cui il versamento di sangue da entrambe le parti è stato rimpiazzato dalla coesistenza. L’Europa occidentale è piena di tali esempi, gli Usa dopo la loro sanguinosa guerra civile sono un altro esempio. In realtà non è questione di possibilità di vivere insieme, si tratta piuttosto dell’assenza di qualsiasi altra possibilità, a parte la “Mad ”, la distruzione reciproca assicurata. La questione è come e su quale base (possano convivere), perché oggi è la peggiore possibile – (convivono in) un sistema di apartheid – dobbiamo anche investire su come trasformarla pacificamente e poi creare uno spazio comune. Non è un matrimonio d’amore, ma è il risultato di circostanze storiche, e non tutte possono essere cambiate.

Maurizi: Cosa suggerirebbe a chi vuol aiutare i palestinesi?

Pappe’: È importantissima la solidarietà, che abbia come duplice scopo sia sostenere la lotta dei palestinesi sia esercitare pressione sui governi, affinché cambino le loro politiche nei confronti di Israele e della Palestina. Non meno importante è offrire un’alternativa alla disinformazione su Israele e Palestina dei media mainstream in Paesi come l’Italia.

Fonte

Brasile - Lula vince le elezioni in un paese spaccato

Luiz Ignacio Lula da Silva è di nuovo presidente del Brasile, e questo è l’importante. Dodici anni dopo la conclusione del suo secondo mandato, l’ex sindacalista e leader della sinistra ha sconfitto il presidente uscente Jair Bolsonaro.

Secondo la commissione elettorale, Lula ha ottenuto il 50,9% delle preferenze, contro il 49,1 di Bolsonaro. Appena due milioni di voti di differenza.

Non era affatto scontato, perché il fascista che ha perso aveva mobilitato la polizia per impedire, nei limiti del possibile, agli elettori di Lula di andare a votare nelle zone dove il leader del PT era dato in forte vantaggio, in particolare nel Nordest.

Centinaia di blocchi stradali messi in atto dalla polizia autostradale, che hanno ritardato di ore o fisicamente impedito di esprimere il voto. Ma per il presidente della Commissione elettorale, probabilmente anche lui ormai "uscente”, “tutto è stato regolare“.

“Hanno cercato di seppellirmi vivo, ma sono risorto. Sono qui per governare il paese in un momento difficile, ma riusciremo a trovare risposte – ha dichiarato a caldo Lula – il nostro impegno più urgente è porre fine alla fame“.

Poi segna ancora la sua abissale differenza con Bolsonaro. Il Brasile è un paese “pronto a riprendere il suo posto nel combattere la crisi climatica, specie in Amazonia. Il pianeta ha bisogno di una Amazonia viva“.

Ritorneremo su questo risultato, che cambia in modo consistente la geografia politica dell’America Latina, riducendo al minimo il numero e l’importanza dei regimi filo-Usa. Ma per il momento c’è da festeggiare.

Fonte

30/10/2022

Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula - Richiesta

Se l'Europa scegliesse la Cina?

Cina - Il XX Congresso del PCC. Un’intervista a Gabriele Battaglia

Abbiamo intervistato Gabriele Battaglia, giornalista free-lance che abita da diversi anni in Cina e collabora a differenti organi di informazione come la Radiotelevisione svizzera (RSI) e Radio Onda d’Urto. Ha differenti pubblicazioni alle spalle, tra cui l’ultima: Massa per Velocità. Un racconto dalla Cina profonda, edito da Prospero editore nel novembre 2021. Gabriele è una fonte preziosissima per chi vuole seguire le trasformazioni della Repubblica Popolare. Ha seguito direttamente il recente XX Congresso del Partito Comunista Cinese. Gli abbiamo posto alcune domande.

In occidente la discussione dopo la fine del XX Congresso è quella sul potere di Xi Jinping. Quando venne selezionato dieci anni fa, la vasta maggioranza degli osservatori occidentali lo considerava una figura grigia, senza linea politica, un mediatore in un Partito Comunista dilaniato dal fazionismo. Com’è stato possibile passare dalla situazione di 10 anni fa a quella di oggi? Xi Jinping, con la campagna anti corruzione e con una revisione dello stile di lavoro del Partito Comunista Cinese, ha profondamente cambiato gli assetti di potere interni all’organizzazione. Sei d’accordo? È ancora possibile leggere le dinamiche secondo gli schemi con le vecchie correnti: i “principi rossi” figli e nipoti dei vecchi rivoluzionari, i tuanpai allevati nella Lega della Gioventù di Hu Jintao, la cricca di Shanghai protetta dal grande vecchio Jiang Zemin?

Partendo dal presupposto che nel 2012 Xi era considerato una figura di compromesso tra le diverse fazioni all’interno del Partito comunista, non riconducibili solo al dualismo principini-lega dei giovani comunisti (taizidang-tuampai), direi che su quello che è successo dopo si divide in due scuole di pensiero. La prima sostiene che Xi Jinping abbia gradualmente fatto fuori ogni opposizione interna utilizzando la campagna anticorruzione come strumento privilegiato; la seconda, che l’evoluzione successiva sia stata in qualche modo voluta dal Partito, nella sua grande maggioranza, già all’epoca dell’insediamento di Xi. Quando lui prende il potere, il Partito comunista sente di essere reduce da un “decennio perduto” – quello di Hu Jintao-Wen Jiabao – in cui si sono esasperati alcuni dei problemi strutturali che il trentennio precedente, quello del boom cinese, hanno lasciato in eredità.

