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31/08/2020

Pretty Hate Machine (1989) - Nine Inch Nails - Minirece


Covid-19 - L'analisi di Crisanti sui numeri del contagio e la proposta per i tamponi

Non è abitudine di queste pagine ospitare dei contributi del megafono per eccellenza del salotto buono di ciò che rimane della borghesia italiana. In questa occasione facciamo un'eccezione perché, di questi tempi chi scrive è persona meritevole di ascolto.

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di Andrea Crisanti

In Italia durante le ultime due settimane il numero di persone positive al test per il coronavirus è aumentato di giorno in giorno fino a sfiorare questa settimana la soglia di 1.500 casi (clicca qui per tutti i dati e le mappe). Questa ripresa della trasmissione virale che interessa tutto il territorio nazionale sembra sia alimentata da comportamenti di socializzazione diffusi prevalentemente tra i giovani (ma non solo) e da casi di importazione. Il virus si diffonde sfruttando il comportamento sociale dei singoli: più persone si incontrano e più aumenta la probabilità di infettarsi. È successo a chi ha frequentato assiduamente luoghi affollati e discoteche senza adottare precauzioni. Ora abbiamo raggiunto lo stesso numero di casi che leggevamo con apprensione nel bollettino della Protezione civile quando sotto l’onda d’urto di centinaia di morti al giorno è stato decretato il lockdown su scala nazionale. Questa ripresa della trasmissione presenta tuttavia delle differenze rispetto a quanto abbiamo osservato durante i terribili mesi di febbraio, marzo e aprile (è sotto gli occhi di tutti): la maggior parte delle persone infette sono giovani in grande maggioranza asintomatici o con sintomatologia molto lieve. E, cosa confortante, il numero delle persone ricoverate nei reparti Covid e rianimazione aumenta di poche unità al giorno senza mettere sotto pressione il sistema sanitario. La comunità scientifica, i media e tutti gli italiani si chiedono cosa stia succedendo. Autorevoli scienziati argomentano che il virus sia mutato, si sia indebolito e che dunque l’emergenza sia finita. Altri raccomandano prudenza e incoraggiano a non abbassare la guardia e giustificano invece lo stato di emergenza. I numeri dei pazienti ricoverati in rianimazione e le persone che purtroppo ancora muoiono di Covid-19 sono diventati vessilli di opposte fazioni scientifiche e politiche.

L’analisi

Analizzando i dati e le conoscenze che abbiamo acquisito fino a ora ritengo sia possibile fornire una spiegazione equilibrata e coerente della situazione che promuova un dibattito costruttivo sulle misure da adottare tutti insieme per convivere con il virus in attesa di un possibile vaccino. Ripartiamo dal numero dei casi accertati (1.492) nel giorno in cui l’Italia è entrata in lockdown e facciamo uno sforzo di memoria: i reagenti per i tamponi scarseggiavano, i test venivano eseguiti solo su persone ricoverate in ospedale che versavano in gravi condizioni e molti malati rimanevano a casa senza cure e diagnosi. Nessuna traccia allora degli asintomatici la cui presenza e contributo alla trasmissione era negata con vigore da tutte le autorità sanitarie. Tutti ora concordano che quei numeri erano una drammatica sottostima della realtà.


Prima di trarre conclusioni, basate sul confronto tra i numeri dei casi in questi giorni con quelli registrati durante i giorni più bui della pandemia, e affermare che il virus sia mutato o diventato «più buono» (anzi i dati che giungono dal resto del mondo suggeriscono che Covid-19 mantenga tutta la sua pericolosità) dobbiamo quindi cercare di ricostruire quanti erano effettivamente i casi in Italia durante le prime settimane della pandemia. Ci aiuta in questo esercizio l’indagine sierologica condotta recentemente dall’Istat su tutto il territorio nazionale che non ha avuto a mio avviso la risonanza mediatica e scientifica che meritava. Apprendiamo da questa analisi che i casi di Covid-19 in Italia sono stati complessivamente 1 milione e 482 mila, cifra ben superiore al numero di casi accertati (265 mila). Poiché circa il 70% dei casi accertati con tampone è stato registrato nel periodo che va dal 22 febbraio al 3 aprile si può, utilizzando i dati dell’Istat, calcolare che durante quei 40 giorni in Italia ci siano stati circa 1 milione e 40 mila casi di infezione (il 70% di un milione e 482 mila) che corrisponde a 26 mila casi al giorno. Nella fase attuale, consapevoli del fatto che le persone infette possano essere asintomatiche o presentare una sintomatologia lieve, si eseguono test a persone che prima sarebbero state trascurate e quindi i dati sono molto più rappresentativi della reale trasmissione del virus. A questo punto i conti tornano. I casi di questi giorni sono circa dalle 15 alle 20 volte inferiori a quelli delle prime settimane della pandemia, calcolati tenendo conto del contributo degli asintomatici e dei casi lievi. Se moltiplichiamo i numeri di ricoverati in terapia intensiva e i morti giornalieri di questi giorni per 15 ci avviciniamo ai valori di febbraio-marzo. Altro elemento da considerare è che gli anziani hanno adottato comportamenti molto prudenti per evitare la trasmissione e allo stesso tempo le case di riposo sono oggetto di misure molto più rigorose. Anche l’osservazione che l’età media si sia abbassata è un fenomeno apparente non riconducibile alle caratteristiche genetiche e biologiche del virus. I risultati dell’indagine sierologica dell’Istat hanno messo infatti in evidenza come durante la fase acuta dell’epidemia circa il 70% dei casi interessasse persone sotto i 59 anni.

La soglia di rottura

Il ritardo della trasmissione osservata nel nostro Paese rispetto alle nazioni limitrofe è invece con tutta probabilità da attribuire alla rimozione graduale delle misure di distanziamento adottate dall’Italia. Questo ci pone in una situazione di privilegio poiché ci consente di vedere in anticipo cosa potrebbe accadere da noi nelle prossime settimane. Se i casi dovessero aumentare al ritmo osservato potremmo raggiungere nel giro di poche settimane i numeri di Spagna e Francia. La ripresa delle attività lavorative, l’inizio delle scuole, l’importante appuntamento elettorale, nonché l’inizio della stagione autunnale inevitabilmente creeranno interazioni tra persone che il virus utilizzerà per diffondersi. È fondamentale perciò tenere l’attuale equilibrio dei numeri il più basso possibile, perché se si raggiunge la soglia di rottura, con il numero dei casi che eccede la capacità di risposta del sistema sanitario, l’unica opzione disponibile rimane il lockdown che, vista la situazione economica, rimane una scelta estrema. Il punto di rottura dell’equilibrio si può evitare spiegando alle persone con onestà quello che stiamo vivendo e incentivando comportamenti virtuosi. Tuttavia questo non basta.

La proposta

Il grande problema nel contrastare la diffusione del virus è la elevata frequenza di soggetti asintomatici che possono inconsapevolmente trasmettere l’infezione. L’identificazione degli asintomatici è proprio la sfida che abbiamo davanti per evitare che i casi aumentino vertiginosamente fino al punto di rottura. Mi preme qui ricordare che sempre a Vo’ il virus il 27 febbraio aveva già infettato il 5% della popolazione prima di creare casi clinici sintomatici. L’identificazione sistematica degli asintomatici attraverso l’uso massiccio ma mirato di tamponi è stata la chiave del successo del Veneto. In questo momento le regioni tutte assieme possono al massimo raggiungere la capacità di effettuare circa 90 mila tamponi, picco che viene raggiunto occasionalmente e che non è sufficiente a far fronte alla domanda di test che ci sarà. È dunque questa urgenza che mi ha indotto a presentare, su invito di alcuni membri del governo, un piano che conduca a incrementare, fino a quadruplicare su scala nazionale, la capacità di fare tamponi superando le barriere e divisioni regionali che hanno generato una insensata panoplia di iniziative e adozioni tecnologiche che sicuramente generano confusione e in alcuni casi sono controproducenti.

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Libano - Le ingerenze di Francia e USA su un Paese in crisi

di Michele Giorgio – Il Manifesto

Non sono state scelte a caso le date della visita ufficiale di due giorni, oggi e domani, di Emmanuel Macron in Libano, la seconda in meno di un mese. «La Francia non vi abbandonerà» aveva promesso il presidente francese alle migliaia di libanesi che lo avevano accolto nelle strade di Beirut devastate dall’esplosione del 4 agosto al porto della capitale. Ed è già di ritorno.

Atterrerà in Libano nel giorno in cui il capo dello Stato Michel Aoun dovrebbe conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo. Macron incontrerà anche la cantante 85enne Fairouz, un’icona nel paese dei cedri e in buona parte del Medio Oriente, per segnalare che lui, per «salvare il Libano» precipitato nell’abisso della crisi, ascolta più volentieri il parere dell’artista tanto amata e stimata dalla sua gente che le valutazioni dei rappresentanti delle istituzioni libanesi.

Martedì invece cade il centesimo anniversario in cui la potenza coloniale francese istituì come Stato sotto il proprio mandato il Grande Libano anticipando i tempi stabiliti dalla Società delle Nazioni.

Macron non vuole salvare il Libano caricandolo sulle spalle della Francia. Piuttosto pretende che i capi politici libanesi accettino i suoi “suggerimenti” per la formazione del governo, la sua roadmap con le riforme da implementare per ottenere gli aiuti internazionali e che si tengano a distanza dalla soluzione, politicamente più drastica, proposta da Washington.

Il protagonismo di Parigi è stato evidente venerdì al Consiglio di sicurezza dell’Onu quando è scesa in campo e ha placato le intenzioni bellicose dell’Amministrazione Trump e di Israele nei confronti dell’Unifil facendo votare il rinnovo della missione in Libano del sud prevedendo una limitata riduzione del numero dei caschi blu (in maggioranza italiani) e non meglio precisate ispezioni alla ricerca di armi del movimento sciita Hezbollah.

La roadmap di Macron si fonda sull’«esigenza senza ingerenza». Esigenza, ha spiegato, «perché il sistema si è autobloccato, le costrizioni del sistema confessionale e gli altri interessi legati hanno portato a non avere quasi più rinnovamento e alla quasi impossibilità di fare riforme». Però non boccia il sistema confessionale su cui è radicato da sempre il Libano, anzi lo esalta come forma di convivenza tra le varie componenti religiose della popolazione. D’altronde come potrebbe dichiararlo decaduto: fu la Francia coloniale a benedirlo per assicurare maggiori poteri ai cristiani libanesi.

