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31/12/2023

Capisaldi 2023

Il leitmotiv dell'anno che si chiude è stato la mancanza di tempo: troppe cose da fare per tenere il passo del mondo! Conseguentemente il tempo per "tutto il resto" si è ridotto al lumicino.

Gli ascolti, ovviamente, ne hanno fatto largamente le spese.

È una premessa che ripeto da ormai molti anni, segno che da questo punto di vista va sempre peggio e non se ne vede la fine.

Dunque anno avaro il 2023, in cui per forza di cose, la parte del leone l'hanno fatta gli ascolti consolidati, perché quando manca il tempo si torna su quanto già si conosce.

Tra le nuove uscite pochissimo materiale, comunque tutto partorito da soggetti ormai maturi, anzi quasi senili, nell'ordine:

  • Depeche Mode, con un ritorno di inaspettato livello considerando 4 decadi di carriera e la recente dipartita di Andrew Fletcher;
  • Godflesh di cui tanto per cambiare hanno parlato in pochissimi... sarà che di sti tempi non fa bello tessere le lodi di quegli artisti che ti sbattono nelle orecchie il lezzo del nostro mondo;
  • Overkill che mi paiono gli unici a tenere botta tra i thrasher statunitensi.

Tra il materiale mai ascoltato compiutamente, ma non di nuovo conio, qualcosa di davvero interessante è comunque spuntato fuori, tra Sinead O'Connor, Amy Winehouse, Psychedelic Witchcraft, U2 ed Eminem.

A ben vedere sarebbe potuto andare anche peggio... cosa che mi auguro nom succeda nel 2024.

Frusciante al Cinema: Silent night - Il silenzio della vendetta (2023) di John Woo

La precarietà diventa pubblica (altro che posto fisso)

La Pubblica Amministrazione sarà più attrattiva. Ai giovani il posto fisso non basta”. Questa fu la celebre frase con cui il Ministro Zangrillo inaugurò la stagione del “posto figo”, e purtroppo è stato di parola. Il triste regalo di Natale del Ministro è infatti il Decreto Ministeriale (DM) del 26 dicembre con cui apre le porte all’uso dell’apprendistato nella pubblica amministrazione, a cominciare dal personale dell’università.

Il Decreto prevede che fino al 10% delle nuove assunzioni (addirittura fino al 20% per Comuni, Province e Città Metropolitane) possa avvenire attraverso un contratto di apprendistato fino a tre anni che poi – previa una “valutazione positiva del servizio prestato, accompagnata da una relazione motivata concernente il servizio prestato, le attività svolte e la performance conseguita” – si trasforma nell’agognato (per i lavoratori, non per il Ministro) tempo indeterminato.

Le Pubbliche Amministrazioni potranno utilizzare questa modalità di assunzione fino al 2026, scadenza non a caso coincidente con la conclusione del PNRR, e infatti questa possibilità di assunzione viene presentata come uno degli elementi della strategia per sbloccare gli investimenti finora frenati dalle carenze di organico specialmente a livello locale, dove i “bandi PNRR” di ricerca del personale finora emanati erano tutti o quasi a tempo determinato senza nessuna garanzia di successiva assunzione a tempo indeterminato, col risultato di andare spesso deserti a causa dei bassi stipendi offerti e degli alti costi che i lavoratori si trovavano a dover affrontare in particolare in caso di trasferimento nelle grandi città.

In realtà, visto l’andazzo, c’è da temere fortemente che dal 2026 ci ritroveremo comunque con pochi investimenti fatti, ma con l’ennesimo colpo ai diritti dei lavoratori anche nella pubblica amministrazione, non solo con il proliferare di forme di inquadramento anomale, ma anche con criteri di selezione sempre più discutibili.

Il nesso con il PNRR, del resto, è tirato in ballo in maniera strumentale dal decreto, usato di fatto come leva per introdurre l’apprendistato. Le pubbliche amministrazioni, da qui al 2026, dovranno gestire non solo l’ordinario ma pure i 200 miliardi di euro di investimenti PNRR, e per questo hanno bisogno di personale anche a tempo, o comunque non automaticamente rinnovabile. Tuttavia, proprio in virtù di questo, avrebbero potuto, se questo fosse stato l’obiettivo, limitare il ricorso all’apprendistato a quelle amministrazioni, e al loro interno a quegli uffici, che sono direttamente impegnati nell’attuazione degli investimenti e delle riforme del Piano. Ciò avrebbe limitato di molto la possibilità di ricorrere all’apprendistato, circoscrivendolo alle mansioni connesse al lavoro straordinario derivante dal PNRR. Invece, il PNRR si cita solo retoricamente, mentre gli apprendisti saranno impiegati soprattutto nelle attività ordinarie delle amministrazioni. Prova di ciò sta nel fatto che il comma 3 dell’art. 1 del Decreto Ministeriale prevede la deroga all’art. 36 del DL 165/2001, ovverosia la deroga al principio secondo cui le pubbliche amministrazioni possono assumere con contratti precari “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”.

Nella sostanza il DM è una piccola galleria degli orrori: questa tipologia di assunzione è riservata a giovani di età inferiore ai 24 anni, neolaureati o che hanno completato gli esami previsti dal proprio ciclo di studio se l’Università ha in essere una convenzione con qualche pubblica amministrazione. Si sposa in pieno quindi l’idea che chi è giovane deve prima “farsi le spalle” e sottostare a condizioni peggiorative per entrare nel mondo del lavoro, salvo poi ricordarsi (art. 5) che costituisce elemento di valutazione, fra gli altri, “la rilevanza e la pertinenza delle esperienze professionali documentate con il profilo da ricoprire, nonché la durata delle medesime, ove attinenti”: insomma, per essere assunto devi prima esserti formato (non solo sui libri, ma anche professionalmente), ma poi da me Stato sempre da apprendista sarai trattato. Fra i titoli di studio sono oggetto di valutazione anche “la media ponderata dei voti conseguiti nei singoli esami” e “la regolarità dello svolgimento del percorso di studi”, misure penalizzanti per gli studenti-lavoratori, o semplicemente per chi nel proprio percorso di studi ha incontrato qualche difficoltà (ma magari criteri ad hoc per favorire le università-esamifici, a partire da quelle private). E si badi bene, in nome dell’immancabile “ottica di valorizzazione del merito” (art. 6), la media ponderata degli esami vale almeno per il 25% della valutazione complessiva ai fini dell’assunzione. Insomma, e per espressa ammissione dei Ministri (non a caso il Decreto è cofirmato dalla Ministra dell’Università Bernini), “ad aprire la strada all’apprendistato sono le convenzioni con le Università per individuare gli studenti da assumere”, un ulteriore svilimento delle Università stesse sempre più trasformate da enti educativi e di ricerca a una sottospecie di centri di avviamento al lavoro (povero).

L’articolo 4 infine, in maniera criptica, introduce un ambiguo principio di “Territorialità del reclutamento” che – insieme all’articolo 7 che disciplina le Convenzioni che le amministrazioni devono stipulare prioritariamente con le Università più vicine – paradossalmente finisce per costituire addirittura un freno alla mobilità delle persone (peraltro una delle contestazioni mossa più frequentemente ai giovani in maniera sprezzante definiti troppo choosy).

Tutte queste potrebbero alla fin fine sembrare solo note di colore, alchimie contabili con cui lo Stato si prende in giro da solo per aggirare parzialmente i vincoli auto-imposti con le politiche economiche di austerità che rendono difficoltosa la spesa pubblica (peggio che mai quella “corrente”, costituita in parte maggioritaria dalle spese per il personale). Tuttavia, a parte il fatto che occorrerà vigilare su come i vari istituti contrattuali (a partire da quelli economici) verranno applicate a questa tipologia di lavoratori, la nostra idea invece è che queste misure vanno contrastate a partire dalla loro funzione disciplinante: un neoassunto giovane, probabilmente alla prima esperienza lavorativa, la cui conferma dipende dalla valutazione del proprio dirigente, è verosimilmente un lavoratore facilmente ricattabile (o almeno più facilmente condizionabile), a cui “sconsigliare” scioperi o attività sindacale, o imporre obiettivi e carichi di lavoro spropositati; si crea un’ulteriore segmentazione del lavoro negli uffici, con il proliferare di gerarchie e interessi divergenti, cercando di mettere i lavoratori stessi gli uni contro gli altri.

La verità è che nella pubblica amministrazione di flessibilità ce n’è fin troppa, e lo Stato-datore di lavoro è ormai da anni diventato uno dei principali produttori di precarietà, con la conseguenza non solo di impoverire i propri lavoratori, ma anche di offrire alla cittadinanza servizi sempre meno validi dal punto di vista qualitativo.

Il caso della scuola è esemplare, con un numero di supplenti (soprattutto quelli annuali) in continua crescita, un fabbisogno facilmente programmabile (oggi possiamo già sapere con certezza quante classi dovremmo formare – e quindi di quanti docenti abbiamo bisogno – in un orizzonte medio-lungo) ma nonostante ciò ad ogni inizio anno scolastico si ripetono le scene del caos organizzativo dovuto alle nuove nomine temporanee, con conseguente ansia dei supplenti stessi che scoprono da una sera all’altra in quale scuola (e a volte addirittura quale provincia o regione) sono assegnati, e alunni costretti a cambiare ogni anno il proprio docente e iniziare i programmi in ritardo.

Sorvolando sul disastro pedagogico di questa situazione (evidentemente non rilevante né per questo Governo né per quelli che lo hanno preceduto) osserviamo che si tratta di un fenomeno numericamente ben noto alla Ragioneria Generale dello Stato, che nel proprio osservatorio sul pubblico impiego fornisce un quadro sconfortante: il numero di insegnanti precari (“Altro personale”) è in crescita costante da oltre 10 anni, fino ad aver superato nel 2021 il precedente record (negativo) del 2006.

Fonte: Ragioneria Generale dello Stato. Commento ai principali dati del conto annuale del periodo 2012-2021

Università e sanità sono altri due esempi in cui la precarietà sta creando danni enormi, con contratti a termine rinnovati all’infinito (quando va bene) e conseguenti disservizi.

Apprendistato e altre forme di flessibilità insomma, nel pubblico come nel privato, non servono affatto per “formare” un nuovo dipendente (che, vale la pena ricordarlo sempre, è un dovere e un onere del datore di lavoro, e non del lavoratore, neppure indirettamente) né per verificare le sue reali capacità (per quello già esiste il periodo di prova). Si tratta banalmente di un modo per imporre condizioni lavorative peggiori, e se nel caso del pubblico impiego pare – almeno per ora – escluso il caso di un sottoinquadramento retributivo, è ridicolo pensare all’altro “beneficio” generalmente associato nel settore privato al contratto di apprendistato, costituito essenzialmente da uno sgravio previdenziale: che senso ha infatti un risparmio previdenziale per una pubblica amministrazione, quando quegli stessi contributi costituiscono una entrata di un altro “pezzo” dello Stato? Nessuno appunto, tranne per il lavoratore che si troverà ad avere meno contributi versati, pur svolgendo (sarà da scommetterci) esattamente le stesse funzioni dei suoi colleghi “non apprendisti”.

Il Governo insomma continua a pensare a tutto per il pubblico impiego, meno a quello che serve veramente: un rinnovo dei contratti che garantisca almeno il pieno recupero dell’inflazione, un piano di assunzioni straordinarie e una diminuzione del già eccessivo livello di precarietà presente.

Al contrario, anche il settore pubblico accresce la sua funzione di vettore di precarietà e ricattabilità tramite un’offensiva che si nutre di retorica velenosa contro il “lavoratore pubblico fannullone” e di misure concrete di attacco alle condizioni lavorative di chi è impiegato presso un’amministrazione pubblica.

L’introduzione dell’apprendistato è un chiaro tassello di questa offensiva e come tale va denunciato e combattuto.

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Storia e vita di Richard Sorge

Scaricare l’Ucraina, usandola ancora. Ma come?

di Francesco Dall'Aglio

Alcune cose sono successe, durante gli ultimi giorni, e alcune di queste cose presentano motivi di interesse.

La prima è certamente l’editoriale di Serge Schmemann pubblicato il 27 dicembre sul New York Times e intitolato “L’Ucraina non ha bisogno di tutto il suo territorio per sconfiggere Putin” che, come era prevedibile, ha sollevato un bel po’ di discussioni.

