Quando un simbolo emerge casualmente da un conflitto sociale in gran parte
spontaneo – accade, non è frequentissimo, ma accade – si mettono in moto
diversi processi.
Uno, molto politico e concreto, è la lotta tra le diverse componenti sociali
– ognuna con il suo immaginario, interessi, valori, “ideologia” in
senso marxiano stretto (falsa coscienza) – per assumere in quel
movimento una posizione egemone, o perlomeno rilevante nel determinarne
sviluppo e direzione.
Il secondo, più modesto, è il tentativo di illustri sconosciuti o
gruppetti minimali di assumere il simbolo per acquisire con poco sforzo
una notorietà o una visibilità basata sull’equivoco. Questo gioco
funziona soprattutto se il simbolo è stato creato in un paese
differente, perché altrimenti la sua “proprietà” non sarebbe mai
contendibile.
Il
Gilet Giallo agitato dai manifestanti francesi non poteva sfuggire a questo destino,
diventando nel breve arco di un mese il simbolo comune di proteste
sociali in tutta Europa, dal Portogallo all’Ungheria.
In Italia – paese per molti versi disperante – dobbiamo registrare un
doppio utilizzo del classico giacchetto obbligatorio da tenere in auto.
Il primo, socialmente serio e politicamente giustificato, è stato
esplicitato dalle manifestazioni di piazza di Usb, Potere al Popolo,
gruppi di lavoratori di aziende in crisi, fino agli autisti degli Ncc.
E’ un utilizzo in senso lato
politico,
perché segnala alla controparte – azienda o Stato nazionale – che la
misura è colma e quote crescenti di popolazione in difficoltà sono
pronte a farsi valere nelle strade, non solo a piangere e sperare.
Un’allusione forte che dice:
“se non capite, faremo come in Francia”.
Nell’immediato magari no, ma il tempo della pazienza sta per scadere. I
“cambiamenti”, o sono reali o non fermano l’incazzatura sociale.
Poi
ci sono i poveretti in cerca di adepti per la propria setta, o di
attirare l’attenzione per i più diversi motivi. I signori “nulla”
speranzosi di apparir “qualcosa” (da lontano). Avete visto quel tizio di
CasaPound che cercava di farsi intervistare da tutti i giornalisti
presenti a Parigi mentre i
Gilets Jaunes si scontravano con la polizia? Beh, quel tipo di gente...
Questa
inchiesta prende in esame soprattutto questo secondo mondo, visto che
quello del vero conflitto politico e sociale è alla luce del sole da
tempo. Come dice il titolo, l’abito non fa il monaco...
*****
«Nel
1921 trattando di quistioni di organizzazione Vilici scrisse e disse
(press’a poco) così: non abbiamo saputo “tradurre” nelle lingue europee
la nostra lingua». Così Antonio Gramsci nell’undicesimo (correggendo una nota già apparsa nel settimo) dei
Quaderni del carcere.
Il riferimento è a una risoluzione votata nel III Congresso
dell’Internazionale comunista sull’organizzazione dei partiti comunisti,
risoluzione che viene criticata da Lenin («Vilici») al Congresso
successivo, a cui Gramsci partecipa, in quanto
«interamente permeata di spirito russo».
Secondo Lenin, la risoluzione pone metodi e contenuti che non potranno essere
compresi (e dunque nemmeno applicati) dagli altri paesi, perché troppo
«ispirati alle condizioni» dell’Unione sovietica
.
Un problema di
traduzione dunque, intesa come difficoltà di attingere a quell’esperienza per portare la Rivoluzione oltre i suoi confini.
Facciamo un balzo in avanti di circa cento anni, veniamo in Francia e in Italia,
invertiamo la direzione e abbiamo l’oggetto di questa breve inchiesta:
quello che, per ora, si muove in Italia sulla scia del modello Gilets
Jaunes francesi (chiamata online-mobilitazione) non rispecchia quella
che a noi sembra la
tendenza del movimento.
Ma andiamo con ordine: cercando «gilet gialli» su
Facebook,
piattaforma da cui in Francia ha preso piede l’ondata di proteste a
partire da un evento pubblicizzato proprio sul social di Zuckerberg,
sono numerosi i gruppi o le pagine ispirate ai cugini transalpini.
Tra tutte, abbiamo scelto le prime tre per numero di iscritti (aggiornamento al 28/12) e abbiamo controllato chi dicesse cosa, con quali motivazioni e a partire da quali percorsi o ispirazioni. Insomma, abbiamo provato a fare le pulci a coloro che tentano di replicare (tradurre, appunto) la
Colère populaire française in termini nostrani.