Sul piano interno, si sono acuiti drammaticamente la diseguaglianza sociale e il divario città-campagna, che per altro sono quasi sinonimi; le fonti di crescita e ricchezza sono altamente destabilizzanti per l’intero sistema: grandi investimenti poco produttivi che danno origine a gigantesche bolle speculative (non solo quella immobiliare), inoltre il ruolo di “fabbrica del mondo” crea enormi problemi di sostenibilità ambientale e soprattutto relega la Cina al ruolo di fornitore di merci a basso valore aggiunto al resto del mondo; la corruzione è imperante e ha ridotto il consenso al Partito comunista ai minimi storici. Sul piano internazionale, le politiche di contenimento della Cina da parte degli Usa non cominciano certo con Trump, basti ricordare il “pivot to Asia” della premiata ditta Obama-Hillary Clinton, ma un rapporto di Condoleeza Rice a cavallo del millennio già identificava nella Cina l’avversario del futuro, proprio mentre Pechino e Washington erano allo Zenith della loro complementarietà nell’ambito della globalizzazione. È bene ricordarlo sempre quando gli Usa identificano nella Cina “la sfida più completa e seria alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti” come nell’ultima Strategia di difesa nazionale, uscita pochi giorni fa. Di fronte a questo mix potenzialmente esplosivo, il Partito sceglie l’uomo forte costruito in casa: Xi Jinping. È abbastanza nella tradizione cinese: il buon governante non è “democratico” (concetto non estraneo ai cinesi, ma sicuramente meno pervasivo che da noi), bensì soprattutto forte e perciò in grado di garantire il massimo benessere possibile alla sua grande popolazione che, ricordiamolo è quasi il triplo della popolazione sommata di Stati Uniti e UE.

Insomma, io propendo per la seconda ipotesi secondo cui Xi Jinping è un prodotto del Partito comunista in una determinata fase della sua evoluzione, anche se non è necessariamente in contrapposizione alla prima. Diciamo che Xi è “programmato” per mettere muscolarmente le cose a posto e nel suo ruolo, gradualmente, esaspera sempre più la propria presa sul potere, arrivando fino agli esiti odierni, dieci anni dopo, con il ventesimo congresso del Partito.

Che quello di Xi in origine non fu un “golpe”, bensì una scelta del Partito stesso lo deduco da diverse indicazioni. Ad esempio, la campagna anticorruzione era cominciata anche prima, con l’eliminazione di un potenziale rivale come Bo Xilai, proprio durante la leadership di Hu-Wen. Inoltre Xi non è una figura che splende di luce propria come Mao Zedong (a cui spesso è associato), non è carismatico, non è un intellettuale, non è un leader rivoluzionario, non ha vinto la guerra antigiapponese e la guerra civile, è un apparatchik, appartiene alla “nobiltà rossa”, il suo culto della personalità viene gradualmente costruito con alcune trovate mediatiche di tipo spettacolare e nazional-popolari, come la sua apparizione in un ristorante frequentato dalla gente comune per fare di lui il “presidente di popolo”. Infine, la sua ascesa non è contro il Partito come fu spesso nel caso di Mao – basti pensare alla Rivoluzione culturale – bensì del tutto interna al Partito stesso, di cui lui acuisce la presa sulla società, a cui lui restituisce centralità nella vita quotidiana dei cinesi.

Quindi direi che l’accentramento di Xi Jinping è indubbio, ma è un prodotto dell’apparato. La storia futura è ancora da scrivere, certamente gli esiti dell’ultimo congresso portano in direzione di un ulteriore accentramento del potere e sinceramente non so se questo è voluto oppure è una sorta di movimento inerziale, così come non so quanto corrisponda a un piano razionale che indubbiamente all’inizio c’era. Né ovviamente ho la più pallida idea di che esito avrà.

Il Congresso rimane un evento che coinvolge i quadri di un Partito di massa. Durante il resto dell’anno, però, si afferma che il PCC abbia lavorato a rivitalizzare la mobilitazione anche dei membri di base. Secondo la tua esperienza, quanto è profonda questa rivitalizzazione?

La mobilitazione è una delle chiavi fondamentali per comprendere cosa sta succedendo in Cina in questo momento e cosa succede in Cina sempre quando ci si trova di fronte a situazioni eccezionali, sia negative sia positive, può trattarsi di un disastro naturale o dell’organizzazione delle Olimpiadi. È qualcosa che noi non possiamo comprendere perché non viviamo in una società collettivista, ma è sia un momento in cui si risolvono problemi pratici, sia un momento in cui si offre un senso all’individuo sul suo stare in questa società.

È il momento in cui organismi di base fin lì silenti improvvisamente “si accendono” e si fanno carico della vita sociale, della vita quotidiana, mentre al tempo stesso il potere, dall’alto, sospende le normali consuetudini, taglia livelli della gerarchia e compie “affondi” fino alla base della società per risolvere problemi immediati e potenzialmente catastrofici.

Questa mobilitazione, a differenza della mobilitazione “di massa” che va da quando il Partito era clandestino oppure costituiva i soviet durante la guerra civile fino al tardo maoismo, con la Rivoluzione culturale, è a partire da Deng Xiaoping sempre più tecnocratica, delegata ai quadri di Partito e ai tecnici preposti a risolvere i problemi.

Per gli altri è la “mobilitazione a non mobilitarsi”, stare buoni e fermi senza peggiorare le cose finché il problema non si risolve, anche così si offre il proprio contributo.

Questo si è visto soprattutto con il Covid: da un lato si tagliano i livelli gerarchici e i vertici compiono un affondo, come a Wuhan e poi a Shanghai, quando i funzionari locali sono stati esautorati e da Pechino è arrivato il mister Wolf della situazione a ordinare politiche rapide, draconiane, che coinvolgono milioni di persone (nel caso di Shanghai, Miss Wolf, cioè Sun Chunlan che allora era l’unica donna nel Politburo); dall’altro lato, tutti i comitati di base, cioè il Partito all’interno del popolo, che interagisce con figure amministrative statali e agenzie private (per esempio amministrazioni di condominio) si attivano e dettano le regole spicciole, fanno i lavori necessari (come alzare barriere), mantengono l’ordine, organizzano la comunicazione, istruiscono e aiutano la popolazione; infine, la popolazione “si mobilita a non mobilitarsi”, accettando di sospendere la propria individualità e di fare sacrifici.

Questo modello può funzionare solo in Cina, da noi per esempio è impossibile che il tuo portinaio dall’oggi al domani ti imponga di star chiuso in casa; è molto efficace perché scatena grandi energie, fino a un certo punto è anche una forma di partecipazione, ma ovviamente non può durare all’infinito così come tutti le fasi eccezionali. Il problema di oggi è proprio quello: non se ne vede la fine.