I titoli degli articoli, però non sono tutto, anzi sono quasi niente: c’è bisogno del testo.

A prima vista l’articolo (soprattutto, ripeto, se consideriamo solo il titolo) non sembra discostarsi molto dall’idea generale che si sta facendo strada da un po’ di tempo, ossia che una vittoria militare ucraina non sia più ipotizzabile (resto stupito dal fatto che si è davvero pensato potesse esserlo, ma questo è un altro discorso) e sia necessario non solo trattare, ma all’occorrenza trattare da una posizione di debolezza.

Lo stesso giorno era stato pubblicato anche un articolo di Politico che diceva più o meno lo stesso: passare alla difensiva, potenziare le difese, soprattutto quelle antiaeree, “far risorgere” l’industria ucraina per mettere il paese in grado di sopperire ai suoi bisogni senza troppo sostegno estero eccetera, in modo da arrivare a questi benedetti negoziati nel migliore dei modi, e poi aggiunge tutta una serie di considerazioni interessanti in chiave di politica interna americana che non sto qui a ripetere.

L’articolo del NYT però fa un passo avanti, suggerendo di arrivare ai negoziati anche non nel modo migliore, ma dando per scontato che parte del territorio sia persa e non sia, almeno al momento, recuperabile. Questo, però, non significa cedere, e la lettura dell’articolo lo conferma.

In primo luogo l’idea dei negoziati è presentata come un’idea di Putin, non della controparte ucraina, riprendendo un articolo sempre del NYT del 23 dicembre.

Questo, scrive Schmemann, è “sia sospetto che allettante“. Sospetto perché, al di là del fatto che Putin non è degno di fiducia, lascerebbe la Russia in controllo del 20% del territorio ucraino e le darebbe tempo e modo di riorganizzare le forze per riprendere le ostilità, magari aspettando che Trump diventi Presidente (che poi è la preoccupazione maggiore del NYT, ma anche questo è un altro discorso).

Se però Putin fosse serio, continua Schmemann, l’Ucraina dovrebbe accettare perché “il territorio recuperato non è la sola misura della vittoria in questa guerra“.

La controffensiva è andata male, non è sicuro che in futuro riceverà la stessa assistenza da parte degli alleati, e l’ipotesi di una guerra d’attrito certamente non favorisce l’Ucraina.

Ma, appunto, “riconquistare territorio è la maniera sbagliata di immaginare il risultato migliore. La vera vittoria dell’Ucraina sarà sorgere dall’inferno della guerra come uno stato forte, indipendente, prospero e sicuro, fermamente piantato in Occidente“, cioè quello che “il signor Putin teme di più“.

In che modo l’Ucraina possa diventare forte e prospera, soprattutto perdendo il 20% del suo territorio con regioni economicamente importantissime e la più grande centrale nucleare d’Europa, è lasciato nel vago, così come non si spiega perché Putin dovrebbe temere una cosa del genere.

Secondo Schmemann, perché gli ricorderebbe che era la strada che la Russia avrebbe potuto seguire dopo il 1991 quando “entrambi i paesi si sono liberati dall’Unione Sovietica, prima che il signor Putin entrasse nel Cremlino e soccombesse al rancore e al fascino del potere dittatoriale e dell’illusione imperiale“, abbandonando il paradiso democratico e riformista della gestione Eltsin che tanto ci piaceva (quest’ultima è una considerazione mia. A differenza di quella di Schmemann è sensata).

Certo, un armistizio sarebbe difficile per Zelensky, “l’intrepido presidente ucraino“, che già si è urtato quando Zaluzhny ha osato parlare di stallo del fronte. Ma, e qui viene la parte interessante, “esplorare [l’idea di] un armistizio non è ritirarsi. Al contrario, la lotta deve continuare, anche quando inizieranno le trattative, per mantenere pressione militare ed economica sulla Russia“.

Lo ripeto: la lotta deve continuare, the fight must go on. Perché ovviamente l’armistizio non deve portare alcun vantaggio alla Russia. Né l’Ucraina né “buona parte del mondo” accetterebbero l’annessione di territorio ucraino, e soprattutto non sarebbe una vittoria per Putin, per quanto lui la presenterebbe come tale.

Segue elenco di situazioni che nell’economia dell’articolo serve poco, ma è utile per dare ai NAFO [NATO friends, ndr] e agli Iacoboni un po’ di gioia in questo momento duro: esercito russo massacrato e umiliato, il piano di installare un governo amico è fallito, ritirata caotica da Kiev (?), guerra terribilmente costosa, valorosa Ucraina sostenuta da miliardi di dollari in fondi e armi americane ed europee, un anno per prendere Bahmut, le ondate umane ovviamente di “riservisti male addestrati e carcerati arruolati” non riescono a prendere Avdiivka, migliaia di morti, la meglio gioventù emigrata, l’ammutinamento di Prigožin, le tremende sanzioni che hanno posto fine a quasi tutto il commercio con l’Occidente (tranne gas, petrolio, uranio, alluminio, fertilizzanti, diamanti…) e portato a un’inflazione galoppante anche se Putin e i suoi sgherri comunque ci hanno guadagnato in qualche modo; economia che nel breve periodo va bene stimolata dalle spese militari e dalla necessità di sostituire i materiali sanzionati ma che alla lunga andrà malissimo, l’Unione Europea che accetta di aprire i negoziati sull’accesso dell’Ucraina (e vorrei vedere, dopo quello che gli abbiamo promesso), la Finlandia nella NATO e la Svezia quasi.

Insomma abbiamo vinto, in caso non fosse chiaro. Però non bisogna rilassarsi.

In effetti, pare che dalle nostre parti siano finiti i soldi e, un po’, la volontà politica, e se Trump dovesse venire eletto presidente guai a noi. A maggior ragione, bisogna arrivare ai negoziati.

La prima fase, ci informa Schmemann citando la roadmap messa su dalla RAND Corporation (ah…), dovrebbe consistere nell’accordarsi sulla. cessazione delle ostilità, il ritiro delle truppe e l’arrivo di una missione esterna di monitoraggio. Chi debba farne parte è lasciato nel vago.

Poi bisognerà fornire all’Ucraina garanzie di sicurezza, bontà loro riconoscendo il fatto che la Russia non gradirebbe che le suddette garanzie fossero l’ingresso nella NATO.

Poi ci sarà da risolvere il problema dei crimini di guerra (russi), delle riparazioni (russe), delle sanzioni (alla Russia). E, ovviamente, “qualsiasi armistizio sarebbe ben lontano dall’essere una risoluzione finale“; meglio ancora, e con queste parole si conclude l’articolo, “nessun armistizio temporaneo potrebbe precludere per sempre all’Ucraina di recuperare tutte le sue terre“.

Quindi, come per Minsk 1 e 2, facciamo l’armistizio e poi lo violiamo; intanto continuiamo a mandare armi e soldi, perché, come stanno dicendo in tanti, è cosa buona per l’economia USA; facciamo pagare alla Russia le riparazioni di guerra; manteniamo le sanzioni; e istituiamo un tribunale per i crimini di guerra russi (e solo per quelli).

Resta da chiedersi in base a quale criterio alla Russia una sistemazione del genere dovrebbe convenire, ma naturalmente l’idea è che siano talmente tanto stremati da avere assoluto bisogno, quasi più dell’Ucraina, di una tregua nei combattimenti e quindi accetteranno qualsiasi cosa, anzi la stanno proponendo loro.

In realtà a mettere le cose in chiaro, dal punto di vista delle prospettiva russa, ci ha pensato subito Medvedev nel suo solito ruolo di “bad cop”: l'”operazione militare speciale” continua, e il suo obiettivo è sempre quello di disarmare le forze ucraine.

Non solo (perché le condizioni del negoziato non sono più quelle dei primi mesi del 2022): cambio di regime e annessione di Odessa, Dnepropetrovsk, Kharkov, Nikolaev, Kiev “e molte altre città russe occupate“. Su questo, dice Medvedev, sono aperti a ogni negoziato.

Questa era la prima cosa che volevo analizzare. Sui missili di ieri e oggi, russi in Ucraina e ucraini in Russia, scriverò più tardi. (30 dicembre 2023)

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La normalizzazione con Israele è finita con la sua brutale guerra a Gaza

Il 14 dicembre 2023, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il National Defense Authorization Act, che includeva una disposizione interessante: il presidente degli Stati Uniti avrebbe potuto creare un inviato speciale per gli Accordi di Abramo, il Negev Forum e altre piattaforme correlate.

Questa aggiunta è arrivata contemporaneamente a profonde preoccupazioni del governo riguardo al collasso dell’intera agenda degli Stati Uniti in Medio Oriente, nonché sulle minacce poste a Israele da Libano e Yemen. Fino a pochi mesi fa, alti funzionari degli Stati Uniti si vantavano delle loro manovre politiche per convincere gli stati arabi a normalizzare le relazioni con Israele e a ridurre l’influenza della Cina nella regione.

Tutti questi piani sono crollati nelle rovine della campagna di bombardamenti aggressivi di Israele contro i palestinesi a Gaza. Ora, tutte le strutture create dagli Stati Uniti, a cominciare dagli Accordi di Abramo, sembrano aver perso la loro solidità. Mentre la questione della Palestina aveva iniziato a sfumare dal radar degli stati arabi, ora è costretta a tornare al centro a causa delle azioni di Hamas e delle altre fazioni armate palestinesi l’7 ottobre.

Gli Accordi di Abramo. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non è mai stato interessato al diritto internazionale o alle complessità della diplomazia. Per quanto riguarda Israele, Trump è stato chiaro nel voler risolvere il conflitto con i palestinesi, che sembravano indeboliti dalla politica di insediamenti israeliana e dall’isolamento di Gaza, a vantaggio di Tel Aviv.

Nel gennaio 2020, Trump ha presentato il suo piano “Peace to Prosperity”, che di fatto ignorava le rivendicazioni dei palestinesi e rafforzava lo stato israeliano di apartheid. L’emblema di questa politica inflessibile era il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una mossa provocatoria che sconvolgeva la pretesa palestinese che la città dovesse essere al centro del loro stato.

“Ho fatto molto per Israele”, ha dichiarato Trump in una conferenza stampa il 28 gennaio, annunciando questo piano insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Nessun palestinese o israeliano sarà sradicato dalle proprie case”, ha affermato Trump, anche se il suo piano indicava che “scambi di territorio forniti dallo Stato di Israele potrebbero includere aree sia popolate che disabitate”. La contraddizione non aveva importanza. Era chiaro che Trump avrebbe sostenuto l’annessione del Territorio Palestinese Occupato, qualunque cosa accadesse.

Alcuni mesi dopo, Trump ha annunciato gli Accordi di Abramo, che erano una serie di accordi bilaterali tra Israele e quattro paesi (Bahrein, Marocco, Sudan e Emirati Arabi Uniti). Questi Accordi promettevano di continuare il processo di normalizzazione da parte degli stati arabi, un processo iniziato con l’Egitto nel 1978 e poi con la Giordania nel 1994.

Nel gennaio 2023, l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha portato avanti questo slancio istituendo il Gruppo di Lavoro del Negev Forum, che riuniva questi stati (Bahrein, Egitto, Marocco e Emirati Arabi Uniti) con Israele in una piattaforma per “costruire ponti” nella regione. In realtà, questo Forum faceva parte del progetto complessivo di spingere gli stati arabi a avere una relazione pubblica con Israele. Ciò che sfuggiva a Israele e agli Stati Uniti era l’Arabia Saudita, un paese molto influente nella regione. Se gli sauditi si unissero a questo processo, e se anche il Qatar partecipasse, la causa palestinese sarebbe significativamente diminuita.

La Via Indiana. Nel luglio 2022, Biden andò a Gerusalemme per sedersi accanto al primo ministro israeliano Yair Lapid e ospitare una riunione virtuale con il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan.

In questa riunione, i quattro uomini annunciarono la creazione di “i2u2”, o una piattaforma di progetti commerciali sviluppati congiuntamente da India, Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti. Questa piattaforma portava l’India direttamente nei piani di normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli stati arabi.

L’anno successivo, ai margini del meeting del G20 a Delhi, diversi capi di governo annunciarono la creazione del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC). Questo corridoio aveva l’intenzione dichiarata di contrastare l’iniziativa Cinese della Belt and Road, nonché di essere uno strumento per coinvolgere l’Arabia Saudita nella spinta alla normalizzazione con Israele.

