31/12/2011
Cosa resterà di questo 2011?
Oggi più che in ogni altra occasione, il pezzo di Raf assume inaspettato spessore perché una grossa fetta dei casini di questi 12 mesi affondano le proprie radici negli anni '80.
All'alba del 2012 ci resta l'abnorme debito pubblico esploso nel 2011 (chissà perché proprio ora) e nato negli anni '80 di Craxi; ci resta un Medio Oriente in fiamme come non lo sì ricordava dai tempi dell'operazione Pace in Galilea e del conflitto tra Iran e Iraq; ci resta la Libia decapitata del proprio Rais come sognavano gli Stati Uniti all'indomani dell'operazione Eldorado Canyon, ma soprattutto ci resta lo strapotere di quella finanza nata ed esaltata nel decennio d'oro di Wall Street, che in 30 anni ha demolito le conquiste sociali maturate nei 30 anni precedenti.
A sto punto mi viene da dire che degli anni '80 c'è rimasto pure troppo e guarda caso, solo il peggio, per questo saluterei con favore un 2012 più o meno aderente al cambiamento "catastrofico" descritto nelle profezie Maya. Ne abbiamo bisogno, la vita in questo mondo è diventata troppo penosa per essere (ancora) sopportata.
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Person of the Year 2011: Alberto Perino
La persona dell'anno del blog è un cittadino italiano. Vive in Val di Susa. Si chiama Alberto Perino.
E' un punto di riferimento del MoVimento No Tav. E' stato denunciato,
minacciato, diffamato, isolato. E' odiato dai partiti e da sempre nel
mirino della magistratura. Un montanaro, rude, con la barba e l'accento
piemunteis. E' un eroe civile. Un italiano che dedica la vita alla sua
comunità. Che sfida il Potere, quello con la P maiuscola. Quanti possono dire lo stesso?
La Tav è un mostro che può divorare la Val di Susa e forse inghiottire l'intera Nazione. In gioco ci sono 22 miliardi di euro dello Stato italiano (la UE ne finanzierà solo una piccola parte) per un tunnel di 50 km per trasportare merci che sono in diminuzione da almeno 10 anni. Non serve a nulla e allora a cosa serve? Perché qualunque governo a partire dalla fine degli anni '80 mette la Tav tra le sue priorità? Da Prodi a Berlusconi? Perché Fassino nel suo primo discorso da sindaco ha citato subito la Tav come irrinunciabile, come se avesse il pepe al culo, chi glielo ha messo? E per quali insondabili ragioni il governo "tecnico" Monti si è affrettato a firmare il trattato italo-francese per l'inizio dei lavori? E ben due neoministri, Passera e Clini, hanno affermato nella prima intervista che la Tav s'ha da fare assolutamente? Nessun partito si è mai opposto alla Tav quando a tutti, persino a professori universitari e a tecnici, è ormai chiaro che è un furto colossale nei confronti dei cittadini italiani. Ci sono montagne di documenti che provano l'inutilità di questo progetto, ma neppure uno a favore, solo frasi fatte come "Chi non la vuole è contro il progresso" o "E' necessario per collegarsi all'Europa". Cazzate propinate dai giornalisti di regime.
L'elenco di chi vuole la Tav a qualunque costo, anche di trasformare una tra le più civili valli alpine in un territorio militarizzato come l'Afghanistan (non avvenne neppure durante l'occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale) è impressionante. Ci sono le banche, tutti i partiti, le cooperative rosse, le cooperative bianche, la 'ndrangheta, le cosiddette Istituzioni, dalla Presidenza della Repubblica alla Regione Piemonte, le Ferrovie dello Stato, la Francia, i giornali, dalla Repubblica al Corriere della Sera. Contro la Tav ci sono solo semplici cittadini come Perino, valsusini che proteggono la loro terra da uno scempio insensato e per questo sono trattati da criminali, da bifolchi montanari, da retrogradi, da black bloc.
Il Potere sa che se perde in Val di Susa perderà ovunque ci siano movimenti di cittadini informati. Perderà per la Gronda, per la base americana Da Molin di Vicenza, perderà per il Ponte di Messina, perderà per l'Expo2015 di Milano. La Val di Susa può diventare la Waterloo dei partiti e del Sistema che rappresentano. La fine dell'esproprio della democrazia. Uno, cento, mille Perino. A sarà dura!
Fonte.
La Tav è un mostro che può divorare la Val di Susa e forse inghiottire l'intera Nazione. In gioco ci sono 22 miliardi di euro dello Stato italiano (la UE ne finanzierà solo una piccola parte) per un tunnel di 50 km per trasportare merci che sono in diminuzione da almeno 10 anni. Non serve a nulla e allora a cosa serve? Perché qualunque governo a partire dalla fine degli anni '80 mette la Tav tra le sue priorità? Da Prodi a Berlusconi? Perché Fassino nel suo primo discorso da sindaco ha citato subito la Tav come irrinunciabile, come se avesse il pepe al culo, chi glielo ha messo? E per quali insondabili ragioni il governo "tecnico" Monti si è affrettato a firmare il trattato italo-francese per l'inizio dei lavori? E ben due neoministri, Passera e Clini, hanno affermato nella prima intervista che la Tav s'ha da fare assolutamente? Nessun partito si è mai opposto alla Tav quando a tutti, persino a professori universitari e a tecnici, è ormai chiaro che è un furto colossale nei confronti dei cittadini italiani. Ci sono montagne di documenti che provano l'inutilità di questo progetto, ma neppure uno a favore, solo frasi fatte come "Chi non la vuole è contro il progresso" o "E' necessario per collegarsi all'Europa". Cazzate propinate dai giornalisti di regime.
L'elenco di chi vuole la Tav a qualunque costo, anche di trasformare una tra le più civili valli alpine in un territorio militarizzato come l'Afghanistan (non avvenne neppure durante l'occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale) è impressionante. Ci sono le banche, tutti i partiti, le cooperative rosse, le cooperative bianche, la 'ndrangheta, le cosiddette Istituzioni, dalla Presidenza della Repubblica alla Regione Piemonte, le Ferrovie dello Stato, la Francia, i giornali, dalla Repubblica al Corriere della Sera. Contro la Tav ci sono solo semplici cittadini come Perino, valsusini che proteggono la loro terra da uno scempio insensato e per questo sono trattati da criminali, da bifolchi montanari, da retrogradi, da black bloc.
Il Potere sa che se perde in Val di Susa perderà ovunque ci siano movimenti di cittadini informati. Perderà per la Gronda, per la base americana Da Molin di Vicenza, perderà per il Ponte di Messina, perderà per l'Expo2015 di Milano. La Val di Susa può diventare la Waterloo dei partiti e del Sistema che rappresentano. La fine dell'esproprio della democrazia. Uno, cento, mille Perino. A sarà dura!
Fonte.
La vita è una cosa meravigliosa!
Ci sono 365 giorni in un anno (366 i bisestili). Se li moltiplichiamo per una vita media di 78 anni, corrispondono a circa 28.489 giorni. Non è quindi molto il tempo a nostra disposizione. Un conto veloce alla rovescia, ogni giorno un granello nella clessidra. Come spendiamo questo gruzzolo limitato prima di tirare le cuoia? Mezz’ora al cesso al giorno sono circa 1.6 anni di vita spesi sulla tazza a cagare. Due ore di viaggio per 200 giorni per una vita lavorativa di 40 anni sono 1,8 anni passati su metro, autobus, treni pieni di pendolari con la puzza sotto le ascelle. E parcheggiare la macchina? Diciamo un quarto d’ora al giorno per 40 anni, dalla patente in avanti? Il conto è di circa 152 giorni. E le code alla posta, negli uffici pubblici, all’ASL, per l’acquisto di un biglietto? Ipotizziamo un forfait di quattro ore al mese per 60 anni. Sono ben 120 giorni, h24, in coda. Per la pulizia, dipende dalle persone, una buona media tra igienisti e sozzoni è di un’ora al giorno. Sono circa 3,3 anni tra vasca da bagno e doccia. Il tempo per scopare è purtroppo ridotto al minimo (siamo troppo occupati a parcheggiare, cagare e a stare in coda). Una media di 15 minuti settimanali per 40 anni ci può stare. Sono ben due ore al mese! 40 giorni complessivi in tutta un’esistenza per i più attivi sessualmente. Su 28.740 giorni complessivi sono lo 0,08 per cento. La vita è una cosa meravigliosa.
Fonte.
Fonte.
Iraq: vittoria o sconfitta degli USA?
Negli scorsi giorni si è concluso il ritiro
delle truppe americane dall'Iraq; ritiro pressoché completo: resteranno
infatti (ufficialmente) soltanto 150 soldati USA, a difesa
dell'elefantiaca ambasciata americana a Baghdad, ed un migliaio di
"contractors", cioè mercenari pagati sino a mille dollari al giorno ed
incaricati di lavori di "sorveglianza" degli interessi economici
statunitensi.
La fine dell'occupazione dell'Iraq ha però qualcosa che stona con la prassi delle guerre vinte (ma stavolta hanno vinto?) dagli USA; tale prassi prevede infatti l'occupazione del Paese nemico, l'annientamento degli avversari, il processo "purificatore" ai vinti (in questo caso l'impiccagione di Saddam Hussein e di altri gerarchi), la costituzione di un governo "amico" ed, infine, la creazione di un sistema di presidio militare che sostituisca l'occupazione vera e propria attraverso la creazione di basi militari, al di fuori di qualsiasi giurisdizione del Paese ospitante, che assicurino il controllo interno e la proiezione verso eventuali Paesi vicini. Nel nostro caso viene a mancare l'ultimo passo: cioè la presenza di basi militari permanenti in territorio iracheno. Questa mancanza è dovuta al rifiuto categorico del governo di Nouri Al Maliki di concedere l'incontrollabilità delle attività militari e l'impunità civile e penale alle eventuali truppe americane restanti. Questo rifiuto è, a sua volta, strettamente legato al non verificarsi di un'altra condizione prima indicata: la creazione di un governo "amico", cioè pronto a qualsiasi collaborazione con l'ex occupante. Infatti delle tre componenti etnico/confessionali che compongono l'Iraq (curdi, sunniti, sciiti) nessuna ha manifestato vera gratitudine e sottomissione verso gli americani; ovviamente non i sunniti, usciti umiliati e ridimensionati dalla cancellazione del partito Baath e dall'uccisione del loro leader; nemmeno i curdi a causa il palese appoggio che gli USA danno alla Turchia nella feroce repressione, accompagnata da sconfinamenti militari turchi in territorio iracheno, dell'irredentismo curdo nelle terre contese. Infine nemmeno gli sciiti, in maggioranza nel Paese, che in teoria sono stati "liberati" dal giogo di Saddam Hussein, si sono dimostrati molto caldi verso gli americani: i loro partiti (il Da'wa del premier Al Maliki, lo Sciri del vice premier Abd Al Mahdi ed il raggruppamento dell'influente clerico Moqtada Al Sadr) sono infatti, chi più chi meno, strettamente legati alla Potenza sciita egemone: l'Iran, fiero nemico degli Stati Uniti e mai si presterebbero a manovre anti iraniane che, fatalmente, avrebbero origine da basi statunitensi in Iraq non controllabili e non censurabili.
A questo punto Barack Obama aveva due opzioni: o forzare la mano e, comunque, lasciare un presidio militare, ricordando agli iracheni che gli USA avevano vinto la guerra contro l'Iraq e non solo contro Saddam Hussein (con tutte le conseguenze del caso), o rinunciare ad una presenza militare definitiva. Obama, stavolta saggiamente, ha scelto la seconda opzione.
Le procedure di disimpegno delle truppe statunitensi dal suolo iracheno, peraltro, non sono state esaltanti: alcune divisioni aviotrasportate hanno organizzato una cerimonia d'addio all'aeroporto di Baghdad con grande spiegamento di elicotteri da combattimento che, fermi a mezz'aria, controllavano che non ci fossero nidi di insorti muniti di lanciarazzi; il Segretario alla difesa, Leon Panetta, è arrivato all'ultimo momento, senza che ne fosse stata annunciata la presenza, mentre i posti riservati per il presidente iracheno Talabani e per il premier Al Maliki sono rimasti, molto significativamente, vuoti.
Insomma, un abbandono sotto tono di un Paese non sottomesso, molto simile a quello di Saigon nella primavera del 1975, piuttosto che il coronamento di un lungo processo di "esportazione della democrazia", che avrebbe dovuto essere accompagnato da festose manifestazioni di popolo.
A tal proposito Robert Pipes, autorevole "falco" repubblicano molto vicino all'ex presidente G.W.Bush, parla chiaramente di "sconfitta". "Sognavamo per l'Iraq", dice Pipes, "un nuovo 1945, come fu per l'Italia, la Germania ed il Giappone; cioè conquiste di Nazioni in cui avevamo portato la democrazia ed imposto la condivisione dei futuri interessi statunitensi, quali che essi fossero. Lasciamo invece un Paese ancora instabile, non dichiaratamente nostro nemico, ma nemmeno pronto a seguirci nelle nostre strategie, un Paese infido di cui non è possibile stabilire, al presente, il comportamento politico. Questa io la chiamo una sconfitta."
La fine dell'occupazione dell'Iraq ha però qualcosa che stona con la prassi delle guerre vinte (ma stavolta hanno vinto?) dagli USA; tale prassi prevede infatti l'occupazione del Paese nemico, l'annientamento degli avversari, il processo "purificatore" ai vinti (in questo caso l'impiccagione di Saddam Hussein e di altri gerarchi), la costituzione di un governo "amico" ed, infine, la creazione di un sistema di presidio militare che sostituisca l'occupazione vera e propria attraverso la creazione di basi militari, al di fuori di qualsiasi giurisdizione del Paese ospitante, che assicurino il controllo interno e la proiezione verso eventuali Paesi vicini. Nel nostro caso viene a mancare l'ultimo passo: cioè la presenza di basi militari permanenti in territorio iracheno. Questa mancanza è dovuta al rifiuto categorico del governo di Nouri Al Maliki di concedere l'incontrollabilità delle attività militari e l'impunità civile e penale alle eventuali truppe americane restanti. Questo rifiuto è, a sua volta, strettamente legato al non verificarsi di un'altra condizione prima indicata: la creazione di un governo "amico", cioè pronto a qualsiasi collaborazione con l'ex occupante. Infatti delle tre componenti etnico/confessionali che compongono l'Iraq (curdi, sunniti, sciiti) nessuna ha manifestato vera gratitudine e sottomissione verso gli americani; ovviamente non i sunniti, usciti umiliati e ridimensionati dalla cancellazione del partito Baath e dall'uccisione del loro leader; nemmeno i curdi a causa il palese appoggio che gli USA danno alla Turchia nella feroce repressione, accompagnata da sconfinamenti militari turchi in territorio iracheno, dell'irredentismo curdo nelle terre contese. Infine nemmeno gli sciiti, in maggioranza nel Paese, che in teoria sono stati "liberati" dal giogo di Saddam Hussein, si sono dimostrati molto caldi verso gli americani: i loro partiti (il Da'wa del premier Al Maliki, lo Sciri del vice premier Abd Al Mahdi ed il raggruppamento dell'influente clerico Moqtada Al Sadr) sono infatti, chi più chi meno, strettamente legati alla Potenza sciita egemone: l'Iran, fiero nemico degli Stati Uniti e mai si presterebbero a manovre anti iraniane che, fatalmente, avrebbero origine da basi statunitensi in Iraq non controllabili e non censurabili.
A questo punto Barack Obama aveva due opzioni: o forzare la mano e, comunque, lasciare un presidio militare, ricordando agli iracheni che gli USA avevano vinto la guerra contro l'Iraq e non solo contro Saddam Hussein (con tutte le conseguenze del caso), o rinunciare ad una presenza militare definitiva. Obama, stavolta saggiamente, ha scelto la seconda opzione.
Le procedure di disimpegno delle truppe statunitensi dal suolo iracheno, peraltro, non sono state esaltanti: alcune divisioni aviotrasportate hanno organizzato una cerimonia d'addio all'aeroporto di Baghdad con grande spiegamento di elicotteri da combattimento che, fermi a mezz'aria, controllavano che non ci fossero nidi di insorti muniti di lanciarazzi; il Segretario alla difesa, Leon Panetta, è arrivato all'ultimo momento, senza che ne fosse stata annunciata la presenza, mentre i posti riservati per il presidente iracheno Talabani e per il premier Al Maliki sono rimasti, molto significativamente, vuoti.
Insomma, un abbandono sotto tono di un Paese non sottomesso, molto simile a quello di Saigon nella primavera del 1975, piuttosto che il coronamento di un lungo processo di "esportazione della democrazia", che avrebbe dovuto essere accompagnato da festose manifestazioni di popolo.
A tal proposito Robert Pipes, autorevole "falco" repubblicano molto vicino all'ex presidente G.W.Bush, parla chiaramente di "sconfitta". "Sognavamo per l'Iraq", dice Pipes, "un nuovo 1945, come fu per l'Italia, la Germania ed il Giappone; cioè conquiste di Nazioni in cui avevamo portato la democrazia ed imposto la condivisione dei futuri interessi statunitensi, quali che essi fossero. Lasciamo invece un Paese ancora instabile, non dichiaratamente nostro nemico, ma nemmeno pronto a seguirci nelle nostre strategie, un Paese infido di cui non è possibile stabilire, al presente, il comportamento politico. Questa io la chiamo una sconfitta."