Il congresso ha riconfermato la politica di “zero covid dinamico” e ha elevato a numero 2 del PCC Li Qiang, diventato il politico più odiato dalla comunità degli stranieri in Cina perché considerato colpevole della gestione ferrea (e a tratti maldestra) del lockdown di Shanghai. Nella società cinese che sentimenti si muovono rispetto a questa politica?

C’è molta stanchezza, per quello che riesco a percepire io, ma non c’è assolutamente una fase pre-rivoluzionaria. Chi può cerca di andarsene, altri invece stringono i denti pensando che fuori dalla Cina è anche peggio, con la guerra, la crisi economica, forse neppure il riscaldamento per il prossimo inverno. C’è chi mi assicura che comunque l’azzeramento dinamico ha ancora l’appoggio della maggioranza della popolazione, ne prendo atto e sinceramente non so, anche perché io osservo la realtà di una metropoli e in questo momento non mi è consentito fare inchiesta, magari nelle aree rurali (ma neppure in città, a dire il vero).

I timori riguardano soprattutto la perdita del lavoro e quindi del reddito, ma per ora mi sembra che i cinesi siano ancora nella fase del chi ku (mangiare amaro) che tante altre volte hanno sperimentato nella loro storia, anche se non manca l’esasperazione perché di fatto la tua vita è nelle mani di piccoli funzionari che interpretano le regole sempre in maniera molto restrittiva, per non correre rischi. Se la regola impone che la priorità assoluta è che nella tua area di competenza non ci siano casi di coronavirus, allora tu – funzionario di centesimo livello – diventi esageratamente zelante nel prevenire quella eventualità.

Così, se devi scegliere tra due possibilità, scegli sempre la più repressiva e drastica: “Questo qui arriva da fuori, gli faccio fare 3 giorni di quarantena in casa oppure sette in una struttura di isolamento anti-covid? Facciamo la seconda, và”. “Questo camion sta portando merce deperibile, lo faccio passare oppure metto l’autista in quarantena e lo parcheggio per una settimana lì di fianco? Meglio andar sicuri”.

Quindi ognuno si sente in ostaggio di scelte estemporanee e la tipica discrezionalità dei funzionari cinesi, che un tempo ti permetteva di fare tutto violando anche le regole, adesso va in direzione contraria, e diventa arbitrio. Una reazione è che nessuno prende iniziative, tanto poi quasi sicuramente non si realizzano. Gli eventi culturali in città sono bloccati, perfino andare al ristorante assume i connotati del rischio. Inoltre non mancano le esplosioni di rabbia di fronte a scelte assurde, la disperazione, anche i suicidi e le patologie psichiatriche. Chissà se quando storia sarà finita qualcuno riuscirà a fare uno studio completo su questo aspetto.

Nell’economia cinese si stanno accumulando molti problemi: l’invecchiamento della popolazione, l’effetto della guerra commerciale con gli USA, gli effetti di “zero covid dinamico” e della mordacchia alle grandi aziende hi-tech. Tra le conseguenze più visibili c’è un innalzamento della disoccupazione giovanile a livelli che non si vedevano da decenni, specie nelle aree urbane. Secondo te, questo sarà il “nuovo normale” anche a medio termine? Quali potrebbero essere le conseguenze nella società?

Questo è per me un grande dilemma. Ho sempre visto una logica nelle scelte della leadership cinese, anche quelle più estreme. Adesso vedo solo una grande contraddizione. È vero che ormai da qualche anno – anche prima del Covid – la sicurezza ha affiancato lo sviluppo economico come priorità. Anzi, la sicurezza di tutti i tipi (interna, esterna, alimentare, energetica, militare) è dichiaratamente il prerequisito della crescita economica.

Ma non riesco più a vedere i presupposti di quella crescita economica, ormai sicurezza e sviluppo mi sembrano in contraddizione. Certo, non vedo neanche una via d’uscita facile, non possono come da noi ordinare il “liberi tutti” dall’oggi al domani, passerebbero in men che non si dica da 5200 morti di Covid a settecentomila-un milione e quattrocentomila secondo le stime.

Al Congresso hanno detto che nell’ultimo decennio la Cina ha raddoppiato il volume della propria economia e ha avuto una crescita media del 6 per cento, più di chiunque altro. Evidentemente pensano di avere ancora margini di chi ku, mangiare amaro, ma non so per quanto.

Uno dei concetti più interessanti che è stato inserito nello Statuto del Partito è quello di “prosperità condivisa” su cui giustamente hai messo l’accento nei tuoi interventi, e generalmente poco considerato dagli osservatori.

Questo è normale perché nella logica delle opposte propagande che si è esasperata negli ultimi tre anni, di Cina si può parlare solo in termini negativi, come incubo repressivo o, in alternativa, società disfunzionale perché diversa dalla nostra. Invece mi pare che la gongtong fuyu, la prosperità condivisa, sia davvero tornata in auge e ormai non c’è discorso ufficiale che non la citi.

Il messaggio alla borghesia, per cui è finita la pacchia di arricchirsi senza vincoli e questo è subordinato a una più equa ridistribuzione, è passato senz’altro, tant’è che molti cercano di filarsela con il bottino. Nel linguaggio ufficiale hanno inserito il concetto delle tre forme di ridistribuzione delle risorse che è comunque qualcosa di molto compatibile con il neoliberismo: una prima forma è la classica allocazione di mercato; la seconda la ridistribuzione di Stato (cioè praticamente le tasse); la terza – che è la novità – è la beneficenza, la charity. Cioè, pochissima cosa.

Però la peculiarità cinese la rende forse più potente, perché qui vige il fattore “P”, la politica. Cioè, questo è un messaggio politico che arriva dall’alto, è cosa buona se fate fondazioni, charity, gesti concreti di benevolenza, e infatti le maggiori imprese si sono messe dall’oggi al domani a stanziare fondi “per la gongtong fuyu”, perché questo serve a restare nella correttezza politica e quindi nelle grazie del Partito comunista, anche se poi loro dicono che fanno tutto spontaneamente.

Insomma, è un nuovo tipo di scambio tra il Partito e il capitale. Non so dove porterà, ma l’intento per il 2035 è di realizzare la compiuta modernizzazione per tutti, senza lasciare nessuno indietro, idem per quanto riguarda il “grande ringiovanimento della nazione cinese” entro il 2049. Vedremo.