1)
Coordinamento Nazionale Gilet Gialli Italia. Con quasi 12.000 follower è, tra gli utilizzatori di quel simbolo, la pagina Facebook più seguita in Italia, a cui vanno aggiunte una serie di pagine regionali, rimaste tuttavia con scarso seguito fin’ora.
In questo tentativo, ciò che è degno di nota è la traiettoria con cui la pagina si sta sviluppando, oltre ai buoni numeri raggiunti dopo circa un mese di esistenza.
L’amministratore è
Ivan Della Valle, ex deputato del M5S espulso per aver trattenuto quei rimborsi che, secondo le direttive del Movimento, dovevano essere versati a un fondo per le piccole imprese. Nel suo mandato, Della Valle ha depositato una
proposta di legge che escludeva gli ambulanti dalla direttiva
Bolkestein, atto approvato dalla Commissione europea che sancisce l’obbligo di rimessa a bando di alcune concessioni pubbliche nell’ottica di una liberalizzazione del mercato dei servizi su scala europea.
Da questo interesse, nasce
l’intesa politica con
Giancarlo Nardozzi, presidente del
Goia, primo degli iscritti alla pagina secondo
Repubblica e noto per essere stato attivo in quel movimento dei Forconi che, a partire dalla Sicilia, arrivò fino a Torino mobilitando soprattutto la piccola borghesia reazionaria (a Roma, si arrivò addirittura a un contatto con CasaPound) contro il governo di allora.
Sotto la “guida Nardozzi”, le
questioni agitate dal Coordinamento sono la necessità di far ripartire i consumi attraverso una riduzione di tasse e burocrazia per i commerciati, delle accise sulla benzina, e lo stop alle delocalizzazioni che hanno smantellato il settore produttivo del paese.
Il Tav?
«Non ce ne frega niente» ammette Nardozzi,
«da Torino c’è bisogno di una terza piazza, che vada oltre la dicotomia Sì-No Tav, attenta ai bisogni reali, come il crollo dei ponti: a questo il governo deve dare risposte».
L’idea di costeggiare l’operato del governo si esprime nel fatto che, per il Coordinamento, il nemico principale non è l’esecutivo attuale (in
continuità per altro con il pensiero dei reduci di quella protesta), a cui si chiede invece di
mantenere le promesse, quanto piuttosto l’Unione Europea in quanto responsabile delle enormi difficoltà incontrate dalla piccola impresa con l’avvio del processo di integrazione europeo.
L’
hashtag più ricorrente è, senza sorprese, #ItalExit, con tanto di suo inserimento sul logo ufficiale della pagina.
Un leggero cambio di prospettiva si registra a partire dal 21 dicembre, quando viene «
reclutato» come amministratore, al fianco di Della Valle,
Nicolas Micheletti, attivista per i diritti
umani e animali, fondatore nel 2015 di un’
associazione di divulgazione di teorie economiche, anch’essa
vicina alle posizioni del governo per
«aver portato a casa la pellaccia» nella battaglia con Bruxelles
3.
Purtroppo, per questa associazione le posizioni euroscettiche trovano in ambito europeo un
riferimento nel gruppo
Europa delle Nazioni e della Libertà, il quale include i partiti di estrema destra nel panorama europeo, come il Front National, la Lega o l’Alternative für Deutschland.
Per Micheletti, i riferimenti intellettuali sono gli economisti Alberto Bagnai (senatore leghista) e Jacques Sapir (
teorizzatore di un’alleanza tra destra e sinistra in funzione anti-Euro), il giornalista italiano Paolo Barnard (attivista per la libertà di stampa) e il panafricanista Mohamed Konare, quest’ultimo importante per la denuncia del colonialismo francese in Africa perpetrato attraverso il ruolo del Franco Cfa.
Dall’arrivo di Micheletti, il tema principale per il Coordinamento è il recupero della
sovranità monetaria, da aggiungere a un rinnovato
interesse per questione del Tav, messa in secondo piano quando Nardozzi sembrava avere un peso maggiore nella pagina (sulla sua personale, non pubblica un aggiornamento del Coordinamento dal video dell’11 dicembre).
Un ultimo elemento degno di nota è il tentativo di connessione tentato da
Steven Lebee, uno dei fondatori del movimento in Francia, per tentare un’azione congiunta nella giornata del 22 dicembre che bloccasse il tunnel del Monte Bianco, oltre che dalla parte francese, anche da quella italiana.
Secondo il Coordinamento stesso, l’assenza di organizzazione non ha permesso la realizzazione del piano.