L’IMEC doveva partire dal Gujarat e terminare in Grecia, con un percorso che attraversava l’Arabia Saudita e Israele. Poiché sia l’Arabia Saudita che Israele avrebbero fatto parte di questo corridoio, ciò avrebbe significato il riconoscimento de facto di Israele da parte dell’Arabia Saudita.

Funzionari diplomatici israeliani hanno iniziato a viaggiare in Arabia Saudita, suggerendo che la normalizzazione era in programma (con il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman che ha detto a Fox News a settembre 2023 che la normalizzazione stava diventando “più vicina”).

La guerra a Gaza ha fermato l’intero processo. Mohammed Bin Salman ha avuto una telefonata con Biden alla fine di ottobre, durante la quale ha detto che gli Stati Uniti dovevano chiedere un cessate il fuoco, cosa improbabile. Nel corso della chiamata, i funzionari sauditi hanno detto che il principe ereditario aveva notato la possibilità di riprendere il dialogo sulla normalizzazione dopo la guerra.

Ma c’era poco entusiasmo nelle loro voci. Alcuni giorni dopo questa chiamata, Biden ha detto: “Sono convinto che una delle ragioni per cui Hamas ha attaccato quando ha fatto, e non ho prove di questo, solo il mio istinto me lo dice, è a causa dei progressi che stavamo facendo verso l’integrazione regionale per Israele”. Il giorno successivo, la Casa Bianca ha dichiarato che Biden era stato frainteso.

Ansar Allah e Hezbollah, giorni dopo che Israele ha iniziato a martellare senza pietà Gaza, si sono aperti due nuovi fronti di battaglia. Nel sud del Libano, i combattenti di Hezbollah hanno iniziato a lanciare razzi su Israele, causando l’evacuazione di 80.000 israeliani. Israele ha reagito, compreso l’uso di fosforo bianco illegale.

All’inizio di novembre, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha detto ai suoi seguaci che i loro combattenti avevano nuove armi con cui minacciare non solo Israele, ma anche i suoi sostenitori, gli Stati Uniti. Le navi da guerra degli Stati Uniti nell’est del Mediterraneo, ha detto Nasrallah, “non ci spaventano e non ci spaventeranno”. I suoi combattenti, ha detto, “si sono preparati alle flotte con cui minacciate noi”.

La presenza di missili Yakhont di fabbricazione russa dà certamente ad Hezbollah la credibilità per dire che può colpire una nave da guerra degli Stati Uniti che si trova a meno di 300 chilometri dalla costa levantina. Nel discorso, Nasrallah ha congratulato Ansar Allah, anche chiamato gli Houthi, per i missili che hanno lanciato verso Israele e verso le navi che cercavano di raggiungere il Canale di Suez.

Questi attacchi da parte di Ansar Allah hanno ora trattenuto molte compagnie di navigazione, che semplicemente non vogliono entrare in questo conflitto (ad esempio, l’OOCL di Hong Kong ha deciso che le sue navi eviteranno la regione e non forniranno Israele).

In risposta, gli Stati Uniti hanno annunciato una coalizione marittima per pattugliare il Mar Rosso. Ansar Allah ha risposto dicendo che trasformerebbe le acque in un “cimitero” perché questa coalizione non si trattava di libertà marittima ma di consentire il “riarmo immorale” di Israele. Le azioni di Hezbollah e Ansar Allah hanno inviato un messaggio alle capitali arabe che almeno alcune forze politiche sono disposte a offrire solidarietà materiale ai palestinesi. Questo ispirerà le popolazioni arabe a esercitare maggiore pressione sui loro governi.

La normalizzazione con Israele sembra essere fuori discussione. Ma, se questa pressione aumenta, paesi come Egitto e Giordania potrebbero essere costretti a riconsiderare i loro trattati di pace.

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Da Delors a Schäuble, utopia europea e distopia

di Guido Salerno Aletta

Quando ci lasciano gli uomini che sono stati protagonisti delle rispettive epoche, da una parte Jacques Delors che fu Presidente della Commissione europea per ben tre mandati, dal 1985 al 1995.

Delors fu un vero visionario, che non solo sognò, ma seppe realizzare sotto la propria guida un'Europa politica e non solo economica, passando dal Mercato Comune al Mercato Unico; unificando i precedenti Trattati, Ceca, Cee ed Euratom in un Atto unico europeo; procedendo all'abbattimento delle frontiere ed alla libera circolazione delle persone con gli accordi di Schengen; e soprattutto dando vita al Trattato di Maastricht, che istituì l'Unione europea con regole che andavano molto al di là del divieto di concorrenza sleale tra le economie dei Paesi aderenti, imponendo il divieto di dazi e tariffe ovvero di distorsivi aiuti di Stato alle imprese nazionali.

Il passaggio fondamentale fu la definizione delle regole dell'Europa monetaria, che poggia su tre pilastri:

- la creazione del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) che ha al suo vertice la Bce, con il divieto di finanziare gli Stati in ogni forma, anche mediante anticipazioni di tesoreria;

- la fissazione di regole di convergenza tra i bilanci pubblici, con il divieto di superare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil e quello del 60% nel rapporto debito/Pil;

- la previsione della istituzione della Moneta unica europea, l'euro, che fu decisa nell'anno 2000 ed entrò in circolazione l'anno successivo.

Questa Architettura avrebbe dovuto assicurare ai cittadini europei condizioni di uguaglianza, di libertà politica ed economica, in un contesto di regole inderogabili che avrebbero assicurato la convergenza tra situazioni di partenza assai diverse attraverso gli strumenti perequativi del bilancio europeo. Avendo assunto che l'IVA ed i dazi alle frontiere esterne, gli unici ammissibili, fossero Risorse Proprie dell'Unione, era possibile procedere ad aggiustamenti nelle risorse fiscali nazionali, visto che gli Stati più prosperi sarebbero divenuti “contributori netti” al bilancio europeo mentre altri sarebbero stati “beneficiari netti” di trasferimenti mirati alla crescita, soprattutto attraverso il Fondo Sociale Europeo ed il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale.

Pur senza culminare nella ambizione di trasformare l'Unione europea in uno Stato federale, si riteneva di aver creato i presupposti concreti per la creazione di un'area di cooperazione molto coesa ed efficiente.

Se questo era il Sogno, concretizzato in una disciplina normativa estremamente precisa ed articolata, la Realtà fu assai diversa, in un processo economico e finanziario estremamente complesso e tumultuoso che si snoda in tre fasi: la prima va dal 1992 al 2001; la seconda dal 2001, anno in cui iniziò a circolare l'euro, al 2010 anno segnato dalle profonde tensioni nella periferia dell'Eurozona, innescata dalle crisi di Irlanda e Grecia, seguite da quelle del Portogallo e dell'Italia.

Una catastrofe economica, finanziaria e sociale si era abbattuta sull'Unione europea, a valle della Grande Crisi Finanziaria Americana del 2008: gli squilibri strutturali, commerciali e finanziari si erano moltiplicati. I saldi commerciali tra gli Stati europei non tendevano al pareggio ma a divaricarsi, con alcuni Paesi che vendevano sempre di più ad altri che si dovevano indebitare per farlo, e con le banche dei “Paesi venditori”, principalmente la Germania, che incassava lauti interessi indebitando le economie dei “Paesi compratori”. La delocalizzazione produttiva verso i Paesi dell'Est aveva particolarmente indebolito i Paesi come l'Italia, a favore dei nuovi entranti che venivano finanziati dall'Unione europea per industrializzarsi: come contributore netto, l'Italia finanziava la distruzione del suo apparato produttivo.

Mentre erano state messe pesanti “catene” agli Stati, per evitare che si indebitassero, i capitali erano stati lasciati liberi senza controllo: colmavano con prestiti di ogni genere gli squilibri commerciali e finanziari, accrescendo senza sosta l'ammontare dei debiti e degli interessi da pagare. Fino allo scoppio della crisi: il sistema era insostenibile, tra arricchimenti finanziari enormi da una parte ed impoverimenti finanziari insostenibili dall'altra.

Il Sogno di Jacques Delors si era trasformato in un Incubo.

Alla crisi profondissima del biennio 2010-2011, si pose rimedio con una stretta feroce: invece di imporre il riequilibrio nei rapporti commerciali e finanziari tra gli Stati, una regola che avrebbe chiuso la strada all'arricchimento continuo di cui aveva beneficiato la Germania attraverso l'euro che non consentiva più svalutazioni di aggiustamento, fu il Ministro delle Finanze dell'epoca, Wolfang Schäuble, a contribuire in modo determinante alla definizione delle nuove regole di rigore assoluto da imporre agli Stati, con il pareggio strutturale dei bilanci imposto modificando le Costituzioni degli Stati e verificato dalla Commissione europea attraverso il Fiscal Compact, un Trattato parallelo a quello europeo, che imponeva la riduzione di un ventesimo l'anno dell'eccedenza di debito rispetto all'obiettivo del 60%.

Nelle riunioni dell'Ecofin, Schäuble fu inflessibile con i debitori, in primo luogo con la Grecia: la Germania, che aveva già perduto molti capitali investendo in titoli americani travolti dalla crisi del 2008, non si sarebbe certo fatta beffare dai creditori europei. Avrebbero dovuto pagare tutto, fino all'ultimo euro, i loro debiti: gli strumenti di sostegno, dall'EFSM con la Troika composta dalla Commissione Europea, dalla Bce e dal Fmi, fino al MES, erano condizionati alla adozione di profonde riforme ma soprattutto alla cessione di ogni tipo di asset in mano agli Stati, dai porti alle ferrovie, alle autostrade.

L'austerità sfrenata fu imposta all'intero Continente, determinando l'abbattimento dei ritmi di crescita e profonde ristrutturazioni fiscali e sociali: con le misure di austerità imposte in Italia dal governo Monti nel 2012, non solo cademmo in una recessione ancora più profonda da quella determinata dalla crisi americana del 2008, ma fu distrutta strutturalmente la domanda interna ed imposta la deflazione salariale per favorire le esportazioni. Un riequilibrio pagato a prezzo durissimo.

Per oltre un decennio, l'intera Europa si è impoverita sull'altare del rigore fiscale, dotata com'è di una moneta unica, l'euro, che non consente aggiustamenti valutari mentre i mercati continuano a lucrare sugli squilibri commerciali e finanziari fino al collasso.

Questa è la distopia cui ci ha condotto la visione del rigore ad ogni costo incarnata da Schäuble.

La politica accomodante della Bce, con i Qe, ha cercato di evitare la deflazione dei prezzi, che avrebbe avvitato i debiti nell'insolvenza collettiva. La manica fiscale extra-larga durante il biennio pandemico 2020-2021 ha creato una ulteriore bolla di debiti pubblici: un altro delirio, da cui sarà ancora più difficile uscire.

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, appena varato, prevede una lunga fase transitoria, fino al 2028, prima di azzannare definitivamente il tema della riduzione dei debiti pubblici: ci sono le elezioni europee nel 2024, quelle francesi nel 2027 e quelle italiane nel 2028.

Nel frattempo in Europa si trattiene il fiato, sperando in bene: una nuova crisi, finanziaria, energetica o geopolitica per via della guerra in corso in Ucraina ed il conflitto in Palestina, sarebbe esiziale.

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Lo sterminio pianificato dei bambini palestinesi da parte di Israele

I sionisti hanno ucciso più di 100 bambini palestinesi che avevano meno di 10 anni, nelle ultime 24 ore, con i loro incessanti bombardamenti su tutta la striscia di Gaza.

11.400 bambini uccisi in 80 giorni, per i carnefici, sono “danni collaterali”; ma si tratta di un genocidio premeditato contro le bambine ed i bambini palestinesi.

In un video pubblicato da tiktok che sta facendo il giro di internet, un soldato israeliano, durante videochiamata, si vanta esplicitamente aver ucciso neonati e bambini palestinesi a Gaza: “Cerchiamo bambini ma non ce ne sono più, forse ho ucciso una ragazza che aveva 12 anni, ma cerchiamo bambini”.

A 9.000 bambini palestinesi hanno dovuto amputare uno o più arti e 1.000 bambini hanno subito amputazioni senza anestesia perché Israele non ne consente l’ingresso a Gaza, insieme a molti altri beni essenziali.

In Gaza, ai bambini palestinesi vengono somministrati potenti sedativi, per alleviare la loro sofferenza mentre muoiono; perché non possono essere curati.