Fonte

Escalation bellica e radiazioni ionizzanti


Quelli nella foto non sono tre nuovi hamburger di McDonalds.

Gente come me potrebbe avere del gran superlavoro, nel prossimo futuro. Spero di no, ma ricordo diversi episodi recenti che possono portare all’hamburger di centro e a quello a destra, per chi sopravvive, ed è quindi fra i meno fortunati, perché questo delle ustioni è solo l’effetto più banale: la big thing è la ARS (non Assemblea Regionale Siciliana, ma Acute Radiation Syndrome).

Non sono tre nuovi hamburger di McDonalds.

1) La NATO comincia e continua l’espansione verso l’est Europa, in cerca del lebensraum missilistico e per basi militari. Putin continua a dire che se gliene fanno ancora una s’incazza a morte; ancora una, dai, vediamo che coraggio avete, dai, ancora una.

Però pare che i polacchi ed altri popoli slavi siano contentissimi di entrare nella NATO (non è un caso che negli USA le barzellette siano sui polacchi, eh), quindi Putin può solo strepitare.

2) In Ucraina però l’Occidente deve fare un golpe nel 2014, per rendere possibile il passaggio della nazione fra i “nostri”. Il regime che si instaura è essenzialmente composto da trucidi cazzoni razzisti, basterebbe poco, non perseguitare i russofoni che fino al 2014 hanno campato benissimo da ucraini, per evitare che si ribellino.

Gli accordi di Minsk del 2015 sembrano dar speranza alla pace, ma dopo pochi mesi l’Ucraina ne fa carta straccia, parte una guerra sanguinosa, 15.000 civili nel Donbass muoiono.

Dopo 8 anni le richieste di aiuto alla Russia, inascoltate per anni, vengono accolte: non improvvisamente, ma in maniera secondo me sbagliata: una “mezza guerra” che, ovviamente, non può esistere, se dura non poche settimane, ma mesi.

3) Guerra in Ucraina. Dopo pochi giorni, la NATO inizia i rifornimenti: la guerra si trasforma in guerra combattuta dagli Ucraini (esercito regolare, territoriali e miliziani neonazi) con armi NATO, e la Russia che ha schierato soltanto 150.000 uomini circa.

4) La Russia occupa quasi tutti i territori orientali russofoni, ma più passano i mesi più trova lungo, la NATO manda armi come se piovesse; Putin dice guardate che le armi moderne le abbiamo anche noi, di “ogni tipo”. Di ogni tipo? Voilà.

5) La Truss, la già dimenticata “demente inglese”, dice che non vede l’ora di avere l’onore di schiacciare il bottone. Sul fatto che 5 minuti dopo anche qualcun altro schiacci il proprio, non ci arriva a capirlo. Fortunatamente, almeno questa la cacciano.

6) Putin dice che la Russia non ha il first strike come dottrina, ma solo la risposta a un attacco nucleare o la messa in pericolo (della sopravvivenza, errata corrige, della “sicurezza”) della Federazione russa. Fra “sopravvivenza” (e chi li ammazza? 6400 ordigni atomici, territorio sterminato, oltre 200 milioni di abitanti) e “sicurezza”, però, ce ne corre. Leggendo questo, in mezzo alle mille balle blu di calendini vari, il sottoscritto si è cagato in mano.

7) Biden (bombe nucleari possedute versus totali: 5600 su 13000, bombe usate 2 su 2) dice che c’è un allarme nucleare nel mondo. Beh, giusto. Prima in Europa, però.

8) Zelensky dice che bisogna fare un attacco “preventivo” alla Russia con le atomiche, in modo che la Russia non usi le atomiche. A me fa anche pena, mi ricorda il povero Jaco Pastorius dei Weather Report, che brutta fine farà.

9) I Russi dicono che gli USA preparano una false flag con una esplosione di una bomba tattica nel Mar Nero. La NATO dice che è la Russia che vuole farla esplodere per mostrare i muscoli. Io che sono pacifista darei una rapida testata sulla faccia a tutti costoro.

10) I Russi dicono che l’Ucraina sta preparando con l’aiuto del figlio di Biden una bomba sporca, cioè una bomba normale impepata con materiali radioattivi. Possono farlo, speriamo di no come al solito.

11) Gli USA-NATO rimpinzano di nuove bombe atomiche tutta l’Europa. Pure in Italia, ma i pacifinti con l’elmetto del PD si guardano bene dal protestare. Pure in Italia, che pure avrebbe aderito al Trattato di Non Proliferazione che le impedisce di avere armi nucleari. Anche di “ospitarle”, per usare un eufemismo da schiavi leccaculo degli USA.

Quest’anno con i miei studenti ci occupiamo degli aspetti TECNICI, inclusi quelli medici, di cosa potrebbe capitare se questi irresponsabili, criminali, pervertiti di ogni parte politica, imbelli e dotati di visione simile a quella di una talpa, non la SMETTONO SUBITO.

Fonte

Venezuela - I progressi nella sovranità alimentare e la ripresa economica

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro, durante il cosiddetto Mercoledì Produttivo (giornata dedicata agli aspetti economici), ha annunciato che il Paese ha fatto progressi nella produzione e nella sovranità alimentare e pertanto prevede che il prossimo anno sarà all’insegna del benessere e della crescita.

“Con la Missione Alimentare, la Missione AgroVenezuela, i CLAP, le Case dell’Alimentazione e altri sforzi, abbiamo fatto progressi nella produzione e nella sovranità alimentare del Paese”, ha dichiarato il presidente sul suo account Twitter.

“Il 2023 promette di essere un anno di maggiore benessere e crescita”, ha sottolineato dunque Maduro.

In un altro messaggio pubblicato sul social network, il presidente Maduro ha affermato che “il Venezuela sta iniziando a consolidare l’obiettivo dell’autosufficienza”. Obiettivo imprescindibile per un paese sotto sanzioni draconiane volte a strangolarlo.