Saranno gli Usa ad attaccare l'Iran?
Nelle ultime settimane si vanno moltiplicando le
prese di posizione statunitensi sulla questione dell'attacco preventivo
all'Iran. Attacco preventivo, è il caso di premettere, che la dottrina
politico-militare statunitense non esclude a priori, nonostante il
diritto internazionale non lo riconosca come legittimo. Fin dal 1984,
infatti, la cosiddetta "dottrina Shultz", dal nome del segretario di
Stato durante la presidenza Reagan, aveva accolto con favore questa
possibilità, legittimando azioni militari preventive, anche segrete; con
il documento ufficiale americano sulla sicurezza nazionale del 2002,
poi, tale concetto è stato esplicitamente introdotto nella dottrina
militare nordamericana:
"studiosi e giuristi di diritto internazionale condizionano spesso la legittimazione dell'intervento preventivo (preemption) ad una minaccia imminente, generalmente una visibile mobilitazione di eserciti, unità navali e forze aeree in preparazione di un attacco. Noi dobbiamo adattare il concetto di minaccia imminente (imminent threat) alla capacità ed agli obiettivi degli avversari odierni. Gli stati canaglia ed i terroristi non cercano di attaccarci usando mezzi convenzionali. (...) Gli Stati Uniti hanno a lungo considerato valida l'opzione di azioni preventive (preemptive actions) per contrastare un'effettiva minaccia (sufficient threat) alla nostra sicurezza nazionale. Maggiore la minaccia, maggiore il rischio in caso di inazione - e maggiormente cogente l'esigenza di intraprendere azioni anticipatorie per difenderci, anche se rimane incerto il momento ed il luogo dell'attacco nemico. Per anticipare o prevenire simili atti ostili da parte dei nostri avversari gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente (act preemptively)" (1).
Il 16 dicembre scorso, il presidente Obama, parlando alla Union of Reform Judaism (organizzazione ebraica del giudaismo modernista) passa dal concetto difensivo, "un Iran nucleare è inaccettabile", a quello offensivo, "siamo decisi a prevenire l'acquisizione di armi nucleari da parte dell'Iran": dove viene fatto quindi esplicito riferimento al documento strategico nazionale del 2002.
Il 19 dicembre scorso, il segretario alla Difesa Panetta, fino a quel momento uno dei più decisi assertori dei rischi derivanti da un attacco contro l'Iran, improvvisamente dichiara che l'Iran potrebbe acquisire entro un anno la bomba nucleare e che questa è la "linea rossa" raggiunta la quale il governo Usa "adotterà qualsiasi passo necessario per affrontare la situazione".
Il 20 dicembre, il presidente del consiglio dei comandanti in capo delle Forze Armate Usa, gen. Martin Dempsey, dichiara alla CNN che "le opzioni che stiamo sviluppando hanno raggiunto un punto che le rende eseguibili ove necessario", e aggiunge: "la mia maggiore preoccupazione è che gli Iraniani sottovalutino la nostra determinazione".
Il 21 dicembre, Dennis Ross, uno degli strateghi filo-israeliani che da oltre trent'anni opera nelle posizioni più rilevanti della politica estera americana trasversalmente a tutte le amministrazioni Usa, come ho già avuto modo di documentare dettagliatamente (2), dichiara alla televisione israeliana Channel 10 che il presidente Obama sarebbe pronto a "fare un certo passo", se necessario, e che "questo vuol dire che quando tutte le opzioni sono sul tavolo, se si sono esauriti tutti gli altri mezzi, si fa quello che è necessario".
Il 22 dicembre il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, dopo avere svolto negli Usa una serie di incontri coi massimi vertici politico-militari americani (vedi clarissa.it ), dichiara, a commento delle dichiarazioni ricordate finora: "esse confermano un fatto che ci era già noto a seguito dei nostri incontri riservati. Queste dichiarazioni mettono in chiaro all'Iran che si trova difronte ad un bivio vero e proprio".
Il 23 dicembre, infine, viene pubblicato sulla prestigiosa rivista del Council on Foreign Relations, Foreign Affairs, il contributo di Matthew Kroenig, un giovane promettente esperto delle problematiche dell'anti-terrorismo, con una già brillante carriera alle spalle: prima come analista militare della Cia nel 2004; poi come membro dell'ormai famoso Policy Planning Staff, l'ufficio di pianificazione politica del ministero della difesa nel 2005, periodo nel quale afferma di avere elaborato il primo piano di deterrenza Usa contro le reti terroristiche; quindi membro del già citato Council of Foreign Relations, il più importante think-tank di politica internazionale statunitense, nel quale ha più volte rivestito il ruolo di consigliere; infine, dal 2010 al luglio 2011, consigliere speciale del ministro della Difesa Usa per lo sviluppo e l'attuazione della politica e la strategia di difesa americane in Medio Oriente.
Questo testo, intitolato senza mezzi termini "Il momento di attaccare l'Iran - perché un attacco è il male minore" (3), è un'accurata analisi delle obiezioni finora sollevate contro l'ipotesi di una attacco militare chirurgico americano contro le installazioni nucleari iraniane. Kroenig si propone di dimostrare che "la verità è che un attacco militare rivolto a distruggere il programma nucleare dell'Iran, se gestito con attenzione, potrebbe evitare alla regione [mediorientale] ed al mondo una minaccia davvero concreta e potrebbe aumentare straordinariamente la sicurezza nazionale degli Usa a lungo termine".
Kroenig esamina i rischi di una politica di semplice deterrenza, per concludere che la "deterrenza implicherebbe giganteschi costi economici e geopolitici e dovrebbe essere mantenuta fintantoché l'Iran resta ostile agli interessi Usa, vale a dire come minimo per decenni". Afferma che militarmente, grazie in special modo alle nuove bombe ad lato potenziale ed alta penetrazione (MOD, Massive Ordnance Penetrator), la distruzione dei maggiori siti nucleari iraniani è tecnicamente fattibile, senza il rischio di grandi perdite fra i civili. L'attacco, se ben condotto, potrebbe nello stesso tempo rendere chiaro all'Iran che è consigliabile evitare un allargamento del conflitto ed evitare anche brillantemente, come già avvenuto con l'Iraq, il rischio di un intervento diretto israeliano. Anche da quest'ultimo punto di vista, prima l'attacco viene attuato e meglio è, sia per prevenire autonome operazioni israeliane, sia per evitare il rafforzamento dell'Iran e l'adozione di maggiori misure di protezione dei siti obiettivo. Per concludere:
"Con i conflitti in Afghanistan ed in Iraq in via di esaurimento e con gli Usa che stanno affrontando una dura crisi economica all'interno, gli Americani hanno poca voglia di ulteriori scontri. Tuttavia il rapido sviluppo del programma nucleare iraniano costringerà prima o poi gli Usa a scegliere tra un conflitto convenzionale ed una possibile guerra nucleare. Di fronte a questa decisione, gli Stati Uniti devono condurre un attacco chirurgico contro le installazioni nucleari iraniane, assorbire l'inevitabile ritorsione e quindi tentare rapidamente di evitare l'escalation della crisi. Affrontare subito questa minaccia eviterà agli Usa di affrontare una situazione assai più pericolosa in futuro".
Alcuni commentatori israeliani, i più attenti in questo momento alla posizione Usa, interpretano come sintomo particolarmente significativo di una nuova impostazione americana questa lunga serie di prese di posizione e cominciano ad ipotizzare che davvero Obama potrebbe essersi convinto che l'attacco americano ai reattori iraniani sia preferibile ad un'autonoma azione israeliana, per una serie di ragioni importanti: in primo luogo, l'attacco Usa eviterebbe ai Paesi arabi di doversi affiancare all'Iran, cosa che non potrebbero evitare di fare nel caso in cui fosse lo Stato ebraico a colpire; poi, il recente ritiro delle truppe dall'Iraq evita agli Usa di offrire il destro a possibili ritorsioni, in un'area che gli iraniani potrebbero essere in grado di raggiungere; infine, Obama potrebbe essere tentato di adottare l'opzione militare anche alla luce delle elezioni dell'autunno 2012, perché in questo modo spunterebbe una delle armi più insidiose della propaganda repubblicana, l'accusa di essersi dimostrato debole nella politica estera, mediorientale in special modo (4).
La stessa questione siriana, del resto, potrebbe avere una lettura più rivolta all'Iran ed al Libano che non all'obiettivo di abbattere Assad. I sintomi sono tanti: il rapimento di tecnici iraniani ospitati nel paese; lo spostamento di alcune unità americane ritirate dall'Iraq in prossimità della frontiera giordana che fronteggia il sud della Siria; la pressione militare turca da nord sul regime di Damasco; la possibilità che la caduta del regime di Assad crei le condizioni per un regolamento dei conti finale con Hezbollah in Libano, magari utilizzando i risultati dell'inchiesta sull'uccisione di Hariri, finora congelata nei suoi effetti giuridici. Caduto il regime di Assad in Siria, l'Iran si troverebbe completamente isolato e circondato da Paesi in grado di ospitare forze militari ostili.
L'Iran per parte sua, proprio negli ultimi giorni, sta concentrando le proprie mosse dimostrative politico-miliari sul golfo di Hormuz, quasi a richiamare l'attenzione mondiale su l'effetto ritenuto più immediato di un'eventuale crisi militare nel Golfo - la possibile interruzione del flusso del petrolio, in un momento in cui la crisi economica mondiale non ha certo bisogno di un rialzo del prezzo delle materie prime strategiche. Nei giorni di Natale, l'Iran ha infatti svolto delle esercitazioni navali, assai modeste tecnicamente ma molto propagandate, proprio nell'area dello stretto. Proprio mentre l'amministrazione Obama si prepara a varare ulteriori misure economiche che porterebbero ad un vero e proprio strangolamento economico dell'Iran, il primo vice-presidente Mohammad-Reza Rahimi ha poi dichiarato che "nemmeno una goccia di petrolio passerà dallo stretto di Hormuz", nel caso in cui gli Usa decidessero di imporre sanzioni che minaccino di impedire le esportazioni petrolifere iraniane.
Non è quindi facile stabilire quanto la nuova posizione americana intenda semplicemente accrescere la pressione politica sull'Iran e quanto essa preluda invece realmente all'opzione militare. Certo è che sul piano strategico complessivo, l'eliminazione della questione iraniana nel 2012 rappresenterebbe un risultato decisivo per gli Stati Uniti, consentendo di presentare al mondo un Medio Oriente dal quale sono stati spazzati via tutti i nemici degli Usa e di Israele, un'area da plasmare secondo il modello della Primavera Araba, che, pur senza risolvere nessuno dei problemi del mondo arabo né del Medio Oriente, ha però sicuramente eliminato dalla scena qualsiasi forza anti-occidentale ed anti-israeliana, in particolare gli ultimi residui del nazionalismo arabo, il cui terzaforzismo aveva molto impensierito gli anglo-sassoni per alcuni decenni: in cambio, promette al futuro di questi Paesi una frammentazione etnico-religiosa che non promette nulla di buono per la loro stabilità interna.
Certamente in queste settimane decisive una serrata partita di diplomazia e di intelligence è sicuramente in corso anche fra Usa ed Israele: lo Stato ebraico ha infatti tutto l'interesse a che siano gli Usa a incaricarsi dell'eliminazione dell'ultimo possibile avversario, ma non intende aspettare ancora molto prima di colpire, sapendo di essere perfettamente in grado di farlo; gli Stati Uniti devono valutare fino a che punto il proprio impegno diretto in Iran consentirà poi loro davvero di controllare, in un eventuale Medio Oriente normalizzato, l'ambizioso alleato. L'esperienza del passato ci insegna infatti che il solo reale beneficiario di un attacco militare contro l'Iran sarà lo Stato ebraico, che, regnando sul Medio Oriente come unica, incontrastabile potenza economica politica e militare, sarà pronto a risolvere in modo draconiano anche il problema palestinese.
In ogni caso, la pace resterà ancora molto lontana.
"studiosi e giuristi di diritto internazionale condizionano spesso la legittimazione dell'intervento preventivo (preemption) ad una minaccia imminente, generalmente una visibile mobilitazione di eserciti, unità navali e forze aeree in preparazione di un attacco. Noi dobbiamo adattare il concetto di minaccia imminente (imminent threat) alla capacità ed agli obiettivi degli avversari odierni. Gli stati canaglia ed i terroristi non cercano di attaccarci usando mezzi convenzionali. (...) Gli Stati Uniti hanno a lungo considerato valida l'opzione di azioni preventive (preemptive actions) per contrastare un'effettiva minaccia (sufficient threat) alla nostra sicurezza nazionale. Maggiore la minaccia, maggiore il rischio in caso di inazione - e maggiormente cogente l'esigenza di intraprendere azioni anticipatorie per difenderci, anche se rimane incerto il momento ed il luogo dell'attacco nemico. Per anticipare o prevenire simili atti ostili da parte dei nostri avversari gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente (act preemptively)" (1).
Il 16 dicembre scorso, il presidente Obama, parlando alla Union of Reform Judaism (organizzazione ebraica del giudaismo modernista) passa dal concetto difensivo, "un Iran nucleare è inaccettabile", a quello offensivo, "siamo decisi a prevenire l'acquisizione di armi nucleari da parte dell'Iran": dove viene fatto quindi esplicito riferimento al documento strategico nazionale del 2002.
Il 19 dicembre scorso, il segretario alla Difesa Panetta, fino a quel momento uno dei più decisi assertori dei rischi derivanti da un attacco contro l'Iran, improvvisamente dichiara che l'Iran potrebbe acquisire entro un anno la bomba nucleare e che questa è la "linea rossa" raggiunta la quale il governo Usa "adotterà qualsiasi passo necessario per affrontare la situazione".
Il 20 dicembre, il presidente del consiglio dei comandanti in capo delle Forze Armate Usa, gen. Martin Dempsey, dichiara alla CNN che "le opzioni che stiamo sviluppando hanno raggiunto un punto che le rende eseguibili ove necessario", e aggiunge: "la mia maggiore preoccupazione è che gli Iraniani sottovalutino la nostra determinazione".
Il 21 dicembre, Dennis Ross, uno degli strateghi filo-israeliani che da oltre trent'anni opera nelle posizioni più rilevanti della politica estera americana trasversalmente a tutte le amministrazioni Usa, come ho già avuto modo di documentare dettagliatamente (2), dichiara alla televisione israeliana Channel 10 che il presidente Obama sarebbe pronto a "fare un certo passo", se necessario, e che "questo vuol dire che quando tutte le opzioni sono sul tavolo, se si sono esauriti tutti gli altri mezzi, si fa quello che è necessario".
Il 22 dicembre il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, dopo avere svolto negli Usa una serie di incontri coi massimi vertici politico-militari americani (vedi clarissa.it ), dichiara, a commento delle dichiarazioni ricordate finora: "esse confermano un fatto che ci era già noto a seguito dei nostri incontri riservati. Queste dichiarazioni mettono in chiaro all'Iran che si trova difronte ad un bivio vero e proprio".
Il 23 dicembre, infine, viene pubblicato sulla prestigiosa rivista del Council on Foreign Relations, Foreign Affairs, il contributo di Matthew Kroenig, un giovane promettente esperto delle problematiche dell'anti-terrorismo, con una già brillante carriera alle spalle: prima come analista militare della Cia nel 2004; poi come membro dell'ormai famoso Policy Planning Staff, l'ufficio di pianificazione politica del ministero della difesa nel 2005, periodo nel quale afferma di avere elaborato il primo piano di deterrenza Usa contro le reti terroristiche; quindi membro del già citato Council of Foreign Relations, il più importante think-tank di politica internazionale statunitense, nel quale ha più volte rivestito il ruolo di consigliere; infine, dal 2010 al luglio 2011, consigliere speciale del ministro della Difesa Usa per lo sviluppo e l'attuazione della politica e la strategia di difesa americane in Medio Oriente.
Questo testo, intitolato senza mezzi termini "Il momento di attaccare l'Iran - perché un attacco è il male minore" (3), è un'accurata analisi delle obiezioni finora sollevate contro l'ipotesi di una attacco militare chirurgico americano contro le installazioni nucleari iraniane. Kroenig si propone di dimostrare che "la verità è che un attacco militare rivolto a distruggere il programma nucleare dell'Iran, se gestito con attenzione, potrebbe evitare alla regione [mediorientale] ed al mondo una minaccia davvero concreta e potrebbe aumentare straordinariamente la sicurezza nazionale degli Usa a lungo termine".