80 giorni di pesanti bombardamenti israeliani hanno devastato il sistema sanità.

Questo è un livello di orrore senza precedenti.

La Relatrice Speciale, delle Nazioni Unite, Francesca Albanese, dice le cose come stanno: Israele ha distrutto Gaza, sganciando l’equivalente di due bombe nucleari in 80 giorni. E prendendo di mira gli ospedali, che sono “sacri secondo il diritto internazionale”.

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30/12/2023

The call - Non rispondere (2003) di Takashi Miike - Minirece

Le forze della resistenza palestinese chiamano all’azione comune

Giovedì 28 dicembre è stata rilasciata in Libano una dichiarazione congiunta da parte dei leader dei principali gruppi della Resistenza palestinese.

La dichiarazione è stata rilasciata a seguito di “un incontro consultivo a Beirut”, si legge in un comunicato stampa, una copia del quale è stata ricevuta dal Palestinian Chronicle.

I gruppi coinvolti nell’incontro in Libano sono stati il Movimento di Resistenza Islamica Hamas, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il Movimento della Jihad Islamica Palestinese, il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale.

Di seguito sono riportati alcuni estratti della dichiarazione finale.

Liquidare la Palestina

In primo luogo, l’obiettivo finale di Israele, attraverso i suoi continui attacchi brutali contro i palestinesi in tutto il mondo, e il genocidio in corso a Gaza, è quello di sfollare il popolo palestinese e di “porre fine alla causa nazionale palestinese e liquidare i legittimi diritti nazionali del nostro popolo, determinando il destino, stabilendo lo stato palestinese indipendente con Al-Quds (Gerusalemme Est) come capitale, e garantendo il diritto al ritorno per i rifugiati del nostro popolo alle loro case e proprietà. secondo la risoluzione 194.”

Contrastare gli obiettivi di Israele

In secondo luogo, la Resistenza è riuscita a “sventare gli obiettivi del nemico, dimostrando la sua incompetenza e la fragilità delle sue forze sul campo”.

In questo contesto, i partecipanti hanno affermato “la loro determinazione a continuare la resistenza sul campo, e in altri forum, fino a quando la guerra brutale contro il nostro popolo non si fermerà e l’aggressione sarà respinta dalla Striscia”.

Le nostre richieste

In terzo luogo, la leadership dei gruppi di resistenza ha evidenziato i loro obiettivi collettivi nella guerra in corso a Gaza come segue:

1) Cessazione immediata della guerra di genocidio, terra bruciata e pulizia etnica da parte del nemico israeliano nella Striscia di Gaza.

2) Rompere l’assedio della Striscia, iniziare a rifornire il nostro popolo di tutte le necessità di vita, e contemporaneamente ricostruire e ricostruire le infrastrutture, le istituzioni e le strutture. Ciò include la fornitura delle forniture necessarie per riattivare e sostenere il sistema sanitario, che sta quasi collassando sotto gli atti barbarici dell’aggressione israeliana, e il trasferimento di casi di lesioni gravi dalla Striscia a cure all’estero in paesi fratelli e amici.

3) L’impegno arabo, islamico e internazionale per la ricostruzione, e la richiesta ai paesi fratelli e amici – e alle organizzazioni internazionali e regionali, prime fra tutte la Lega Araba, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica e le Nazioni Unite – di lanciare un’iniziativa internazionale per ricostruire ciò che l’occupazione e l’aggressione barbara hanno distrutto nella Striscia di Gaza.

Sogni irrealizzabili di USA e Israele

In quarto luogo, i gruppi hanno sottolineato la loro condanna e il rifiuto degli “scenari da parte dell’Occidente e di altre entità (politiche) filo-israeliane del cosiddetto ‘giorno dopo’ a Gaza”.

“Questi sono semplici sogni irrealizzabili che non si realizzeranno né ora né in futuro, specialmente dopo che i segni della sconfitta del nemico hanno cominciato ad apparire, nel suo esplicito riconoscimento dei suoi morti e feriti per mano della nostra resistenza”, si legge nella dichiarazione.

La dichiarazione ha anche riaffermato l’unità dei palestinesi e che non esiste una soluzione a Gaza, e un’altra causa in Cisgiordania e una terza a Gerusalemme.

“La causa palestinese è la causa di tutta la Palestina, della terra, del popolo, dei diritti, del futuro e del destino. La soluzione alla causa può essere raggiunta solo attraverso la partenza dell’occupazione e di tutte le forme di insediamento, aprendo la strada al nostro popolo per determinare il proprio destino nazionale sulla propria terra”.

Unità strategica

In quinto luogo, i gruppi hanno anche suggerito un corso politico per ricucire la frattura tra le varie fazioni palestinesi e per porre fine a tutte le questioni politiche in sospeso per garantire che l’attuale unità porti a una “strategia unificata”. lotta” che reintroduce “la nostra causa come causa di liberazione nazionale per un popolo sotto occupazione”.

1) Chiediamo “un incontro nazionale globale che includa tutte le parti senza eccezioni, per attuare ciò che è stato concordato nei precedenti dialoghi palestinesi e per affrontare le conseguenze della brutale guerra sul nostro popolo nella Striscia di Gaza, e i barbari attacchi da parte delle bande di coloni (ebrei israeliani) e delle forze di occupazione, e i progetti di insediamento e annessione in Cisgiordania, specialmente ad Al-Quds”.

2) Rifiutiamo “tutte le soluzioni e gli scenari per il cosiddetto ‘futuro della Striscia di Gaza’ e per una soluzione nazionale palestinese basata sulla formazione di un governo di unità nazionale che emerga da un consenso nazionale globale che includa tutte le parti, responsabili dell’unificazione delle istituzioni nazionali nelle terre occupate in Cisgiordania e nella Striscia.

3) Sottolineiamo “la necessità di un cessate il fuoco e la cessazione permanente di tutti gli atti di aggressione, e il completo ritiro dalla Striscia di Gaza, come condizione per discutere lo scambio di prigionieri basato sul principio del ‘tutti per tutti’.

4) Chiediamo lo “sviluppo e il rafforzamento del sistema politico palestinese su basi democratiche, attraverso elezioni generali – presidenziali, legislative e del consiglio nazionale – secondo un sistema di rappresentanza proporzionale completo, in elezioni libere, eque, trasparenti e democratiche, con la partecipazione di tutti.

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Venezuela - Manovre militari contro invio nave da guerra britannica in Guyana

Il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha ordinato l’attivazione “immediata” di un’esercitazione militare nella zona orientale del Paese, a ridosso del Territorio Essequibo, in risposta alla “minaccia” rappresentata dall’invio di una nave da guerra britannica nella Guyana.

“È una minaccia inaccettabile per il Venezuela e per qualsiasi Paese della regione”, ha detto Maduro nel discorso di fine anno.

Il ministero degli Esteri venezuelano ha definito l’invio della nave da guerra britannica un “gesto ostile” e una “violazione alla recente dichiarazione di Argyle”, il documento che i governi di Venezuela e Guayana hanno firmato per orientare una soluzione pacifica della crisi.

“Il Venezuela ripudia e respinge l’interferenza del Regno Unito nella disputa territoriale sulla Guyana Essequiba”, ha scritto la vicepresidente esecutiva, Delcy Rodríguez, sul suo account sul social network X, ricordandole che “ha l’obbligo di rispettare quanto concordato nella Dichiarazione di Argyle, che esclude espressamente le minacce esterne che cercano di seminare o intensificare un conflitto tra Venezuela e Guyana”.

Da parte sua, anche il leader dell’opposizione venezuelana Luis Eduardo Martinez ha avanzato la proposta che i leader della Caricom (Comunità dei Caraibi), della CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi) e del Brasile sollecitino l’immediato ritiro dalle coste della Guyana della nave della marina britannica HMS Trent e la cessazione dell’escalation che la Guyana sta portando avanti.

“Siamo ferventi sostenitori della pace, ma la Guyana e il mondo devono capire che i venezuelani marceranno insieme in difesa della nostra integrità territoriale”, ha sottolineato Martinez, ribadendo che “quando si tratta di difendere il Venezuela, il suo territorio, compreso l’Essequibo, che è senza dubbio nostro, dobbiamo essere una cosa sola”.

L’invio della nave militare segue la visita a Georgetown del sottosegretario agli Esteri per le Americhe David Rutley, lo scorso 18 dicembre, il primo rappresentante di un governo del G7 a recarsi in Guyana dopo il referendum sull’annessione del Territorio Essequibo organizzato dal Venezuela lo scorso 3 dicembre.

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Ex Ilva. Tre opzioni prospettate. La scelta a Mittal, governo immobile

Un’ora e mezza di confronto non è servita a nulla, se non a rimandare a una nuova data, l’8 gennaio, quando si terrà la nuova assemblea dei soci e quando, a dire del Governo, bisognerà prendere una decisione definitiva.

Tre le opzioni prospettate: la prima è che il socio privato decida di investire; la seconda, exit strategy, è che si concluda un accordo per accompagnare Arcelormittal fuori e per sostituirlo con un altro socio provato; la terza è, in caso di mancato accordo, l’amministrazione straordinaria.

La cosa che più ci preoccupa è che, in ogni caso, la decisione viene lasciata proprio ad Arcelormittal. Il Governo non riesce a fare altro che ribadire ancora una volta che questa situazione è frutto della cattiva gestione della vertenza ad opera dei precedenti Governi.

Noi riteniamo che questo non può continuare ad essere l’alibi per non fare nulla, e per non lavorare in maniera incisiva ad una soluzione.

Noi siamo estremamente preoccupati perché alcune aziende non hanno ancora pagato le tredicesime, perchè ci sono migliaia di lavoratori in cassa integrazione e ordini degli appalti scaduti e non ancora rinnovati.

Quindi rischiamo che l’8 la trattativa venga affrontata con un carico non indifferente sulle spalle del Governo. Governo che non ha assolutamente preso in considerazione la possibilità di una quarta ipotesi, quella suggerita da noi, e quindi di rescindere il contratto immediatamente e di allontanare subito, senza se e senza ma, Arcelormittal.

Le organizzazioni sindacali verranno nuovamente convocate il 9 o il 10 al massimo, per essere messe al corrente dell’esito dell’assemblea dell’8 gennaio.

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Argentina - I sindacati in piazza contro l’autoritarismo di Milei. A gennaio lo sciopero generale

La CGT, CTA, l’Unidad Piquetera, l’Unione dei Lavoratori dell’Economia Popolare (UTEP), il Coordinamento per il Cambiamento Sociale, il Classist e la Corrente Combattiva, i partiti di sinistra, e altre organizzazioni sociali, politiche e sindacali, sono confluiti con vari cortei mercoledi scorso fino a Plaza Lavalle, di fronte al Palazzo dei Tribunali, nel centro di Buenos Aires.

Obiettivo: respingere il decreto di necessità e urgenza (DNU) 70/2023 che deregolamenta l’economia e abroga molteplici leggi, alcune delle quali in materia di lavoro, e di accompagnare una presentazione giudiziaria che sarà fatta contro tale misura.

Con lo slogan “Abbasso la DNU”, la manifestazione è stata convocata dalla CGT alle 12 davanti al Palazzo di Giustizia, con l’obiettivo di accompagnare il ricorso giudiziario della federazione dei lavoratori, e altre misure precauzionali – ne sono già state presentate più di una dozzina – che cercano di fermare la portata della DNU firmata dal presidente Javier Milei.

Nell’ambito della giornata di protesta, il governo nazionale ha nuovamente attivato l’attuazione del protocollo di ordine pubblico attuato dal Ministero della Sicurezza, che impedisce il blocco delle strade, e i membri delle forze di sicurezza presidiavano in forze varie parti della città e in particolare nei dintorni di Plaza Lavalle. Tuttavia, a causa dell’entità della mobilitazione, il protocollo repressivo della ministra degli Interni Patricia Bullrich non ha potuto essere applicato.

Dopo le 10, Piazza Lavalle ha cominciato a riempirsi di manifestanti del sindacato dei camionisti, della magistratura, dei chimici e del Coordinamento per il Cambiamento Sociale, mentre tutti gli accessi a quello spazio pubblico di fronte ai tribunali sono stati limitati attraverso i controlli dei membri delle forze di sicurezza.

