Seguendo l’accordo Stato-Regioni del 23 dicembre, alla fine delle vacanze di Natale, il 7 gennaio, le scuole superiori riprenderanno l’attività in presenza con il 50% degli alunni, nel giubilo del governo, dei presidenti di regione, dell’Associazione Presidi e di quella dei comuni italiani.
Naturalmente tutti costoro si guardano bene dal dire che si tratta di una sconfitta dei piani nazionali e regionali, che prevedevano una presenza in classe del 75% degli studenti, che si raggiungerà se e quando sarà possibile.
Quanto alla sicurezza del ritorno in classe, le promesse sono tante, prima tra tutte quella di un tracciamento prioritario e privilegiato per la scuola, che però contrasta con l’evidenza che
i tamponi stanno costantemente diminuendo in tutta Italia e il tracciamento è saltato da mesi.
Inoltre si promette, per l’ennesima volta, un “potenziamento”, mai realizzato, dei mezzi di trasporto che è demandato agli enti locali, associato a un indecifrabile “scaglionamento” orario di tutte le attività. Si parla anche di turni pomeridiani, ma ogni scuola deciderà da sé. Ancora una volta, il Ministero dell’Istruzione, incapace di trovare vere soluzioni, si affida alle autonomie locali e persino dei singoli istituti.
Bloccare le presenze in classe al 50% significa, in realtà, riconoscere quanto abbiamo sempre sostenuto, vale a dire che all’inizio dell’anno si sarebbe dovuto sdoppiare le classi, dimezzandone il numero di allievi e assumendo un congruo contingente d’insegnanti.
Ciò non è stato fatto per l’opposizione testarda della ministra Azzolina, per i limiti di spesa del governo e per la sottovalutazione del problema scuola da parte dell’omnicommissario Arcuri, affaccendato a trovare soluzioni inadeguate e risibili (banchi a rotelle, lezioni all’aperto...).
È quindi impossibile capire, al momento, quali saranno le condizioni di sicurezza del rientro in classe del 7 gennaio, mentre il tasso di positività nei (pochi) tamponi a persone mai testate, escludendo quindi chi è stato malato e verifica se è guarito, è ancora del 25% e ogni giorno si registrano tra 400 e 700 decessi.
Tuttavia, una certezza emerge dai mesi della pandemia, ed è che i servizi essenziali, di cui la scuola fa parte, devono essere pubblici e gestiti seguendo gli interessi collettivi, non piegati all’intervento dei privati e alla logica del profitto.
Purtroppo le intenzioni del governo sembrano andare in tutt’altra direzione. Già nella legge di bilancio approvata in questi giorni si prevedono nuovi finanziamenti alle scuole private che accetteranno disabili, quasi che la presenza di tali alunni a scuola non sia un diritto, ma una concessione che va incentivata economicamente.
Inoltre la legge di bilancio prevede nuovi impegni economici soprattutto par la didattica a distanza, che sembra ormai il governo abbia intenzione di rendere permanente per una parte del percorso scolastico.
Ciò che però preoccupa maggiormente è la lettura della Bozza del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” elaborata dal Consiglio dei Ministri che stabilisce le linee guida per l’utilizzo del fondo Next Generation UE (detto anche Recovery Fund) da parte dell’Italia.
Il capitolo “Istruzione e Ricerca” che riunisce le linee guida per la scuola e per l’università e che disegna come queste istituzioni saranno in futuro è un vero condensato di propositi privatistici e di
sottomissione della formazione alle aziende.
Si tratta di pagine che, come temevamo, faranno impallidire coloro che, anche a sinistra, di fronte a finanziamenti europei diretti alla scuola come parte del piano Next Generation, avevano ingenuamente esultato.
È vero che il 9,8% dei fondi totali, se e quando arriveranno, sarà destinato all’Istruzione e alla Ricerca, ma attraverso due linee d’azione, d’importanza quasi pari per finanziamento: la prima “Potenziamento della didattica e del diritto allo studio”, la seconda, ed è una dichiarazione progettuale chiara, “Dalla ricerca all’impresa”. Cerchiamo ora di entrare nello specifico del testo.
Nel documento si parla di “potenziamento dell’offerta formativa in discipline abilitanti 4.0[1] e correlate alla vocazione produttiva del territorio di riferimento” (cioè all’industria locale) e, per gli istituti tecnici, di istituzione di “forme di collaborazione congiunta (es. laboratori) pubblico-privati”.
Inoltre, “è previsto il potenziamento di programmi professionali di livello secondario e terziario che consentono un migliore inserimento nel mondo produttivo” che potranno anche avvalersi della presenza degli Istituti Tecnici Superiori (invenzione degli industriali) che organizzeranno percorsi di istruzione adeguati alle esigenze del tessuto economico nonché agli standard internazionali”.
Come già era accaduto ai tempi della “Commissione Colao”, quella che aveva copiato il capitolo sulla formazione da un libro di uno dei suoi componenti, la maggior parte delle pagine dedicate all’istruzione si concentra sull’università, all’interno del paragrafo “Dalla ricerca all’impresa”.
Obiettivo fondamentale di tale linea d’investimento è “innalzare il potenziale economico, agendo in maniera sistemica sulla leva degli investimenti in Ricerca e Sviluppo”, rafforzando la “collaborazione tra la base scientifica pubblica e il mondo imprenditoriale”.
La ricerca è vista solo in funzione dell’integrazione dei suoi risultati nel sistema economico e i programmi di Ricerca e Sviluppo saranno sviluppati in partenariato con le aziende. È normale, a questo punto, che si progetti la creazione di dottorati dedicati alle specifiche esigenze delle imprese.
In conclusione, il documento propone “la maggiore apertura del sistema scolastico e universitario al mondo delle imprese, anche attraverso una modifica dei centri di trasferimento tecnologico presso gli atenei.”