Kroenig esamina i rischi di una politica di semplice deterrenza, per concludere che la "deterrenza implicherebbe giganteschi costi economici e geopolitici e dovrebbe essere mantenuta fintantoché l'Iran resta ostile agli interessi Usa, vale a dire come minimo per decenni". Afferma che militarmente, grazie in special modo alle nuove bombe ad lato potenziale ed alta penetrazione (MOD, Massive Ordnance Penetrator), la distruzione dei maggiori siti nucleari iraniani è tecnicamente fattibile, senza il rischio di grandi perdite fra i civili. L'attacco, se ben condotto, potrebbe nello stesso tempo rendere chiaro all'Iran che è consigliabile evitare un allargamento del conflitto ed evitare anche brillantemente, come già avvenuto con l'Iraq, il rischio di un intervento diretto israeliano. Anche da quest'ultimo punto di vista, prima l'attacco viene attuato e meglio è, sia per prevenire autonome operazioni israeliane, sia per evitare il rafforzamento dell'Iran e l'adozione di maggiori misure di protezione dei siti obiettivo. Per concludere:
"Con i conflitti in Afghanistan ed in Iraq in via di esaurimento e con gli Usa che stanno affrontando una dura crisi economica all'interno, gli Americani hanno poca voglia di ulteriori scontri. Tuttavia il rapido sviluppo del programma nucleare iraniano costringerà prima o poi gli Usa a scegliere tra un conflitto convenzionale ed una possibile guerra nucleare. Di fronte a questa decisione, gli Stati Uniti devono condurre un attacco chirurgico contro le installazioni nucleari iraniane, assorbire l'inevitabile ritorsione e quindi tentare rapidamente di evitare l'escalation della crisi. Affrontare subito questa minaccia eviterà agli Usa di affrontare una situazione assai più pericolosa in futuro".
Alcuni commentatori israeliani, i più attenti in questo momento alla posizione Usa, interpretano come sintomo particolarmente significativo di una nuova impostazione americana questa lunga serie di prese di posizione e cominciano ad ipotizzare che davvero Obama potrebbe essersi convinto che l'attacco americano ai reattori iraniani sia preferibile ad un'autonoma azione israeliana, per una serie di ragioni importanti: in primo luogo, l'attacco Usa eviterebbe ai Paesi arabi di doversi affiancare all'Iran, cosa che non potrebbero evitare di fare nel caso in cui fosse lo Stato ebraico a colpire; poi, il recente ritiro delle truppe dall'Iraq evita agli Usa di offrire il destro a possibili ritorsioni, in un'area che gli iraniani potrebbero essere in grado di raggiungere; infine, Obama potrebbe essere tentato di adottare l'opzione militare anche alla luce delle elezioni dell'autunno 2012, perché in questo modo spunterebbe una delle armi più insidiose della propaganda repubblicana, l'accusa di essersi dimostrato debole nella politica estera, mediorientale in special modo (4).
La stessa questione siriana, del resto, potrebbe avere una lettura più rivolta all'Iran ed al Libano che non all'obiettivo di abbattere Assad. I sintomi sono tanti: il rapimento di tecnici iraniani ospitati nel paese; lo spostamento di alcune unità americane ritirate dall'Iraq in prossimità della frontiera giordana che fronteggia il sud della Siria; la pressione militare turca da nord sul regime di Damasco; la possibilità che la caduta del regime di Assad crei le condizioni per un regolamento dei conti finale con Hezbollah in Libano, magari utilizzando i risultati dell'inchiesta sull'uccisione di Hariri, finora congelata nei suoi effetti giuridici. Caduto il regime di Assad in Siria, l'Iran si troverebbe completamente isolato e circondato da Paesi in grado di ospitare forze militari ostili.
L'Iran per parte sua, proprio negli ultimi giorni, sta concentrando le proprie mosse dimostrative politico-miliari sul golfo di Hormuz, quasi a richiamare l'attenzione mondiale su l'effetto ritenuto più immediato di un'eventuale crisi militare nel Golfo - la possibile interruzione del flusso del petrolio, in un momento in cui la crisi economica mondiale non ha certo bisogno di un rialzo del prezzo delle materie prime strategiche. Nei giorni di Natale, l'Iran ha infatti svolto delle esercitazioni navali, assai modeste tecnicamente ma molto propagandate, proprio nell'area dello stretto. Proprio mentre l'amministrazione Obama si prepara a varare ulteriori misure economiche che porterebbero ad un vero e proprio strangolamento economico dell'Iran, il primo vice-presidente Mohammad-Reza Rahimi ha poi dichiarato che "nemmeno una goccia di petrolio passerà dallo stretto di Hormuz", nel caso in cui gli Usa decidessero di imporre sanzioni che minaccino di impedire le esportazioni petrolifere iraniane.
Non è quindi facile stabilire quanto la nuova posizione americana intenda semplicemente accrescere la pressione politica sull'Iran e quanto essa preluda invece realmente all'opzione militare. Certo è che sul piano strategico complessivo, l'eliminazione della questione iraniana nel 2012 rappresenterebbe un risultato decisivo per gli Stati Uniti, consentendo di presentare al mondo un Medio Oriente dal quale sono stati spazzati via tutti i nemici degli Usa e di Israele, un'area da plasmare secondo il modello della Primavera Araba, che, pur senza risolvere nessuno dei problemi del mondo arabo né del Medio Oriente, ha però sicuramente eliminato dalla scena qualsiasi forza anti-occidentale ed anti-israeliana, in particolare gli ultimi residui del nazionalismo arabo, il cui terzaforzismo aveva molto impensierito gli anglo-sassoni per alcuni decenni: in cambio, promette al futuro di questi Paesi una frammentazione etnico-religiosa che non promette nulla di buono per la loro stabilità interna.
Certamente in queste settimane decisive una serrata partita di diplomazia e di intelligence è sicuramente in corso anche fra Usa ed Israele: lo Stato ebraico ha infatti tutto l'interesse a che siano gli Usa a incaricarsi dell'eliminazione dell'ultimo possibile avversario, ma non intende aspettare ancora molto prima di colpire, sapendo di essere perfettamente in grado di farlo; gli Stati Uniti devono valutare fino a che punto il proprio impegno diretto in Iran consentirà poi loro davvero di controllare, in un eventuale Medio Oriente normalizzato, l'ambizioso alleato. L'esperienza del passato ci insegna infatti che il solo reale beneficiario di un attacco militare contro l'Iran sarà lo Stato ebraico, che, regnando sul Medio Oriente come unica, incontrastabile potenza economica politica e militare, sarà pronto a risolvere in modo draconiano anche il problema palestinese.
In ogni caso, la pace resterà ancora molto lontana.
(1) The National Security Strategy of the United States of America, 20 settembre 2002, p. 15. Si veda la discussione di dettaglio di questo argomento in G. Colonna, Medio Oriente senza pace, Edilibri, Milano, 2009.
(2) G. Colonna, Medio Oriente senza pace, cit., pp. 226-227.
(3) M. Kroenig, "Time to Attack Iran", Foreign Affairs, vol. 91, n. 1, p. 76-86.
(4) Si veda in particolare, C. Shalev, "Will a U.S. Attack on Iran become an Obama's "October Surprise"?", Haaretz, 27 dicembre 2011.
30/12/2011
Il natale delle banche
Nel
corso del 2011 ci siamo sentiti ripetere che uno dei rischi più seri
dell'attuale crisi economica è costituito dal pericolo del credit crunch,
in parole povere dalla riduzione della disponibilità di denaro nel
sistema creditizio. Le banche giustificano con questa paura la stretta
creditizia che stanno praticando nei confronti di imprese e famiglie; su
questa paura si sostiene l'accusa rivolta ai debiti pubblici di
prosciugare le già scarse risorse finanziarie mondiali, aggravando quel
rischio.
La gravità della situazione del sistema creditizio mondiale potrebbe essere riassunta in tre cifre. La prima: in base ad un recentissimo studio, pubblicato poche settimane fa dall'autorevole Boston Consulting Group, la perdita complessiva del sistema bancario mondiale tra il 2008 ed il 2010 ammonterebbe a quasi 600 miliardi di euro(1). La seconda: il fabbisogno mondiale di denaro per portare le banche a disporre a bilancio di un capitale di almeno il 7% rispetto ai loro impieghi totali (si noti: 7 euro di capitale per garantirne 100 di impieghi...), come richiesto dallo standard Basilea 3, le banche necessiterebbero a livello mondiale di ben 354 miliardi di euro, dei quali 221 miliardi sono a carico di quelle europee(2). La terza: secondo il Sole 24 Ore, il fabbisogno di credito da parte di imprese e consumatori a livello mondiale raggiungerebbe oggi i 5.000 miliardi di euro(3).
Sono questi i dati di base che confermano il rischio di una generalizzata paralisi del sistema creditizio mondiale: quella, per capirsi, per cui le banche fanno tante difficoltà a prestare denaro a famiglie e imprese, in netto contrasto con l'atteggiamento che tutti abbiamo sperimentato fino al 2008, quando esse rincorrevano aziende e famiglie, offrendo denaro a prezzi stracciati; quando comprare a rate un personal pc o un'automobile costava meno che pagando in contanti!
In questi giorni, nei quali le persone comuni cercano la pace nelle festività natalizie, abbiamo però dinanzi agli occhi una serie di fatti che sollevano molte perplessità su questo ennesimo luogo comune e che ci danno un'idea sempre più chiara del funzionamento effettivo del sistema finanziario internazionale - obbligandoci a tornare ancora una volta sulla questione della moneta, del credito e del potere patologico delle forze finanziarie.
Il 21 dicembre infatti, la Banca Centrale Europea (BCE) ha inondato il sistema bancario europeo con un prestito di ben 489,2 miliardi di euro, ben oltre i 300 miliardi di euro che venivano stimati come effettivo fabbisogno. Economisti citati dal New York Times (4) stimano che, di questa somma, tra 190 e 270 miliardi di euro siano costituiti da nuove risorse (nuovo denaro), il resto dal rinnovo di prestiti precedentemente concessi: teniamo sempre presente che si tratta di denaro di cui la BCE ha disponibilità solo grazie alle politiche di rigore che gli Stati europei stanno adottando - sono quindi risorse finanziarie che provengono in definitiva dal lavoro dei cittadini.
Questo denaro è stato offerto alle banche con scadenza a tre anni, ad un tasso d'interesse dell'1%, condizioni quindi assolutamente favorevoli per le banche. L'intento, dice il New York Times, è quello di rendere "disponibile nuovo denaro per comprare buoni del tesoro governativi a breve termine che hanno una maggiore redditività o interessi più alti, come nel caso dei bond a due anni del governo spagnolo, che rendono il 3,64%". Permettendo in tal modo alle banche di guadagnare lautamente sul sostegno all'indebitamento dei governi più in difficoltà.
Per facilitare questa operazione di ri-finanziamento del ciclo speculativo europeo, la BCE, un vero Babbo Natale per il sistema finanziario, si è resa disponibile ad ampliare anche la tipologia dei cosiddetti "collaterali", le garanzie che le banche stesse devono esibire quando attingono al prestito, in modo da renderlo più agevole anche per piccole banche che di norma non dispongono di sufficienti garanzie. "Si tratta di un successo da diversi punti di vista" - dice Nicolas Véron, ricercatore di un'organizzazione con sede a Bruegel, citato dal New York Times. "Il problema è che espone la BCE ai rischi collegati alle banche stesse, poiché nessuno conosce la qualità dei collaterali che esse stanno fornendo in garanzia".
Secondo notizie dell'agenzia Reuters, ben 523 istituti bancari europei hanno prontamente approfittato di questa generosa offerta, tra i quali pare che UniCredit e Intesa Sampaolo abbiano attinto oltre una settantina di miliardi di euro, garantiti da circa 40 miliardi di euro di "collaterali"(5).
Grazie a queste notizie, si chiarisce subito che la generosa iniezione di risorse nel sistema bancario europeo non è destinata affatto a sostenere il credito all'economia reale: non sono cioè soldi destinati alle famiglie ed alle imprese, ma a perpetuare il meccanismo della speculazione finanziaria che ha generato per anni la parte più consistente dei guadagni delle banche nell'ultimo decennio e che è stata poi, con le sue gigantesche perdite, le cui dimensioni non sono ancora mai state quantificate, la vera origine della crisi. Evitare che si arresti questo ciclo speculativo, guadagnando tempo per evitare che vengano allo scoperto quelle perdite; permettere che a queste risorse si aggiungano altri soldi pubblici per sostenere le banche in difficoltà, attraverso meccanismi come quelli delle cosiddette bad bank, vale a dire tramite l'assunzione da parte dello Stato delle perdite - come si sta pensando di fare in Germania (6). Questa risulta essere la strategia della Banca Centrale Europea diretta da Draghi e dell'authority europea delle banche (EBA), secondo il modello della Federal Reserve Usa.
Ma vi è di più: apprendiamo infatti che solo tre giorni dopo questa iniezione di denaro, vale a dire alla Vigilia di Natale, ben 82 miliardi di euro erano già rientrati alla BCE (7) - una cifra che stabilisce una record di restituzioni alla Banca Centrale dal giugno 2010, prima cioè che la crisi europea assumesse i toni catastrofici cui siamo abituati dallo scorso luglio 2011. Una notizia apparentemente sorprendente: se infatti il fabbisogno di liquidità è così impellente, se il denaro è così scarso nel sistema creditizio mondiale, come mai le banche hanno già restituito il denaro preso in prestito? Perché non lo hanno utilizzato per ridare fiato alla circolazione interbancaria? Perché non se ne sono servite per ricapitalizzarsi? Anche in termini di pura speculazione, infatti, si tratta di un evidente non senso: lo dice il rapporto fra il costo di questo denaro, ottenuto come si è già visto ad un tasso dell'1%, ed il tasso attivo praticato dalla BCE sui suoi conti correnti di appena lo 0,25%.
Per risolvere questo singolare enigma, il Sole 24 Ore suggerisce di attendere ancora qualche giorno: potrebbe infatti trattarsi di una semplice operazione di "parcheggio" di questi fondi presso la BCE, in attesa di investimenti più redditizi, come quelli nei bond spagnoli di cui parlava il New York Times. Ma vi è un'altra ipotesi a spiegare le ragioni del mancato utilizzo sui circuiti del credito di tutti questi soldi: "le banche - scrive Moryia Longo sul giornale di Confindustria, preferiscono perdere, piuttosto che rischiare prestando quei denari a qualche altra banca o a qualche impresa".
Scopriamo così, grazie al dono natalizio della BCE, un aspetto importante e insieme impressionante della crisi. In realtà infatti esistono ancora grandi masse di capitali nel mondo, solo che sono immobilizzate nei forzieri delle grandi entità finanziarie: i soldi rientrati prontamente nelle casse della BCE sono infatti solo spiccioli se si considera che le banche Usa, secondo i calcoli di Mps Capital Service, citati dallo stesso articolo del Sole 24 Ore, hanno in deposito presso la Federal Reserve "riserve in eccesso" per ben 1.500 miliardi di dollari (rispetto ai 1.000 di gennaio 2011); che le imprese Usa hanno poi liquidità ferma nelle loro casse per altri 2.100 miliardi di dollari; e, per finire, che la Cina ha nei forzieri del governo la più ricca disponibilità di riserve mai detenute da uno Stato nella storia dell'umanità, stimate in 3.200 miliardi di dollari.
Sono in tutto quasi 7.000 miliardi di dollari tesaurizzati e sottratti alla circolazione mondiale dei capitali. E non c'è bisogno di essere professori di economica per capire che il fabbisogno mondiale di credito alle imprese e famiglie, stimato in 5.000 miliardi di dollari, sarebbe ampiamente soddisfatto solo che queste risorse venissero poste in circolazione nell'economia reale e non in quella speculativa; e ci sarebbe capienza anche per ricapitalizzare le banche mondiali. Per tacere del fatto che, mentre il valore dell'intero prodotto mondiale nel 2010 è stato di circa 70.000 miliardi di dollari, la "sola" speculazione finanziaria sui titoli derivati fuori dai circuiti controllati, escludendo quindi il valore dei mercati borsistici internazionali e del mercato dei cambi, è valutata nel 2011 da Der Spiegel in ben 708.000 miliardi di dollari!
Scopriamo quindi che il credito manca all'economia reale perché il denaro continua ad essere indirizzato ad alimentare le operazioni della finanza internazionale, a tesaurizzare riserve a copertura delle perdite che i grandi operatori sanno di avere prodotto, al possibile salvataggio di banche decotte (come nel caso da manuale di Northern Rock), nonché al supporto ai deficit di bilancio di sistemi politici in fallimento come le democrazie parlamentari occidentali. L'emissione di titoli di Stato, infatti, come ha giustamente mostrato Luciano Gallino e come molti ancora oggi si dimenticano di ricordare, è uno dei meccanismi più efficienti mediante i quali le banche centrali creano moneta dal nulla (8), indebitando i cittadini a loro insaputa: un'indebitamento delle collettività contro il quale oggi tuonano molti economisti, facendo finta di ignorare che si tratta di un aspetto fisiologico del funzionamento del capitalismo finanziario.
Dalle cifre che abbiamo citato si ricava che il credito manca oggi perché le risorse finanziarie accumulate in questi anni non vengono poste in circolazione nell'economia reale, nonostante sia ben noto a qualsiasi persona di buon senso che si occupi di economia che la circolazione del denaro è un elemento fondamentale per la salute di qualsiasi organismo economico umano. È la consapevolezza dell'enormità dei deficit provocati che spinge i grandi creatori del debito mondiale a trattenere nei propri forzieri il denaro, per guadagnare tempo evitando l'interruzione del ciclo speculativo che porterebbe allo scoperto le gigantesche perdite prodottesi in questi anni sia sui mercati ufficiali che su quelli paralleli non controllati da nessuno. E sperando che nel frattempo le gigantesche operazioni di rastrellamento di denaro dalle tasche dei cittadini, mediante le "grandi manovre" dei governi tecnici, producano il denaro necessario a che quelle perdite vengano coperte o che ne venga diluita nel tempo la fuoriuscita allo scoperto. Giacché è questo l'unico significato logico delle operazioni di "salvataggio": non si tratta, come dice Monti, di salvare l'Italia o l'Europa - si tratta di salvare dal tracollo le grandi aziende finanziarie internazionali.