Inoltre, ed è questa la differenza più rilevante tra la roadmap francese e la soluzione di Washington, Parigi riconosce il peso politico in Libano di Hezbollah, al quale chiede di fare un mezzo passo all’indietro, di essere meno presente nel governo e nella amministrazione del paese.

Agli Usa le mosse di Macron in Libano fanno venire il mal di stomaco. Il piano americano per il Medio Oriente, oltre all’annullamento dei diritti dei palestinesi, prevede che sia azzerata l’influenza nella regione dell’Iran e dei suoi alleati, a cominciare da Hezbollah. E per raggiungere questo obiettivo usa il pugno di ferro e pesanti sanzioni economiche (contro Siria e Iran) che colpiscono di riflesso anche il Libano.

L’ambasciatrice statunitense a Beirut, Dorothy Shea, in un’intervista al quotidiano al Modon, ha sottolineato che alla Francia «non dispiace la partecipazione di Hezbollah al governo» aggiungendo che «la proposta francese appartiene solo ai francesi». Con parole nette, Shea ha affermato che l’obiettivo su cui si concentra Washington è Hezbollah. Contro Macron fanno la voce grossa anche i libanesi tifosi degli Stati Uniti.

«Il governo degli Usa deve assumere l’iniziativa... Il presidente francese potrebbe essere soddisfatto da un governo di unità nazionale... (che) manterrebbe Hezbollah nelle istituzioni statali», ha scritto l’analista Hanin Ghaddar su Foreign Policy. E mercoledì, partito Macron, a Beirut atterrerà David Schenker, responsabile per il Medio Oriente del Dipartimento di Stato.

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Jean Seberg, una vita distrutta dall’Fbi

In tempi di “pensiero unico”, dove per definizione indiscutibile l’Occidente è “il buono” e “democratico” e tutti gli altri sono “cattivi” e “dittatori”, dediti solo a reprimere il popolo e perseguitare gli oppositori, è bene ricordare l’anniversario del 30 agosto del 1979.

A Parigi muore Jean Seberg, attrice statunitense, probabilmente suicida. Spinta a quel gesto dalla lunghissima persecuzione subita dall’Fbi, il “democratico” servizio di polizia federale degli Stati Uniti, che dedicava (e dedica) una sezione speciale del “servizio” allo spionaggio e “neutralizzazione” di artisti che “disturbano” la linea politica degli States. I metodi usati sono infami come il cervello dei loro utilizzatori.

Jean Seberg è stata il volto della nouvelle vague a partire dal 1960, quando – da protagonista di A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, il primo film di Jean-Luc Godard) – ad appena 22 anni incarna l’inquietudine e il bisogno di “rottura” della generazione del dopoguerra. Di lì al ’68 ci vorrà quasi un decennio perché quell’inquietudine diventi “coscienza di massa” e rivolta sociale.

Come avverrà per molti altri protagonisti del cinema e del teatro, però, Jean Seberg non si limitò ad “interpretare” ruoli da ribelle. Nella stagione dell'“impegno” politico si schierò apertamente a sostegno dei Black Panther e dei nativi americani.

Ci sembra giusto, dunque, ricordarla proprio nei giorni in cui quella rivolta si ripropone negli States. E lo facciamo con la pagina dedicatagli da Mimmo Franzinelli, nel suo libro Rock & servizi segreti, che oggi più di ieri aiuta a spalancare gli occhi sulla realtà di un mondo che non è, e non è mai stato, soltanto business e star system.

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Le operazioni contro il Black Panther Party coinvolgono anche gli artisti che simpatizzano per i nazionalisti neri e che vengono pertanto sottoposti a campagne ostili, per neutralizzare l’influenza esercitata attraverso i media. Il termine neutralizzare, ricorrente nei rapporti dell’FBI, maschera manovre illegali e banditesche.

Una vicenda allucinante travolge l’attrice Jean Seberg. Sostenitrice dei diritti delle minoranze etniche, l’attrice finanzia le Pantere Nere e alcuni gruppi di nativi indiani. Nella primavera del 1970 entra nel mirino di Hoover: inclusa nel Security Index, è bersagliata con operazioni di guerra psicologica finalizzate a distruggerne l’immagine.

Sposata con l’intellettuale antifascista Romain Gary, è al quinto mese di gravidanza quando dal quartiere generale dell’FBI scatta la trappola, affidata a un funzionario senza scrupoli: Richard W. Held, che imbastisce una lettera anonima destinata a una giornalista compiacente (Joyce Haber, del «Los Angeles Times»), per insinuare che l’imminente maternità sia frutto della relazione clandestina con Raymond Hewit, dirigente delle Black Panthers, e che pertanto il sostegno dell’attrice al movimento sia dettato da motivazioni che con gli ideali hanno poco a che fare.

Held fabbrica contestualmente un documento che indica Hewit come informatore dell’FBI, per attirare sul «traditore» la vendetta dei compagni: è questa una classica operazione prevista dal programma di controintelligence contro i «Gruppi nazionalisti neri dell’odio».

Il rapporto redatto il 6 maggio 1970 dall’agenzia di Los Angeles per il direttore dell’FBI è infatti intestato «Counterintelligence Program – Black Nationalist Hate Groups – Racial Intelligence – Black Panther Party».

La scelta del momento è l’ulteriore riprova della perfidia dei provocatori: «Per proteggere la nostra fonte informativa e per assicurare il successo del piano, il Bureau ritiene preferibile attendere all’incirca un altro paio di mesi, finché la gravidanza della Seberg sia a tutti evidente».

E, a dimostrazione della criminalità dei vertici dell’FBI, nel documento si annota: «Jean Seberg è stata una finanziatrice del BPP e dovrebbe essere neutralizzata».

Il gossip sull’attrice bianca ingravidata dal rivoluzionario nero è amplificato da quotidiani e periodici di mezzo mondo; oltre a compromettere l’immagine della trentunenne attrice, la diffamazione la prostra sul piano psicofisico in un periodo per lei delicatissimo.

Il 23 agosto nasce, con due mesi d’anticipo, la piccola Nina, che non riesce a sopravvivere. Il corpicino è composto in una bara di vetro, a smentire le vociferazioni sulla paternità extraconiugale.

Un rapporto dell’Intelligence registra «la nascita prematura e il decesso della figlia della sostenitrice dell’estremista Black Panther Party, attrice promiscua e sessualmente pervertita».

Jean Seberg ricollega la morte della figlia allo shock provocato dalla campagna-stampa e querela per diffamazione tre giornalisti, condannati a risarcirla con 11.000 dollari.

I mandanti rimangono nell’ombra e ottengono i risultati che si erano ripromessi: colpire l’immagine dell’attrice e distruggerne l’equilibrio. Convinta di essere spiata, assolda due guardie del corpo, nonostante il marito e gli amici la sconsiglino, convinti che si tratti di paranoia.

La squallida vicenda precipita la donna nell’alcool e nella dipendenza da psicofarmaci, Nel primo anniversario della morte di Nina l’angosciata madre tenta il suicidio; salvata in extremis, riproverà altre volte e nel settembre 1979 verrà ritrovata esanime in un’automobile, uccisa da un’overdose di barbiturici.

Romain Gary, che nel frattempo aveva ottenuto il divorzio, sostiene che la moglie sia stata «distrutta dall’FBI» (qualche mese più tardi, anche lui si suiciderà)”

* Rock & servizi segreti, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 81-83.

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Il razzismo inconsapevole del “progressista medio”


“Negra da cortile” è l’espressione che più ho letto nei post sotto questa foto. Ovviamente l’espressione non viene utilizzata in maggioranza da africani o afrodiscendenti, ma da parte di democratici o quello che rimane del movimentismo di sinistra.

Malcolm X la usava per descrivere le condizioni storiche di sviluppo dei lavoratori neri africano-americani negli Stati Uniti.

Il colonialismo francese e inglese, sperimentando l’ingegneria sociale nel Terzo Mondo, ha sempre creato una borghesia locale che potesse facilitare il controllo sociale e rappresentare il modello di sviluppo capitalistico per i popoli “barbari e incivili”.

L’utilizzo sconsiderato del termine “negro da cortile” mi ha portato a ragionare sul possibile utilizzo che ne potrebbero fare i bianchi in un contesto come quello europeo.

A forza di rileggere lo stesso commento mi sto convincendo che per chi continua ad utilizzarlo con tanta leggerezza vi sia un legame epidermico tra pensiero politico, etico e morale.

Se è vero che il colore della pelle è presente e costitutivo nella definizione di categorie e segmenti sociali nazionali e internazionali, è altrettanto vera la tesi che associare graniticamente una categoria politica al colore della pelle scivola indubbiamente nel trappola della razzializzazione.

Un po’ come le mode orientaliste contemporanee e alcune forme di terzomondismo che, a forza di semplificare le questioni delle categorie di razza su un piano meramente geopolitico, finiscono per creare una realtà astratta o, meglio ancora, ideologica.

Una forma di disumanizzazione che schiaccia la complessità di una persona sul proprio colore della pelle (ovviamente mai il colore bianco) e ne rimuove tutte le contraddizioni che appartengono all’essere umano.

Una persona non bianca può essere razzista, reazionaria e avere aspirazioni borghesi. Dovrebbe essere una banalità, ma nel momento in cui chi la utilizza come strategia comunicativa riesce a raccogliere lo sdegno dei presunti progressisti allora assistiamo ad una visione complementare.

Il negro buono e il negro cattivo esistono sia per il “progressista” che per il reazionario. L’utilizzo che ne viene fatto dalle forze politiche di governo è pressoché uguale.

Non riuscire a costruire un discorso di autodifesa e attacco sui contenuti che i candidati non bianchi portano, e soffermarsi sulla contraddizione inaccettabile che “sei nero devi fare il nero” come stabilisce la visione razzistica del momento, è sintomatico del fatto che lo spazio di rappresentanza delle persone non bianche in questo paese non esiste e quando esiste è il semplice specchio dei rapporti di forza delle forze e delle ideologie dominanti.

In questo Paese esistono molti esempi di rappresentanza di percorsi reali e radicali, persone che provengono da lotte e comunità in lotta come mia sorella Mariema Faye. Il problema è che le rivendicazioni che porta avanti con Potere al Popolo sono incompatibili con tutti i partiti dell’arco parlamentare e per tanto non potranno mai godere della stessa visibilità e attenzione mediatica di cui godono gli attori assoldati dal PD o dalla Lega o dai 5S.

Sono incompatibili perché hanno una visione sociale e umana radicale e di rottura con lo stato attuale di cose. Perchè non vi è alcuna differenza tra la candidatura del PD, Hilary Sedu, o della Lega, Christine Mariam Scandroglio, per le regionali in Campania, essi sono portatori della stessa visione politica e ideologica del mondo.