“Ci stiamo impegnando al massimo per raggiungere l’obiettivo delle esportazioni, grazie allo sforzo collettivo di consolidare le forze produttive della Patria su un percorso chiaro. Produrre è vincere, e noi stiamo vincendo”, ha dichiarato il leader bolivariano.

Nell’ambito del Mercoledì Produttivo, guidato dal Presidente Maduro, il Ministro dell’Agricoltura e dei Territori Urbani, Wilmar Castro, ha fatto una valutazione del Piano Produttivo Globale nel settore agroalimentare del Venezuela.

Castro ha precisato che l’anticipo della produzione è di 11.145.000 tonnellate di alimenti, di cui 7.800.000 corrispondono al settore agricolo e 3.342.000 al settore zootecnico.

“Il raccolto di mais di quest’anno è stato un raccolto molto importante, siamo riusciti a seminare 514.299 ettari, con una resa di 4,5 tonnellate per ettaro, dando una proiezione di 2.314.000 tonnellate di mais, raggiungendo così una cifra rappresentativa” mai registrata, ha ricordato il ministro.

Parlando dell’andamento della coltivazione del riso, Castro ha affermato che si è raggiunta una superficie di 67.000 ettari, tra gli Stati di Guárico e Portuguesa, che indica una crescita del 27% rispetto agli anni precedenti.

Il ministro ha quindi osservato che la coltivazione del caffè ha raggiunto i 223.000 ettari nel Paese sudamericano.

Il Ministro della Pesca e dell’Acquacoltura, Juan Carlos Loyo, ha dichiarato che il Venezuela ha registrato 118.000 tonnellate di catture alieutiche.

Economia in ripresa

Al contrario di quanto afferma una certa rozza propaganda anti-venezuelana (in Italia spicca il solito Fatto Quotidiano) che dimentica le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e utilizza dati inattuali e sorpassati, l’economia registra numeri positivi in termini di crescita, espansione e diversificazione nel corso del 2022.

“L’economia del Venezuela sta andando molto bene quest’anno nonostante il blocco, la persecuzione finanziaria, la persecuzione petrolifera, con più di 700 misure coercitive imperialiste unilaterali. Il Venezuela sta avanzando in termini di crescita, espansione e diversificazione economica”, ha sottolineato Nicolas Maduro.

Secondo il capo di Stato, la nazione bolivariana sta iniziando a sentire la nuova economia petrolifera post-rentier, che produce beni, servizi e ricchezza per il Paese.

Cooperazione con la Cina per la sovranità alimentare

Il Venezuela è da tempo impegnato con alleati come la Cina per raggiungere la completa sovranità alimentare. E forse sarebbe anche riuscito a raggiungere questo obiettivo se non fosse stato investito da un’ondata di sanzioni imperiali miranti a soffocare Caracas.

Nell’ormai lontano 2011, a tal proposito, Venezuela e Cina (Beidahuang) diedero vita a una impresa mista per aumentare la produzione alimentare nel paese sudamericano. Un paese storicamente costretto alla dipendenza dagli Stati Uniti che esportavano i propri prodotti in cambio del petrolio che il Venezuela possiede in abbondanza.

All’epoca dell’accordo il presidente Chavez evidenziava che l’azienda cinese Beidahuang era capace di produrre cibo per 100 milioni di abitanti.

L’accordo consentiva al Venezuela di attivare la produzione alimentare a livello bilaterale, nella formazione, nelle infrastrutture, nell’irrigazione, nei canali. Migliorando la vita degli agricoltori e della popolazione in generale.

Il Venezuela si era insomma avviato sulla strada giusta, come affermava anche la FAO, proprio nell’anno in cui gli Stati Uniti guidati da Barack Obama designavano Caracas una “minaccia inusuale e straordinaria alla sicurezza nazionale” dell’ingombrate vicino nordamericano.

“A nome dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, vorrei congratularmi con voi (…) Qui abbiamo un esempio molto vivido di come i contadini, le contadine, i consigli comunitari, i comuni e il governo stanno raggiungendo la sovranità e la sicurezza alimentare; quindi, congratulazioni a tutti voi per l’iniziativa”, affermava il rappresentate della FAO Marcelo Resende, in occasione dell’attivazione del piano nazionale per la produzione socialista di ortaggi e sementi agro-ecologiche.

Ribadiva inoltre, in una trasmissione della Venezolana de Televisión, la volontà della FAO di continuare a sostenere il Venezuela nello sviluppo della sua sovranità alimentare.

“C’è un momento nuovo in Venezuela (…) La FAO si unisce a questo progetto, che è di fondamentale importanza per l’agricoltura familiare”, aggiungeva, in riferimento al nuovo programma, promosso attraverso un accordo tra il Venezuela e il Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra del Brasile.

Nel giugno 2013, a Roma, la FAO riconosceva al Venezuela di aver raggiunto in anticipo l’obiettivo proposto dal Vertice Mondiale sull’Alimentazione, tenutosi nel 1996, in cui si stabiliva di dimezzare il numero di persone sottonutrite in ogni Paese entro il 2015.

Secondo i dati dell’Organizzazione, tra il 1990 e il 1992, il Venezuela registrava il 13,5% della popolazione che soffriva la fame, mentre tra il 2007 e il 2012 questa percentuale si attestava ad appena il 5%.

Il resto è poi storia nota: sanzioni draconiane, blocco economico, guerra economica e finanziaria. Il Venezuela grazie anche all’aiuto di alleati come Iran, Cina, Russia e Turchia, è riuscito a resistere agli assalti imperialisti e adesso torna a vedere la luce. Con i principali dati che indicano un paese addirittura meglio in salute rispetto ad altri della regione sudamericana che in questi anni venivano decantati come esempi virtuosi.

Fonte

Drone USA vola da Sigonella in Crimea nelle ore dell’attacco ucraino alla flotta russa


Offensiva ucraina contro la flotta russa a largo della città di Sebastopoli. Ancora incerto il numero delle unità navali colpite da missili e droni (forse anche subacquei); è stato tuttavia documentato il volo sulle acque prossime alla Crimea, nelle stesse ore, di un grande drone-spia Global Hawk della US Air Force decollato dalla base siciliana di Sigonella.