Un gioco al quale si prestano anche, dimenticando gli insegnamenti di grandi capitalisti come Henry Ford e dello stesso Adam Smith, le imprese più collegate ai grandi circuiti finanziari, che si tengono stretti i soldi, nel timore del credit crunch ma anche nella speranza di quei remunerativi impieghi speculativi ai quali si sono abituate negli ultimi tre decenni - tradendo il compito che sarebbe loro primario nei sistemi di libera impresa, quello di investire nello sviluppo di nuovi prodotti e di dare lavoro alle persone. Il gioco al quale, infine, si presta ben volentieri anche la Cina, alla testa delle nuove forze del capitalismo di Stato, tipiche dei Paesi emergenti, accumulando riserve gigantesche, consapevole che in questo modo avrà in mano un'arma geo-politica decisiva per il decennio che si apre, un'arma che potrebbe ridisegnare i rapporti di potenza a livello mondiale - anche grazie ad un'abile politica di acquisizione di infrastrutture industriali e logistiche, in primo luogo proprio approfittando della crisi in Europa (9).
Solo inquadrandolo in una prospettiva così ampia, si può rilevare il vuoto di idee della battaglia "ideologica" sul come affrontare in Europa la stretta creditizia, giacché essa evita accuratamente di affrontare la questione centrale, di chi cioè debba avere il potere di immettere denaro sui mercati. Da un lato, pensando alle recessioni degli anni Trenta del secolo scorso, vi è il timore che l'emissione di denaro crei inflazione; altri invece, pensando alle politiche del secondo dopoguerra, invocano il ritorno a politiche keynesiane, per ridare fiato allo sviluppo, tornando a vedere nella "mano pubblica" la via di uscita dalla recessione (10). In entrambi i casi, sono vecchie idee, seguendo le quali ripercorreremmo strade disastrosamente già percorse dal capitalismo: strade che, di crisi in crisi, hanno costruito lo straordinario potere della finanza internazionale, che ha sovrapposto all'organismo sociale umano un'economia artificiale speculativa che opprime l'economia reale, nonostante questa debba poi ogni volta farsi carico, come sta accadendo grazie ai governi "tecnici", del salvataggio del sistema.
Il cosiddetto quantitative easing (letteralmente: "agevolazione quantitativa"), ultima forma di creazione di denaro dal nulla, utilizzato dalla Federal Reserve Usa per alimentare il sistema bancario nel momento più drammatico della crisi del 2007-2008, indebitando i governi e i cittadini, e perpetuando i meccanismi della speculazione finanziaria, mostra che il potere di emettere moneta deve essere sottratto alle banche. Ma questo potere deve essere altresì sottratto alla funzione politica, dal momento che lo Stato, nelle democrazie parlamentari, è ormai ostaggio dei poteri forti della stessa finanza internazionale: basta conoscere il già ricordato meccanismo di creazione del debito conseguente al potere delle banche di creare denaro dal nulla, e studiare in dettaglio chi sono i cosiddetti primary dealer (gli acquirenti più importanti) del debito pubblico italiano.
Di nuovo risulta evidente come sia necessario, perché l'economia reale torni a dominare correttamente la vita sociale, che le decisioni essenziali sull'economia, diventino di competenza esclusiva dei produttori (imprenditori, tecnici, lavoratori) e dei consumatori, organizzati in Camere dell'Economia, in cui essi siano pariteticamenti presenti. In una prospettiva radicalmente innovativa di questo tipo, deve spettare a chi abbia una relazione diretta con l'organizzazione e del funzionamento dei sistemi produttivi, la decisione ed il controllo sulla quantità, sulla distribuzione e sulla durata del valore della moneta, giacché solo in questo modo il denaro resterebbe collegato all'economia reale: le banche, a questo punto, svilupperebbero il loro ruolo sociale, di pura gestione tecnica del credito; l'emissione di moneta resa proporzionale alla ricchezza effettivamente prodotta dallo spirito di iniziativa, dal lavoro e dalle capacità umane, ridarebbe energia e libertà alla vita economica reale; il credito, restituito all'iniziativa ed al lavoro, riattiverebbe una sana circolazione del denaro, come linfa vitale del ciclo di produzione, trasformazione, consumo.
Per questa via occorre incamminarsi coraggiosamente, trattandosi della sola possibilità che resta ai popoli di riscattare il loro lavoro dal potere dei padroni del denaro che per questo si considerano i "padroni dell'universo".
La gravità della situazione del sistema creditizio mondiale potrebbe essere riassunta in tre cifre. La prima: in base ad un recentissimo studio, pubblicato poche settimane fa dall'autorevole Boston Consulting Group, la perdita complessiva del sistema bancario mondiale tra il 2008 ed il 2010 ammonterebbe a quasi 600 miliardi di euro(1). La seconda: il fabbisogno mondiale di denaro per portare le banche a disporre a bilancio di un capitale di almeno il 7% rispetto ai loro impieghi totali (si noti: 7 euro di capitale per garantirne 100 di impieghi...), come richiesto dallo standard Basilea 3, le banche necessiterebbero a livello mondiale di ben 354 miliardi di euro, dei quali 221 miliardi sono a carico di quelle europee(2). La terza: secondo il Sole 24 Ore, il fabbisogno di credito da parte di imprese e consumatori a livello mondiale raggiungerebbe oggi i 5.000 miliardi di euro(3).
Sono questi i dati di base che confermano il rischio di una generalizzata paralisi del sistema creditizio mondiale: quella, per capirsi, per cui le banche fanno tante difficoltà a prestare denaro a famiglie e imprese, in netto contrasto con l'atteggiamento che tutti abbiamo sperimentato fino al 2008, quando esse rincorrevano aziende e famiglie, offrendo denaro a prezzi stracciati; quando comprare a rate un personal pc o un'automobile costava meno che pagando in contanti!
In questi giorni, nei quali le persone comuni cercano la pace nelle festività natalizie, abbiamo però dinanzi agli occhi una serie di fatti che sollevano molte perplessità su questo ennesimo luogo comune e che ci danno un'idea sempre più chiara del funzionamento effettivo del sistema finanziario internazionale - obbligandoci a tornare ancora una volta sulla questione della moneta, del credito e del potere patologico delle forze finanziarie.
Il 21 dicembre infatti, la Banca Centrale Europea (BCE) ha inondato il sistema bancario europeo con un prestito di ben 489,2 miliardi di euro, ben oltre i 300 miliardi di euro che venivano stimati come effettivo fabbisogno. Economisti citati dal New York Times (4) stimano che, di questa somma, tra 190 e 270 miliardi di euro siano costituiti da nuove risorse (nuovo denaro), il resto dal rinnovo di prestiti precedentemente concessi: teniamo sempre presente che si tratta di denaro di cui la BCE ha disponibilità solo grazie alle politiche di rigore che gli Stati europei stanno adottando - sono quindi risorse finanziarie che provengono in definitiva dal lavoro dei cittadini.
Questo denaro è stato offerto alle banche con scadenza a tre anni, ad un tasso d'interesse dell'1%, condizioni quindi assolutamente favorevoli per le banche. L'intento, dice il New York Times, è quello di rendere "disponibile nuovo denaro per comprare buoni del tesoro governativi a breve termine che hanno una maggiore redditività o interessi più alti, come nel caso dei bond a due anni del governo spagnolo, che rendono il 3,64%". Permettendo in tal modo alle banche di guadagnare lautamente sul sostegno all'indebitamento dei governi più in difficoltà.
Per facilitare questa operazione di ri-finanziamento del ciclo speculativo europeo, la BCE, un vero Babbo Natale per il sistema finanziario, si è resa disponibile ad ampliare anche la tipologia dei cosiddetti "collaterali", le garanzie che le banche stesse devono esibire quando attingono al prestito, in modo da renderlo più agevole anche per piccole banche che di norma non dispongono di sufficienti garanzie. "Si tratta di un successo da diversi punti di vista" - dice Nicolas Véron, ricercatore di un'organizzazione con sede a Bruegel, citato dal New York Times. "Il problema è che espone la BCE ai rischi collegati alle banche stesse, poiché nessuno conosce la qualità dei collaterali che esse stanno fornendo in garanzia".
Secondo notizie dell'agenzia Reuters, ben 523 istituti bancari europei hanno prontamente approfittato di questa generosa offerta, tra i quali pare che UniCredit e Intesa Sampaolo abbiano attinto oltre una settantina di miliardi di euro, garantiti da circa 40 miliardi di euro di "collaterali"(5).
Grazie a queste notizie, si chiarisce subito che la generosa iniezione di risorse nel sistema bancario europeo non è destinata affatto a sostenere il credito all'economia reale: non sono cioè soldi destinati alle famiglie ed alle imprese, ma a perpetuare il meccanismo della speculazione finanziaria che ha generato per anni la parte più consistente dei guadagni delle banche nell'ultimo decennio e che è stata poi, con le sue gigantesche perdite, le cui dimensioni non sono ancora mai state quantificate, la vera origine della crisi. Evitare che si arresti questo ciclo speculativo, guadagnando tempo per evitare che vengano allo scoperto quelle perdite; permettere che a queste risorse si aggiungano altri soldi pubblici per sostenere le banche in difficoltà, attraverso meccanismi come quelli delle cosiddette bad bank, vale a dire tramite l'assunzione da parte dello Stato delle perdite - come si sta pensando di fare in Germania (6). Questa risulta essere la strategia della Banca Centrale Europea diretta da Draghi e dell'authority europea delle banche (EBA), secondo il modello della Federal Reserve Usa.
Ma vi è di più: apprendiamo infatti che solo tre giorni dopo questa iniezione di denaro, vale a dire alla Vigilia di Natale, ben 82 miliardi di euro erano già rientrati alla BCE (7) - una cifra che stabilisce una record di restituzioni alla Banca Centrale dal giugno 2010, prima cioè che la crisi europea assumesse i toni catastrofici cui siamo abituati dallo scorso luglio 2011. Una notizia apparentemente sorprendente: se infatti il fabbisogno di liquidità è così impellente, se il denaro è così scarso nel sistema creditizio mondiale, come mai le banche hanno già restituito il denaro preso in prestito? Perché non lo hanno utilizzato per ridare fiato alla circolazione interbancaria? Perché non se ne sono servite per ricapitalizzarsi? Anche in termini di pura speculazione, infatti, si tratta di un evidente non senso: lo dice il rapporto fra il costo di questo denaro, ottenuto come si è già visto ad un tasso dell'1%, ed il tasso attivo praticato dalla BCE sui suoi conti correnti di appena lo 0,25%.
Per risolvere questo singolare enigma, il Sole 24 Ore suggerisce di attendere ancora qualche giorno: potrebbe infatti trattarsi di una semplice operazione di "parcheggio" di questi fondi presso la BCE, in attesa di investimenti più redditizi, come quelli nei bond spagnoli di cui parlava il New York Times. Ma vi è un'altra ipotesi a spiegare le ragioni del mancato utilizzo sui circuiti del credito di tutti questi soldi: "le banche - scrive Moryia Longo sul giornale di Confindustria, preferiscono perdere, piuttosto che rischiare prestando quei denari a qualche altra banca o a qualche impresa".
Scopriamo così, grazie al dono natalizio della BCE, un aspetto importante e insieme impressionante della crisi. In realtà infatti esistono ancora grandi masse di capitali nel mondo, solo che sono immobilizzate nei forzieri delle grandi entità finanziarie: i soldi rientrati prontamente nelle casse della BCE sono infatti solo spiccioli se si considera che le banche Usa, secondo i calcoli di Mps Capital Service, citati dallo stesso articolo del Sole 24 Ore, hanno in deposito presso la Federal Reserve "riserve in eccesso" per ben 1.500 miliardi di dollari (rispetto ai 1.000 di gennaio 2011); che le imprese Usa hanno poi liquidità ferma nelle loro casse per altri 2.100 miliardi di dollari; e, per finire, che la Cina ha nei forzieri del governo la più ricca disponibilità di riserve mai detenute da uno Stato nella storia dell'umanità, stimate in 3.200 miliardi di dollari.
Sono in tutto quasi 7.000 miliardi di dollari tesaurizzati e sottratti alla circolazione mondiale dei capitali. E non c'è bisogno di essere professori di economica per capire che il fabbisogno mondiale di credito alle imprese e famiglie, stimato in 5.000 miliardi di dollari, sarebbe ampiamente soddisfatto solo che queste risorse venissero poste in circolazione nell'economia reale e non in quella speculativa; e ci sarebbe capienza anche per ricapitalizzare le banche mondiali. Per tacere del fatto che, mentre il valore dell'intero prodotto mondiale nel 2010 è stato di circa 70.000 miliardi di dollari, la "sola" speculazione finanziaria sui titoli derivati fuori dai circuiti controllati, escludendo quindi il valore dei mercati borsistici internazionali e del mercato dei cambi, è valutata nel 2011 da Der Spiegel in ben 708.000 miliardi di dollari!
Scopriamo quindi che il credito manca all'economia reale perché il denaro continua ad essere indirizzato ad alimentare le operazioni della finanza internazionale, a tesaurizzare riserve a copertura delle perdite che i grandi operatori sanno di avere prodotto, al possibile salvataggio di banche decotte (come nel caso da manuale di Northern Rock), nonché al supporto ai deficit di bilancio di sistemi politici in fallimento come le democrazie parlamentari occidentali. L'emissione di titoli di Stato, infatti, come ha giustamente mostrato Luciano Gallino e come molti ancora oggi si dimenticano di ricordare, è uno dei meccanismi più efficienti mediante i quali le banche centrali creano moneta dal nulla (8), indebitando i cittadini a loro insaputa: un'indebitamento delle collettività contro il quale oggi tuonano molti economisti, facendo finta di ignorare che si tratta di un aspetto fisiologico del funzionamento del capitalismo finanziario.
Dalle cifre che abbiamo citato si ricava che il credito manca oggi perché le risorse finanziarie accumulate in questi anni non vengono poste in circolazione nell'economia reale, nonostante sia ben noto a qualsiasi persona di buon senso che si occupi di economia che la circolazione del denaro è un elemento fondamentale per la salute di qualsiasi organismo economico umano. È la consapevolezza dell'enormità dei deficit provocati che spinge i grandi creatori del debito mondiale a trattenere nei propri forzieri il denaro, per guadagnare tempo evitando l'interruzione del ciclo speculativo che porterebbe allo scoperto le gigantesche perdite prodottesi in questi anni sia sui mercati ufficiali che su quelli paralleli non controllati da nessuno. E sperando che nel frattempo le gigantesche operazioni di rastrellamento di denaro dalle tasche dei cittadini, mediante le "grandi manovre" dei governi tecnici, producano il denaro necessario a che quelle perdite vengano coperte o che ne venga diluita nel tempo la fuoriuscita allo scoperto. Giacché è questo l'unico significato logico delle operazioni di "salvataggio": non si tratta, come dice Monti, di salvare l'Italia o l'Europa - si tratta di salvare dal tracollo le grandi aziende finanziarie internazionali.
Un gioco al quale si prestano anche, dimenticando gli insegnamenti di grandi capitalisti come Henry Ford e dello stesso Adam Smith, le imprese più collegate ai grandi circuiti finanziari, che si tengono stretti i soldi, nel timore del credit crunch ma anche nella speranza di quei remunerativi impieghi speculativi ai quali si sono abituate negli ultimi tre decenni - tradendo il compito che sarebbe loro primario nei sistemi di libera impresa, quello di investire nello sviluppo di nuovi prodotti e di dare lavoro alle persone. Il gioco al quale, infine, si presta ben volentieri anche la Cina, alla testa delle nuove forze del capitalismo di Stato, tipiche dei Paesi emergenti, accumulando riserve gigantesche, consapevole che in questo modo avrà in mano un'arma geo-politica decisiva per il decennio che si apre, un'arma che potrebbe ridisegnare i rapporti di potenza a livello mondiale - anche grazie ad un'abile politica di acquisizione di infrastrutture industriali e logistiche, in primo luogo proprio approfittando della crisi in Europa (9).
Solo inquadrandolo in una prospettiva così ampia, si può rilevare il vuoto di idee della battaglia "ideologica" sul come affrontare in Europa la stretta creditizia, giacché essa evita accuratamente di affrontare la questione centrale, di chi cioè debba avere il potere di immettere denaro sui mercati. Da un lato, pensando alle recessioni degli anni Trenta del secolo scorso, vi è il timore che l'emissione di denaro crei inflazione; altri invece, pensando alle politiche del secondo dopoguerra, invocano il ritorno a politiche keynesiane, per ridare fiato allo sviluppo, tornando a vedere nella "mano pubblica" la via di uscita dalla recessione (10). In entrambi i casi, sono vecchie idee, seguendo le quali ripercorreremmo strade disastrosamente già percorse dal capitalismo: strade che, di crisi in crisi, hanno costruito lo straordinario potere della finanza internazionale, che ha sovrapposto all'organismo sociale umano un'economia artificiale speculativa che opprime l'economia reale, nonostante questa debba poi ogni volta farsi carico, come sta accadendo grazie ai governi "tecnici", del salvataggio del sistema.