Centinaia di poliziotti della Guardia di Fanteria, poliziotti in motocicletta, personale della Gendarmeria, hanno molestato i manifestanti nella prima ora di attività, cercando di trattenerli in piazza o sui marciapiedi, ma sono stati sopraffatti dalla folla, che in più occasioni ha gridato: “ora gli stanno mettendo il protocollo nel”, e “Fermatevi, Sciopero, sciopero, sciopero generale”, contro il DNU di Milei.

Il Comitato Centrale Confederale della CGT ha indetto uno sciopero nazionale a partire dalle 11:00 del 24 gennaio, convocazione che includerà anche una mobilitazione davanti al Congresso, per respingere il Decreto di Necessità e Urgenza (DNU) di deregolamentazione economica. Il 10 gennaio ci sarà una sessione plenaria delle delegazioni regionali presso la sede della federazione dei lavoratori.

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Israele deferita dal Sudafrica alla Corte Internazionale per genocidio. A Gaza la resistenza palestinese fa giustizia

Secondo il Wall Street Journal, la guerra nella Striscia di Gaza ha lasciato una distruzione paragonabile alla campagna più distruttiva della storia moderna, confermando che Israele ha sganciato 29.000 bombe che hanno distrutto circa il 70% delle case nella Striscia.

Scontri con mitragliatrici pesanti si sono verificati tra la resistenza palestinese e le forze di occupazione israeliane nel campo di Bureij. Le Brigate Al-Qassam rivendicano che i loro combattenti hanno fatto saltare in aria un carro armato Merkava con una mina e hanno completamente distrutto un trasporto truppe con un proiettile Al-Yassin 105 a nord del campo profughi di Bureij, nella Striscia di Gaza centrale.

Le Brigate Al Quds affermano che i propri combattenti sono impegnati in feroci scontri con le forze di occupazione nelle aree di avanzata a nord e ad est della città di Khan Yunis. Gli aerei israeliani hanno lanciato una serie di violenti raid sulla città di Khan Yunis, a sud della Striscia di Gaza, e Israele ha anche preso di mira le vicinanze dell’ospedale Nasser.

Un ufficiale israeliano che festeggiava le brutalità dei coloni è stato ucciso dalla resistenza palestinese

Un video postato poche settimane fa dal 33enne ufficiale della riserva israeliana, faceva vedere il capitano Harel Sharafit, nella città di Beit Lahia, a nord di Gaza. Nel video l’ufficiale israeliano esprimeva il suo sostegno ad un colono che aveva sterminato una famiglia palestinese. Questo ufficiale è stato ucciso a Beit Lahia per mano della resistenza palestinese.

Il capitano Sharafit si mostrava nel video mentre esprimeva i suoi saluti e la sua gratitudine a un colono estremista israeliano, incriminato per l’uccisione della famiglia palestinese Dawabsheh nella città di Duma, nella Cisgiordania occupata, nel 2015.

La famiglia Dawabsheh era stata uccisa nel sonno quando la loro casa è stata attaccata e data alle fiamme da estremisti ebrei, causando la dolorosa morte di un uomo e una donna, Saad e Reham, e del loro bambino di 18 mesi Ali.

L’unico sopravvissuto è stato Ahmed, 5 anni, che ha riportato gravi ustioni.

Il colono israeliano che è stato incriminato per il raccapricciante omicidio è stato celebrato come una figura eroica da un gran numero di israeliani del movimento di estrema destra del paese.

Nel video, diventato virale dopo la morte di Sharafit, si vede l’ufficiale israeliano piantare un albero a Gaza, dedicandolo agli estremisti israeliani, tra cui Amiram Ben-Uliel, che ha ucciso la famiglia Dawabsheh. Il soldato aveva anche chiesto al governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu di rilasciare quegli estremisti.

Ma poco dopo aver espresso il suo sostegno all’assassino della famiglia Dawabsheh, il capitano Harel Sharafit….. è stato ucciso a Beit Lahia per mano della Resistenza palestinese. E’ stato ucciso ieri, secondo i media israeliani, citati da Al-Jazeera e altre agenzie di stampa.

Il Sudafrica chiede il deferimento di Israele alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio

Il Sudafrica ha presentato una richiesta di avvio di un procedimento contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), chiedendo che la corte indichi misure provvisorie.

La richiesta presentata dal Sudafrica denuncia “presunte violazioni da parte di Israele dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio in relazione ai palestinesi nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato la Corte Internazionale di Giustizia in un comunicato stampa.

“Atti e omissioni da parte di Israele … hanno carattere genocida, in quanto commessi con il necessario intento specifico … per distruggere i palestinesi di Gaza come parte del più ampio gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese”, si legge nella dichiarazione.

“La condotta di Israele – attraverso i suoi organi statali, agenti statali e altre persone ed entità che agiscono su sue istruzioni o sotto la sua direzione, controllo o influenza – in relazione ai palestinesi a Gaza, è in violazione dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio”, ha aggiunto la dichiarazione, citando la domanda del Sudafrica, il quale ha anche accusato Israele di “non aver impedito il genocidio” e di “perseguire l’incitamento diretto e pubblico al genocidio” nella domanda.

“Israele si è impegnato, si sta impegnando e rischia di impegnarsi ulteriormente in atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza”, ha detto il paese africano.

La domanda presentata dal Sudafrica chiede inoltre alla CIG di:“indicare misure provvisorie al fine di proteggere da ulteriori, gravi e irreparabili danni ai diritti del popolo palestinese ai sensi della Convenzione sul genocidio e per garantire il rispetto da parte di Israele dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio di non impegnarsi in genocidio, e di prevenire e punire il genocidio”.

All’inizio di dicembre, il Sudafrica aveva presentato tutti i documenti necessari alla Corte Penale Internazionale (CPI), accusando Israele di crimini di guerra per la sua guerra genocida a Gaza.

Inoltre, a novembre, i legislatori del paese hanno approvato una mozione per sospendere i legami con Israele fino a quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non si impegnerà a un cessate il fuoco nel territorio palestinese assediato.

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Il più politico dei sermoni a Natale

Il sermone tenuto alla vigilia di Natale nella città palestinese di Betlemme dal pastore luterano Munther Isaac sta circolando massicciamente su molti canali perché ha una forza morale, etica e politica indiscutibilmente notevole.

Fino ad ora le prese di posizione tra i cristiani confessanti avevano sempre il limite, per me anche ipocrita, di mantenere una equidistanza tra quello che fanno i leader israeliani e la controparte palestinese, descritta tra le righe come vittima (anche) dell’organizzazione Hamas.

Il politicamente corretto è anche tra i cristiani confessanti e i loro rappresentanti religiosi, per cui non è consentito denunciare il razzismo zelota perché disdicevole e foriero di risentite critiche negative, sia rispetto alla vulgata “atlantista” per cui lo stato israeliano è pienamente democratico (e dai valori occidentali), sia dei rappresentanti ufficiali della comunità ebraica (vedi quella italiana in particolare).

Il predicatore luterano ha però descritto chiaramente a quale mostruosa situazione sono sottoposti i palestinesi, ovvero a genocidio e pulizia etnica, accuse sotto gli occhi di tutto il mondo ma semplicemente ignorato e negato dai leader occidentali come dai loro mass-media (che edulcorano nel migliore dei casi), leader che nell’intanto si stavano sperticando in auguri natalizi orbi della carneficina sistematica e programmata in atto.

Il sermone del pastore Isaac è ancora più incisivo perché la chiesa luterana è specialmente presente in Germania, paese in cui la classe dirigente (e in particolare al governo), persegue quasi fanaticamente la difesa del regime zelota israeliano, zittendo come possibile e con la massima cura ogni critica verso lo Stato di Israele con l’accusa infamante di anti-semitismo, sperando con questo di lavarsi la coscienza della shoà fatta dai loro nonni nazisti.

La critica del reverendo luterano è però molto più ampia, perché rivolta a tutto il mondo politico e culturale occidentale (e io aggiungo guerrafondaio atlantista e suppostamente cristiano), che per ogni questione drammatica che quasi sempre ha provocato o favorito, o se ne tira fuori dicendosi incolpevole, o ignorandola quando l’ha provocata.

Un esempio?

La pulizia etnica del Nagorno Kharabak, costruita dagli yankee mettendo al potere un loro fantoccio in Armenia con l’obiettivo di mettere in difficoltà il governo russo nel Caucaso (che era quello che tutelava la popolazione armena di quella regione) con il risultato drammatico della fuga di 120 mila armeni e un commento di pochi minuti a fine di qualche TG: ci ha detto male, voltiamo pagina come in Afghanistan e facciamo finta che non è successo nulla.

Dietro la pulizia etnica recente degli armeni c’è anche e specialmente il governo turco (come nel passato), governo membro della NATO (tanto per rimarcare la qualità criminale di questa associazione) che è parte importante dell’occidente anche se con popolazione mussulmana, governo che è impegnato nel tentativo di pulizia etnica del popolo curdo e che ora, molto ipocritamente si scaglia contro il genocidio a Gaza.

Netanyahu si è risentito, e a ragione, perché il suo governo zelota non sta facendo nulla di diverso da quello riuscito in Nagorno Kharabak e contro i curdi, quindi non rompessero le scatole perché ognuno ha il suo razzismo da implementare.

Il natale è passato, il genocidio a Gaza continua ma sono sicuro che i nostri leader atlantisti ci faranno gli auguri di un sereno anno nuovo condito da qualche lacrimuccia di circostanza.

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29/12/2023

Nave Fantasma (2002) di Steve Beck - Minirece

La riorganizzazione della Media sicurezza in carcere

Attraverso il lavoro svolto con l’Osservatorio regionale campano sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, abbiamo avuto modo di esaminare le trasformazioni che in questi anni hanno investito il circuito della Media sicurezza.

Chi conosce il carcere sa che il sistema penitenziario è organizzato in circuiti differenziati, regolati non da leggi dello Stato ma da circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Ci sono i tre circuiti dell’Alta sicurezza, destinati alla detenzione di persone condannate o imputate per reati associativi e di terrorismo, e quelli della Media sicurezza, riservata ai cosiddetti detenuti comuni, che rappresentano la maggioranza della popolazione detenuta.

È, questo, il circuito dove si riscontrano le condizioni più critiche e problematiche (parliamo delle sezioni più affollate, dove si concentrano il disagio e la sofferenza di detenuti stranieri e dei soggetti più emarginati).

Negli ultimi anni il circuito della Media sicurezza ha subìto una ristrutturazione imposta dalla dialettica tra forze che esprimono diverse concezioni, diverse prospettive e interessi divergenti rispetto alla funzione e al funzionamento del carcere.

Anche questa ristrutturazione è avvenuta attraverso il proliferare di circolari amministrative, i cui indirizzi mutano al mutare della compagine di governo e quindi della direzione del Dap, a detrimento, tra le altre cose, di qualsiasi possibile programmaticità.

Questa complessa, lenta e tutt’altro che uniforme riorganizzazione ha subito una forte accelerazione durante l’emergenza Covid, diretta da tre linee di tendenza, normate poi da due circolari del Dap alla fine del 2021 (con una bozza mai entrata in vigore) e nel luglio del 2022: il ripristino del regime a celle chiuse; la stabilizzazione del ricorso all’articolo 32 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario; un utilizzo “informale” dei reparti di isolamento.

Di circolare in circolare

Un dato interessante rispetto agli effetti di questa riorganizzazione ci perviene dall’osservazione delle sezioni a custodia aperta o chiusa, nel 2019 (quindi prima del Covid) e nel 2021, dopo l’emergenza.

Dal 2011, e in particolare dopo la sentenza Torreggiani [1], era stato nel nostro paese implementato il regime a “celle aperte”, con l’intento di superare i limiti strutturali degli spazi detentivi.

Questo regime, laddove vigente, prevede la possibilità di tenere aperte le celle per otto o più ore al giorno, e consente ai detenuti di muoversi all’interno della sezione – tra i corridoi, le altre celle e la sala della socialità, se presente – in modo da aumentare il computo degli spazi utilizzabili (contribuendo a rientrare, in questo modo, negli standard minimi di spazio fisico pro capite dettati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, e aiutando ad alleviare la sofferenza della contenzione detentiva).

Secondo i dati del Garante nazionale, in Campania la percentuale di detenuti in sezioni a custodia aperta è passata dal 42,47 per cento nel 2019 al 30,86 per cento nel 2021, per poi crollare al 13,2 per cento nel giugno 2023.