Il “negro buono” e il “negro cattivo” dei progressisti e dei reazionari si distruggono quando arriva una persona non bianca che non fa la performance per cui viene reclutata, ma rovescia l’ordine del discorso e dei significanti.

Si riappropria della propria condizione umana e rompe la narrazione pacificata politicante del sistema ideologico dominante, non mendicando o chiedendo il permesso di esistere in quanto il processo di assimilazione è andato a buon fine, ma esistendo a prescindere e occupando lo spazio ovunque.

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Giannuli - Trotsky: un profilo storico-politico a ottant’anni dal suo assassinio

Il 21 agosto 1940, esattamente 80 anni fa, morì a Città del Messico, Leon Trotsky. In questo video mi soffermerò sul profilo di questo importante personaggio politico del ‘900, cercando di trovare la giusta distanza tra la mia passione giovanile trotzkista ed il mio ruolo di storico, che negli anni mi ha portato a sviluppare una critica verso il suo pensiero, pur rimanendo orgoglioso della mia esperienza.
Entriamo nel merito. Buona lezione.


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Scene di caccia all’uomo nell’Ucraina europeista

Giustamente presi dagli avvenimenti in Bielorussia e professionalmente impegnati a denunciare sia i “crimini dell’ultimo dittatore d’Europa”, sia gli intrighi di quegli “avvelenatori seriali” che, non a caso, dai sotterranei della Lubjanka, ispirano i “metodi fascisti” del primo, la maggior parte dei media, con invidiabile competenza, ha bucato – involontariamente, per carità! – il democratico assalto a un minibus di oppositori politici, il 26 agosto, con relative europeistiche bastonature dei medesimi, da parte di squadristi del “Corpo nazionale” e di “Azov”, sul civilissimo e occidentalissimo asse viario Kiev-Kharkov, nell’Ucraina finalmente tornata da sei anni in seno alla “famiglia europea”.

Due militanti della formazione “Patrioti per la vita”, che fa capo a Il’ja Kiva (nel 2014, uno dei dirigenti di “Pravyj sektor” e uomo di fiducia di Dmitro Jaroš; quindi comandante del battaglione nazista “Poltavščina” in Donbass; oggi deputato de “Piattaforma d’opposizione-Per la vita” di Jurij Bojko e Viktor Medvedčuk, considerata quasi filo-russa), inizialmente dati per uccisi dalle democratiche sprangate e dai calci europeisti degli assalitori, sono ricoverati in condizioni gravissime all’ospedale di Kharkov. Un’altra decina se l’è cavata con ferite meno gravi.

Forte dell’esperienza acquisita nell’incontro con l’italica Ministra Luciana Lamorgese, il Ministro degli interni golpista Arsen Avakov ha prontamente messo in pratica quanto convenuto a Roma il 5 agosto, cioè “valorizzare al massimo lo scambio di esperienze tra le forze di polizia” e ha così promesso “una dura reazione”: sia contro gli assalitori che contro gli assaliti.

Assaliti che, va detto, secondo alcune fonti, non sarebbero poi nemmeno loro delle sante persone: “Patrioti per la vita” è ritenuta ala militare di “Piattaforma per la vita”, ma con peculiarità tutte ucraine. Ma di ciò più avanti.

Dato il clamore suscitato in Ucraina dall’episodio, sembra che la polizia sia stata costretta a fermare 14 degli assalitori, mentre il presidente Vladimir Zelenskij ha biascicato che “importante è impedire il ritorno ai malvagi anni ’90”, come se, invece, le aggressioni e gli assassinii nazisti che si ripetono ormai da quasi sette anni nell’Ucraina majdanista siano la norma. Peraltro coperti da un Ministro degli interni (in carica ininterrottamente sin dalla presidenza a interim di Aleksandr Turčinov, subito dopo il golpe del febbraio 2014) che a suo tempo aveva anzi ufficializzato nella Guardia nazionale moltissimi ex banditi dei battaglioni neo-nazisti reduci dal Donbass.

Lungi da noi voler deprecare il buco dei media nostrani. D’altronde, nell’episodio non c’è nulla di eccezionale per l’Ucraina “indipendente”; si tratta di quella quotidianità che, come diceva l’ex presidente Petro Porošenko, avvicina sempre più il paese “ai valori europei”. E se qua e là si trovano degli “autentici patrioti” che, sventolando le insegne col dente di lupo, il tridente o la croce uncinata, insegnano ai “separatisti” e ai “traditori della patria” quale sia la strada giusta per essere accolti nel consesso UE e NATO, l’Ucraina sorta da majdan non può che esser loro riconoscente.

D’altra parte, il politologo di Lugansk, Vladimir Karasëv, ipotizza che in fondo sia stato lo stesso leader di “Patrioti per la vita” – l’ex (?) nazista convertito sulla via di Bruxelles, Il’ja Kiva – su indicazione di Arsen Avakov, a organizzare l’incidente: “Il fedele scudiero del ministro, il deputato Il’ja Kiva, ha svolto il ruolo di boia dei propri militanti”, dato che gli stessi assalitori, “tutti della regione di Poltava, fanno capo a Kiva”. Come anche gli assaliti, originari però dell’area di Kharkov.

Dunque, Kiva ha accusato dell’attacco i suoi vecchi commilitoni di “Azov” e del “Corpo nazionale”, entrambe subordinate al Ministro degli interni e da quello finanziate. La domanda è: come mai Avakov aveva bisogno di una “pubblica fustigazione delle proprie organizzazioni?”.

Secondo Karasëv, circolano tre versioni: Zelenskij avrebbe promesso a Avakov di lasciarlo al proprio posto almeno fino alla primavera del 2021, in cambio di una soluzione del problema del “führer” Andrej Biletskij, primo leader di “Azov” e oggi a capo del “Corpo nazionale”.

Un’altra versione è che Avakov pensi di sostituire Biletskij con Kiva e i suoi “Patrioti per la vita”, tant’è che diversi squadristi di “Azov” e del “Corpo nazionale” stanno già affluendo verso Kiva.

Inoltre, Biletskij ha cominciato a mostrare un’eccessiva libertà d’azione, che può avere effetti dannosi per quanto stanno preparando Kličkò, Kolomoiskij e Avakov contro Zelenskij. Tra l’altro, Biletskij ha immediatamente dichiarato che i suoi uomini “sono estranei all’assalto”, ma che, in ogni caso, gli assalitori “meritano un riconoscimento di Stato”, per aver “contrastato le tendenze separatiste”.

Dunque, si diceva, il buco dei media nostrani è ben comprensibile e, in fin dei conti, non si tratta nemmeno di un vero e proprio buco: cos’è, in fondo, una “Nacht der langen Messer” – quasi incruenta – nella democratica e europeista Ucraina, in confronto alle “violenze degli Omon bielorussi” e del loro “conducator” contro “l’opposizione democratica”?

Tutti gli obiettivi sono oggi puntati su Minsk, ancora da conquistare, mentre Kiev è stata presa già sette anni fa e ora si tratta solo di “stabilizzare” la situazione, adeguandola alla cornice europeista, cercando di marginalizzare i settori più apertamente nazisti e ancora fuori controllo (salvo servirsene in certe occasioni, sia in casa che in Donbass, per “raddrizzare la schiena” agli irriducibili) e, per far questo, si pensa sia sufficiente “lo scambio di esperienze tra le forze di polizia”.

Cos’è, in fondo, quella resa dei conti tra SS e SA ucraine, in confronto alla puntualità svizzera dell’ennesimo “avvelenamento” ordito dal Cremlino per auto-accusarsi di voler far fuori un concorrente (al 2%) e un fiero portabandiera dell’opposizione bielorussa?

A proposito di puntualità, oltretutto, non si può dimenticare la coincidenza dell’effetto venefico con l’ennesimo rinfocolarsi, nello stesso periodo, della disputa Berlino-Washington a proposito dell’ultimazione del gasdotto “North stream-2” (ribadita da Angela Merkel anche lo scorso 28 agosto).

Inoltre, fa notare l’economista Mikhail Khazin, proprio dal 17 al 20 agosto si è svolto in USA il congresso del Partito Democratico, conclusosi con la nomina del duo Biden-Harris a candidati alla presidenza; uno dei cui punti principali è stato l’attacco alla Russia, che starebbe “tagliando le gambe” a Biden e sostenendo Trump.

Ora, si dà il caso che Naval’nyj fosse decollato da Tomsk la mattina del 20 agosto, cioè il 19 sera in USA: se, a conclusione del congresso democratico, fosse giunta la notizia che “Putin ha avvelenato il principale oppositore”, la platea, fino a quel momento abbastanza “smorta”, si sarebbe infiammata, forse controbilanciando l’aumentato rating di Donald Trump. Ma l’effetto, a quanto pare, non c’è stato.

A titolo di cronaca, poi, un vecchio compagno di accademia di Putin, l’ex agente del KGB dell’URSS, Jurij Švets, ipotizza addirittura un intrigo di alti funzionari del FSB, coperti dal segretario del Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrušev, i quali, nel quadro di un “colpo di stato strisciante”, starebbero preparando proteste di massa in Russia sotto la propria guida e che, per questo, starebbero “eliminando persone potenzialmente pericolose fuori del loro controllo“. Dunque, Naval’nyj sarebbe stato avvelenato per guadagnare “qualche mese per completare il colpo di stato”.

Ma, ancora Khozin nota come “certe malelingue” ipotizzino che “l’avvelenamento” sia stata organizzato da gente che proprio non sa che ci sono aeroporti intermedi tra Tomsk e Mosca – a dirla tutta, a Naval’nyj, la vita gliel’hanno salvata i medici di Omsk, dove l’aereo ha effettuato un atterraggio d’emergenza – per cui contavano che Naval’nyj sarebbe morto in volo.

Che tempi! Nemmeno minime nozioni geografiche: proprio vero che il FSB non ha più nulla a che vedere col NKVD...

Fonte

Negazionisti del Covid? Come muore un cervello in loop...

Ora, lo so che è più divertente dire che si fanno tamponi per cercare di pompare un’epidemia che non esiste, in modo da imporre un nuovo lockdown, distruggere l’economia del paese, e incoronare Conte imperatore la notte di Natale.

Sono storie bellissime e chiunque abbia una vocazione letteraria non può che trovarle irresistibili.

Poi, però, quando avete smesso di sniffare colla, cercate di capire che:

1) fare più tamponi andando a cercare il virus non serve a farvi un dispetto, ma serve a individuare possibili diffusori non manifesti e tenere basso il numero dei contagi.