Il cosiddetto quantitative easing (letteralmente: "agevolazione quantitativa"), ultima forma di creazione di denaro dal nulla, utilizzato dalla Federal Reserve Usa per alimentare il sistema bancario nel momento più drammatico della crisi del 2007-2008, indebitando i governi e i cittadini, e perpetuando i meccanismi della speculazione finanziaria, mostra che il potere di emettere moneta deve essere sottratto alle banche. Ma questo potere deve essere altresì sottratto alla funzione politica, dal momento che lo Stato, nelle democrazie parlamentari, è ormai ostaggio dei poteri forti della stessa finanza internazionale: basta conoscere il già ricordato meccanismo di creazione del debito conseguente al potere delle banche di creare denaro dal nulla, e studiare in dettaglio chi sono i cosiddetti primary dealer (gli acquirenti più importanti) del debito pubblico italiano.
Di nuovo risulta evidente come sia necessario, perché l'economia reale torni a dominare correttamente la vita sociale, che le decisioni essenziali sull'economia, diventino di competenza esclusiva dei produttori (imprenditori, tecnici, lavoratori) e dei consumatori, organizzati in Camere dell'Economia, in cui essi siano pariteticamenti presenti. In una prospettiva radicalmente innovativa di questo tipo, deve spettare a chi abbia una relazione diretta con l'organizzazione e del funzionamento dei sistemi produttivi, la decisione ed il controllo sulla quantità, sulla distribuzione e sulla durata del valore della moneta, giacché solo in questo modo il denaro resterebbe collegato all'economia reale: le banche, a questo punto, svilupperebbero il loro ruolo sociale, di pura gestione tecnica del credito; l'emissione di moneta resa proporzionale alla ricchezza effettivamente prodotta dallo spirito di iniziativa, dal lavoro e dalle capacità umane, ridarebbe energia e libertà alla vita economica reale; il credito, restituito all'iniziativa ed al lavoro, riattiverebbe una sana circolazione del denaro, come linfa vitale del ciclo di produzione, trasformazione, consumo.
Per questa via occorre incamminarsi coraggiosamente, trattandosi della sola possibilità che resta ai popoli di riscattare il loro lavoro dal potere dei padroni del denaro che per questo si considerano i "padroni dell'universo".
(1) R. Dayal, Gerol Grasshoff, Douglas Jackson, Philippe Morel, Peter Neu, "Facing New Realities in Global Banking", Risk Report 2011, The Boston Consulting Group, dicembre 2011 (scaricabile on line dal sito della BCG).
(2) Ivi.
(3) M. Longo, "Effetto crisi e Basilea 3: credit crunch mondiale stimato in 5mila miliardi", Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2011.
(4) N.D. Schwartz, D. Jolly, "European Bank in Strong Move to Loosen Credit", The New York Times, 21 dicembre 2011.
(5) S. Bernabei, L. Togni, "Italian banks tap €116 of ECB loans", Reuters, 21 dicembre 2011.
(6) A. Merli, "Berlino prepara la bad bank", Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2011.
(7) M. Longo, "Il maxi-prestito Bce parcheggiato a Francoforte", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(8) L. Gallino, Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011, p. 177.
(9) L. Vinciguerra, "La Cina mette gli occhi sugli asset strategici Ue", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(10) Si veda l'intervento, tipico della finanza "di sinistra", di Carlo De Benedetti, "Da Francoforte un colpo a salve", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(2) Ivi.
(3) M. Longo, "Effetto crisi e Basilea 3: credit crunch mondiale stimato in 5mila miliardi", Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2011.
(4) N.D. Schwartz, D. Jolly, "European Bank in Strong Move to Loosen Credit", The New York Times, 21 dicembre 2011.
(5) S. Bernabei, L. Togni, "Italian banks tap €116 of ECB loans", Reuters, 21 dicembre 2011.
(6) A. Merli, "Berlino prepara la bad bank", Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2011.
(7) M. Longo, "Il maxi-prestito Bce parcheggiato a Francoforte", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(8) L. Gallino, Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011, p. 177.
(9) L. Vinciguerra, "La Cina mette gli occhi sugli asset strategici Ue", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(10) Si veda l'intervento, tipico della finanza "di sinistra", di Carlo De Benedetti, "Da Francoforte un colpo a salve", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
Stretto di Hormuz: tensione Usa – Iran
”Il libero flusso di beni e servizi attraverso lo stretto è vitale
per la prosperità globale”. Lo ha affermato, ieri, 28 dicembre 2011, il
portavoce della V flotta militare Usa, di stanza nel regno del Bahrein, nel Golfo Persico.
Una minaccia, neanche troppo velata, all’Iran che tramite l’ammiraglio Habibollah Sayyari, comandante delle operazioni militari in atto nello Stretto, ha replicato: ”Chiudere lo Stretto di Hormuz, per la marina militare della Repubblica Islamica, sarebbe facile come chiudere un rubinetto”. Aggiungendo, però, che la misura ”non è al momento presa in considerazione, visto che controlliamo il mare di Oman e quindi il transito della zona”.
Botta e risposta, a stretto giro. Una tensione che da mesi, ogni giorno, si fa più acuta nella triangolazione Usa, Iran e Israele. Teheran, con la crisi che vive il regime siriano, che garantiva i collegamenti con gli alleati d Hezbollah in Libano, teme l’isolamento e ventila l’utilizzo del suo asso nella manica: la chiusura del passaggio chiave per le economie occidentali. Da Hormuz, infatti, transita il 33 percento del greggio mondiale, sbocco logistico di tutte le petromonarchie del Golfo Persico.
L’Unione europea, in giornata, ha preso subito posizione sulla stessa linea di Washington. Michael Mann, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea Catherine Ashton, ha dichiarato: ”Non cederemo a nessuna minaccia o ricatto, andremo avanti con le sanzioni all’Iran maturate nel clima del rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, e non tollereremo la chiusura di una via di comunicazione internazionale”.
Un clima che, per certi versi, ricorda quello del 1956, quando l’allora leader egiziano Nasser nazionalizzò il Canale di Suez. Finì in un conflitto con Israele, Inghilterra e Francia. Oggi la situazione internazionale è differente, ma di sicuro quella dello Stretto di Hormuz è l’asso nella manica di Teheran, che non esiterebbe a giocarla, ma più in forma di reazione a eventuali attacchi esterni che non come mossa preventiva, che garantirebbe ai suoi nemici un perfetto casus belli.
Fonte.
Una minaccia, neanche troppo velata, all’Iran che tramite l’ammiraglio Habibollah Sayyari, comandante delle operazioni militari in atto nello Stretto, ha replicato: ”Chiudere lo Stretto di Hormuz, per la marina militare della Repubblica Islamica, sarebbe facile come chiudere un rubinetto”. Aggiungendo, però, che la misura ”non è al momento presa in considerazione, visto che controlliamo il mare di Oman e quindi il transito della zona”.
Botta e risposta, a stretto giro. Una tensione che da mesi, ogni giorno, si fa più acuta nella triangolazione Usa, Iran e Israele. Teheran, con la crisi che vive il regime siriano, che garantiva i collegamenti con gli alleati d Hezbollah in Libano, teme l’isolamento e ventila l’utilizzo del suo asso nella manica: la chiusura del passaggio chiave per le economie occidentali. Da Hormuz, infatti, transita il 33 percento del greggio mondiale, sbocco logistico di tutte le petromonarchie del Golfo Persico.
L’Unione europea, in giornata, ha preso subito posizione sulla stessa linea di Washington. Michael Mann, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea Catherine Ashton, ha dichiarato: ”Non cederemo a nessuna minaccia o ricatto, andremo avanti con le sanzioni all’Iran maturate nel clima del rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, e non tollereremo la chiusura di una via di comunicazione internazionale”.
Un clima che, per certi versi, ricorda quello del 1956, quando l’allora leader egiziano Nasser nazionalizzò il Canale di Suez. Finì in un conflitto con Israele, Inghilterra e Francia. Oggi la situazione internazionale è differente, ma di sicuro quella dello Stretto di Hormuz è l’asso nella manica di Teheran, che non esiterebbe a giocarla, ma più in forma di reazione a eventuali attacchi esterni che non come mossa preventiva, che garantirebbe ai suoi nemici un perfetto casus belli.
Fonte.
Napolitano e il welfare
I grandi d’Europa sono in difficoltà nella nuova stagione della
globalizzazione. E’ uno dei passaggi della lettera inviata dal capo
dello Stato, Giorgio Napolitano, alla rivista Reset e pubblicata oggi da Repubblica. Quella che arriva dal Quirinale è
un’analisi a 360 gradi su ciò che sta avvenendo sulla scena italiana e
internazionale. Per il presidente della Repubblica, dopo il ’45 e l’89
”siamo ora giunti, in special modo in Europa, a un terzo appuntamento
con la storia: quello del calare il nostro processo di integrazione nel
contesto di una fase critica della globalizzazione” e questa volta “le
leadership europee appaiono in grande affanno a raccogliere la sfida”.
Napolitano ha poi analizzato la lezione di Einaudi, prendendo spunto dalla domanda dello storico inglese Tony Judt sui giganti di un tempo e i pigmei di oggi nella politica europea. Nella “crisi incalzante dell’euro”, è il parere di Napolitano, le leadership europee oggi “appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica, che hanno congiurato nel provocare fatali ripiegamenti su meschini e anacronistici orizzonti e pregiudizi nazionali”. Parole dure quelle del capo dello Stato, secondo cui è “particolarmente acuta oggi per le forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa”.
Napolitano, poi, è tornato sulla questione italiana, sostenendo che “con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune – ha scritto il capo dello Stato -, furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione, le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei ‘Rapporti economici’ nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario. Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell’euro – ha spiegato Napolitano - concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l’Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi”. Su questo punto, Napolitano non ha risparmiato critiche: “Tale discorso – ha detto – non può non investire le degenerazioni parassitarie del ‘Welfare all’italiana’, rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l’epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all’Italia”.
Fonte.
Bisogna essere proprio delle facce da culo per sproloquiare di "degenerazioni parassitarie del welfare italiano" avendo alle spalle 60 anni di carriera politica spesa a mungere la tetta pubblica.
Da evitare anche le lezioni d'economia da uno che ha messo in scena un educatissimo colpo di stato per piazzare al governo un usuraio in sostituzione di un puttaniere.
Caro presidente, ma levati dai coglioni!
Napolitano ha poi analizzato la lezione di Einaudi, prendendo spunto dalla domanda dello storico inglese Tony Judt sui giganti di un tempo e i pigmei di oggi nella politica europea. Nella “crisi incalzante dell’euro”, è il parere di Napolitano, le leadership europee oggi “appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica, che hanno congiurato nel provocare fatali ripiegamenti su meschini e anacronistici orizzonti e pregiudizi nazionali”. Parole dure quelle del capo dello Stato, secondo cui è “particolarmente acuta oggi per le forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa”.
Napolitano, poi, è tornato sulla questione italiana, sostenendo che “con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune – ha scritto il capo dello Stato -, furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione, le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei ‘Rapporti economici’ nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario. Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell’euro – ha spiegato Napolitano - concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l’Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi”. Su questo punto, Napolitano non ha risparmiato critiche: “Tale discorso – ha detto – non può non investire le degenerazioni parassitarie del ‘Welfare all’italiana’, rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l’epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all’Italia”.
Fonte.
Bisogna essere proprio delle facce da culo per sproloquiare di "degenerazioni parassitarie del welfare italiano" avendo alle spalle 60 anni di carriera politica spesa a mungere la tetta pubblica.
Da evitare anche le lezioni d'economia da uno che ha messo in scena un educatissimo colpo di stato per piazzare al governo un usuraio in sostituzione di un puttaniere.
Caro presidente, ma levati dai coglioni!
Alla Malaguti tolta anche l’insegna
“È finita. È proprio finita. Hanno tagliato la testa
alla regina e non c’è più niente da fare”. A cadere non è stata la testa
di Maria Antonietta d’Asburgo, ma la grande insegna rossa Malaguti che campeggiava sulla autostrada A14 tra Bologna e Imola. L’hanno staccata lunedì 19 dicembre, per un motivo banale: non pagare la tassa per le insegne pubblicitarie.
Eppure per le centinaia di migliaia di automobilisti che ogni giorno
passano da quelle parti, quella scritta sfavillante ammainata che oggi
non c’è più era il simbolo, l’ultimo, della motor valley emiliana che fu.
Fonte.
A breve faremo la fine di Detroit.
“Per noi è un colpo al cuore, una cosa che ci ha
fatto molto male, non ci aspettavamo che anche l’insegna venisse portata
giù in così poco tempo”, racconta Sabrina Franchini,
ex operaia della Malaguti. “È come se con quella scritta avessero
portato via una parte di noi, come se avessimo capito che davvero non
c’è più nulla da fare”, spiega Franchini, che in fabbrica era anche
delegata Fiom.
La vicenda della crisi e della chiusura della Malaguti, l’azienda nata 80 anni fa leader mondiale nella produzione degli scooter,
era iniziata nella seconda metà del decennio scorso. Prima c’era stato
il licenziamento dei lavoratori a termine e degli interinali già dal
2009-2010. Poi ad aprile scorso c’era stato il fermo della produzione
con la cassa integrazione. I battenti del grande stabilimento hanno
chiuso definitivamente il 31 ottobre scorso e 170 persone hanno perso
definitivamente il lavoro, ognuna con 30 mila euro di buonuscita. Nello stabilimento di Castel San Pietro terme,
quello dell’insegna, sono rimasti pochi dipendenti, per occuparsi del
settore ricambi e smantellare tutta la catena produttiva. Presto,
questione di settimane, andranno via. Andranno in un locale più piccolo a
pochi chilometri di distanza e si occuperanno del settore ricambi
ancora per qualche tempo, giusto per onorare i contratti con i clienti
Malaguti. Lavoreranno come costrette in un polmone artificiale destinato
a spegnersi in pochi anni: la ditta è ormai clinicamente morta.
La decisione della famiglia emiliana degli scooter
era ormai irrevocabile da tempo: la crisi e probabilmente la mancanza di
una volontà di stare in mezzo al mare in questo momento di tempesta
hanno fatto il resto. I signori Malaguti sono esponenti di quel
capitalismo familiare made in Italy e, fino a quando hanno
voluto, sono stati degli ottimi padroni, tanto che l’azienda chiude con i
conti apposto. A disposizione della famiglia Malaguti ci sarebbero 40
milioni di capitale, un capannone gigantesco e un centro ricambi, un marchio
che se ben sfruttato potrebbe valere una fortuna. Tuttavia senza la
volontà di continuare da parte dei padroni c’era poco da fare. Gli
operai, anche contro i desideri del sindacato, dopo diverse proteste e
presidi, alla fine hanno preferito accettare i 30 mila euro, convinti
che, a tirare la corda, si sarebbe arrivati a perdere anche quelli.
A poco era servita l’opposizione della Fiom-Cgil,
che chiedeva di lottare per proseguire la produzione nello stabilimento
giallo e blu alle porte di Bologna. La fabbrica degli scooter era
diventata l’ultimo baluardo, una bandiera da difendere per salvare la produzione in una motor valley
emiliana diventata, più che altro, una valle di lacrime. La crisi
economica negli ultimi anni ha demolito un settore che per sopravvivere
sta facendo ampio ricorso ad ammortizzatori sociali,
lunghe trattative e a dolorosi tagli. Verlicchi, Moto Morini, Motori
Minarelli, Breda Menarini Bus, sono solo alcuni tra i nomi bolognesi
delle fabbriche di due o quattro ruote che in questo travagliato 2011
hanno conosciuto cassa integrazione, fallimenti, aste giudiziarie,
licenziamenti, delocalizzazioni all’estero e, nel migliore dei casi,
timide riprese della produzione o riassunzione solo di una parte di
lavoratori.
Così, l’impero dei motori nella pianura del socialismo reale
rischia di sgretolarsi. Tanto che quasi come la bandiera sovietica
esattamente 20 anni prima, in silenzio, anche questo vessillo del
motociclo è venuto giù senza troppe proteste e senza
guerriglie da parte degli operai. E poi di fronte a una crisi economica e
alla recessione, 30 mila euro di buonuscita sono stati un silenziatore
potente.Fonte.
A breve faremo la fine di Detroit.
29/12/2011
Grecia, il morso della crisi sulla sanità
Atene è alla prese con le forbici dell’austerità. Lo spettro della
povertà ha preso forme ben delineate. Il taglio degli stipendi e delle
pensioni del 20 per cento, il licenziamento di 30 mila statali (e di
altri 150 mila richiesti dalla troika Ue-Fmi-Bce nel prossimo triennio),
le tasse pesantissime sulla casa (20 euro per metro quadrato) forse non
saranno sufficienti a tenere la Grecia all’interno dell’Eurozona, ma
sicuramente sprofonderanno nella miseria milioni di greci. Non sono
poche le famiglie che sono già costrette a vivere senza luce e senza
acqua: o si pagano le bollette o si acquista da mangiare.
La Grecia ha davanti a sé la titanica impresa della ristrutturazione di un debito – pari a 357 miliardi di euro – da compiere entro l’inizio della primavera prossima. Il dato che, secondo il Fmi, nelle casse di Atene ci siano solo 11 miliardi di euro e le previsioni pessime sul prodotto interno lordo per i prossimi anni, sarebbero da soli sufficienti a definire come impossibile il raggiungimento del risultato. A questo si aggiunga la riluttanza degli istituti di credito esposti sul debito greco a tagliare significativamente il valore nominale delle obbligazioni in loro possesso.