Andando ben oltre le esigenze di natura sanitaria (non regge, in questo senso, la scusante dei contagi da Covid-19, elaborata in fase pandemica ma poi utilizzata a oltranza), la chiusura delle celle deriva dall’applicazione della circolare 3693/6134 del 2022, firmata da Carlo Renoldi, dirigente del Dap di indubbia estrazione “progressista”.

La circolare di Renoldi è quasi identica a una bozza già diramata dal precedente capo Dap, Petralia, magistrato antimafia nominato durante il secondo governo Conte. Una bozza mai entrata in vigore, che si proponeva di “superare la dicotomia tra regime chiuso e regime aperto” immaginando una Media sicurezza basata sul concetto di “progressione trattamentale”, in virtù del quale la collocazione in sezione è legata alla condotta del detenuto.

Le sezioni a trattamento avanzato sarebbero state le uniche in cui applicare il regime a celle aperte, per dieci ore al giorno, in sorveglianza dinamica. Nelle sezioni ordinarie, invece, il regime sarebbe diventato sostanzialmente chiuso, con la possibilità per otto ore al giorno di uscire dalla cella solo per partecipare ad attività o per andare alla socialità (laddove esiste).

Esclusa sarebbe stata qualsiasi altra “libertà di movimento e di stazionamento delle persone ristrette all’interno della sezione”.

La circolare inseriva inoltre nella Media sicurezza anche le sezioni di cui all’articolo 32 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, che prevede una separazione di detenuti, da parte dell’amministrazione, su base cautelare, connessa al pericolo di atti (praticati o subiti) di sopraffazione o aggressione.

È importante sottolineare come la collocazione di un detenuto sulla base dell’articolo 32 non sia una sanzione disciplinare, ma una collocazione amministrativa, quindi non soggetta né ai termini né al controllo giurisdizionale previsti per esempio per l’isolamento disciplinare[2].

Chi frequenta le carceri non può non aver notato il preoccupante incremento del numero di sezioni di cui all’articolo 32, fino a pochi anni fa sporadicamente presenti, così come la tendenziale omogeneità del tipo di popolazione detenuta che vi finisce reclusa, ovvero i soggetti più fragili ed esposti, ritenuti problematici per l’ordine e la sicurezza in reparto, spesso portatori di un disagio psichico.

Il risultato della normalizzazione di queste sezioni è un prolungamento informale, di fatto più o meno automatico, dell’isolamento disciplinare, una sorta di anticamera attraverso cui dover passare per il ritorno al regime ordinario.

Le visite dell’Osservatorio degli ultimi anni hanno tra l’altro evidenziato un utilizzo molto promiscuo tra le sezioni (e persino le celle) destinate alla “separazione cautelare” e quelle destinate all’isolamento disciplinare, nonché, talvolta, persino un utilizzo di queste ultime per persone formalmente collocate in “regime ordinario”.

La circolare applicata nell’ultimo anno e mezzo, nonostante la diversa estrazione politico-culturale è praticamente sovrapponibile alla bozza che la precedeva.

L’unica differenza rilevante è l’invocazione della circolare Renoldi per un necessario quanto impegnativo incremento dell’offerta trattamentale, totalmente assente nella precedente bozza (questa invocazione si è rivelata insufficiente nel concreto e soprattutto subordinata all’intervento – quasi sempre a costo zero – del personale volontario e del terzo settore).

Le conferme riguardano invece l’utilizzo della separazione cautelare come uno step della progressione trattamentale; l’apertura delle celle nel solo regime del trattamento avanzato; la sostanziale chiusura delle celle nel regime ordinario, salvo che per la partecipazione ad eventuali attività.

In sostanza, la riorganizzazione individua nella chiusura delle celle il sistema per superare la “dicotomia tra aperto e chiuso”, proprio in un contesto nel quale torna a registrarsi un critico, endemico e cronico aumento del sovraffollamento degli istituti (con una corrispondente riduzione degli spazi vitali).

Inoltre, i meccanismi di ascesa e discesa della collocazione del detenuto risultano esclusivamente legati al rispetto delle regole della vita in istituto, come tra gironi di un “purgatorio detentivo” nel quale viene addirittura introdotto un nuovo gradino più basso, la separazione cautelare, con l’apertura del blindato legata alla condotta e alla partecipazione ad attività che, nei fatti, non vengono garantite.

Contenzione e correzione

Tra le ragioni di questo ritorno al regime a celle chiuse vi è certamente il rapporto dialettico tra una concezione del carcere “custodialistica” (portata avanti da componenti dell’amministrazione ben rappresentate dai sindacati di polizia penitenziaria) e una concezione “progressista”, ingabbiata nell’approccio del correzionalismo premiale, per cui la vita dell’istituto è organizzata in “gironi”, tra i quali si avanza e si indietreggia come in un gioco dell’oca, a seconda della dimostrazione di buona adesione alle regole della vita penitenziaria o della deviazione da queste.

Rimane irrisolto anche in questa prospettiva il tema della presunta funzione risocializzante della pena, tanto che c’è da chiedersi se quest’idea della progressione premiale possa declinare anche solo idealmente il principio costituzionale.

Al di là, insomma, della critica a qualsivoglia possibile risocializzazione del deviante attraverso una segregazione detentiva, quanto è sensato strutturare un percorso di progressione o regressione basato solo sull’adesione alle regole penitenziarie, per promuovere il reinserimento del detenuto nel consesso sociale?

Domanda retorica, considerando inoltre che l’elaborazione di queste regole e la valutazione del loro rispetto da parte del detenuto sono legate principalmente al potere attribuito al personale in servizio (la polizia penitenziaria).

A titolo di esempio: il contegno imposto al momento della conta mattutina, la lunghezza massima della barba, l’adesione da parte dei detenuti a tali pretese, sono nella pressoché esclusiva conoscenza e disponibilità dell’operatore di polizia.

È soprattutto però in queste pieghe della quotidianità detentiva che si configura la dialettica tra esigenze di reinserimento e cura da un lato, e pretese di contenimento e controllo dall’altro, determinando la prevalenza di queste ultime.

D’altra parte, come potrebbe incidere l’adesione o meno da parte del detenuto a simili regole sulla sua risocializzazione? Come potrebbe incidere sulla riduzione della recidiva? Non sono forse queste pratiche legate alla necessità di efficientamento della gestione, del disciplinamento e del contenimento della popolazione detenuta piuttosto che a esigenze di reinserimento?

Di fatto, il correzionalismo premiale oscura in maniera definitiva le ragioni materiali, sociali, economiche e culturali della devianza, riducendo il percorso trattamentale al disciplinamento alle regole interne al penitenziario, infantilizzando la persona detenuta e non proponendo alcuno strumento di reinserimento nel tessuto sociale.

Una concezione che appare come la versione più sbiadita e pavida di quel progressismo che, sebbene abbia l’obiettivo di anteporre le esigenze di reinserimento e cura alle pretese di contenimento e sicurezza, è destinato a produrre risultati insoddisfacenti, anche per la connaturata incapacità di contrapporsi alle ben più forti e organizzate spinte custodialistiche.

Note

1) Sentenza Torreggiani v. Italia del 8.1.2013, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante per aver recluso il ricorrente con altre persone in spazi inferiori ai tre metri quadri a persona.

2) La sanzione dell’esclusione dalle attività in comune può durare non più di quindici giorni, mentre l’assegnazione in sezione di cui all’articolo 32 è rinnovabile e dipende da una valutazione semestrale del Gruppo di osservazione e trattamento.

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Guerra in Ucraina - I russi vanno all’attacco. Conquistata Marynka, raffiche di missili sulle città

Mercoledì, il Segretario di Stato Usa Blinken ha annunciato il trasferimento all’Ucraina del pacchetto di aiuti militari “finale” da 250 milioni di dollari nel 2023. Il pacchetto comprende munizioni per i sistemi di difesa aerea NASAMS, i sistemi di razzi a lancio multiplo HIMARS, i proiettili di artiglieria da 155 e 105 mm, i sistemi missilistici anticarro Javelin, TOW e AT-4, oltre a oltre 15 milioni di munizioni per armi leggere. Si tratta di un “modesto” pacchetto di aiuti statunitensi per l’Ucraina che è stato accolto a Kiev con “fredda gratitudine”, scrive il Washington Post.

La Casa Bianca ha precedentemente avvertito che questo stanziamento esaurisce i fondi a sua disposizione per sostenere Kiev. Non ci saranno nuove spedizioni di armi e munizioni fino a quando il Congresso non approverà ulteriori finanziamenti.

Secondo Newsweek il primo lotto di caccia F-16 “molto probabilmente”, è già stato consegnato all’Ucraina. Anche se gli alleati di Kiev non hanno riferito ufficialmente nulla. Olanda, Danimarca e Norvegia si sono impegnati a trasferire più di 60 caccia F-16 in Ucraina ma le consegne non dovrebbero iniziare prima della primavera.

“L’UE continuerà a sostenere l’Ucraina”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri tedesco. Anche senza l’Ungheria, gli altri 26 Stati dell’UE sarebbero in grado di agire ma non ha precisato come. Secondo i resoconti dei media, si sta lavorando a un piano B, che potrebbe includere un trattato intergovernativo tra i 26 Stati dell’UE senza l’Ungheria

Le truppe russe hanno preso il totale controllo della città di Marynka. La notizia era nell’aria da settimane, da quando le forze ucraine avevano dovuto ritirarsi dal centro abitato a 20 chilometri dalla città di Donetsk limitandosi a controllare pochi isolati nella periferia occidentale. Secondo il sito specializzato Analisi Difesa “le operazioni in atto nei settori di Marynka e Avdiivka hanno anche l’obiettivo di sottrarre la città di Donetsk ai continui bombardamenti dell’artiglieria ucraina”.

Analisi Difesa sottolinea anche come “Ancora una volta gli ucraini sembrano aver voluto gestire la sconfitta con un’operazione di maquillage mediatico teso a ridurre l’impatto della vittoria russa a Marynka nascondendolo dietro il successo conseguito con l’attacco missilistico effettuato con aerei Sukhoi Su-24M armati di missili da crociera SCALP/Storm Shadow che ha colpito e distrutto la nave da trasporto e operazioni anfibie da 4mila tonnellate Novocherkassk nel porto crimeano di Feodosia”. In Italia quasi tutti i siti dei grandi quotidiani (i giornali ieri non sono usciti in edicola) evidenziavano l’attacco ucraino alla nave ignorando la vittoria russa sul campo di battaglia. Un “film” già visto in maggio quando cadde in mano russa Bakhmut.

Le autorità ucraine hanno riferito di una pesante raffica di missili e droni che si è abbattuta questa notte su Kiev, Leopoli, Dnipro, Kharkiv e Odessa. L’attacco sembra essere il più grande degli ultimi mesi. Zelensky ha dichiarato su Telegram che la Russia ha utilizzato circa 110 missili per attaccare l’Ucraina il 29 dicembre e la maggior parte di essi è stata abbattuta. Dopo il massiccio attacco aereo russo, ci sono state interruzioni di corrente in quattro regioni ucraine, secondo il governo di Kiev.

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A Gaza bombe e resistenza. L’Onu chiede lo stop alla repressione in Cisgiordania

I continui bombardamenti israeliani su Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, dalla mattina hanno provocato la morte di 17 palestinesi, tra cui cinque bambini. Almeno 50 palestinesi sono stati uccisi nel bombardamento israeliano di questa mattina sulle case dei cittadini a Beit Lahia nel nord della Striscia, Al-Maghazi nel suo centro e Khan Yunis nel suo sud.

Si segnalano ancora duri scontri tra la Resistenza e le forze d’invasione israeliane nel campo di Bureij, nel centro di Gaza. Due ufficiali e un sottufficiale israeliani sono stati uccisi giovedi nei combattimenti. Si tratta del maggiore Dvir David Fima, del capitano Neriya Zisk, e del sergente di prima classe Asaf Pinhas Tubul, Nove soldati israeliani sono rimasti feriti nelle battaglie nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore. I soldati israeliani uccisi fino ad ora sono saliti a 501 secondo le fonti di Tel Aviv.

Il Times of Israel riferisce che il ministero della Difesa israeliano ha dichiarato a metà dicembre che oltre 6.000 membri delle forze di sicurezza del paese – tra cui soldati, polizia e altre agenzie – sono stati feriti da quando i combattenti di Hamas hanno fatto irruzione nel sud di Israele il 7 ottobre. Quasi 900 di questi sono soldati feriti da quando Israele ha iniziato la sua offensiva di terra a Gaza alla fine di ottobre, in cui le truppe si sono impegnate in combattimenti ravvicinati con i combattenti di Hamas a Gaza.