2) Scoprire che andando a cercare il virus in chi non manifesta sintomi si ottengono moltissimi asintomatici è una conclusione degna di Monsieur de La Palice, non la dimostrazione che il virus è diventato buono. (Come è stato osservato già mesi fa, finché il virus ha bassa carica virale – i.e. “ce ne hai poco dentro” – rimane nelle alte vie aeree e le sue complicanze sono minime).

3) Nei paesi dove aumentano i contagi aumentano le terapie intensive, che sono la cosa da tenere sotto controllo (ad oggi: Italia 79, Francia 387, Spagna 751).

4) Tenere alta la guardia e diffondere il terrore sono cose diverse: la prima serve a evitare che accada la seconda.

Ora, finché teniamo la diffusione sotto controllo, siamo in grado di svolgere tutte le nostre attività in condizioni di quasi normalità, con minimi oneri (mascherine, distanze, no assembramenti interni, un po’ di attività svolte in remoto).

Mantenere nel medio periodo questa situazione significherebbe consentire all’economia di funzionare in modo ordinario, con rallentamenti solo in alcuni settori.

Se invece si passa di nuovo ad una situazione emergenziale, in cui il timore di farsi un ricovero per essere uscito di casa riprende lena, beh quali che siano le iniziative del governo, i consumi crollano e l’economia tracolla (di nuovo).

5) Ultima osservazione.

Gli sniffatori di colla di cui sopra si muovono dentro una bolla di autoconferma, per cui nessuno scenario possibile è in grado di falsificare le loro convinzioni.

Se la situazione rimane sotto controllo nel medio periodo, e poi magari a primavera abbiamo un vaccino, diranno che, per una sciocchezza che non ha fatto grandi danni gli abbiamo fatto passare mesi d’inferno solo per promuovere un vaccino.

Se la situazione degenera, e ricadiamo in emergenza, diranno che tutte le misure sono state inutili (come loro hanno sempre saputo) e che si è voluto condurre proditoriamente il paese sull’orlo del baratro.

In ogni caso strilleranno di aver avuto sempre ragione e che chi non gli dava ragione era un boccalone.

Questa forma di ragionamento autoconfermantesi lo si è visto in atto costantemente finora (si pensi ai ragionamenti degni di Homer Simpson, in cui si dice che “proprio i paesi che hanno adottato misure più rigide hanno avuto più problemi“, come se l’ordine della catena causale fosse: lockdown > emergenza sanitaria e non emergenza sanitaria > lockdown.)

Dunque discutere sul tema con i soggetti di cui sopra è oramai chiaramente inutile.

La creazione di un sistema di autoconferma (infarcito di balle, ma potrebbe funzionare anche senza) è oramai consolidato.

Dunque qui le ragioni hanno un termine e, semplicemente, si devono tracciare le linee per terra e prendere posizione.

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Rete unica, oggi l’ok di Tim a FiberCop, inizia “l’ammucchiata”

Il giorno è dunque arrivato, oggi il cda di Tim con il beneplacito del governo vara il lancio di FiberCop, la società unica per la gestione della banda ultralarga in tutto il territorio nazionale.

Il miraggio della rete unica per la rete secondaria – il cosiddetto ultimo miglio dell’infrastruttura, quello che va dagli armadi sulle strade alle abitazioni – diviene realtà, portando con sé una sequela di società private (oltre a Tim stessa, Tiscali, Fastweb, il fondo statunitense Kkr, e poi Sky, Vodafone, Wind-Tre) che molti dubbi lascia sul ruolo che lo Stato possa andare a ricoprire nella nuova configurazione societaria. Ma andiamo con ordine.

Governo e Tim daccordo su FiberCop

La nascita di FiberCop era stata temporaneamente congelata dal governo all’inizio di agosto, quando con una lettera il ministro dell’economia Roberto Gualtieri e dello sviluppo economico Stefano Patuanelli avevano chiesto di posticipare l’operazione (che prevedeva l’entrata di Kkr e Fastweb nella società) all’ad di Tim Luigi Gubitosi, vista l’importanza del settore per gli interessi nazionali.

Da lì, giorni di intense trattative, con il governo che palesava l’intenzione di giocare un ruolo di peso nella nuova conformazione di un ambito come quello delle telecomunicazioni (tlc) decisivo per lo sviluppo, nonché per la sicurezza, dello stivale.

Fino al lasciapassare per il nuovo assetto nel vertice di giovedì, alla presenza dei pezzi pesanti del governo quali Conte, Gualtieri, Patuanelli, Pisano, Bonafede, Franceschini, Speranza, Orlando e Marattin, insieme all’ad di Cassa depositi e prestiti (Cdp) Fabrizio Palermo, in qualità di big per la parte pubblica dell’operazione.

Qual era il termine della contesa, quali gli attori in campo, e come è andata a finire? Un breve sguardo all’evoluzione degli ultimi anni aiuterà a districarsi meglio nella babilonia di attori che hanno avuto e avranno un ruolo nel futuro dell’internet (e non solo) del paese.

Una privatizzazione fallimentare

Come si sa, quello delle tlc è un capitalo delicatissimo della storia della Seconda repubblica, tristemente noto per essere stata la peggiore privatizzazione della follia neoliberale messa in atto a seguito della firma del Trattato di Maastricht.

La nascita di Telecom Italia e la sua completa privatizzazione, con l’entrata in borsa nella seconda metà degli anni Novanta, portano in dote una serie di gestioni, acquisizioni e passaggi di mano che hanno visto protagonista la “crema” dell'(im)prenditoria italiana, come la famiglia Agnelli, i Benetton, Franco Bernabè, Marco Tronchetti Provera, Generali, Mediobanca, ecc. Un disastro.

Il risultato è stato il cosiddetto “deficit originario”, ossia quello che ha impedito a buona parte del territorio di avere accesso a internet veloce, non essendo profittevole investire negli angoli remoti della penisola, con tutte le conseguenze in termini di diseguaglianze tecnologiche e di opportunità per chi non viveva in prossimità dei centri urbani (che fossero studenti, lavoratori o anche imprenditori).

Tim alla fine finisce in mano alla francese Vivendi (la stessa che vorrebbe impedire a Mediaset di fondare un polo televisivo europeo; per farlo essa stessa, s’intende...), società che detiene il 23% delle quote seguita da Cdp con il 9%. Cassa che tuttavia, nonostante sia la seconda azionista, non esprime nessun membro nel cda...

La nascita di Open Fiber

Per appianare queste diseguaglianze il governo Renzi dava alla luce nel 2015 Open Fiber, concorrente pubblico di Tim partecipata al 50% da Cdp (con evidente conflitto d’interessi con la partecipazione in Tim) e al 50% da Enel, di cui si sarebbero volute sfruttare le infrastrutture (tubi, pozzetti ecc.) per far arrivare la fibra lì dove si registrava il “fallimento del mercato”, ossia proprio quelle “aree bianche” dove a Tim non conveniva investire.

Il mantra della “concorrenza” avrebbe dovuto spingere Tim a non perdere quote di controllo della rete secondaria in favore di Open Fiber, ma né quest’ultima ha mantenuto la promessa di connettere con la fibra il resto del paese (anche se controllate dal Mef, Cdp e Enel sono infatti due S.p.a. – rispondono alla logica di mercato e quindi del profitto – e non possono perciò rendere un “servizio al paese” se questo non è remunerativo per il capitale investito), né Tim ha reagito come preventivato all’entrata del competitor.

La svolta con il Covid

La svolta arriva con il Covid, la necessità conclamata di colmare il gap con il resto del Vecchio continente e la possibilità di sfruttare i miliardi messi in palio dal Recovery Fund per la digitalizzazione del paese, funzionale allo smart working, allo sviluppo dell’industria 4.0, dell’intelligenza artificiale, dell’automazione, nonché – parole di Patuanelli, sabato su il Sole 24 Ore – al «5G e ai data center e server di prossimità», ossia il nocciolo della competizione tecnologica dei prossimi anni.

Un boccone ghiotto, ghiottissimo, perché offre la possibilità di acquisire quote di mercato nella gestione dell’infrastruttura che consente l’accesso a un numero di dati tanto sensibili quanto decisivi per la predizione dei comportamenti degli utenti, che nel modello di sviluppo attuale significano sia possibilità di profitti (anticipare o convogliare le “esigenze” del consumatore), sia capacità di controllo.

Non sorprendeva dunque la volontà del governo di avere una parola nell’assetto della nuova società, così come la lista degli interessati all’investimento, preoccupati tuttavia – questi ultimi – che il nuovo veicolo risultasse di fatto “indipendente” sia dall’ingerenza dello Stato, sia dal controllo di Tim in quanto azionista maggioritario.

Per il primo, il caso Autostrade avrebbe potuto far dormire sonni tranquilli ai vari Kkr, Tiscali ecc., mentre quelli di Alitalia o dell’Ilva sono ben lontani dal rappresentare il ritorno dello Stato nell’economia, come ammesso dall’inquilino del Mise sempre nell’intervista a il Sole.

Ma la levata di scudi dei paladini della “libertà d’impresa”, come Franco Debenedetti, sono comunque funzionali affinché venga seppellito in partenza ogni minimo accenno a un pensiero-altro rispetto a quello neoliberista.

La soluzione trovata nel caldo di agosto prevederebbe perciò l’ok del governo al trasferimento in FiberCop della rete secondaria di Tim, la partecipazione del fondo Kkr Infrastructure e le attività di FlashFiber (la joint-venture tra Tim e Fastweb), con il successivo convogliamento di Open Fiber che permetterebbe a Tiscali la migrazione dei propri clienti sulla rete di FiberCop (ora su Open Fiber) e la possibilità di un eventuale ingresso nell’azionariato di FiberCop stessa.

Per Open Fiber, stando alle ultime, Enel potrebbe cedere fino al 10% delle sue quote a Cdp e il restante al fondo australiano Macquaire, dando alla Cassa (che ricordiamo ha anche il 9% in Tim) un ruolo rilevante nella governance del nuovo veicolo.

Governance pubblica o indipendenza strategica?

Se “la regia statale degli investimenti” è lo slogan con cui il governo ha salutato con favore il possibile accordo, d’altra parte Gualtieri, Patuanelli e lo stesso Palermo tengono a sottolineare «l’indipendenza strategica e operativa della nuova società», ossia a tranquillizzare i mercati che saranno i loro appetiti a indirizzare le scelte d’investimento.

Ma delle due l’una, o si privilegiano i bisogni della popolazione o si staccano le cedole per l’azionista di turno. La storia delle tlc nostrane insegnano questo, tertium non datur. Aldilà della retorica governativa, le parole di apprezzamento al progetto e possibilità di coinvolgimento espresse dagli AD di Sky, Vodafone e Wind-Tre fanno propendere decisamente per la seconda.