Il ruolo belligerante di NAS Sigonella è stato rivelato già in occasione dell’affondamento della nave ammiraglia della flotta russa, la fregata lanciamissili “Moskva” lo scorso 14 aprile, quando un pattugliatore Poseidon della US Navy di stanza in Sicilia seguì tutte le fasi dell’attacco ucraino, fornendo in particolare le coordinate nautiche della nave da guerra.

La Sicilia piattaforma di guerra USA e NATO nel Mar Nero...

Fonte

Guerra in Ucrainba - Attaccata la base russa di Sebastopoli

Le forze armate ucraine hanno effettuato ieri un pesante attacco alle navi russe della flotta del Mar Nero a Sebastopoli, utilizzando droni e sottomarini. Il ministero della Difesa russo afferma che nell’attacco sarebbero stati coinvolti nove droni e sette veicoli marini autonomi senza pilota. Un drone aereo e uno sottomarino sono stati distrutti.

Secondo l’agenzia russa Tass le navi della flotta del Mar Nero che sono state attaccate sono state coinvolte nella sicurezza del corridoio del grano utilizzato per esportare prodotti agricoli dai porti ucraini.

“Le navi della flotta del Mar Nero che sono state l’obiettivo dell’attacco terroristico sono coinvolte nel garantire la sicurezza del corridoio del grano nell’ambito dell’iniziativa internazionale per esportare prodotti agricoli dai porti ucraini“, ha affermato il ministero della Difesa russo.

Da Mosca sono partite accuse pesanti e specifiche alla Gran Bretagna per gli attacchi alla flotta del Mar Nero.

“Il ministero degli Esteri russo, insieme alle agenzie specializzate russe, sta valutando misure pratiche per quanto riguarda il coinvolgimento degli specialisti britannici nei preparativi per l’attacco terroristico nel Mar Nero del 29 ottobre e l’addestramento dell’esercito ucraino, come affermato dal ministero della Difesa russo“, ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakarova.

Le accuse di Mosca, secondo quanto riferisce la Tass, si estendono al sabotaggio dei gasdotti Nord Stream nel quale secondo la Russia sono stati coinvolti anche esperti della Royal Navy britannica, che stava preparando il personale militare del 73° Centro per le operazioni speciali marittime dell’Ucraina per il recente attacco terroristico a Sebastopoli.

Secondo il ministero, esperti britannici hanno anche preparato l’esercito ucraino per l’attacco terroristico a Sebastopoli. “La preparazione di questo atto terroristico e l’addestramento del personale militare del 73° Centro operativo speciale marittimo ucraino sono stati effettuati sotto la guida di specialisti britannici situati nella città di Ochakov, nella regione di Nikolaev“, ha affermato il dipartimento.

“Secondo le informazioni a nostra disposizione, i rappresentanti della Marina britannica hanno partecipato alla pianificazione, al supporto e all’esecuzione dell’atto terroristico nel Mar Baltico il 26 settembre al fine di interrompere i gasdotti Nord Stream e Nord Stream 2“, affermano le autorità russe.

La Gran Bretagna ha respinto la dichiarazione di Mosca. “Per distogliere l’attenzione dalla loro disastrosa gestione dell’invasione illegale dell’Ucraina, il ministero della Difesa russo sta ricorrendo alla diffusione di false affermazioni su scala epica“, ha dichiarato il ministero della Difesa britannico.

La Russia ha deciso di sospendere la sua partecipazione all’accordo sul grano dopo l’attacco alle navi ancorate a Sebastopoli e alle navi commerciali impiegate per la sicurezza del corridoio del grano, ha affermato il ministero della Difesa russo in una nota.

Mosca ha ufficialmente notificato al segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres la sospensione della partecipazione all’iniziativa sui cereali nel Mar Nero, si legge in una lettera che RIA Novosti ha potuto leggere.

“Tenendo conto dell’atto di terrorismo commesso dal regime di Kiev con la partecipazione di specialisti britannici il 29 ottobre 2022 contro le navi della Flotta del Mar Nero e le navi civili impiegate per salvaguardare la sicurezza del corridoio del grano, la Russia sospende la sua partecipazione all’attuazione degli accordi sulle esportazioni di prodotti agricoli dai porti ucraini“, si legge nella nota.

Fonte

29/10/2022

Mission (1986) di Roland Joffé - Minirece

Il lascito di Mike Davis

Milioni di persone sono morte, non al di fuori del ‘sistema mondiale moderno’,
ma nel processo stesso di incorporazione forzata nelle sue strutture economiche e politiche.
Sono morti nell’età d’oro del capitalismo liberale; in effetti, molti sono stati uccisi […]
dall’applicazione teologica dei sacri principi di Smith, Bentham e Mill.

Mike Davis

È stata una notizia veramente triste quella della scomparsa di Mike Davis avvenuta nei giorni scorsi su cui, tranne qualche cenno sui social, non è rimasta traccia.

Mike è stato un compagno, un attivista e – soprattutto – un autentico ricercatore sociale che ha determinato, con il suo pluridecennale impegno, un vero e proprio accumulo di conoscenza, di inchiesta e di sapere sociale su snodi e questioni attinenti alcune fenomenologie del moderno capitalismo.

Mike ha svolto il lavoro di camionista, ha faticato in un mattatoio fino a diventare professore presso l’Università della California. Nel corso degli anni è approdato alla teoria marxista e allo studio delle scienze sociali. I suoi interessi hanno riguardato il campo della antropologia, della statistica, della storia e della geografia. È stato redattore dell’importante rivista statunitense “New Left Review”.

Ebbi modo di conoscere questo autore quando, nella prima metà degli anni Novanta, arrivavano le notizie circa la rivolta di Los Angeles le quali disvelavano una realtà urbana, sociale e politica che – particolarmente nella nostra Italietta – erano totalmente sconosciute e rimosse non solo dal dibattito pubblico ma anche dalla discussione della compagneria italiana.

Era un periodo nel quale si era, ancora, ben lungi dall’elaborare il lutto politico derivante dalla dissoluzione del vecchio Partito Comunista. Una condizione ideologica e politica – questa – sostanzialmente di “pantano/stallo teorico” che non permetteva ai compagni di interpretare correttamente le novità, le rotture e gli eventi inediti che i fatti di Los Angeles ci consegnavano in maniera tumultuosa non solo negli Stati Uniti ma in tutto l’Occidente capitalistico.