Le Brigate Al-Qassam rivendicano di aver abbattuto un aereo da ricognizione israeliano Skylark 2, in missione di intelligence nell’area di Tal al-Zaatar, nel nord della Striscia di Gaza, mentre le sirene hanno suonato nel sud di Asqalan (Ashkelon) per il lancio di razzi da Gaza.

Le Brigate Al Quds (braccio militare della Jihad Islamica) rivendicano di aver bombardato soldati e veicoli militari israeliani a est di Khan Yunis e un quartier generale di comando e controllo a sud-est del quartiere di Zaytoun con missili e colpi di mortaio. Due veicoli militari israeliani sono stati colpiti con due proiettili RPG nella zona di Al-Tuffah, a est di Gaza City. Tutte le organizzazioni della resistenza palestinese risultano impegnate in feroci scontri con i militari israeliani nell’asse di Al-Tuffah.

Gli Hezbollah rivendicano di aver colpito la caserma di Ramim e i soldati nelle vicinanze della caserma di Mitat. Un un veicolo israeliano sarebbe stato colpito all’interno della caserma Ramot Naftali. In una nota affferma inoltre che i propri combattenti hanno preso di mira il sito militare israeliano di Al-Samaqa nelle fattorie libanesi occupate di Shebaa. L’esercito israeliano afferma di aver effettuato attacchi “diffusi” ad Ayta ash Shab e Ramyeh, nel sud del Libano, così come in altre aree.

L’Onu ha esortato Israele a mettere fine alle “uccisioni illegali” di palestinesi in Cisgiordania

Anche in Cisgiordania situazione dei diritti umani dei palestinesi si sta rapidamente deteriorando. “L’uso di tattiche e armi militari, l’uso della forza non necessaria o sproporzionata e l’applicazione di restrizioni di movimento ampie, arbitrarie e discriminatorie che colpiscono i palestinesi sono estremamente preoccupanti”, ha detto in una nota l’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani Volker Turk.

Il dopoguerra a Gaza prevede l’occupazione militare israeliana

Nella serata di ieri, per la prima volta dal 7 ottobre, il gabinetto di guerra d’Israele ha tenuto una riunione per discutere del piano di gestione della Striscia di Gaza nella fase post bellica. Lo ha reso noto il quotidiano israeliano “The Times of Israel”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha offerto scarsi dettagli sui temi affrontati, limitandosi ad affermare che “Israele non permetterà mai all’Autorità nazionale palestinese (Anp) di governare la Striscia” e che “le Forze di difesa israeliane (Idf) manterranno il controllo di sicurezza generale sulla zona”.

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Mobbing, sfruttamento e arroganza padronale: una panoramica su “Palazzina LAF”

A partire dallo scorso 30 novembre è disponibile nelle sale cinematografiche italiane il film “Palazzina LAF”. Con la regia di Michele Riondino, alla sua prima esperienza da regista, e la partecipazione di attori quali lo stesso Riondino, Elio Germano e Vanessa Scalera, questo film è tratto dal libro “Fumo sulla città” dello scrittore Alessandro Leogrande. Ambientato nel 1997, ripercorre una delle prime vicende riconosciute in Italia come mobbing, nel quadro di uno fra i maggiori casi di speculazione, danni a salute della popolazione e ambiente nel nostro paese: quello dell’ILVA di Taranto (oggi denominata Acciaierie d’Italia). Le vicende narrate testimoniano la fase immediatamente successiva alla privatizzazione avvenuta nel 1995 dell’ILVA stessa, in precedenza Italsider e di proprietà statale, e in quegli anni acquisita dalla famiglia Riva.

La trama del film: ristrutturazione aziendale come condanna dei lavoratori

Nel contesto descritto, i padroni e i dirigenti della fabbrica, tra cui Giancarlo Basile, capo del personale interpretato da Elio Germano, attuano una feroce condotta antisindacale, sottoponendo a continue minacce di ritorsioni gli iscritti a un sindacato o chiunque fosse critico nei confronti della gestione aziendale. Sono infatti diverse le persone scontente per una ristrutturazione che viene pagata sulla pelle dei lavoratori, anche in termini di orari di lavoro insostenibili, che causano sempre più spesso incidenti mortali. Molti dei lavoratori considerati “scomodi” vengono trasferiti nella cosiddetta Palazzina LAF (in quanto adiacente al laminatoio a freddo), un vero e proprio reparto confino, ritenuto però dalla gran parte degli operai un paradiso di ozio e svago che garantisce a chi vi viene collocato uno stipendio pressoché senza lavorare.

Al contrario, a chi vi è stanziato non viene assegnata alcuna mansione e, impossibilitati a lavorare o divagarsi, questi lavoratori sono costretti a una vera e propria detenzione per tutta la giornata lavorativa in un ambiente angusto, sovraffollato e fatiscente, sottoposti a continue vessazioni verbali e fisiche dalle guardie giurate con cui l’azienda li sorveglia a vista. La reclusione nella palazzina rappresenta un vero e proprio incubo per i lavoratori che vi risiedono, molti dei quali presentano evidenti disturbi psicologici, tra cui depressione, episodi di rabbia incontrollata e uno stress pari, se non superiore, ai loro colleghi che effettivamente svolgono lavori.

Nella speranza di essere ricollocati e poter abbandonare quello che ormai considerano un carcere, i lavoratori, che nel corso del film aumentano progressivamente (da 48 a 79), si rivolgono ai sindacati. Tuttavia, la dirigenza aziendale si mostra irremovibile, cercando un pretesto per licenziare i sindacalisti e promettendo ai lavoratori un ricollocamento solo qualora questi (per lo più impiegati) avessero accettato un demansionamento e incarichi dal massimo rischio per i quali non sarebbero stati adeguatamente formati.

Proprio per “spiare” i lavoratori e i sindacalisti, i padroni scelgono Caterino Lamanna, un operaio addetto alla manutenzione della fornace, chiedendo a questo di infiltrarsi e riferire ogni informazione utile ad ostacolare un’opposizione alle politiche societarie, con la promessa di aumenti di livello, salariali e vari altri benefici.

I risultati delle grandi privatizzazioni negli anni 1990

Il contesto in cui le vicende dell’ILVA si svolgono è quello degli anni 1990, contraddistinti dal grande processo di dismissione del patrimonio pubblico e del settore statale dell’economia italiana operato tanto dai governi del centro-destra (Berlusconi), quanto da quelli del centro-sinistra (D’Alema e Prodi), avvenuta di concerto con lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale, frutto della nuova strategia della borghesia italiana che mirava a massimizzare così la propria competitività nella cornice del mercato unico. Talvolta mettendo a disposizione addirittura incentivi statali, i governi hanno proceduto a svendere a grandi fondi speculativi i principali beni pubblici, che, seppur in assenza di un precedente controllo operaio e senza pertanto che quei beni fossero mai stati realmente a disposizione del benessere collettivo, passavano così apertamente nelle mani di gruppi imprenditoriali privati che rinnegavano anche nominalmente qualsiasi forma di finalità sociale, piegando la produzione a pure logiche di bilancio e di profitto.

In diverse delle aziende che hanno subito questo destino si è assistito a gravi casi di speculazione, anche tramite il ricorso a fondi pubblici, vicende che hanno condotto a ristrutturazioni aziendali che non permettevano alcun rispetto del diritto al lavoro.

L’Italsider era proprio una di quelle aziende di proprietà statale, attraverso l’IRI, con il suo  stabilimento di Taranto che fu inaugurato il 10 aprile 1965. Con il pretesto di una crisi del settore siderurgico, l’ILVA (che aveva assunto questo nome nel 1988) fu prima smembrata, con la chiusura o svendita degli impianti a diversi gruppi, e poi del tutto privatizzata con l’acquisto del polo di Taranto da parte del Gruppo Riva. Proprio in questo periodo la nuova proprietà si macchia di vari reati ambientali e di inquinamento, oltre ad organizzare un vero e proprio sistema punitivo per i dipendenti, da cui le vicende della Palazzina LAF.

Non è un caso se la privatizzazione delle aziende pubbliche, in un contesto di liberalizzazioni che proseguì per molti anni, abbia portato a speculazione, devastazione, condotte antioperaie, attacco ai diritti e al benessere della collettività. Lungi dal ritenere che la mera proprietà pubblica di determinati asset strategici nell’economia nazionale possa, in assenza del potere ai lavoratori, garantire benessere, o addirittura una tappa verso una società strutturalmente diversa da quella odierna (il ruolo dello Stato in economia ha piuttosto rappresentato in Italia un uso della spesa pubblica a sostegno del processo di concentrazione del capitale privato), è impossibile non riconoscere come sul piano occupazionale e dei diritti la stagione delle liberalizzazioni abbia rappresentato un peggioramento, legato al più ampio arretramento in Italia del movimento operaio, del sindacalismo confederale e dei partiti che di esso si facevano interpreti.

Tutto ciò che ne consegue, tra cui le vicende narrate in Palazzina LAF, non può pertanto prescindere da una lettura di quegli anni, in un cui veniva meno la necessità per i governi borghesi di garantire una gestione, almeno all’apparenza, “sociale” tramite welfare e proprietà pubblica di parte dei mezzi di produzione a cui i governi stessi erano costretti dalla presenza di un blocco socialista che desse forza a un’alternativa socialista alla barbarie del capitalismo. Nel nostro paese, proprio grazie alla disorganizzazione della classe operaia, questo processo di dismissione di elementi “palliativi” ha rappresentato un salto di qualità per una società che strutturalmente si fonda sul profitto, in barba a qualsiasi finalità sociale della produzione.

Le conseguenze della divisione tra i lavoratori

La figura di Caterino e il suo rapporto con gli altri lavoratori mostrano in maniera cinica ma efficace la strategia padronale di frammentare la classe lavoratrice, creando divisioni, spesso pretestuose quanto artificiali, sulla base della mansione, del salario e dell’anzianità. Caterino è infatti un lavoratore disilluso, che non vede possibile un miglioramento delle proprie condizioni materiali se non nel compiacimento delle richieste padronali, tanto da essere preda della retorica dell’interesse aziendale, anche a scapito dei suoi colleghi.

Come tutti gli operai dell’acciaieria, Caterino non vede di buon occhio chi lavora nella Palazzina LAF, riservando loro atti di scherno, provocazione e derisione. Infatti, lui prova invidia, che genera in lui risentimento e voglia di rivalsa, per i lavoratori della Palazzina LAF, che considera privilegiati in quanto percepiscono, senza lavorare, uno stipendio superiore al suo, che rischiava ogni giorno la vita alle batterie. Per chi lavorava nel suo reparto, infatti, le morti sul lavoro erano una realtà quotidiana.

Vi sono infine i lavoratori impiegati nella vigilanza privata di stanza nel complesso industriale, che, incapaci di percepire e provare risentimento per le condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori confinati nella palazzina, diventano lo strumento che consente ai padroni di mantenere un clima di intimidazione, timore, violenza verbale e fisica.

È proprio la divisione tra i lavoratori della fabbrica a renderli ricattabili. Infatti, l’atomizzazione che le politiche aziendali sono riuscite a produrre e l’individualismo imperante nella società capitalistica fanno sì che ciascun lavoratore, se non i più coscienti, non veda nei suoi pari un compagno nella lotta per la conquista di condizioni migliori. Questa realtà è stata descritta in un’intervista anche da Elio Germano, secondo il quale la corsa al profitto genera conflittualità tra i lavoratori, impedendo a questi di lottare insieme, e individuando il proprio nemico negli altri lavoratori, piuttosto che nel datore di lavoro.

La necessità di un sindacalismo conflittuale

Una figura importante in tutto l’arco narrativo del film è quella di Renato Morra, un sindacalista che cerca in varie maniere di mobilitare i lavoratori. A partire dall’organizzazione di uno sciopero contro le frequenti morti sul lavoro, Morra attira su di sé le attenzioni dei dirigenti della fabbrica, che a più riprese cercano di “assoldare” lavoratori, tra cui Caterino, per incastrarlo, se non addirittura per creare ad arte prove di violazioni disciplinari, al fine di licenziarlo e sbarazzarsene.