A nostro parere, quello che ne esce è l’espressione delle condizioni in cui, chi fa politica, si trova a operare quotidianamente in questo paese: le politiche social-liberali della “sinistra del XXI secolo” hanno porta a un rifiuto di quel mondo (etichettato come «piddino») e della dicotomia tra destra e sinistra in quanto superamento dell’epoca delle ideologie.
Tutto ciò si incarna nel (non ancora recepito)
bluff giallo-verde sul piano europeo e sulla richiesta di maggiore democrazia barra sovranità in termini di possibilità di scelta nel paese, il che offre, a volte suo malgrado, nuova agibilità alla xenofobia in doppiopetto, mascherata come sempre dietro una retorica patriottarda e vagamente nostalgica.
2)
Gilet Gialli. Subito una nota di merito: lo screenshot evidenzia come questo gruppo sia stato creato due anni fa, dunque il numero degli iscritti successivi alla mobilitazione dei GJ può essere considerato più o meno quello degli ultimi 30 giorni.
Con “7.000” membri al momento della pubblicazione del pezzo, questo gruppo si caratterizza per essere apparentemente il meno dirigista rispetto agli altri due. Come il primo, si dota di una serie di pagine regionali per il coordinamento di azioni locali (con tanto di numeri di telefono di riferimento), anche qui, non troppo partecipate.
In linea con quanto appena detto, l’attività sul gruppo è libera e perciò enorme (più di 2000 post nell’ultimo mese), quanto eterogenea (articoli da Contropiano a Infoaut, video personali, link di riviste francesi, ecc.). Uno solo l’indirizzo da seguire: come da “Descrizione”,
«i partiti a noi non interessano, non mettete post che li valuta[no]».
Questo breve quadro, appena schizzato, si fa più chiaro alla lettura della voce
amministratori: questi sono ben 24, tra cui 9 sono pagine regionali di un auto-definitosi
Coordinamento rivoluzionario di un gruppo chiamato
Noi siamo il Popolo Noi siamo lo Stato. Molti degli amministratori si ritrovano nei commenti ai post scritti sul quel
blog.
Queste rapide informazioni dovrebbero chiudere il cerchio sul dilemma, accennato in apertura, circa il numero effettivo dei membri iscritti: probabilmente, si tratta di un “cambio nome” su un gruppo evidentemente precostituito, nel tentativo di cavalcare l’ondata di interesse per allargare il giro di riferimento.
La domanda a cui rispondere allora diventa: qual è lo scopo di Noi siamo lo Stato?
Semplice:
«un governo senza partiti», e cioè l’identificazione, decisamente sinistra, del Popolo con lo Stato.
Qui si trova un abbozzo di prassi da seguire, ma solo dopo la pubblicazione del
«Manifesto rivoluzionario» e la costituzione del
«Coordinamento rivoluzionario spontaneo».
L’
appello è alla Costituzione italiana e al Diritto internazionale, i quali riconoscono la sovranità al Popolo, che dunque deve diventare il soggetto unitario, armonico e principale del momento decisionale, espellendo ogni forma di rappresentanza politica, e con ciò la base del “sistema” attuale.
Politicanti corrotti, grandi potentati, banche, affaristi, europei e non: più o meno questo l’inventario dei nemici giurati del gruppo, che in effetti sfrutta il vantaggio organizzativo per mettere in cascina la prima
iniziativa di un certo rilievo: la consegna di due documenti, uno alla
Commissione europea e un altro alla Camera e al
Senato, contenenti una serie lunghissima di richieste volte a restituire al Popolo la guida della Nazione mediante il superamento degli organi intermediari tra il primo e lo Stato.
Come di moda, sui Gilet le parole d’ordine: uscita dall’Euro, lotta al Signoraggio e... Italia agli italiani.
Così, le rivendicazioni che caratterizzano questo tentativo di direzionare la protesta ci appaiono di certo eclatanti, per certi versi irreali (non basate su una valutazione concreta della situazione concreta), ma non per questo immuni a qualche tipo di svolta nazionalistica che sfoghi l’eventuale esplosione del malessere sociale in una delle due
facce della reazione.
3)
Gilet Gialli Italia. 1300 follower, un
sito web e richiami a una sovranità di stampo nostalgico-nazionalista neanche troppo velata. Il gruppo è gestito da
Antonio Del Piano, autore in prima persona dei video che spiegano le rivendicazioni portate avanti da questa pagina
Come si legge dal sito, i nemici del popolo italiano, cosi come di quello francese, sono
«l’elite finanziaria e i governi al servizio dei banchieri internazionali», che mettono
«in pericolo la nostra libertà e quella dei nostri figli, (...) la nostra identità e il nostro patrimonio culturale e artistico».