Mike Davis ci fornì attraverso il suo testo “Città di quarzo” e le corrispondenze riportate dal quotidiano “il Manifesto” (che allora era ancora uno decente strumento di contro/informazione utile) puntuali resoconti e aggiornamenti circa la composizione di classe di quella città, le forme interrazziali di segmentazione sociale e le allora soggettività presenti.

Un contributo di notizie e dati che descrivevano una potente situazione originale che – sempre più – sarebbe stata, negli anni successivi, una convincente chiave di lettura delle crisi urbane nella contemporaneità capitalistica. Un fenomenologia che si è replicata non solo negli Stati Uniti come hanno dimostrato i vari Riot che si sono scatenati in altre metropoli in Europa e non solo.

Il testo di Mike fu per noi una sorte di abbecedario che ci introdusse in un campo analitico dove le metropoli (imperialiste) si trasformavano sotto i colpi delle varie ondate di ristrutturazione economiche, finanziarie e sociali che sconvolgevano l’assetto urbano, architettonico e spaziale.

Attraverso le inchieste e le ricerche di Mike abbiamo appreso la nuova qualità dei processi di governance capitalistica del territorio, gli intrecci con i flussi migratori e razziali e – soprattutto – la capacità del comando di mettere a valore l’intera forma/spazio territoriale. Insomma le aree metropolitane come magazzini della variegata forza lavoro spalmata sul territorio e foriere di un enorme accumulo di contraddizioni.

Infatti, nella stessa ricerca, in Italia, della Rete dei Comunisti – a proposito dell’analisi sulle trasformazioni intervenute nelle aree metropolitane – sviluppata attraverso convegni, opuscoli e sperimentazioni sul campo riecheggiano concetti e spunti analitici mutuati dalle elaborazioni di Mike Davis.

Ed è proprio interpretando la moderna forma/metropoli che lo studio di Mike continuò attraverso dei focus particolareggiati sul fenomeno materiale degli Slum ossia quelle aree territoriali (discariche umane e sociali a tutti gli effetti) a ridosso delle grandi megalopoli dove sopravvivono (secondo i dati delle Nazioni Unite) oltre un miliardo di persone.

Mike – con un pensiero controcorrente – affermava che queste allucinanti condizioni di vita non erano “un incidente dovuto alla cattiva pianificazione urbana ma un coerente e ricercato prodotto dei moderni fenomeni di industrializzazione e del complesso delle forme più estreme dello sviluppo capitalistico”.

Insomma una analisi dirompente ed eretica verso gli abituali clichè della “sinistra occidentale” la quale si è sempre cullata nel suo astratto positivismo (di derivazione secondo/internazionalista) e nella sconsiderata apologia dell’infinito sviluppo delle forze produttive la quale si è rivelata incapace di cogliere le novità e le controtendenze intervenute nella stessa dinamica temporale del Modo di Produzione Capitalistico.

Insomma un Mike Davis scandaglio delle patologie antisociali del capitale!

Del resto come dimenticare un testo – tornato tristemente di attualità durante la Crisi Pandemica Globale – come “Olocausti Tardovittoriani” dove Mike tratteggia l’opera complessa di manomissione e gli inenarrabili disastri che l’ascesa della borghesia e l’affermazione del “mercato mondiale” hanno provocato nell’impatto con “le nuove terre, con il mondo biologico e l’equilibrio naturale”.

Un “mercato mondiale” spietato e che ha fatto da incubatore delle innumerevoli forme del Colonialismo, dell’Imperialismo e del Neo/Colonialismo.

Una lezione teorica e politica preziosa e che – in un contesto internazionale di emergenza climatica ed accertata crisi dell’equilibrio ambientale della specie umana – occorre riprendere per approfondirla e socializzarla nelle mobilitazioni e nelle lotte che promuoviamo a scala globale

Salutiamo, quindi, la dipartita di Mike consapevoli – però – che i materiali che ha prodotto in questi decenni di studio e di battaglia culturale e politica non sono lettera morta o semplice materiale bibliografico ma fanno parte – pienamente – di quella “cassetta degli attrezzi” indispensabile a quel deciso cambiamento generale e sociale che, molti tra noi, definiscono come necessità della prospettiva socialista!

Fonte

Contenti e scontenti, senza i contanti

di Guido Salerno Aletta

Si legge dell'intenzione del governo di elevare a 10 mila euro il limite dell'importo per il quale si possono fare pagamenti in contanti anziché attraverso strumenti che garantiscano la tracciabilità della transazione.

Si è riaperta la solita polemica: c'è chi sostiene che in questa maniera si favorisce il "nero", l'evasione fiscale soprattutto da parte di commercianti ed artigiani, e c'è invece chi ritiene che l'attuale limite di 2.000 euro, e che dal 1° gennaio 2023 è già stabilito che scenda a soli 1.000 euro rappresenti una vera e propria vessazione, una ingiustificata limitazione della propria libertà. Ognuno, dei suoi soldi, deve poter fare l'uso legittimo che meglio crede, senza dover essere identificato.

Accade infatti che con gli strumenti di pagamento elettronico si sappia esattamente chi ha pagato una certa somma, in quale determinato momento è stato effettuato il pagamento ed a favore di quale beneficiario: poiché viene contestualmente emessa una ricevuta di pagamento, anch'essa elettronica poiché il registratore di cassa è collegato in rete con l'Agenzia delle Entrate, si possa risalire anche alla prestazione per la quale il pagamento è stato effettuato.

Non è un caso che, molto spesso, sulla ricevuta cartacea del pagamento risulti in calce l'avvenuto utilizzo di un sistema di moneta elettronica. In teoria, anche taluni esercenti potrebbero essere in grado di profilare la singola clientela, verificando nel tempo le abitudini di consumo.