In gioco, però, non ci sono solo gli interessi finanziari dei grandi investitori, ma anche la vita e la salute dei greci. Le forbici dei tagli sono infatti arrivate a toccare, drasticamente, anche la sanità: un esempio su tutti è il taglio di budget a cui sarà sottoposto il più grande ospedale di Atene che dai 286 milioni di euro per il 2011 scenderà a 138 miioni di euro per il 2012. Questo si traduce in un abbassamento della qualità e della quantità dei servizi per l’ospedale, una scelta obbligata tra lo stare bene e il sopravvivere, per i cittadini. O tra il vivere e il morire. In un’intervista per il Nyt Elias Sioras, dottore all’ospedale Evagelismos, ha dichiarato che, di fatto, la sanità in Grecia non è più un diritto: “Se hai soldi, puoi accedere alle cure mediche. Altrimenti resti fuori”. Tanti pazienti, inoltre, avrebbero rinunciato a interventi chirurgici perché troppo costosi e “qualcuno – ha affermato Sioras – è morto per questo motivo. Questa è la conseguenza della crisi finanziaria. E il peggio deve ancora venire”.
Molte persone che non possono permettersi il ticket di 5 euro si rivolgono a diverse Ong mediche che operano sul territorio greco. Mèdicins du Monde per anni ha provveduto a curare gratis migranti e richiedenti asilo in Grecia, porta d’ingresso per l’Europa: nell’ultimo anno i greci che si sono rivolti alla struttura della ong hanno superato i migranti, che nella situazione in cui versa il Paese, sono diventati – se possibile – ancora più ultimi.
Se pure in misura non così drammatica, anche Emergency fornisce un dato che deve far suonare il campanello d’allarme. Nel poliambulatorio di Marghera, anch’esso aperto prevalentemente per assistere migranti e richiedenti asilo, nel 2011 il 20 per cento delle prestazioni mediche sono state fornite a italiani. Anche in Italia, la sanità non è alla portata di tutti. Un indicatore, questo, che fa presagire un futuro difficile per la società italiana.
Fonte.
La Grecia ha davanti a sé la titanica impresa della ristrutturazione di un debito – pari a 357 miliardi di euro – da compiere entro l’inizio della primavera prossima. Il dato che, secondo il Fmi, nelle casse di Atene ci siano solo 11 miliardi di euro e le previsioni pessime sul prodotto interno lordo per i prossimi anni, sarebbero da soli sufficienti a definire come impossibile il raggiungimento del risultato. A questo si aggiunga la riluttanza degli istituti di credito esposti sul debito greco a tagliare significativamente il valore nominale delle obbligazioni in loro possesso.
In gioco, però, non ci sono solo gli interessi finanziari dei grandi investitori, ma anche la vita e la salute dei greci. Le forbici dei tagli sono infatti arrivate a toccare, drasticamente, anche la sanità: un esempio su tutti è il taglio di budget a cui sarà sottoposto il più grande ospedale di Atene che dai 286 milioni di euro per il 2011 scenderà a 138 miioni di euro per il 2012. Questo si traduce in un abbassamento della qualità e della quantità dei servizi per l’ospedale, una scelta obbligata tra lo stare bene e il sopravvivere, per i cittadini. O tra il vivere e il morire. In un’intervista per il Nyt Elias Sioras, dottore all’ospedale Evagelismos, ha dichiarato che, di fatto, la sanità in Grecia non è più un diritto: “Se hai soldi, puoi accedere alle cure mediche. Altrimenti resti fuori”. Tanti pazienti, inoltre, avrebbero rinunciato a interventi chirurgici perché troppo costosi e “qualcuno – ha affermato Sioras – è morto per questo motivo. Questa è la conseguenza della crisi finanziaria. E il peggio deve ancora venire”.
Molte persone che non possono permettersi il ticket di 5 euro si rivolgono a diverse Ong mediche che operano sul territorio greco. Mèdicins du Monde per anni ha provveduto a curare gratis migranti e richiedenti asilo in Grecia, porta d’ingresso per l’Europa: nell’ultimo anno i greci che si sono rivolti alla struttura della ong hanno superato i migranti, che nella situazione in cui versa il Paese, sono diventati – se possibile – ancora più ultimi.
Se pure in misura non così drammatica, anche Emergency fornisce un dato che deve far suonare il campanello d’allarme. Nel poliambulatorio di Marghera, anch’esso aperto prevalentemente per assistere migranti e richiedenti asilo, nel 2011 il 20 per cento delle prestazioni mediche sono state fornite a italiani. Anche in Italia, la sanità non è alla portata di tutti. Un indicatore, questo, che fa presagire un futuro difficile per la società italiana.
Fonte.
Un paese a forma di cesso
Vi hanno sempre detto che l'Italia era a forma di stivale. Vi hanno mentito!
I microbi che albergano sulle pareti di un water closet probabilmente non se ne rendono conto, ma non fanno una bella vita. Finchè non mettono il naso fuori, però, non lo sanno. Per chi non è abituato, varcare i confini delle gabbie significa cedere allo stupore. Come gli indios abbacinati dalle perline, la prima reazione di un italiano all'estero è di pura meraviglia. E' tutto un "caspita!", "ma guarda...", "non l'avrei mai detto", "ma ti rendi conto?". La vera presa di coscienza arriva al fatidico momento del rientro. E' come tornare a casa dal cinema e realizzare che era solo un film.
Qualche anno fa, prima che il virus della trasformazione interiore mi imbarcasse d'ufficio nell'avventura del blog, giravo per lavoro. Ricordo che l'ultimo viaggio fu a Bruxelles. Una sera dovevo raggiungere dei colleghi in centro. Presi un tram. Non lo sentii arrivare. Sembrava la fata piumetta che danza su un tappeto di velluto. I sedili erano in pelle. Pareva di stare in salotto. A un certo punto il tram ha iniziato un percorso sotterraneo. Io ero abitutato alla metropolitana milanese. Non un solo rumore molesto superava i cristalli dei finestrini. Fuori, anziché il consueto tunnel buio, sporco e angusto, una fila di vetrine mettevano in mostra, opportunamente illuminati, gli ultimi modelli di autovettura. La stazione era finemente decorata da migliaia di tasselli di ceramica a comporre mosaici raffinati. Non c'era una cartaccia per terra. A un certo punto c'era un incrocio. Sotto terra. Abbiamo lasciato passare un altro tram, poi siamo passati noi. Non ho sentito un solo tremolio, un solo rumore, nulla che mi facesse sentire a casa, nel consueto frastuono e nella lordura totale.
Quando sono tornato a Milano mi sono ritrovato in una stazione del passante ferroviario. Non una struttura fatiscente di 50 anni fa, ma una nuova e moderna arteria cittadina. Nessuna panchina. Il cemento vivo alle pareti, mai intonacato. Ovunque, improbabili scarabocchi di bombolette spray. Sulle rotaie, sacchi di spazzatura. Il treno sporco che quasi faceva schifo sedersi. Welcome back home, italian!
Ma forse, si dirà, il paragone con Bruxelles è troppo ardito (e perché poi?). Allora prendiamo la tanto vituperata Grecia. Gli italiani la considerano solo per le isolette dove vanno a fornicare. Per il resto noi, l'ottava potenza industriale (appena superati dal Brasile), crediamo che i nostri servizi siano superiori.
Un anno tornavo da Dubai. L'aereo ha fatto scalo ad Atene. Mi pungeva vaghezza di cambiare acqua all'apparato idrico (dovevo fare la pipì). Negli Emirati Arabi Uniti, nei bagni pubblici puoi anche mangiarci. Non fai in tempo a sgocciolare che c'è un inserviente che asciuga le chiazze per terra. Credevo che l'impatto sarebbe stato forte. Invece i rubinetti erano dorati, lucidati a nuovo, le piastrelle luccicavano, le tazze sembravano appena uscite dalla fabbrica. Sapone della migliore qualità, musica di sottofondo (anche il bigolo ha bisogno della sua atmosfera), tovagliolini imbevuti e arrotolati...
No, l'impatto vero è avvenuto a Linate. Uno di quei cessi dove di solito non tocco la maniglia della porta di ingresso con le mani, nè tantomeno la tocco all'uscita, dopo essermi lavato (sempre che ci sia il sapone).
L'altro giorno era Santo Stefano. Mia mamma ha una certa età. Le era venuto un ascesso terrificante al dente. L'ho portata al pronto soccorso odontoiatrico, in via della Commenda, 10. No, non in un piccolo paesino del profondo sud, cui i settentrionali si sentono sempre superiori, ma nel pieno centro di Milano, la capitale economica del paese. La città della Bocconi, dove il professor Monti è presidente, per intenderci.
A parte l'ambiente spartano (non ci formalizziamo per queste inezie), non c'era uno straccio di fila organizzata, né per priorità né per ordine di arrivo. Ogni mezz'oretta, se andava bene, usciva un'infermiera e chiedeva a chi toccava. Immaginate per una trentina di persone in attesa cosa poteva significare, oltre al dolore e al disagio, doversi anche contare ripetutamente. C'era una specie di apparecchio automatico per pagare il ticket, ma ovviamente era fuori servizio.
Ma il punto è un altro. Mio padre è malato. Una di quelle malattie che ti fanno tornare bambino. Era per forza di cose insieme a noi. Voleva fare la pipì. Ho cercato il bagno e ce l'ho portato. C'era una squallida latrina appoggiata a terra senza coperchio. Ogni tanto controllavo. Quando ho visto che era riuscito a rivestirsi, gli ho fatto lavare le mani. Non c'era il sapone. Ma non c'era neppure uno straccio di tovagliolino di carta per asciugarsi le mani. Non un asciugamano a rotolo, non un asciugatoio elettrico, neppure uno schifo di rotolo di carta igienica. Era un pronto soccorso, un luogo dove si arriva in condizioni di emergenza.
L'ho guardato e gli ho detto: "Papà, asciugati le mani sulla giacca". Ma dentro, non so dirvi come mi sia sentito.
Fonte.
Cina e Giappone abbandonano il dollaro
Giornali e Tg non ne parlano, ma per gli ambienti finanziari globali è
la notizia-bomba di queste festività natalizie: la seconda e la terza
economia mondiale, Cina e Giappone, hanno siglato un accordo che prevede
l’abbandono del dollaro americano come valuta utilizzata negli scambi
commerciali tra le due nazioni asiatiche, consentendo quindi un
interscambio direttamente in yen e yuan.
Finora, circa il 60 per cento degli scambi commerciali tra Cina e Giappone vengono regolati in dollari. L’intesa, siglata lunedì a Pechino al termine dell’incontro tra il premier cinese Wen Jiabao e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda, è un chiaro segnale di sfiducia delle due potenze economiche asiatiche nei confronti della travagliata area euro-dollaro.
Questa mossa viene interpretata dagli economisti come il primo passo concreto del governo di Pechino per far diventare la moneta cinese, lo yuan (o renminbi), una valuta di riserva globale sostitutiva al dollaro. Cosa attualmente non ancora possibile, vista la non completa convertibilità della valuta cinese.
Per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, il patto Cina-Giappone rappresenta una sfida che evidenzia l’importanza di una ”Europa unita e di una moneta comune che ci dà buone chanches di perseguire i nostri interessi e l’opportunità di realizzarli a livello mondiale”.
Fonte.
Il gigante ha i piedi d'argilla.
Finora, circa il 60 per cento degli scambi commerciali tra Cina e Giappone vengono regolati in dollari. L’intesa, siglata lunedì a Pechino al termine dell’incontro tra il premier cinese Wen Jiabao e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda, è un chiaro segnale di sfiducia delle due potenze economiche asiatiche nei confronti della travagliata area euro-dollaro.
Questa mossa viene interpretata dagli economisti come il primo passo concreto del governo di Pechino per far diventare la moneta cinese, lo yuan (o renminbi), una valuta di riserva globale sostitutiva al dollaro. Cosa attualmente non ancora possibile, vista la non completa convertibilità della valuta cinese.
Per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, il patto Cina-Giappone rappresenta una sfida che evidenzia l’importanza di una ”Europa unita e di una moneta comune che ci dà buone chanches di perseguire i nostri interessi e l’opportunità di realizzarli a livello mondiale”.
Fonte.
Il gigante ha i piedi d'argilla.
Fincantieri, continua la protesta dei lavoratori
Continua la protesta dei lavoratori dei cantieri navali Fincantieri
che da Palermo ad Ancona fino a Sestri Ponente hanno reagito in maniera
unanime rigettando l’accordo siglato il 21 dicembre a Roma da Fim e Uilm
per la cassa integrazione.
A Palermo, gli operai hanno ripreso lo sciopero proclamato il 23 dicembre, ribadendo che fino al 2 gennaio – giorno nel quale è prevista una nuova assemblea – resteranno bloccate le prestazioni straordinarie rispetto al programma produttivo previsto. La Cgil e la Fiom Cgil di Palermo chiedono a Fincantieri di tornare sui propri passi per quanto riguarda le eccedenze di 140 unità dichiarate per lo stabilimento di Palermo.
“Chiediamo a Fincantieri di presentare il piano industriale, imperniato sulle tre missioni produttive concordate nel protocollo d’intesa siglato con la Regione e sul mantenimento dei livelli occupazionali. Se il cantiere manterrà le sue tre attività e non avrà esuberi. Se sarà diversamente non lo accetteremo” dichiarano il segretario della Cgil di Palermo Maurizio Calà e il segretario Fiom Cgil Francesco Piastra. La Fiom e la Cgil restano in attesa della convocazione da parte dell’assessorato regionale alle Attività produttive.
E’ ripresa ieri anche la protesta degli operai davanti ai cancelli dello stabilimento Fincantieri di Genova Sestri Ponente. Al presidio prendono parte un centinaio di operai e impiegati del cantiere che hanno bloccato i cancelli dello stabilimento. A loro si sono aggiunti alcuni lavoratori degli appalti.
”Aspettiamo l’ufficialità dell’incontro con il ministro per lo sviluppo economico Corrado Passera – ha detto Giulio Troccoli (rsu Fiom Cgil) -, incontro che ci è stato anticipato dal prefetto di Genova e che dovrebbe tenersi subito dopo l’Epifania. Poi decideremo il da farsi”.
Intanto anche ad Ancona i due delegati della Fim-Cisl e quello della Uilm si sono dimessi al termine di un’assemblea tesissima seguita alla firma.
Tutti chiedono la riapertura del tavolo delle trattative al ministro Corrado Passera, e in primo luogo lo fa Fiom che, chiamandosi fuori, ha scritto che le sue ”buone ragioni per non firmare” vengono confermate e ribadite. Alessandro Pagano, coordinatore nazionale Fiom-Cgil per la cantieristica navale, ha sottolineato che i lavoratori stanno reagendo ”negativamente ai contenuti dell’accordo separato sulla riorganizzazione aziendale”. Il dissenso ”è unitario”.
Fonte.
Chissà quando sì deciderà Passera a battere un colpo.
Probabilmente non muoverà un dito sino a quando non sarà steso l'ennesimo decreto sviluppo, su cui pesa sempre più un silenzio di piombo che, nella migliore delle ipotesi fa presagire un provvedimento totalmente inutile ai fini di uno sviluppo che guardi alla sostenibilità sociale ed ambientale.
A Palermo, gli operai hanno ripreso lo sciopero proclamato il 23 dicembre, ribadendo che fino al 2 gennaio – giorno nel quale è prevista una nuova assemblea – resteranno bloccate le prestazioni straordinarie rispetto al programma produttivo previsto. La Cgil e la Fiom Cgil di Palermo chiedono a Fincantieri di tornare sui propri passi per quanto riguarda le eccedenze di 140 unità dichiarate per lo stabilimento di Palermo.
“Chiediamo a Fincantieri di presentare il piano industriale, imperniato sulle tre missioni produttive concordate nel protocollo d’intesa siglato con la Regione e sul mantenimento dei livelli occupazionali. Se il cantiere manterrà le sue tre attività e non avrà esuberi. Se sarà diversamente non lo accetteremo” dichiarano il segretario della Cgil di Palermo Maurizio Calà e il segretario Fiom Cgil Francesco Piastra. La Fiom e la Cgil restano in attesa della convocazione da parte dell’assessorato regionale alle Attività produttive.
E’ ripresa ieri anche la protesta degli operai davanti ai cancelli dello stabilimento Fincantieri di Genova Sestri Ponente. Al presidio prendono parte un centinaio di operai e impiegati del cantiere che hanno bloccato i cancelli dello stabilimento. A loro si sono aggiunti alcuni lavoratori degli appalti.
”Aspettiamo l’ufficialità dell’incontro con il ministro per lo sviluppo economico Corrado Passera – ha detto Giulio Troccoli (rsu Fiom Cgil) -, incontro che ci è stato anticipato dal prefetto di Genova e che dovrebbe tenersi subito dopo l’Epifania. Poi decideremo il da farsi”.
Intanto anche ad Ancona i due delegati della Fim-Cisl e quello della Uilm si sono dimessi al termine di un’assemblea tesissima seguita alla firma.
Tutti chiedono la riapertura del tavolo delle trattative al ministro Corrado Passera, e in primo luogo lo fa Fiom che, chiamandosi fuori, ha scritto che le sue ”buone ragioni per non firmare” vengono confermate e ribadite. Alessandro Pagano, coordinatore nazionale Fiom-Cgil per la cantieristica navale, ha sottolineato che i lavoratori stanno reagendo ”negativamente ai contenuti dell’accordo separato sulla riorganizzazione aziendale”. Il dissenso ”è unitario”.