I punti del programma sono la sovranità monetaria, il rigetto del Global compact, la riduzione delle tasse, a cui va sommato il diritto allo studio gratuito, il rifiuto delle Grandi opere inutili (in senso anche ambientalistico) e dei vaccini obbligatori.
Tra questi, i primi due sono quelli più sentiti dall’ideatore della pagina.
Nel primo caso, i riferimenti culturali per l’uscita dall’Euro sono Savino Frigiola, economista che oltre a rilasciare
interviste per organi d’informazione
4 interessati alla storia del
nazismo (eufemismo, tra l’altro
sostenuti da soggettività che richiamano a stadi spirituali superiori in chiave antimoderna, che non disdegnano però la vendita di prodotti, come dire, ben più
mirati), è allievo di quel Giacinto Auriti («persona illustre», secondo Del Piano) teorico del complotto del
signoraggio, candidato nel 2004 al Parlamento europeo con la lista Alternativa sociale di Alessandra Mussolini e definito
missino direttamente dal Secolo XIX – come dire, ci si può fidare.
Inoltre, Frigiola ha pubblicato nel 2008 un
libro per l’editore
Controcorrente, il quale nel suo scaffale fa sfoggio di
titoli di questo genere.
Se i riferimenti ci sembrano chiari, è dunque difficile pensare che Del Piano non sappia che tipo di prospettiva-di-mondo portano in dote gli autori citati.
E infatti, il cerchio si chiude prendendo in carico il secondo punto, di cui Del Piano ci fa un bel riassunto in questo
video: il No al Global compact è,
«in continuità coi GJ, un punto cardine del programma. (...) Noi non siamo razzisti, ma qua non si può andare avanti con concorrenza sleale degli extracomunitari, questa non è la terra di nessuno». Per avere un
«paese libero e forte» si deve
«riunire il popolo italiano» contro il
«sistema dei partiti politici» e i
«diktat delle oligarchie finanziare».
Un altro elemento, tutt’altro che neutrale, è la propensione a richiamare più volte (come
qui e
qui) l’onorevole causa palestinese, che tuttavia, nel contesto descritto, non può che risultare di ambigua derivazione.
Caratteristica peculiare di questa pagina, oltre alla più volte ripresa questione meridionale, è il tentativo di lancio di una
«Manifestazione Nazionale» per
il 9 febbraio a Roma, che ambisce a riprodurre, in chiave
«pacifica ma determinata», la protesta francese.
In modo più marcato rispetto alle valutazioni precedenti, anche in questa breve analisi emerge la matrice destrorsa che prova a capitalizzare il simbolo di un sentimento che, al di là delle Alpi, pur con le problematiche classiche di un movimento genuino, spontaneo, struttura le proprie rivendicazioni con un accento che non ci pare esagerato definire di classe.
Ma, è bene ricordarlo, se è vero che i processi storici non si evolvono secondo equazioni scritte comodamente a tavolino, rimane allora la necessità di continuare a vigilare nei meandri di queste chiamate alla mobilitazione in salsa nostrana, consci del fatto che, in caso di effettiva partenza di un moto di protesta, lasciare in mano alle frange reazionarie il simbolo del più importante stato di agitazione presente sul palcoscenico europeo, sarebbe un grave errore politico.
P.S.
Forse non nuoce ricordare che questa breve ricerca non aveva il fine di esaurire l’inteso spettro delle mobilitazioni targate Gilet Gialli in Italia (si sarebbe dovuto scrivere di Potere al Popolo, o degli Ncc, ecc.), ma solo di quelle modalità che tentano di replicare la scintilla che ha dato vita alla protesta nei territori francesi: come accennato in apertura, chiamata online e scesa in piazza concreta.
Note
1 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 20144, p. 1468.
2 V. Lenin, Opere complete. Vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 395-396.
3 Micheletti è anche fondatore di un movimento politico chiamato
Democrazia Verde, che si batte per la piena occupazione e la difesa dell’ambiente. Tra le altre cose, DV promuove un
Manifesto per la «Rivoluzione Vegan» in cui si teorizza un ambiguo antispecismo che non vieta il consumo della carne, quanto piuttosto la sua sostituzione con la «clean meat», pulita da «antibiotici, antiparassitari, ormoni, funghicidi e pesticidi».
4 Ultimo in ordine di apparizione, un
rilancio di un video pubblicato su Facebook da Del Piano dal sito
attivo.news, la cui posizione sulla questione dell’immigrazione può essere riassunta dal seguente
articolo.
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