E anche se la risposta definitiva si avrà solo alla nomina del cda (quello di Tim non è un precedente incoraggiante), a ora più che la semi-nazionalizzazione di un settore strategico, sembra più un’ammucchiata privatissima con Tim in testa (tanto da far dire al renziano Anzaldi che Tim ha «un po’ troppa influenza su alcuni settori del governo») per la corsa all’oro del XXI secolo, i big data.

Il fondo statunitense Kkr

A questo proposito, un’ultima nota su Kkr. La Kohlberg Kravis Roberts & Co. è un operatore internazionale di private equity che gestisce investimenti per più di 150 miliardi di dollari, dove uno dei fondatori – Henry Kravis – è un “filantropo” repubblicano finanziatore delle campagne elettorali di George W. Bush, John McCain e ultimo Donald Trump.

Inoltre, il presidente del Kkr Global Institute, sezione d’analisi fondata nel 2013, è il Generale ed ex-direttore della Cia David Petraeus. L’istituto ha il compito di studiare le implicazioni macroeconomiche, sociali e geopolitiche degli investimenti della società, in particolare per quelli nelle nuove aree geografiche (Reuters).

Nella feroce competizione interimperialistica odierna, non proprio il partner ideale. Com’era la storia della “regia statale”?

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30/08/2020

Wittgenstein (1993) di Derek Jarman - Minirece


Il voto inutile

di Alessandra Daniele

Fallito il tentativo di accordo col Movimento 5 Stelle, i candidati alle elezioni regionali del PD stanno ripiegando sull’appello al voto utile.

In realtà ci sono poche cose in Italia che siano inutili quanto il voto.

La parabola del Movimento 5 Stelle è soltanto l’esempio più recente.

Dopo aver vinto le elezioni promettendo lotta dura all’establishment e nessuna alleanza coi vecchi partiti, per andare al governo s’è prima alleato col più vecchio dei partiti italiani, la Lega, e poi col principale garante dell’establishment, il PD, rimangiandosi quasi tutte le sue promesse e le sue regole, dalla chiusura e riconversione ecologica dell’Ilva, al limite del doppio mandato.

Come un virus, il Movimento 5 Stelle muta in continuazione per adattarsi all’ambiente. E ormai non si sforza neanche più tanto di negarlo.

Non c’è più nessuna coerenza da difendere. Nessuna facciata da mantenere.
Eppure ancora fin troppi italiani lo votano, considerandolo il “meno peggio”, l’unica possibile alternativa al governo Merdoni – Salvini/Meloni – benché attualmente le probabilità che Salvini sia autorizzato a tornare al governo siano vicine allo zero.

La sua funzione è quella di spaventapasseri. Finché sarà capace.

Insieme alle elezioni regionali, a settembre si voterà su una delle rare promesse grilline mantenute, quel taglio dei parlamentari già tentato nel 2006 da Berlusconi e nel 2016 da Renzi.

Molti degli italiani che stavolta si preparano ad approvarlo, sperano che abbia effetto immediato, sognando di poter trascinare via personalmente i 345 parlamentari urlanti e scalcianti, per scaraventarli fuori dalle camere.

In realtà la riforma diventerà effettiva soltanto in occasione delle prossime elezioni nazionali.

Dopo che i parlamentari avranno avuto tempo e modo di legiferare per renderla completamente inutile.

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QAnon, il complotto dei complotti trumpiano, è arrivato in Italia

Nel 2016, una pizzeria di Washington è diventata uno dei fattori determinanti della vittoria di Donald Trump. A ottobre di quell’anno WikiLeaks aveva infatti diffuso oltre 10mila mail dall’account di John Podesta, il presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton. Tra i vari contatti di Podesta c’era James Alefantis, proprietario della pizzeria di Washington D.C. Comet Ping Pong, nonché grande supporter e finanziatore di Clinton. Su 4chan, allora impegnato nella sua guerra dei meme contro i democratici, spuntò un thread in cui si sosteneva che la Comet Ping Pong fosse in realtà una copertura per un giro di pedofilia, satanismo e droga cui faceva capo niente meno che Hillary Clinton stessa. Secondo questo thread, i nomi delle pizze erano un linguaggio in codice per riferirsi a pratiche sessuali, per esempio “cheese pizza” (pizza al formaggio), abbreviato in c.p., significava child pornography (pedopornografia). Da 4chan, la teoria è stata rilanciata prima da alcuni account Twitter filogovernativi turchi, poi direttamente dai media vicini al presidente Erdoğan, diventando virale. La saga del cosiddetto Pizzagate, assurda quanto inquietante, è arrivata a convincere un uomo a guidare sei ore dalla North Carolina per fare irruzione con un fucile d’assalto AR-15 nella pizzeria di D.C., sparando fino all’arrivo della polizia, fortunatamente senza ferire nessuno. Altri gesti eclatanti si sono verificati in tutti gli Stati Uniti, con vari “giustizieri” pronti a salvare i bambini dalle grinfie di questo sex cult su cui non esistono accuse formali né vittime che hanno denunciato. Erano le prove generali di QAnon, una delle più vaste teorie del complotto che da internet ha finito per influenzare il risultato delle presidenziali e che ora, rinvigorita dalle fake news sulla pandemia e dalle imminenti elezioni presidenziali di novembre, è tornata più forte di prima.

C’è una differenza tra complotto e complottismo. Come ci insegna bene la storia italiana più recente, non è così assurdo che un Paese si affidi a forze “occulte” e stringa sodalizi moralmente discutibili per riaffermare poteri e affossare minacce, spesso più percepite che reali. Un’altra cosa è il complottismo, cioè pensare che una pizzeria dal nome bizzarro e che non ha nemmeno una cantina nasconda la più grande rete internazionale di pedofili, che coinvolgerebbe i coniugi Clinton, gli Obama, Marina Abramovich e l’immancabile George Soros. Tutto questo mentre le vere reti di pedofili come quella di Jeffrey Epstein, con cui Trump ha avuto una relazione di amicizia ventennale, evidentemente non sono abbastanza interessanti – o politicamente utili. Le teorie rilanciate di QAnon sono senz’altro complottiste, ma intanto QAnon assume sempre più le sembianze di un complotto e non più del divertissement di qualche gamer che ha giocato troppe ore ad Halo. È chiaro che non possiamo più considerare QAnon innocente shitposting: le sue conseguenze sono reali. Nella prima ondata di QAnon si è verificata una serie di attacchi di terrorismo domestico e non si può più negare l’influenza ormai palese che queste teorie hanno sulla politica statunitense, tanto che l’attuale Presidente dichiara pubblicamente di sostenere QAnon perché ha “sentito che questa gente ama la propria nazione”.

QAnon, pur ripetendo lo schema classico delle teorie del complotto secondo cui il mondo sarebbe nelle mani di “poteri forti”, lucertole giganti o alieni vari, ha però una peculiarità difficile da riscontrare in altre cospirazioni: c’è un eroe messianico, e questo eroe è davvero l’uomo più potente della terra, ossia il Presidente degli Stati Uniti. QAnon nasce dalle imageboard di 4chan e di 8chan (oggi 8kun) nel luglio 2016, quando una serie di utenti che dichiaravano di essere funzionari della Cia o dell’Fbi e che si firmavano con la lettera “Q” promettevano che presto avrebbero svelato dei segreti sull’élite democratica statunitense. Come riporta WuMing 1 nell’inchiesta Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, la lettera Q potrebbe fare riferimento alla “Q Clearance”, un’autorizzazione per desecretare i documenti top secret. Inizialmente su 4chan e 8chan si riportano solo brevi messaggi cifrati, ricavati da gesti o discorsi dei comizi elettorali di Trump, dove nel frattempo cominciano a spuntare cartelli e magliette con riferimenti alla teoria cospirazionista. Poi qualcuno mette insieme i fili e arriva “The Storm”, il cui nome stavolta arriva direttamente da una frase pronunciata dal futuro Presidente durante una conferenza stampa: “Maybe it’s the calm before the storm” (Forse questa è la calma prima della tempesta).

La tempesta di The Storm sarebbe quella che Trump sta per scatenare sulle élite democratiche. Jerome Corsi, un corrispondente dell’hub dell’alt right Infowars, l’ha descritta così: “Il 2018 sarà l’anno del contrattacco che Donald Trump dichiarerà contro il deep state. Sarà una battaglia epocale che determinerà se l’America sarà ancora una repubblica costituzionale o no. A seconda del successo o del fallimento di Donald Trump, ci sarà un colpo di stato che sostituirà la Costituzione con uno stato socialista e globalista. Questa è una battaglia eroica, che comincerà dall’intelligence e di cui l’Americano medio non sarebbe a conoscenza se non ci fosse un’entità come QAnon, che si è esposta dal suo punto di vista privilegiato per cominciare a disseminare indizi, o come si dice ‘briciole di pane’, che dimostrano quanto le nostre agenzie di intelligence, il nostro sistema giudiziario e l’Fbi siano corrotte e pericolose”.

Tutto molto interessante. Ma adesso siamo nel 2020 e questo giorno del giudizio trumpiano non mi sembra sia ancora arrivato. Ovviamente c’è una spiegazione: il nostro eroe agisce nell’ombra. Quando alla commemorazione per le vittime dell’11 settembre nel 2016 Hillary Clinton svenne e fu portata via dal palco dal suo staff, quelli erano in realtà dei funzionari del futuro Presidente che la stavano arrestando per aver torturato e ucciso dei bambini e quella che vedremmo oggi sarebbe un clone, tipo Paul McCartney. Oppure il Mueller Report, il rapporto ufficiale sulle presunte interferenze russe nelle scorse presidenziali statunitensi, sarebbe in realtà un documento preparatorio per l’arresto di Clinton, Obama, Soros e tutto il cucuzzaro della rete mondiale di pedofili globalisti.