Fonte.
Chissà quando sì deciderà Passera a battere un colpo.
Probabilmente non muoverà un dito sino a quando non sarà steso l'ennesimo decreto sviluppo, su cui pesa sempre più un silenzio di piombo che, nella migliore delle ipotesi fa presagire un provvedimento totalmente inutile ai fini di uno sviluppo che guardi alla sostenibilità sociale ed ambientale.
28/12/2011
La demenza generalizzata del popolo italiano
DI COSTANZO PREVE
Un enigma storico da decifrare
1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.
A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).
2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.
Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.
3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.
Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.
Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.
4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode il governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.
Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.
5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.
Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.
6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.
In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.
7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.
Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.
8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.
Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.
Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).
L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.
Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.
9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.
A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. La paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.
Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.
10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.
Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.
In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.
Costanzo Preve
Torino, 17 dicembre 2011
Fonte.
Un enigma storico da decifrare
1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.
A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).
2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.
Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.
3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.
Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.
Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.
4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode il governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.
Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.
5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.
Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.
6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.
In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.
7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.
Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.
8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.
Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.
Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).
L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.
Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.
9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.
A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. La paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.
Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.
10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.
Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.
In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.
Costanzo Preve
Torino, 17 dicembre 2011
Fonte.
Dal Pacifico al Medio Oriente, gli effetti dell'affermarsi della Cina
Mentre l'Europa è alle corde a motivo della crisi finanziaria,
proseguono le grandi manovre politico militari nell'Oceano Pacifico,
area geopolitica in rinnovata espansione.
La visita del presidente americano Obama in Australia a metà novembre ha prodotto risultati molto significativi: facendo seguito al suo discorso, che ha esaltato la più che sessantennale collaborazione militare fra Usa, Australia e Nuova Zelanda nell'ambito dell'ANZUS (la Nato del Pacifico sud-occidentale), Julia Gillard, la primo ministro australiana ha dichiarato, facendo seguito al discorso di Obama, che "la nostra regione sta crescendo economicamente ma la stabilità è altrettanto importante per la crescita economica; e la nostra alleanza è stata una delle basi della stabilità nella nostra regione".
Obama, da parte sua, ha ribadito che gli Stati Uniti stanno spostando la loro attenzione dalla guerra contro il terrorismo alle questioni dell'economia e della sicurezza nell'Asia Orientale e nel Pacifico, aggiungendo significativamente che il messaggio che gli Usa inviano all'Asia ed al Pacifico è: "siamo qui per restare". Dichiarazione davvero importante, alla quale in Europa dovremmo prestare molta maggiore attenzione, memori del fatto che, storicamente, delle due anime della politica internazionale ed imperiale Usa, l'una orientata verso l'Atlantico l'altra estesa sul Pacifico, quest'ultima, rivolta all'Asia orientale, è la più antica e vigorosa, assai più che quella transatlantica, rivolta com'è ad una Europa, che gli americani hanno sempre finito per considerare antiquata patria del dispotismo e dei vincoli all'economia.
In base all'accordo sottoscritto in occasione di questa storica visita, per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra, gli Usa dispiegheranno fino a 2.500 marines in Australia, accrescendo anche la cooperazione fra le aviazioni militari dei due Paesi.
Come se non bastasse, nella stessa settimana, il ministro degli esteri Usa Hillary Clinton ha firmato una dichiarazione di sostegno ad un trattato militare difensivo bilaterale fra gli Usa e le Filippine, un Paese dove il radicamento dell'influenza americana dura dalla fine dell'Ottocento.
Sono ovviamente tutti messaggi molto chiari rivolti in primo luogo alla Cina, il cui crescente profilo militare non è più sottovalutabile da parte degli Stati Uniti. I nuovi passi americani sono stati subito accolti con molta preoccupazione da parte del governo cinese, il cui portavoce Liu Weimin ha fatto notare che sarà necessario iniziare a discutere del crescente dispiegamento di forze Usa in Asia, precisando che la Cina non ha mai fatto parte di alcuna alleanza militare con Paesi dell'area, come quelle costituite dagli Usa.
È vero del resto che nelle stesse settimane è divenuta operativa la prima portaerei cinese: una unità navale originariamente ucraina che è stata acquistata nel 1998 e quindi profondamente ristrutturata per corrispondere alle esigenze della nuova grande potenza asiatica. Ad essa si dovrebbero aggiungere almeno altre due unità di questo tipo (di cui una a propulsione nucleare), per guidare i tre gruppi navali che la Cina si propone di dislocare a protezione dei suoi interessi economici e politici nel Pacifico.
Il programma di costruzione navale cinese, che comprende anche una trentina di altre unità di vario tipo, si accompagna alla strategia che da oltre un quinquennio vede la Repubblica Popolare creare una catena di basi navali di supporto tra il Pacifico e l'Oceano Indiano, la cosiddetta strategie del "filo di perle": Akyab, Cheduba e Bassein nel Myanmar; Chittadong, in Bangladesh; Trincomalee nello Sri Lanka, per finire con Gwadar, in Pakistan la cui costruzione, iniziata nel 2002, è finanziata dalla Cina all'80% (per oltre 248 milioni di dollari). Collocata a soli 72 km dall'Iran e a 400 dallo Stretto di Hormuz, Gwadar consentirà di supportare le forze navali cinesi impegnate a garantire la sicurezza del flusso di idrocarburi che in quantità crescente alimentano dal Medio Oriente la crescita industriale cinese.
Proprio l'annuncio del ministro della difesa pakistano sulla collaborazione pakistano-cinese nella costruzione di questa base, dello scorso 23 maggio, ha sicuramente turbato gravemente i già tesi rapporti tra gli Usa ed il Pakistan e costretto i primi a ripensare tutta la propria organizzazione logistica dell'Afghanistan. Lo proiezione di potenza cinese viene quindi a collegare il teatro del Pacifico alla situazione medio-orientale, imponendosi come la questione strategica fondamentale per gli Stati Uniti nel XXI secolo.
Le implicazioni di questo mutamento sono moltissime. Il Medio Oriente acquisisce una nuova importanza: non è più solamente il teatro dello "scontro di civiltà" fra Islam, Cristianesimo e Giudaismo; non è più solo il luogo deputato al democracy building; non è più solo il campo di battaglia contro il terrorismo internazionale e contro gli "stati canaglia" - esso diviene oggi la frontiera terrestre principale nei confronti della Cina, per la quale le fonti energetiche medio-orientali sono ora un elemento strategico essenziale.
La stabilizzazione del Medio Oriente attraverso la eliminazione di regimi potenzialmente ostili, come quelli libico, siriano, iraniano - diventa dunque complementare e logico sviluppo di quanto avvenuto negli ultimi venti anni, alla luce della possibilità che la Cina possa inserirsi, come ha già mostrato di saper fare, nei complessi giochi medio-orientali.
Ma anche la politica Usa verso la Russia deve tenere conto di queste nuove esigenze, in quanto la brusca fine del rapporto speciale con il Pakistan sta dando importanza vitale a quella Northern Distribution Network (NDN), la rete di comunicazione stradale e ferroviaria che, partendo dai porti baltici e attraversando tutta la Russia, alimenta oggi da nord gran parte dello sforzo bellico Usa e Nato in Afghanistan - un'impresa logistica da incubo, che richiede una Russia non pregiudizialmente ostile agli interessi occidentali. Ciò che spiega assai bene le crescenti interferenze americane nella politica interna russa, interferenze che non si verificavano più dai tempi della guerra fredda.
L'Afghanistan, infine, come tradizionale cerniera fra Asia, Russia e Medio Oriente, acquisisce una nuova importanza, non più solo nel tradizionale "grande gioco" anglosassone di contenimento della Russia e di blocco alla sua corsa ai "mari caldi"; non più soltanto quale porta di accesso alle grandi risorse energetiche delle repubbliche centro-asiatiche ex-sovietiche; l'Afghanistan è ora prima di tutto punto di controllo dell'intera massa continentale euro-asiatica, nella quale sta avanzando a passi da gigante un'antica e insieme nuova forza da Oriente, la Cina appunto.
Fonte.
Articolo veramente interessante a cui avrebbe giovato una maggiore perizia in fase di stesura. Belìn ma ci vuole tanto a rileggere il testo prima di pubblicarlo?!?
La visita del presidente americano Obama in Australia a metà novembre ha prodotto risultati molto significativi: facendo seguito al suo discorso, che ha esaltato la più che sessantennale collaborazione militare fra Usa, Australia e Nuova Zelanda nell'ambito dell'ANZUS (la Nato del Pacifico sud-occidentale), Julia Gillard, la primo ministro australiana ha dichiarato, facendo seguito al discorso di Obama, che "la nostra regione sta crescendo economicamente ma la stabilità è altrettanto importante per la crescita economica; e la nostra alleanza è stata una delle basi della stabilità nella nostra regione".
Obama, da parte sua, ha ribadito che gli Stati Uniti stanno spostando la loro attenzione dalla guerra contro il terrorismo alle questioni dell'economia e della sicurezza nell'Asia Orientale e nel Pacifico, aggiungendo significativamente che il messaggio che gli Usa inviano all'Asia ed al Pacifico è: "siamo qui per restare". Dichiarazione davvero importante, alla quale in Europa dovremmo prestare molta maggiore attenzione, memori del fatto che, storicamente, delle due anime della politica internazionale ed imperiale Usa, l'una orientata verso l'Atlantico l'altra estesa sul Pacifico, quest'ultima, rivolta all'Asia orientale, è la più antica e vigorosa, assai più che quella transatlantica, rivolta com'è ad una Europa, che gli americani hanno sempre finito per considerare antiquata patria del dispotismo e dei vincoli all'economia.
In base all'accordo sottoscritto in occasione di questa storica visita, per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra, gli Usa dispiegheranno fino a 2.500 marines in Australia, accrescendo anche la cooperazione fra le aviazioni militari dei due Paesi.
Come se non bastasse, nella stessa settimana, il ministro degli esteri Usa Hillary Clinton ha firmato una dichiarazione di sostegno ad un trattato militare difensivo bilaterale fra gli Usa e le Filippine, un Paese dove il radicamento dell'influenza americana dura dalla fine dell'Ottocento.
Sono ovviamente tutti messaggi molto chiari rivolti in primo luogo alla Cina, il cui crescente profilo militare non è più sottovalutabile da parte degli Stati Uniti. I nuovi passi americani sono stati subito accolti con molta preoccupazione da parte del governo cinese, il cui portavoce Liu Weimin ha fatto notare che sarà necessario iniziare a discutere del crescente dispiegamento di forze Usa in Asia, precisando che la Cina non ha mai fatto parte di alcuna alleanza militare con Paesi dell'area, come quelle costituite dagli Usa.
È vero del resto che nelle stesse settimane è divenuta operativa la prima portaerei cinese: una unità navale originariamente ucraina che è stata acquistata nel 1998 e quindi profondamente ristrutturata per corrispondere alle esigenze della nuova grande potenza asiatica. Ad essa si dovrebbero aggiungere almeno altre due unità di questo tipo (di cui una a propulsione nucleare), per guidare i tre gruppi navali che la Cina si propone di dislocare a protezione dei suoi interessi economici e politici nel Pacifico.
Il programma di costruzione navale cinese, che comprende anche una trentina di altre unità di vario tipo, si accompagna alla strategia che da oltre un quinquennio vede la Repubblica Popolare creare una catena di basi navali di supporto tra il Pacifico e l'Oceano Indiano, la cosiddetta strategie del "filo di perle": Akyab, Cheduba e Bassein nel Myanmar; Chittadong, in Bangladesh; Trincomalee nello Sri Lanka, per finire con Gwadar, in Pakistan la cui costruzione, iniziata nel 2002, è finanziata dalla Cina all'80% (per oltre 248 milioni di dollari). Collocata a soli 72 km dall'Iran e a 400 dallo Stretto di Hormuz, Gwadar consentirà di supportare le forze navali cinesi impegnate a garantire la sicurezza del flusso di idrocarburi che in quantità crescente alimentano dal Medio Oriente la crescita industriale cinese.
Proprio l'annuncio del ministro della difesa pakistano sulla collaborazione pakistano-cinese nella costruzione di questa base, dello scorso 23 maggio, ha sicuramente turbato gravemente i già tesi rapporti tra gli Usa ed il Pakistan e costretto i primi a ripensare tutta la propria organizzazione logistica dell'Afghanistan. Lo proiezione di potenza cinese viene quindi a collegare il teatro del Pacifico alla situazione medio-orientale, imponendosi come la questione strategica fondamentale per gli Stati Uniti nel XXI secolo.
Le implicazioni di questo mutamento sono moltissime. Il Medio Oriente acquisisce una nuova importanza: non è più solamente il teatro dello "scontro di civiltà" fra Islam, Cristianesimo e Giudaismo; non è più solo il luogo deputato al democracy building; non è più solo il campo di battaglia contro il terrorismo internazionale e contro gli "stati canaglia" - esso diviene oggi la frontiera terrestre principale nei confronti della Cina, per la quale le fonti energetiche medio-orientali sono ora un elemento strategico essenziale.
La stabilizzazione del Medio Oriente attraverso la eliminazione di regimi potenzialmente ostili, come quelli libico, siriano, iraniano - diventa dunque complementare e logico sviluppo di quanto avvenuto negli ultimi venti anni, alla luce della possibilità che la Cina possa inserirsi, come ha già mostrato di saper fare, nei complessi giochi medio-orientali.
Ma anche la politica Usa verso la Russia deve tenere conto di queste nuove esigenze, in quanto la brusca fine del rapporto speciale con il Pakistan sta dando importanza vitale a quella Northern Distribution Network (NDN), la rete di comunicazione stradale e ferroviaria che, partendo dai porti baltici e attraversando tutta la Russia, alimenta oggi da nord gran parte dello sforzo bellico Usa e Nato in Afghanistan - un'impresa logistica da incubo, che richiede una Russia non pregiudizialmente ostile agli interessi occidentali. Ciò che spiega assai bene le crescenti interferenze americane nella politica interna russa, interferenze che non si verificavano più dai tempi della guerra fredda.
L'Afghanistan, infine, come tradizionale cerniera fra Asia, Russia e Medio Oriente, acquisisce una nuova importanza, non più solo nel tradizionale "grande gioco" anglosassone di contenimento della Russia e di blocco alla sua corsa ai "mari caldi"; non più soltanto quale porta di accesso alle grandi risorse energetiche delle repubbliche centro-asiatiche ex-sovietiche; l'Afghanistan è ora prima di tutto punto di controllo dell'intera massa continentale euro-asiatica, nella quale sta avanzando a passi da gigante un'antica e insieme nuova forza da Oriente, la Cina appunto.
Fonte.
Articolo veramente interessante a cui avrebbe giovato una maggiore perizia in fase di stesura. Belìn ma ci vuole tanto a rileggere il testo prima di pubblicarlo?!?
La guerra degli innocenti
bambini non sono tutti uguali. Amina è nata in Niger pochi anni fa e pesa cento e più volte meno di Daniel,
suo coetaneo del Lazio, Italia. Nel senso che un abitante nigerino in
media ha una responsabilità di gas serra pari a 0,06 tonnellate, un
italiano, invece, di oltre otto tonnellate (dati Onu a questo link). Le emissioni pro capite sono il riflesso di un'enorme sproporzione
nel consumo collettivo e individuale di materiali, risorse naturali,
energia, derrate. Per mantenere Amina non c'è bisogno di alcuna guerra
per le risorse. Per mantenere Daniel - perfino in tempo di crisi - sì.
I bambini non sono tutti uguali. Ad esempio le poche volte che la Nato accetta di risarcire una famiglia afgana per congiunti periti nei bombardamenti, si arriva al massimo a 2.000 dollari a morto. Quanto "vale" un pupo statunitense?
I bambini non sono tutti uguali. Soprattutto nelle guerre occidentali condotte con l'alcaselzer delle ragioni umanitarie. Utilissimi, gli amati children, quando si tratta di denunciare le minacce mortali e le violenze del nemico politico di turno.
Ignorati, però, i children, quando sono dalla parte sbagliata rispetto alla lama. La parte che riceve i colpi dell'intervento umanitario. In quel caso sono assimilati ai nemici. O al più, sono tollerabili danni collaterali.
Strumentalizzati a fini bellici
Nel 1990, alla vigilia della guerra contro l'Iraq, fu utilissima la "testimonianza" al Congresso Usa della quindicenne Nayrah, "volontaria all'ospedale di Kuwait City": singhiozzando disse che i soldati iracheni, arrivando da invasori, avevano strappato i neonati dalle incubatrici lasciando che morissero per terra. Quest'atrocità assoluta ma falsa ebbe grande eco e fu ripetuta molte volte. A guerra felicemente innescata, risultò la ragazza era la figlia dell'ambasciatore del Kuwait negli Usa e che la frottola era stata ideata dall'agenzia di public relations Hill and Knowlton la quale per curare l'immagine dell'emirato aveva strappato il contratto più alto fino ad allora nella storia delle relazioni pubbliche. Soldi ben spesi; il mondo corse a proteggere il povero emiro degli Al Sabah e la dinastia petromonarchica fu liberata e salvata.
(Come spiega il giornalista investigativo Michel Collon nel libro Libye, Otan et médiamensonges (sett. 2011), la Nato sul "fronte mediatico libico" ha avuto i consigli di due agenzie statunitensi di Pr molto valide: la Harbour e la Patton Boggs).