All’interno di un tale quadro di riferimento, va da sé che il documento del governo insista sulla necessità dello sviluppo delle competenze digitali di studenti e insegnanti (questi ultimi subiranno corsi di formazione obbligatoria sul tema) in un contesto che sembra sempre più immaginare un’università che si fondi su corsi a distanza, salvo probabilmente quando si deve andare in azienda per fare ricerca su progetti di start up e spin off che dovranno poi essere tradotti in imprese.[2]
Il tono aziendalistico e produttivistico del documento governativo non può non far pensare a una simbiosi tra due documenti: quello della Commissione Colao che avevamo
già commentato nel giugno scorso e il pamphlet Il lavoro del Futuro, pubblicato da Assolombarda nel maggio del 2018. Conoscendo il ruolo trainante che Assolombarda esercita nella Confindustria, si può quindi facilmente intendere come quest’ultima abbia ispirato la Bozza del governo.
Dal punto di vista della scuola, quanto proposto dal governo rappresenta il punto d’approdo privatistico del percorso iniziato con l’autonomia scolastica, che aprì la porta all’aziendalizzazione degli istituti e alla frammentazione del sistema formativo unico statale, con la contemporanea istituzione del Sistema Scolastico Nazionale, in cui s’intrecciano scuole pubbliche e private.
Un modello già sperimentato nella Sanità, con l’istituzione della sussidiarietà e con l’eguale passaggio di operatori sanitari e scolastici a un contratto di diritto privato. Se a questo si aggiunge la progressiva frammentazione territoriale dello Stato si comprende come la scuola, ma anche l’università, dopo anni di riduzione dei finanziamenti, siano oggi una facile preda del privato e delle conferenze sulle “esigenze produttive territoriali”.
La scuola, oggi, dopo anni di totale povertà dovuta ai tagli di bilancio, potrebbe, se arriveranno i soldi del Next Generation EU, diventare un settore d’interessi appetibile per far passare denaro pubblico nelle tasche dei privati. Ancora una volta è evidente l’analogia con il settore della sanità, dove strutture come cliniche e ambulatori privati hanno lucrato proprio sulla sussidiarietà.
Nella scuola, però, l’assalto alla diligenza può essere ancora più facile, perché non è nemmeno necessario creare delle strutture ma è sufficiente attivare dei laboratori, inviare esperti a tenere lezioni oppure, nell’università, suggerire i programmi di corsi e dottorati.
Tutto ciò può interessare sia un “terzo settore”, sempre più in crisi, che potrà offrire corsi e servizi, nella logica della esternalizzazione; sia, ancor peggio, le vere e proprie aziende che potranno realizzare laboratori e corsi e dettare, nell’università, i programmi di dottorati “d’impresa” che a loro convengono.
In pratica, la maggior parte dei fondi europei destinati alla scuola e all’università sarà in realtà un finanziamento indiretto alle aziende.
Quanto alla qualità dell’insegnamento, è chiaro che una tale scuola si orienterà soprattutto sulle competenze, a scapito dei saperi, per creare lavoratori poco qualificati e flessibili, mentre per l’Università non si possono escludere anche didattica e ricerca di alto livello (per pochi) solo se indirizzata ai fini del capitale, con un crollo verticale di ciò che in tali obiettivi non rientra.
In un progetto del genere, anche l’insistenza sulla didattica digitale diventa sospetta, poiché si può immaginare che i corsi tecnologici saranno indirizzati ai livelli più bassi verso compiti puramente esecutivi, mentre a quelli più alti alla tecnologia per l’impresa e saranno ignorate le possibilità creative che pure le ITC possono avere se usate intelligentemente.
Un tale uso della didattica digitale non può che accrescere le disuguaglianze all’interno della scuola, ma questo importa poco a Confindustria, al governo e alle multinazionali dell’informatica che realizzeranno comunque ottimi profitti.
Peraltro, non si dimentichi che l’uso del fondo Next Generation è sottoposto all’approvazione da parte della UE. Questo è un punto fondamentale. Tutta la politica sulla scuola dell’UE da oltre vent’anni è subordinata al dettato dei centri di potere economico e delle banche, che ne hanno determinato la svolte principali, a partire almeno dalla conferenza di Lisbona del 2000.
La politica della formazione seguita dalla UE è quella della creazione di mano d’opera nelle forme più utili al capitale e non è certo rivolta al ruolo che la scuola dovrebbe svolgere in una società democratica, vale a dire quello della promozione culturale e sociale e dell’emancipazione delle classi lavoratrici.
Proprio per questo,
sarebbe pura utopia pensare che la UE possa autorizzare un utilizzo dei fondi Next Generation per l’istruzione diverso da quello previsto dal governo italiano e dalla Confindustria, vera regista dell’operazione.
Note:
1) Con il termine di competenze 4.0 si fa riferimento , nell’Industria, al Cyber-Physical System (CPS), ossia a sistemi fisici che lavorano in modo meccanico, elettromeccanico o in altro modo e che sono in grado di sfruttare il nuovi potenziali supplementari con l’aiuto di Internet.
2) Prendendo come riferimento la definizione che si trova sul sito del Ministero dell’Università e della Ricerca con il termine spin-off, che alla lettera significa “gemmazione”, si intende “la costituzione di una nuova entità giuridica (società di capitali o a responsabilità limitata, startup), a partire dalle risorse di una società preesistente o da altre imprese”. Per Spin off accademico s’intendono in particolare progetti volti a “favorire il contatto tra le strutture di ricerca universitarie, il mondo produttivo e le istituzioni del territorio, per sostenere la ricerca e diffondere nuove tecnologie con ricadute positive sulla produzione industriale e il benessere sociale del territorio”.
Fonte