Per incentivare l'uso dei pagamenti con moneta elettronica anche per le transazioni di piccolo importo, tempo fa il Governo era arrivato a lanciare sistemi di lotteria con premi o con il ristorno di una piccolissima frazione del pagamento. È possibile a livello sanitario, quando in Farmacia si fornisce la tessera sanitaria per ottenere lo sconto fiscale o l'abbuono del pagamento previsto per i medicinali richiesti con la ricetta del medico di base: si saprebbe esattamente quali e quanti farmaci sono stati presi, e da qui anche la patologia.

C'è un altro aspetto, assai meno dibattuto: l'importo che viene richiesto dal gestore del sistema di pagamento elettronico.

Dai bonifici agli addebiti sulla carta di credito, ai pagamenti di diversi servizi, occorre quasi sempre aggiungere la spesa per la commissione, anche un euro. Lo stesso accade per i prelievi di contanti dagli erogatori automatici di banconote che non appartengono al circuito bancario su cui sono depositati i fondi.

Ancora, sono i gestori che incassano i fondi a vedersi addebitata una commissione per il servizio di pagamento elettronico, che viene scalata dal corrispettivo.

La conclusione è chiara: il sistema dei pagamenti elettronici consente a chi li gestisce di incassare un bel po' di denari. Comunque si paga.

C'è anche un vantaggio, spesso sottovalutato: un tempo, i distributori di carburante erano spessissimo oggetto di rapine per gli incassi ingenti detenuti in contanti. Lo stesso succedeva ai tabaccai. E tante persone anziane erano scippate della pensione all'uscita dagli Uffici postali.

Ci sono meno teste rotte, meno fratture, meno colpi di pistola: in questo caso, l'innovazione è stata assolutamente positiva.

Ci sono aspetti che riguardano la libertà, e soprattutto la privacy, che vanno rispettati.

C'è un problema di evasione fiscale, da non sottovalutare.

Ci sono tanti bei guadagni da parte dei gestori dei sistemi di pagamento elettronico, ed anche questo va messo in conto. Ma il servizio in qualche modo va pagato.

Ci sono pro e contro, come sempre.

Fonte

Armi nucleari. Arrivano quelle “nuove”, anche in Italia

Gli Stati Uniti hanno deciso di accorciare i tempi del dispiegamento delle nuove bombe nucleari tattiche B61-12 potenziate in Europa sostituendo le B61 più “vetuste”. Dunque anche in Italia ed in particolare nelle basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone). Le nuove bombe dovrebbero essere consegnate alle basi NATO in Europa entro dicembre e non più nella primavera del 2023 come precedentemente previsto. A segnalarlo è il giornale statunitense Politico, citando un cablogramma diplomatico statunitense che rivela quanto riferito da funzionari statunitensi agli alleati della NATO durante una riunione a porte chiuse svoltasi a Bruxelles nei giorni scorsi.

La mossa, prevede la sostituzione delle armi nucleari più vecchie con la versione più recente nelle varie basi militari Usa e Nato in Europa per un potenziale utilizzo da parte di bombardieri e aerei da combattimento statunitensi e alleati.

Inutile dire che la decisione Usa arriva in una situazione di crescenti tensioni con la Russia, con l’evocazione dell’utilizzo delle armi nucleari in Ucraina e l’affermazione di una linea nella Nato secondo cui va fatto di più per dissuadere Mosca dall’attraversare quella linea.

Anticipare la data di sostituzione delle bombe nucleari nelle basi in Europa, è stata una sorpresa per molti osservatori, i quali temono che possa alimentare ulteriormente una situazione già pericolosa. L’annuncio dato all’incontro di Bruxelles è arrivato pochi giorni prima che la NATO iniziasse la sua esercitazione nucleare annuale, nota come Steadfast Noon che ha incluso circa 70 velivoli militari.

In Italia ci sono due basi militari dove sono collocati ordigni nucleari americani: Ghedi (Bs) e Aviano (Pn). Nella prima (Ghedi) la regola di ingaggio è quella del “Nato nuclear sharing group” dove il paese ospitante mette a disposizione il vettore. In pratica alcuni velivoli della nostra Aeronautica, oggi i Tornado e a breve gli F-35, sono dotati di bombe di questo genere. Una prima stima parla di 60 ordigni nucleari presenti in Italia ma secondo altre fonti ne risultano circa un centinaio.

Nella seconda base (Aviano) ci sono le bombe nucleri B-61, vale a dire bombe nucleari di fabbricazione americana per l’impiego tattico e strategico da caccia e bombardieri.

A Ghedi dunque ci sono dispositivi nucleari americani pronti a essere aviotrasportati dalla nostra Aeronautica Militare. Ad Aviano ci sono invece aerei Usa attrezzati per il trasporto e il lancio di ordigni di questo genere. Aviano è la base militare dove gli statunitensi si muovono in piena autonomia mentre a Ghedi ci sono regole militari condivise tra i Paesi Alleati.

In Europa sono schierate le varianti tattiche Mod.3 e Mod.4, con un potenziale regolabile fino ai 45-60 Kt. Le B-61 sono bombe nucleari di fabbricazione americana per l’impiego tattico e strategico da caccia e bombardieri.

In realtà, come spiegano i giuristi di Ialana, la sostituzione delle vecchie bombe nucleari con quelle nuove richiederebbe l’autorizzazione del Parlamento, ma non ci sembra che siano venute – né dal governo né dalle opposizioni – avvisaglie in tal senso.

La decisione Usa di anticipare lo stoccaggio delle nuove armi nucleari nelle basi militari in Europa è stata valutata negativamente dalla Russia. L’ambasciatore russo a Washington, Anatoli Antonov, ha sollecitato gli Stati Uniti a ritirare le testate nucleari dispiegate in paesi esteri. “In questo momento di tensioni e rischi aumentati, i Paesi nucleari hanno una responsabilità particolare per prevenire l’escalation. Per questo, torno a chiedere a Washington di riportare tutte le testate nucleari dispiegate all’estero in territorio nazionale, di eliminare le infrastrutture all’estero in cui sono immagazzinate e mantenute, e di rinunciare alla pratica delle simulazioni del loro impiego con forze di Paesi non nucleari nel quadro della missioni della Nato (come l’esercitazione in corso in questi giorni Steadfast Noon) che va contro i principi di base del Trattato di non proliferazione”, ha affermato Antonov.

Fonte