Qualsiasi cosa sia successa durante la presidenza Trump è stata letta in quest’ottica completamente distorta e il fatto che dopo quattro anni le presunte élite siano ancora al loro posto non è, ovviamente, la prova di quanto siano deliranti le teorie di QAnon, ma di quanto questa élite mondiale sia inscalfibile e riesca sempre a farla franca. La pandemia non ha fatto altro che esasperare le derive complottiste di QAnon, prima diffondendo fake news su cure miracolose e falsi studi, poi – seguendo la linea di Trump – sostenendo tesi negazioniste. Secondo il ricercatore della Concordia University ed esperto di gruppi estremisti Marc-André Argentino, tra gennaio e marzo 2020 c’è stato un aumento del 21% di tweet sul Coronavirus riconducibili a QAnon, per un totale di 7.683.414 post. Un’altra cosa allarmante è che grazie alla pandemia QAnon è riuscito a oltrepassare i confini degli Stati Uniti, diventando appetibile per i complottisti di casa nostra. Secondo il sito di inchieste NewsGuard, “Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, molti nuovi siti web, pagine, gruppi, e account di QAnon sono apparsi in Italia, in Francia, in Germania e nel Regno Unito […] Solo gli account europei citati in questo report sono seguiti da quasi 450mila follower”. Il canale YouTube Qlobal-Change Italia, creato nell’ottobre 2019, ha già 24.700 iscritti, mentre a febbraio è stato registrato il dominio qanon.it. Twitter e Facebook hanno già provveduto a eliminare centinaia di account, gruppi e pagine legate a QAnon, anche se in Italia le teorie vengono rilanciate anche da siti come Imola Oggi e da personaggi come Alessandro Meluzzi.

È molto facile additare QAnon come gli ennesimi “complottari” o analfabeti funzionali da prendere in giro. In realtà la sua diffusione dovrebbe allarmarci, perché è la perfetta applicazione della teoria di Steve Bannon, ideologo sovranista ed ex stratega di Trump (recentemente arrestato con l’accusa di frode per aver usato in modo illecito dei fondi raccolti tra privati per la costruzione del muro anti-migranti al confine con il Messico): “Se vuoi cambiare la società nel profondo, prima la devi spaccare. È solo quando è spaccata che puoi rimodellare i pezzi nella tua visione della società”. E infatti Bannon, dopo essere stato rilasciato su cauzione, ha dichiarato di essere vittima di un complotto, l’ennesimo. Se nel 2016 potevamo ancora divertirci nel prendere in giro chi credeva nel piano Kalergi, oggi non ci resta altro che la consapevolezza che la società si è definitivamente spaccata.

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Segnali dell’intervento militare che si prepara contro il Venezuela

Samuel Moncada, ambasciatore della Repubblica Bolivariana del Venezuela all’ONU, ha denunciato questo mercoledì 19 agosto che il Centro per gli Studi Strategici Internazionali ha organizzato nel 2019 una riunione segreta per discutere un attacco militare USA-Colombia contro il Venezuela con la partecipazione di membri dell’opposizione al Governo venezuelano.

Il contesto dell’aggressione sarebbe inquadrato nel caos che la pandemia avrebbe causato nel paese, in maniera che “per ragioni umanitarie” fosse necessario invadere la nazione bolivariana prima delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, con l’appoggio di Colombia, Guyana e Brasile.

La crisi economica interna, il debilitato potere d’acquisto della popolazione lavoratrice causato dalla speculazione nel commercio di beni e servizi, le difficoltà che esistono per l’accesso ad alimenti e medicine nell’interno del paese, specialmente nelle zone di frontiera, appaiono come una debolezza che potrebbe essere sfruttata da Washington. La resilienza, invece, è il punto di forza del popolo, che malgrado qualsiasi cospirazione crea e ricrea la sua vita.

Segnali di un’aggressione 

Segnale 1: circondare la Russia

Con lo stesso format utilizzato in Venezuela, il Pentagono e il suo braccio europeo armato, la NATO, sviluppano una strategia di destabilizzazione in Bielorussia, utilizzando il contesto delle recenti elezioni presidenziali. L’obiettivo è mantenere la Russia concentrata su questo lato della mappa planetaria, in modo che non possa sviluppare un appoggio operativo a sostegno del paese sudamericano, di fronte a una possibile aggressione. I recenti eventi accaduti in Libano, le permanenti provocazioni in Siria e il fatto che Israele mantenga calda la zona del Medio Oriente, spingono la strategia verso questa direzione. Un approccio con le mani legate.

Segnale 2: blackout Informativo

Da due anni si è andato intensificando l’assedio mediatico contro il Venezuela. Da un lato, i cartelli corporativi di diffusione per mezzo di operazioni psicologiche con notizie false hanno attizzato il malessere sociale nel paese caraibico, ma hanno pure mantenuto il tema ‘Venezuela’, nell’agenda dei paesi occidentali.

Ovviamente, ora, si cerca di evitare che si conosca la realtà del paese e che tutto quello che succeda nei prossimi giorni possa essere visto solo attraverso le piattaforme e i canali scelti dai destabilizzatori. Solo così si capisce l’attacco durissimo contro Telesur; il fatto che Directv, principale piattaforma di televisione satellitare smettesse di operare nel paese e che recentemente riprendesse l’operatività nel paese dalle mani di un’altra compagnia, questo sì, senza RT, nè HispanTV nella sua griglia di programmazione.

Bisogna aggiungere pure che Twitter ha bloccato account di seguaci del chavismo e pure di alti rappresentanti del Governo. Anche Youtube si è unita al blocco e chiude tre account dello Stato venezuelano nella sua piattaforma.

Segnale 3: l’opposizione radicale torna ad attivarsi

Se c’è qualcosa che può servire come potente mezzo di coesione dei fattori politici che sono contrari al Governo bolivariano, questa è la prossimità di un’aggressione militare. Il 19 Agosto, Juan Guaidó è ricomparso davanti all’opinione pubblica per esporre quella che chiama la strada unitaria che cerca: “Denunciare, rifiutare e disconoscere la frode parlamentare.
Convocare il paese ad esprimere la sua vera volontà attraverso un meccanismo nazionale e internazionale di partecipazione di massa cittadina.
Attivare un’agenda d’azione e mobilitazione nazionale e internazionale per ottenere l’intervento necessario della forza armata, della comunità internazionale e di ciascuno dei nostri alleati”.

Questo si traduce in: ostacolare lo svolgimento delle elezioni parlamentari, organizzare un plebiscito per portare avanti la formazione di un Governo di transizione, e ovviamente, provocare rivolte violente affinché la comunità internazionale abbia la sua maidán caraibica e possa attivare i propri eserciti di occupazione.

Segnale 4: il casus belli di Iván Duque

La Colombia, quel paese che è stato denunciato da organismi internazionali come il principale produttore ed esportatore di cocaina del mondo, e dove l’Osservatorio di Memoria e Conflitto ha registrato che, ad oggi, sono morte più di 262.197 persone nella sua guerra interna, per bocca del suo presidente, Iván Duque, ha annunciato quanto segue: “Abbiamo informazioni d’intelligence che la Guardia Venezuelana sta triangolando armamento verso strutture irregolari alla frontiera“, e inoltre dice che ci sono “informazioni di organismi d’intelligence internazionali che assicurano che Nicolás Maduro vuole comprare missili di media e lunga gittata dall’Iran“.

Il ministro della Difesa venezuelano, Vladimir Padrino López, ha risposto a queste dichiarazioni affermando che si tratta di un altro “falso positivo” per sviare l’attenzione dai massacri quotidiani di leader contadini che hanno luogo in quel paese e gettare le basi per una guerra nella regione.

Segnale 5: la scomparsa di Carlos Lanz

Un ex guerrigliero che è diventato uno dei teorici più importanti della guerra non convenzionale e della strategia di proxy war o guerra sussidiaria contro il Venezuela, è scomparso sulla porta della propria casa oltre dieci giorni fa. Le autorità venezuelane, e pure il movimento popolare hanno alzato le voci per denunciare quello che si comincia a denominare “un sequestro forzato” che deve essere investigato.

Carlos Lanz ha denunciato in maniera veemente che l’ipotesi di aggressione più probabile contro la nazione bolivariana verrà dalla Colombia ed avrà in quelli che lui chiama gruppi senza appartenenza o mercenari la sue principali braccia esecutive.

“Poca attenzione si è prestata all’asse Cúcuta-Catatumbo, eccetto nella caratterizzazione tradizionale delle attività criminose che lì hanno luogo. Ciò nonostante, l’impiego di questo corridoio strategico sarà vitale per lo sviluppo della guerra sussidiaria contro il Venezuela”, ha detto Lanz in una intervista concessa a Sputnik.

Segnale 6: usare il COVID-19 come alleato

In aprile di quest’anno, María Zajárova, portavoce del Ministero degli Esteri della Russia, denunciava che Washington e “certi gruppi politici di alcuni paesi”, avrebbero utilizzato la situazione epidemiologica del Venezuela per assestare un colpo di Stato definitivo contro il Governo venezuelano.

In questi momenti, con un apparato di Stato impegnato quasi esclusivamente a lottare contro la pandemia e con un sistema ospedaliero con risorse e mezzi limitati a causa del blocco finanziario ed economico imposto contro il paese, il Venezuela si trova in una situazione compromessa che sarà utilizzata dai nemici interni ed esterni.

La priorità in questo caso, per quelli che programmano l’aggressione, è avanzare nei propri obiettivi prima che il vaccino Sputnik V, arrivi al paese sudamericano e inclini la bilancia a favore del popolo venezuelano.

Segnale 7: incentivare il malessere sociale

Il 14 agosto, gli Stati Uniti hanno confiscato oltre 1.118 milioni di barili di combustibile a bordo di quattro petroliere di bandiera straniera (Bella, Bering, Pandi e Luna), che l'Iran avrebbe venduto al Venezuela per supplire alle necessità interne di benzina.

La notizia è stata confermata dal ministro del Petrolio iraniano, Biyán Zangané. Queste operazioni cercano di far sì che l’assedio e l’asfissia contro il paese sudamericano si faccia molto più forte con il trascorrere dei giorni. L’esacerbarsi delle tensioni interne, come si è detto sopra, è parte integrante del percorso unitario proposto da Juan Guaidó.

Segnale 8: il terrorismo e “la sorpresa di ottobre”

Nel 2018, l’ex capo di gabinetto di Barack Obama ed allora sindaco di Chicago, Rahm Emmanuel dichiarava che Donald Trump, vedendosi politicamente assediato potrebbe “ordinare un’azione militare in Venezuela per ottenere vantaggi politici”. Nel gergo politico di quella nazione, si chiama “sorpresa di ottobre” un evento imprevisto che può cambiare le tendenze elettorali in vista delle elezioni. In questo momento, due anni dopo, Trump si gioca non la maggioranza legislativa, ma il suo stesso futuro alla Casa Blanca.

Non è stato un caso che abbia nominato Elliot Abrams per curare i casi di Venezuela e Iran, la strategia per rendere accettabile davanti all’opinione pubblica nordamericana un’azione militare sarà la scusa della “lotta contro il terrorismo”. Proprio così stanno configurando questo nemico invisibile che tanti vantaggi ha dato alle transnazionali petrolifere e delle armi statunitensi.