Altre incubatrici hanno coronato venti anni di strumentalizzazione bellica dei bambini. Stavolta è la Siria: le "milizie di Assad" avrebbero distrutto il generatore dell'ospedale di Hama con otto bebè prematuri morti nelle incubatrici. Si è presto visto che le immagini di neonati ammucchiati e apparentemente rossi di asfissia si riferivano a un ospedale di Alessandria d'Egitto e che per fortuna i bebè - benché in sovraffollamento - erano vivi.
In mezzo, fra le prime incubatrici e le ultime, gli occidentali e i loro alleati hanno sbandierato la protezione a mano armata di: bambini del Kosovo vittime dei cattivi serbi, bambini afghani vittime dei talebani, bambini libici vittime dei "mercenari di Gheddafi" (per citare dei bambini palestinesi).
Piccole vittime ignorate a milioni
Iraq, guerra del 1991 e successivo embargo e successiva guerra del 2003.
Un'ecatombe. Chi morì nel rifugio di Al Almerya e in una delle tante fosse comuni (le case di civili azzerate dalle bombe). Chi diventò orfano (decine di migliaia i soldati iracheni uccisi anche mentre si ritiravano). Chi nacque deforme e/o morì per l'inquinamento da uranio impoverito.
Chi morì per le durissime sanzioni internazionali. Grazie alla "comunità internazionale", la mortalità infantile in Iraq era infatti balzata dal 56 per mille del 1990 al 131 per mille nel 1999 ; un bambino su cinque era malnutrito (dati Unicef). Nel 1996 il programma Sixty Minutes intervistò l'ambasciatrice Usa all'Onu Madeleine Albright: "Pare che siano morti di embargo 500mila bambini iracheni. E' più di Hiroshima. E' un prezzo giusto da pagare?"; risposta della Madeleine: "E' una scelta davvero dura ma sì, pensiamo di sì". E a proposito di neonati: molti ne morirono per mancanza di ossigeno, la cui importazione era vietata dall'Onu per il possibile uso bellico.
Nel 1999 si tacque il fatto che i bambini kosovari e le loro famiglie erano scappati in massa proprio all'arrivo delle bombe Nato a loro difesa (che fecero vittime fra serbi e kosovari senza discriminazioni).
Nel 2001 iniziò la guerra in Afghanistan che da dieci anni annienta interi villaggi (anche in Pakistan) e i suoi abitanti, finora decine di migliaia secondo i tristi body counts. Senza pace è impossibile ogni minimo miglioramento delle condizioni di vita di un paese miserrimo (ed ecco le morti per stenti e malattie).
Nel 2003, bis di bombe occidentali sull'Iraq con un numero incalcolabile di morti bambini, e poi il vaso di Pandora della successiva occupazione anglosassone corredata di: "errori collaterali"; assedio alla città ribelle di Falluja (ottobre 2004) con armi al fosforo bianco stile Dresda, 4mila morti; stragi kamikaze che non finiscono mai.
Nel 2011, in Libia, gli otto mesi di bombe e missili hanno danneggiato piccole vittime a centinaia di migliaia. Sì! Così tante, se si calcola tutto. Se si calcolano i morti e i feriti sotto le bombe dell'operazione "Protettore unificato" della Nato e dei suoi alleati locali; i quali ultimi hanno già fatto sapere di non avere intenzione di chiedere alla Nato si indagare, nemmeno nei casi conclamati, perché gli effetti collaterali sono normali ("Nato urged to probe civilians killed in Libya war", Reuters, 16 dicembre 2011). Se si calcolano gli orfani dei combattenti.
Se si calcolano le vittime dell'assedio Cnt/Nato a Sirte (molto peggiore di quello governativo a Misurata). Se si calcolano le decine di migliaia di famiglie sfollate e costrette a vivere in alloggi di fortuna perché hanno avuto la casa distrutta, e tutte le case di Sirte lo sono. Se si calcolano le migliaia di famiglie di libici neri cacciati - pulizia etnica - dalla loro cittadina di Tawergha (gli armati di Misurata impediscono loro di tornare). Se si calcola la perdita di reddito per le famiglie dei moltissimi lavoratori migranti costretti alla fuga. Se si calcoleranno le vittime dell'uranio impoverito, ingrediente dei proiettili missilati dai Cruise.
In "cambio", quali bambini ha protetto la missione libica? L'ipotetico massacro di civili era stato sventolato sulla base di notizie rivelatesi false.
E quanti dei bambini che secondo fonti non verificabili sono morti in Siria, sono il frutto delle ingerenze esterne che armando il cosiddetto esercito siriano libero allontanano le possibilità di negoziato fra le parti, previo cessate il fuoco?
Incontri: Omar, Sretchco, Najimullah, Ali, Noor
Bassora (Iraq) 1993. Omar aveva la stessa età dell'embargo, due anni e alcuni mesi. Nel piccolo viso mediorientale sgranava uno sguardo vellutato. Vivo e di normale peso, era una consolazione guardarlo dopo le immagini di scheletrini moribondi da embargo, negli ospedali. Sarà sopravvissuto all'embargo e alla successiva guerra, visti i tanti bambini morti per decreto internazionale? E sarà andato a scuola? Nei durissimi anni dell'embargo, a frequentare le aule malconce era poco più del 60% dei piccoli in età scolare; le spese per l'istruzione erano scese a un decimo in dieci anni. E avrà mangiato a sufficienza Omar? E si sarà ammalato di radioattività? Nell'area di Bassora soprattutto, i proiettili a uranio 238 usati nel 1991 hanno triplicato i casi di malattie come la leucemia, le malformazioni infantili, tumori.
Belgrado, 1999. Sretchco, o un nome così. Piccolissimo bimbo serbo, nato di sette mesi durante l'attacco Nato. A spegnerlo sarebbe bastato un soffio, l'interruzione di corrente prolungata e un guasto al generatore; succede, in guerra.
Agam (Afghanistan), 2001. Cullato dalla madre ventenne, Najimullah era nato da pochi giorni, già orfano. Una bomba "contro Bin Laden" aveva centrato dodici uomini fra i quali suo padre mentre riposandosi bevevano scin ciai, the verde (Marinella Correggia, "Gli orfani di Tora Bora", il manifesto, 27 dicembre 2001). Nel villaggio un uomo, Durkan, sotto altre bombe aveva perso moglie e i cinque figli: "Non sappiamo più nulla di lui, era come impazzito, poi è sparito". Come starà, peraltro, il pastorello Hanin che a undici anni, nel 1999, una delegazione della Campagna italiana per la messa al bando delle mine raccolse fra Herat e Kandahar mentre correva alla ricerca di aiuto con la mano in poltiglia, appena lacerata da una granata (Marinella Correggia, reportage "Lo sminatore di Ghazni", in Ho visto, edizioni e/o 2003)?
Baghdad 2003. Ali Ismail Eedan. Unico superstite della sua famiglia vittima di un bombardamento, le braccia ridotte a moncherini che incredulo cercava di agitare; divenuto un caso internazionale (l'unico) fu poi portato a Londra per avere almeno le protesi. Riparazione del danno.
Tripoli, fine luglio 2011. Noor, bambinetta color caffelatte dai capelli ricci, viveva nella città orientale di Tobruk con cinque fratelli, la madre e il padre poliziotto; temendo azioni da parte degli insorti, avevano fatto fagotto verso la capitale o verso Zliten, come molti altri. Da mesi Noor doveva accontentarsi di un container metallico.
Sempre a Tripoli, a una nonna non rimanevano che le foto dei suoi due nipotini, e dei loro genitori. Tutti schiacciati sotto le macerie della loro casa nella zona di Arrada Suq Al Juma. Il 19 giugno 2011.
(Questo il link per partecipare al progetto L'ultima delle guerre)
Fonte.
Occidentali, brava gente.
I bambini non sono tutti uguali. Ad esempio le poche volte che la Nato accetta di risarcire una famiglia afgana per congiunti periti nei bombardamenti, si arriva al massimo a 2.000 dollari a morto. Quanto "vale" un pupo statunitense?
I bambini non sono tutti uguali. Soprattutto nelle guerre occidentali condotte con l'alcaselzer delle ragioni umanitarie. Utilissimi, gli amati children, quando si tratta di denunciare le minacce mortali e le violenze del nemico politico di turno.
Ignorati, però, i children, quando sono dalla parte sbagliata rispetto alla lama. La parte che riceve i colpi dell'intervento umanitario. In quel caso sono assimilati ai nemici. O al più, sono tollerabili danni collaterali.
Strumentalizzati a fini bellici
Nel 1990, alla vigilia della guerra contro l'Iraq, fu utilissima la "testimonianza" al Congresso Usa della quindicenne Nayrah, "volontaria all'ospedale di Kuwait City": singhiozzando disse che i soldati iracheni, arrivando da invasori, avevano strappato i neonati dalle incubatrici lasciando che morissero per terra. Quest'atrocità assoluta ma falsa ebbe grande eco e fu ripetuta molte volte. A guerra felicemente innescata, risultò la ragazza era la figlia dell'ambasciatore del Kuwait negli Usa e che la frottola era stata ideata dall'agenzia di public relations Hill and Knowlton la quale per curare l'immagine dell'emirato aveva strappato il contratto più alto fino ad allora nella storia delle relazioni pubbliche. Soldi ben spesi; il mondo corse a proteggere il povero emiro degli Al Sabah e la dinastia petromonarchica fu liberata e salvata.
(Come spiega il giornalista investigativo Michel Collon nel libro Libye, Otan et médiamensonges (sett. 2011), la Nato sul "fronte mediatico libico" ha avuto i consigli di due agenzie statunitensi di Pr molto valide: la Harbour e la Patton Boggs).
Altre incubatrici hanno coronato venti anni di strumentalizzazione bellica dei bambini. Stavolta è la Siria: le "milizie di Assad" avrebbero distrutto il generatore dell'ospedale di Hama con otto bebè prematuri morti nelle incubatrici. Si è presto visto che le immagini di neonati ammucchiati e apparentemente rossi di asfissia si riferivano a un ospedale di Alessandria d'Egitto e che per fortuna i bebè - benché in sovraffollamento - erano vivi.
In mezzo, fra le prime incubatrici e le ultime, gli occidentali e i loro alleati hanno sbandierato la protezione a mano armata di: bambini del Kosovo vittime dei cattivi serbi, bambini afghani vittime dei talebani, bambini libici vittime dei "mercenari di Gheddafi" (per citare dei bambini palestinesi).
Piccole vittime ignorate a milioni
Iraq, guerra del 1991 e successivo embargo e successiva guerra del 2003.
Un'ecatombe. Chi morì nel rifugio di Al Almerya e in una delle tante fosse comuni (le case di civili azzerate dalle bombe). Chi diventò orfano (decine di migliaia i soldati iracheni uccisi anche mentre si ritiravano). Chi nacque deforme e/o morì per l'inquinamento da uranio impoverito.
Chi morì per le durissime sanzioni internazionali. Grazie alla "comunità internazionale", la mortalità infantile in Iraq era infatti balzata dal 56 per mille del 1990 al 131 per mille nel 1999 ; un bambino su cinque era malnutrito (dati Unicef). Nel 1996 il programma Sixty Minutes intervistò l'ambasciatrice Usa all'Onu Madeleine Albright: "Pare che siano morti di embargo 500mila bambini iracheni. E' più di Hiroshima. E' un prezzo giusto da pagare?"; risposta della Madeleine: "E' una scelta davvero dura ma sì, pensiamo di sì". E a proposito di neonati: molti ne morirono per mancanza di ossigeno, la cui importazione era vietata dall'Onu per il possibile uso bellico.
Nel 1999 si tacque il fatto che i bambini kosovari e le loro famiglie erano scappati in massa proprio all'arrivo delle bombe Nato a loro difesa (che fecero vittime fra serbi e kosovari senza discriminazioni).
Nel 2001 iniziò la guerra in Afghanistan che da dieci anni annienta interi villaggi (anche in Pakistan) e i suoi abitanti, finora decine di migliaia secondo i tristi body counts. Senza pace è impossibile ogni minimo miglioramento delle condizioni di vita di un paese miserrimo (ed ecco le morti per stenti e malattie).
Nel 2003, bis di bombe occidentali sull'Iraq con un numero incalcolabile di morti bambini, e poi il vaso di Pandora della successiva occupazione anglosassone corredata di: "errori collaterali"; assedio alla città ribelle di Falluja (ottobre 2004) con armi al fosforo bianco stile Dresda, 4mila morti; stragi kamikaze che non finiscono mai.
Nel 2011, in Libia, gli otto mesi di bombe e missili hanno danneggiato piccole vittime a centinaia di migliaia. Sì! Così tante, se si calcola tutto. Se si calcolano i morti e i feriti sotto le bombe dell'operazione "Protettore unificato" della Nato e dei suoi alleati locali; i quali ultimi hanno già fatto sapere di non avere intenzione di chiedere alla Nato si indagare, nemmeno nei casi conclamati, perché gli effetti collaterali sono normali ("Nato urged to probe civilians killed in Libya war", Reuters, 16 dicembre 2011). Se si calcolano gli orfani dei combattenti.
Se si calcolano le vittime dell'assedio Cnt/Nato a Sirte (molto peggiore di quello governativo a Misurata). Se si calcolano le decine di migliaia di famiglie sfollate e costrette a vivere in alloggi di fortuna perché hanno avuto la casa distrutta, e tutte le case di Sirte lo sono. Se si calcolano le migliaia di famiglie di libici neri cacciati - pulizia etnica - dalla loro cittadina di Tawergha (gli armati di Misurata impediscono loro di tornare). Se si calcola la perdita di reddito per le famiglie dei moltissimi lavoratori migranti costretti alla fuga. Se si calcoleranno le vittime dell'uranio impoverito, ingrediente dei proiettili missilati dai Cruise.
In "cambio", quali bambini ha protetto la missione libica? L'ipotetico massacro di civili era stato sventolato sulla base di notizie rivelatesi false.
E quanti dei bambini che secondo fonti non verificabili sono morti in Siria, sono il frutto delle ingerenze esterne che armando il cosiddetto esercito siriano libero allontanano le possibilità di negoziato fra le parti, previo cessate il fuoco?
Incontri: Omar, Sretchco, Najimullah, Ali, Noor
Bassora (Iraq) 1993. Omar aveva la stessa età dell'embargo, due anni e alcuni mesi. Nel piccolo viso mediorientale sgranava uno sguardo vellutato. Vivo e di normale peso, era una consolazione guardarlo dopo le immagini di scheletrini moribondi da embargo, negli ospedali. Sarà sopravvissuto all'embargo e alla successiva guerra, visti i tanti bambini morti per decreto internazionale? E sarà andato a scuola? Nei durissimi anni dell'embargo, a frequentare le aule malconce era poco più del 60% dei piccoli in età scolare; le spese per l'istruzione erano scese a un decimo in dieci anni. E avrà mangiato a sufficienza Omar? E si sarà ammalato di radioattività? Nell'area di Bassora soprattutto, i proiettili a uranio 238 usati nel 1991 hanno triplicato i casi di malattie come la leucemia, le malformazioni infantili, tumori.
Belgrado, 1999. Sretchco, o un nome così. Piccolissimo bimbo serbo, nato di sette mesi durante l'attacco Nato. A spegnerlo sarebbe bastato un soffio, l'interruzione di corrente prolungata e un guasto al generatore; succede, in guerra.
Agam (Afghanistan), 2001. Cullato dalla madre ventenne, Najimullah era nato da pochi giorni, già orfano. Una bomba "contro Bin Laden" aveva centrato dodici uomini fra i quali suo padre mentre riposandosi bevevano scin ciai, the verde (Marinella Correggia, "Gli orfani di Tora Bora", il manifesto, 27 dicembre 2001). Nel villaggio un uomo, Durkan, sotto altre bombe aveva perso moglie e i cinque figli: "Non sappiamo più nulla di lui, era come impazzito, poi è sparito". Come starà, peraltro, il pastorello Hanin che a undici anni, nel 1999, una delegazione della Campagna italiana per la messa al bando delle mine raccolse fra Herat e Kandahar mentre correva alla ricerca di aiuto con la mano in poltiglia, appena lacerata da una granata (Marinella Correggia, reportage "Lo sminatore di Ghazni", in Ho visto, edizioni e/o 2003)?
Baghdad 2003. Ali Ismail Eedan. Unico superstite della sua famiglia vittima di un bombardamento, le braccia ridotte a moncherini che incredulo cercava di agitare; divenuto un caso internazionale (l'unico) fu poi portato a Londra per avere almeno le protesi. Riparazione del danno.
Tripoli, fine luglio 2011. Noor, bambinetta color caffelatte dai capelli ricci, viveva nella città orientale di Tobruk con cinque fratelli, la madre e il padre poliziotto; temendo azioni da parte degli insorti, avevano fatto fagotto verso la capitale o verso Zliten, come molti altri. Da mesi Noor doveva accontentarsi di un container metallico.
Sempre a Tripoli, a una nonna non rimanevano che le foto dei suoi due nipotini, e dei loro genitori. Tutti schiacciati sotto le macerie della loro casa nella zona di Arrada Suq Al Juma. Il 19 giugno 2011.
(Questo il link per partecipare al progetto L'ultima delle guerre)
Fonte.
Occidentali, brava gente.
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