Senza alcun dubbio la figura di Morra lascia trasparire una sincera volontà di migliorare le condizioni di lavoro degli operai, e, in seguito, di “liberare” i lavoratori della Palazzina LAF, che gli si erano rivolti nella speranza di poter abbandonare quel luogo. Il suo ruolo nella trama è pertanto sicuramente positivo. Tuttavia, fin da subito è possibile riscontrare alcune contraddizioni che impediscono a Morra di restare in contatto con gli altri lavoratori e di organizzarli in una lotta.

In primo luogo, i lavoratori non ritengono all’altezza la risposta sindacale alle morti sul lavoro (emblematica è l’affermazione di Caterino, secondo il quale quando muore un operaio i sindacati si limiterebbero a fare mezz’ora di sciopero, senza quindi incidere realmente); in secondo luogo, Morra non riesce a contrastare le politiche societarie, in quanto il suo sindacato era firmatario degli accordi di ristrutturazione aziendale (ciò lascia intuire che, realisticamente, il sindacato in questione fosse uno tra i confederali) che consentivano ai padroni, in tutta la loro arroganza, di disporre dei lavoratori a loro piacimento.

La debolezza, se non la compromissione aperta in taluni casi, dei principali sindacati che hanno scelto la via della concertazione, piuttosto che quella della conflittualità, è ciò che rende ai lavoratori, preda della propaganda borghese, inviso lo strumento stesso del sindacato, vedendo come inutile o perfino ostile uno degli elementi fondamentali della lotta di classe.

Seppur il film non vi faccia riferimento esplicito, la necessità di un sindacalismo conflittuale, che sappia contrapporre a concertazione e collaborazionismo la lotta di classe sui luoghi di lavoro, è evidente dalla pellicola. Si evince che proprio la lotta può far pesare la forza dei lavoratori sui padroni, mentre al contrario la concertazione non fa che “anestetizzare” le lotte, producendo rassegnazione e disillusione per quei sindacalisti, che altrimenti vengono visti come individui dediti esclusivamente alla ricerca di soldi e tessere, come afferma Caterino in apertura.

Il mobbing come violenza fisica e psicologica sui lavoratori

Come anticipato in apertura, il film trae spunto dai fatti realmente avvenuti presso gli stabilimenti tarantini dell’ILVA tra fine anni 1990 e inizio anni 2000, uno dei primissimi casi riconosciuti come mobbing in Italia.

Per oltre due anni, i lavoratori confinati non hanno svolto alcuna attività lavorativa e per un certo periodo sono stati tenuti a casa col pagamento dello stipendio. In seguito sono finiti in cassa integrazione, scaduta il 30 novembre 2001: tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 una minima parte di loro è rientrata nel ciclo produttivo insieme ad altri lavoratori che erano in CIGS (cassa integrazione guadagni straordinaria). Una parte dei 70 lavoratori, a causa di queste vessazioni, ha subito danni psicologici e persino fisici (come testimoniato da un articolo de “La Repubblica” dell’8 dicembre 2001).

A seguito di una nota del locale ispettorato del lavoro, originata da una richiesta pervenuta dal Ministero del Lavoro che doveva predisporre una risposta ad un’interrogazione parlamentare, il 19 febbraio 1998 venne avviata un’inchiesta, che condusse alla condanna per violenza privata a due anni e tre mesi di reclusione di Emilio Riva, presidente del consiglio di amministrazione dell’ILVA, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento di Taranto, e un caporeparto, Antonio Bon, oltre alla condanna di altri sette imputati, tutti capireparto, a pene minori, a partire da nove mesi di reclusione. Le condanne sono arrivate in primo grado il 7 marzo 2002, in appello il 10 agosto 2005. La sentenza del Tribunale di Taranto rileva come gli imputati:

«Minacciavano i lavoratori in questione, in maniera diretta ed indiretta, e quantomeno in forma implicita, che, ove non avessero accettato la proposta novazione del rapporto di lavoro con declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio con conseguente mutamento peggiorativo delle mansioni relative, i predetti sarebbero stati trasferiti (trasferimento poi attuato) alla “Palazzina Laf”, ove era sicuramente prevedibile la inevitabile sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle aspirazioni legittime dei dipendenti, al miglioramento e alla tutela delle loro attitudini professionali e consistente nella mancata assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa, sì da dover trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità dei lavoratori stessi, con ciò determinando da un lato il prevedibile ed inevitabile peggioramento delle capacità professionali delle parti lese e, dall’altra, l’avvilimento del loro legittimo diritto ad espletare un’attività lavorativa decorosa e confacente ai principi tipici di un equilibrato rapporto di lavoro, subordinando il ripristino di un normale rapporto alla accettazione della “proposta” di novazione, lasciando perdurare a tempo indeterminato la negativa situazione descritta a fronte del perdurante diniego opposto dagli interessati.»

Le pratiche di mobbismo sono solo uno dei numerosi esempi di prevaricazione e abuso di potere sul luogo di lavoro, spesso finalizzate a creare un ambiente ostile al lavoratore, costringendolo alle dimissioni e all’abbandono del lavoro stesso o all’accettazione di un ridimensionamento della propria figura professionale. Se nel periodo all’incirca coincidente con i fatti narrati in Palazzina LAF perfino il Parlamento Europeo, lungi dal rappresentare un attore neutrale nel conflitto tra capitale e lavoro, riconosceva come tra il 2000 e il 2001 «l’8% dei lavoratori dell’Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato», in Italia l’Eurispes rilevava come i lavoratori italiani mobbizzati ammontavano a un milione e mezzo (su 21 milioni di occupati), pari al 7,1%.

Ancora oggi il mobbing è considerato uno dei principali determinanti della riduzione del benessere lavorativo a livello mondiale ed in grado di causare nelle vittime non solo problemi di salute mentale, come ad esempio depressione, ansia, idee suicidarie, alterazioni del ritmo sonno-veglia, ma anche di influenzare il decorso di malattie cardiovascolari, e diabete. L’assenza nel nostro paese di una fattispecie di reato specifica contro il mobbismo, oltre a non contribuire ad arginare queste pratiche ostili ai lavoratori, rende ad ogni modo lo studio del fenomeno in Italia farraginoso, nonché le statistiche incomplete e scarsamente aggiornate.

Esempi di casi a cui la giurisprudenza ha riconosciuto pratiche mobbiste riguardano situazioni di emarginazione, demansionamento, inattività coatta, denigrazione, dequalificazione, discriminazione professionale, terrorismo psicologico, umiliazioni e pressioni psicologiche, intento lesivo diretto alla persecuzione e moltre altre situazioni analoghe.

Purtroppo, come testimonia il film, quella del mobbing è una pratica spesso sottovalutata o non denunciata come abusatrice da parte dei lavoratori: questo avviene da una parte per una difficoltà da parte dei lavoratori nel reagire alle diverse forme con cui l’oppressione padronale si può esplicare nei luoghi di lavoro; dall’altra per una vera e propria assuefazione ai soprusi commessi dal padronato stesso, in un contesto in cui, in assenza di una prospettiva politica o sindacale che rilanci la centralità del proletariato e la lotta per la conquista di diritti sociali, caporalato e arroganza padronale diventano per i proletari stessi la normalità e l’unica prospettiva in una società all’insegna di precarietà e sfruttamento.

Negli anni immediatamente successivi alla sentenza sull’ILVA, secondo una ricerca dell’IREF del 2004, il 70,4% dei lavoratori italiani dichiarava di non conoscere il fenomeno del mobbing. Nel film, Caterino stesso, convinto che la prospettiva di guadagnare stipendi maggiori senza dover lavorare sia un’utopia, si rende conto solo con il passare del tempo che la vita nella Palazzina LAF è in realtà un inferno.

Per i padroni il profitto conta più delle vite

La cornice del film è una città, Taranto, avvelenata da diossina e amianto, in cui è ormai raro morire di vecchiaia e non ammalarsi per la presenza di sostanze tossiche prodotte dall’acciaieria, tanto che vivere nei quartieri della città più vicini alla fabbrica è considerato una vera e propria condanna a morte. Lo stesso Caterino, a più riprese nel film, inizia a mostrare sintomi di problemi respiratori, verosimilmente per il lavoro che svolge.

I dati di malattie contratte o riscontrate dai residenti della provincia di Taranto sono strazianti: l’ONA (Osservatorio Nazionale Amianto) riporta come si registrano il 400% in più di casi di tumore tra i lavoratori impiegati nelle fonderie ILVA, ma anche il 50% di malattie tumorali in più tra gli impiegati dello stabilimento, esposti solo in modo indiretto, oltre al fatto che tra 1993 e il 2015 il 40% (472 su 1191) dei casi nella Puglia di mesotelioma, un tumore causato esclusivamente dall’amianto, sono stati diagnosticati nella sola città di Taranto.

L’inquinamento prodotto dalla fabbrica non risparmia neanche i bambini: infatti, sempre secondo l’ONA, a Taranto si registra un +54% di incidenza delle malattie tumorali nei bambini e un +21% di mortalità infantile (0 – 14 anni), con un dato ancora più drammatico nei quartieri Tamburi e Paolo VI, adiacenti all’acciaieria, dove risulta maggiore del 70% rispetto alla media della città; inoltre, secondo lo studio epidemiologico Sentieri tra il 2002 e il 2015 sono nati 600 bambini malformati, “con una prevalenza superiore all’atteso calcolato su base regionale”, oltre a più di 40 tumori in età pediatrica e nel primo anno di vita.

Nonostante la nota condizione a cui i residenti di Taranto sono costretti, l’inquinamento atmosferico nella città aumenta di anno in anno. Come rilevato dall’ARPA Puglia, la media di benzene, composto tossico che genera il cancro, nell’aria è in costante crescita. Tra gennaio e novembre 2022 il valore medio delle rilevazioni era pari a 3,3 microgrammi per metro cubo, un valore superiore alle medie rilevate dal 2019 al 2021. Nel 2019 infatti il valore medio era di 1,3 μg/m3, nel 2020 di 2,8 μg/m3 e infine nel 2021 di 2,9 μg/m3

L’ONU ha riconosciuto l’impianto siderurgico dell’ILVA tra le aree più degradate e inquinate del mondo, nonché definito la produzione degli stabilimenti come una vera a propria violazione dei diritti umani a danno dei cittadini tarantini.

I motivi per cui questo stato di cose perdura a Taranto sono le logiche di profitto da parte delle dirigenze aziendali che si sono susseguite negli anni, insieme al costante ricatto occupazionale legato alla falsa contrapposizione tra occupazione e diritto alla salute. Questo è quanto avvenuto ad esempio nel dicembre 2019 a seguito di una sentenza del Tribunale di Taranto che stabiliva il sequestro e lo spegnimento dell’altoforno 2 (uno dei tre su quattro in funzione),  con la conseguente messa in cassa integrazione straordinaria da parte di ArcelorMittal, proprietaria degli stabilimenti, di 3500 operai a seguito della sentenza (la decisione fu in seguito annullata dal tribunale del riesame in accoglimento del ricorso presentato dall’ILVA).

L’elevata mortalità, la devastazione ambientale, le morti sul lavoro sono quindi da attribuire solamente alla gestione padronale dei mezzi di produzione, come testimoniano le parole di Aldo Romanazzi, uno degli impiegati “scomodi” per l’azienda: «Il nostro acciaio serve a costruire la ricchezza di qualcun altro. A noi ci lasciano solo la mondezza…»

Un crudo spaccato di un sistema di sfruttamento

Alla luce di quanto detto, il film Palazzina LAF ha l’indubbio merito di portare all’attenzione del grande schermo una serie di tematiche operaie e di denunciare fenomeni che i lavoratori, in molti casi inconsapevolmente, si trovano a vivere. Non è infatti consueto che le tematiche del lavoro siano affrontate in maniera altrettanto precisa e realistica, in tutta la loro crudezza. La visione del film, il cui giudizio è del tutto positivo, è pertanto consigliata per avere non solo un quadro su una vicenda che ha fatto storia nella giurisprudenza e nel diritto del lavoro italiano, ma anche per comprendere meglio quali sono le logiche sostenute dal padronato, quando vengono richiesti, come spesso accade, sacrifici ai lavoratori nel nome dell’interesse aziendale o di ristrutturazioni che gioveranno solo ai profitti di chi sfrutta ogni giorno il lavoro di milioni di persone.

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