Pertanto, c’è sempre da temere quando un politico statunitense non sta messo bene nei sondaggi. Al votante medio piace sentirsi come uno che sta salvando il mondo, se la morte e il dolore capitano molto lontano dai suoi giardini e centri commerciali, è chiaro.

​Non è un panorama semplice per la nazione bolivariana. Però, anche quando esistono fin troppi indizi per preoccuparsi, nella politica e ancor più nella guerra, 2 + 2 non sempre fa 4. Esistono fattori imponderabili che si muovono di minuto in minuto che possono cambiare le previsione. Bisogna anche ricordare che sulla scacchiera non c’è una sola mano che muove i pezzi. Il Venezuela ha preparato un sistema di dissuasione che, valutato da esperti militari, pone serie difficoltà per qualsiasi avventura militare.

Inoltre, gli Stati Uniti sono in corsa per non perdere la propria egemonia mondiale e, malgrado il Venezuela possa risultare appetibile poiché ha una piattaforma di risorse energetiche che permetterebbe agli USA di prendere nuova aria per riconquistare il controllo planetario, una sconfitta nel ‘Vietnam dei Caraibi’, sarebbe la morte definitiva per l’impero che ha portato più sofferenze alla storia recente dell’umanità.

Approfondimenti:

https://mundo.sputniknews.com/opinion/202008211092506671-senales-de-la-intervencion-militar-que-se-prepara-contra-venezuela/

https://mundo.sputniknews.com/america-latina/202005141091428697-el-respaldo-popular-fake-a-la-incursion-fallida-contra-venezuela/

https://mundo.sputniknews.com/blogs/202006181091791722/

https://twitter.com/i/status/1296537839958712322

https://mundo.sputniknews.com/blogs/202006241091855704/

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Il cambiamento climatico: un autogol evolutivo per l’homo sapiens?

Sin dagli albori della sua storia evolutiva Homo sapiens ha fatto della modifica dell’ambiente l’arma del suo indiscusso successo. Oggi quell’arma gli si sta rovinosamente rivoltando contro e il cambiamento climatico ne è la prova più evidente e drammatica. Un recente studio analizza le radici evolutive della trappola ecologica che l’uomo si è creato e le ragioni per cui fatica ancora oggi a coglierne l’urgenza, tracciando infine alcune soluzioni per disinnescarla.

Nel comunicare i rischi legati al cambiamento climatico e il nostro rapporto con la biosfera, troppo spesso emerge una narrativa a senso unico. Da una parte c’è un pianeta da salvare – è là fuori, altro da noi, apparentemente con interessi in conflitto con i nostri – dall’altra, la specie invasiva responsabile del danno e su cui incombe la scelta di un ultimo atto “eroico”.

Un’immagine che tradisce tutta la presunzione di Homo sapiens, e ignora un’asimmetria fondamentale: siamo noi ad aver bisogno di biodiversità ed ecosistemi in buona salute, in grado di garantirci servizi gratuiti e fondamentali (disponibilità di acqua, terreni fertili, mari produttivi, impollinazione delle piante) e di mantenere stabile la nicchia climatica che ci ha permesso di prosperare per migliaia di anni. Il pianeta, in fondo, ha fatto a meno di noi per gran parte della sua storia e troverebbe ugualmente il suo corso anche se la scimmia nuda desse definitivamente forfait.

Come si argomenta in un recente paper pubblicato sulla rivista Biology & Philosophy [1], le nostre straordinarie capacità trasformative sono dovute a ciò che i biologi evoluzionisti chiamano “costruzione di nicchia” (niche construction, [2]).

Già Darwin aveva colto l’importanza di tale fenomeno, dando alle stampe qualche mese prima di morire un volume sul contributo e l’azione dei lombrichi sulla formazione del suolo e gli effetti sul paesaggio inglese, su cui aveva condotto studi per oltre 40 anni [3]. Gli organismi infatti svolgono un ruolo attivo nell’evoluzione, e non sono relegati a un mero problem-solving, dove l’ambiente pone limiti e sfide adattative e sta all’organismo proporre passivamente una soluzione. I viventi, attraverso le proprie attività biologiche e metaboliche, oppure semplicemente migrando, perturbano e modificano attivamente il profilo dei loro habitat. I castori, ad esempio, realizzano vere e proprie opere ingegneristiche in natura (le dighe) come mezzo di protezione per le tane e di difesa dai predatori, impattando sensibilmente sulla conformazione del territorio circostante, provocando esondazioni e condizionando gli altri inquilini della medesima nicchia per diverse generazioni.

Questa abilità di plasmare gli ambienti risponde tipicamente a dei bisogni adattativi. In questo l’uomo è diventato campione indiscusso, grazie a capacità senza pari di apprendimento sociale, di trasmissione delle informazioni e di cooperazione su larga scala. Le nostre strategie di costruzione di nicchia sono deliberate e pianificate. Alcuni sostengono che esse abbiano un’origine profonda nella nostra storia evolutiva e risalgano almeno al tardo Pleistocene, con le prime migrazioni di un manipolo di colonizzatori fuori dall’Africa alla conquista di una nicchia globale. Ma questa strategia sarebbe divenuta sistematica con la diffusione dell’agricoltura in epoca neolitica, che ha modificato in maniera incontrovertibile le pressioni evolutive su piante, animali e interi ecosistemi, e ha lasciato tracce indelebili nel record archeologico [4].

La prospettiva di costruzione di nicchia è fondamentale per due ragioni. Per prima cosa, introduce la nozione di “causalità reciproca”: se gli organismi modificano un ambiente con una costanza e un’intensità tali da alterarlo nelle sue pressioni selettive, queste inevitabilmente retroagiranno su di loro e sulla loro progenie, costringendoli a produrre delle contro-risposte a fronte di un nuovo contesto ecologico ed evolutivo. Io cambio l’ambiente, che a sua volta cambia me (e quindi no, non c’è un pianeta “esterno a noi” da salvare: nella crisi climatica e ambientale ci siamo dentro con tutte le scarpe). In secondo luogo, l’ambiente così alterato viene appunto ereditato dalle generazioni successive fintanto che le attività perturbatrici non cessano, per il principio di “ereditarietà ecologica”: si delinea in questo modo un gioco intergenerazionale.

Oggi siamo arrivati a trascinare la biosfera sull’orlo di una nuova estinzione di massa – la sesta, dopo le catastrofiche Big Five in cui sono scomparse il 75% o più delle specie viventi sulla Terra, e in cui il cambiamento climatico compare come un fattore causale comune [5]. Ce la giochiamo con asteroidi, esplosioni vulcaniche e altre maggiori forze geologiche. Ma se questo “talento” di costruttori di nicchia e la nostra capacità di colonizzare ambienti estremi ha garantito il nostro successo planetario a discapito di altri, portandoci a una crescita demografica di quasi 8 miliardi di individui e una presenza pressoché capillare su tutto il globo, ora i cambiamenti innescati mostrano un volto maladattativo per noi stessi costruttori.

Rischiamo, in altre parole, di infilarci in quella che gli ecologi chiamano una “trappola evolutiva”: organismi che mantengono comportamenti e scelte un tempo vantaggiosi rischiano di inoltrarsi, per mano propria, in un vicolo cieco [6,7].

Gli effetti per noi deleteri della nostra stessa condotta sono sotto gli occhi di tutti.

L’anno scorso The Lancet, un’autorevole rivista medico-scientifica, ha pubblicato un rapporto che mostra come le scelte che facciamo oggi in materia di clima condizioneranno la salute dei bambini che nascono oggi in ogni fase del loro sviluppo [8]. Tra i maggiori fattori di rischio: un’esposizione sempre più probabile a ondate di calore e alla diffusione di patogeni (l’aumento delle temperature interferirà con il ciclo di sviluppo e con l’areale di organismi vettori, aumentando il rischio di epidemie), una peggiore qualità dell’aria e un aumento di eventi meteorologici estremi.

A fronte di un’urgenza dalle dimensioni sempre più allarmanti, e che pone un rischio concreto anche per noi, cosa ci impedisce di comprendere la realtà del cambiamento climatico e di produrre risposte efficaci per strapparci dalla trappola evolutiva da noi innescata? A tal proposito, è possibile avanzare una seconda lettura evoluzionistica. Dagli studi di scienze cognitive sappiamo ormai da decine di anni che nei nostri processi di decision-making, in presenza di determinate condizioni, intervengono dei pattern di deviazione dalla razionalità – i cosiddetti “bias cognitivi”, forme evolute di comportamento mentale [9]. Queste scorciatoie mentali intervengono in condizioni di incertezza, quando abbiamo una carenza o un eccesso di informazioni, e sono innestate nella nostra psicologia perché molto probabilmente ci hanno aiutato, nel corso della nostra evoluzione, a far fronte ad ambienti ostili e in rapido e visibile cambiamento.

Abbiamo così la tendenza a voler confutare processi di lungo periodo con osservazioni locali (end-point bias); la nostra percezione tende a normalizzare fenomeni che evolvono lentamente quando più dovremmo esserne preoccupati (shifting baseline syndrome) e tendiamo a preferire un beneficio immediato, seppur minore, rispetto a uno futuro ma più grande (hyperbolic discounting). Il cambiamento climatico è per noi un “iper-oggetto” di cui non vediamo i confini nello spazio e nel tempo, e che sfida la nostra miopia cognitiva.

Ma questo non può diventare un alibi per l’inazione. La trappola deve essere disinnescata. La posta in gioco è alta: salvare il nostro futuro e quello dei nostri discendenti. Da costruttori di nicchia navigati e figli di decine di migliaia d’anni di evoluzione culturale, dobbiamo esser in grado di riprendere in mano le redini del nostro potere trasformativo e “direzionare” il nostro sviluppo e la nostra evoluzione. Come? Puntando su ciò che ci ha garantito un successo planetario: la capacità di darci delle regole attraverso forme istituzionali auto-imposte, in grado di garantire una cooperazione e un coordinamento su larga scala, la creatività e l’innovazione tecnologica, che siamo chiamati a promuovere attraverso ricerca e politiche internazionali adeguate, per guidare la transizione verso uno spazio operativo sicuro.

Per approfondire

[1] Meneganzin A., Pievani T., Caserini S. (2020) Anthropogenic climate change as a monumental niche construction process: background and philosophical aspects. Biol Philos 35, 38. https://doi.org/10.1007/s10539-020-09754-2

[2] Odling-Smee F.J., Feldman M., Laland K.N.(2003) Niche construction: the neglected process in evolution. In: Monographs in population biology, vol 37. Princeton University Press, Princeton

[3] Darwin C. (1881) The Formation of Vegetable Mould, through the Actions of Worms,With Observations on their Habits. London: John Murray

[4] Boivin N.L., Zeder M.A., Fuller D.Q. et al (2016) Ecological consequences of human niche construction: Examining long-term anthropogenic shaping of global species distributions. Proc Natl Acad Sci 113(23):6388–6396 www.pnas.org/content/113/23/6388

[5] Ceballos G., Ehrlich P.R., Dirzo R. (2017) Biological annihilation via the ongoing sixth mass extinction signaled by vertebrate population losses and declines. Proc Natl Acad Sci USA 114:E6089–E6096 www.pnas.org/content/114/30/E6089

[6] Schlaepfer M.A. et al (2002) Ecological and evolutionary traps. Trends Ecol Evol 17:474–480

[7] Robertson B.A. et al (2013) Ecological novelty and the emergence of evolutionary traps. Trends Ecol Evol 28:552–560

[8] www.lancetcountdown.org/2019-report/

[9] Gilovich T., Griffin D., Kahneman D. (eds) (2002) Heuristics and biases: the psychology of intuitive judgment. Cambridge University Press, Cambridge

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Soldi e interessi militari NATO per i test sierologici COVID-19 in Italia

Due milioni di test sierologici su base volontaria per il personale docente e amministrativo di tutte le scuole d’Italia. Uno screening di massa senza precedenti nella storia che il governo Conte-Azzolina-Speranza ritiene necessario per “contrastare e contenere l’emergenza COVID-19” ma che solleva perplessità nel mondo scientifico e tra gli stessi operatori scolastici per la non comprovata attendibilità delle indagini e l’incerta protezione dei dati personali sensibili che saranno raccolti e sistematizzati.

"L’esecuzione dei test sierologici è stata demandata ai medici generici e ai laboratori delle aziende sanitarie locali. I dati relativi al loro esito sono trasmessi ai Dipartimenti di prevenzione delle ASL che li comunicano poi alla Regione di appartenenza, la quale – a sua volta – li trasmette in forma aggregata all’Istituto Superiore di Sanità (ISS)”, si legge nell’apposita circolare del Ministero della Salute del 7 agosto 2020. Una procedura complessa e con molteplici attori in campo che rende possibile l’accesso ad una straordinaria mole di dati scientifici e statistici da parte di soggetti terzi con fini e interessi economici (transnazionali e industrie farmaceutiche) o, peggio ancora, militari.

Non farà certo piacere al personale scolastico venire a conoscenza che proprio l’Istituto Superiore di Sanità sta realizzando in questi mesi un progetto di sviluppo dei kit diagnostici rapidi per il dosaggio di anticorpi e antigeni specifici del coronavirus nei fluidi biologici, con un finanziamento dell’agenzia Science for Peace and Security della NATO, l’onnipotente organizzazione militare internazionale del Nord Atlantico. Anche questo progetto, secondo l’ISS, punta a “contribuire a limitare la diffusione della SARS-CoV-2 fornendo nuovi strumenti per la diagnosi rapida che possono essere utilizzati in contesti su larga scala, grazie ad un approccio multidisciplinare con esperti del settore dell’immunologia, della virologia e della biologia molecolare”. Alla sua realizzazione collaborano l’equipe di medici del Policlinico Universitario di Tor Vergata diretto dal prof. Massimo Andreoni e il gruppo di ricerca del prof. Gennaro De Libero dell’ospedale universitario di Basilea (Svizzera).

A coordinare il progetto ISS-NATO è stato chiamato il responsabile del reparto d’immunologia dell’Istituto di Sanità, Roberto Nisini, dal 1984 al 1997 ricercatore militare dell’Aeronautica italiana e dal febbraio 2020 responsabile scientifico del programma Real Biodefence per la realizzazione di “vaccini a mRNA inserito in liposomi asimmetrici nella difesa da agenti biologici”. Quest’ultimo progetto è stato avviato grazie a un accordo di collaborazione tra l’ISS e il Ministero della Difesa; approvato dal consiglio d’amministrazione dell’ISS il 19 novembre 2019, avrà una durata di 12 mesi e la spesa di 65.670 euro.

“I fluidi biologici analizzati per i test diagnostici saranno il sangue ma anche la saliva e le secrezioni naso-faringee da tampone e il risultato si potrà conoscere in un lasso di tempo variabile da pochi minuti a un’ora”, ha spiegato il dottor Roberto Nisiti il 5 maggio 2020 presentando il progetto dei kit diagnostici finanziato dalla NATO. “Il test sarà strumentale per lo screening iniziale in un triage o in una comunità. I kit diagnostici consentiranno un rilevamento più rapido dei SARS-CoV-2 rilasciati nei fluidi corporei umani nell’ambiente e l’identificazione sensibile della risposta immunitaria agli antigeni strutturali. Gli aspetti innovativi di questo progetto includono la possibilità di rilevare e misurare sia le immunoglobuline umane G (IgG), A (IgA) e M (IgM) specifiche per componenti strutturali del SARS-CoV-2 nel siero, che gli antigeni virali nei biofluidi”.

Sempre secondo i ricercatori dell’ISS, saranno prodotte proteine strutturali ricombinanti codificate e anticorpi monoclonali (mAb) specificamente in grado di riconoscere queste proteine. “La procedura di immunizzazione che verrà utilizzata per generare anticorpi monoclonali fornirà anche un modello preclinico di immunogenicità di un vaccino anti-COVID-19”, ha aggiunto Nisiti. “L’identificazione di anticorpi anti-virus potrebbe rappresentare un primo passo nello sviluppo di immuno-terapie basate sulla somministrazione di anticorpi per il trattamento di pazienti infetti”.

“Il progetto che abbiamo lanciato nell’ambito dello Science for Peace and Security Programme della NATO è un esempio eccellente degli sforzi di ricerca globale della comunità per combattere il COVID-19”, ha dichiarato Antonio Missiroli, vicesegretario dell’Alleanza Atlantica con delega per le sfide delle emergenze alla sicurezza. “Esso rafforza anche l’impegno della NATO per la resilienza e la preparazione civile delle nazioni alleate e partner in tempi di crisi. Anche se i risultati attesi da questo progetto sono estremamente rilevanti per l’odierna situazione mondiale, noi attendiamo con ansia l’impatto che esso avrà a lungo termine in vista di una risposta internazionale contro i virus e i patogeni che si generano in natura o contro quelli creati dall’uomo”.

Anche Philippe Brandt, ambasciatore svizzero in Belgio e capo missione della confederazione elvetica presso il Comando supremo della NATO ha enfatizzato il nuovo progetto di ricerca ISS-NATO. “Per la Svizzera essere associata al Programma Partnership for Peace significa poter condividere le capacità per migliorare la sicurezza in un ambito multilaterale”, ha dichiarato il diplomatico. “Con alcune università di massimo livello, centri scientifici e una forte relazione tra il settore privato e la ricerca, la Svizzera è ben posizionata per partecipare agli sforzi della comunità internazionale per combattere il COVID-19”. Come dire la privatizzazione della ricerca accademica a fini militari.

Lo Science for Peace and Security Programme è uno dei più importanti programmi di partenariato della NATO a supporto della ricerca scientifica per “affrontare le sfide della sicurezza del 21° secolo”, in particolare nei settori della cyber defence, delle tecnologie avanzate, dell’antiterrorismo, della sicurezza energetica e della “difesa contro agenti chimici, biologici, radiologici e nucleari”. Il programma SPS sovvenziona progetti pluriennali, seminari di ricerca, corsi di formazione e istituti di studio avanzati, reti di esperti internazionali e scambi di competenze e know-how tra le comunità scientifiche della NATO e dei paesi partner.

Dopo lo scoppio della pandemia da coronavirus, buona parte dei fondi e degli interventi sono stati indirizzati alla ricerca sul COVID-19, con finalità dichiaratamente di ordine strategico-militare. “Abbiamo ricevuto dalla comunità scientifica oltre 40 proposte di studio per individuare le risposte che devono essere assunte contro questa nuova emergenza”, riporta l’ufficio stampa della NATO in un comunicato del 10 luglio scorso. “Si sta investigando per avere una migliore conoscenza sulla disinformazione che circola sulla pandemia e su come contrastarla; su come assicurare le migliori condizioni sanitarie alle forze armate in caso di pandemia; su come rafforzare l’uso della tecnologia per addestrare i leader militari durante gli interventi in pandemia; sulle lezioni apprese dal COVID-19 per i sistemi di difesa nazionali; sulla dimensione etica del supporto militare alle attività sanitarie in pandemia”.

Sarebbero oltre 6.000 gli scienziati coinvolti dall’Alleanza Atlantica nei programmi sul coronavirus, a cui si aggiungono pure i ricercatori del Centre for Maritime Research and Experimentation (CMRE) di La Spezia, centro d’eccellenza NATO per la realizzazione e sperimentazione di nuovi sistemi d’arma navali e subacquei.

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Il debito pubblico italiano è uno Schema Ponzi

Italia, terra di santi, di poeti e navigatori, ma soprattutto di ragionieri.

Da quando i dati sono largamente accessibili nella loro presunta forma grezza (o neutra) tutti ci siamo riscoperti analisti economici.

Basta accedere a una della banche dati disponibili – Eurostat, Banca mondiale, Ocse, Banca d'Italia.

per dotarsi di una razione ragionevole di dati per dimostrare qualsiasi teoria.

L’impresa sulla quale si stanno misurando in molti in questi giorni su Facebook è la dimostrazione, dati alla mano, della teoria che assimila il debito pubblico italiano a uno schema Ponzi.

Nello Schema Ponzi (wikipedia) a una persona che ha una certa quantità di denaro liquido viene proposto un investimento dal quale ricaverà un guadagno facile e veloce e superiore ai tassi di mercato. Dopo poco tempo, all'invertitore viene pagata una discreta somma, facendogli credere che il sistema funzioni. Si sparge la voce, altre persone aderiscono al Sistema Ponzi e investono i loro risparmi. Con una parte dei soldi via via incassati dai nuovi aderenti si pagano gli interessi ai vecchi aderenti. Tutto funziona finché le richieste di rimborso del capitale versato non superano i nuovi investimenti.

E possibile – questa è l’ipotesi che ho letto su un profilo Facebook (Luca Foresti) – che il debito pubblico italiano funzioni come uno schema Ponzi?

Vediamo la dimostrazione (dati alla mano).

«Il PIL italiano del 2019 è stato di 1787 Mld€. Il calo del 2020 sarà circa del 11,2%, ovvero -200Mld€. Il deficit previsto sarà dell’11,1% del PIL, ovvero 198Mld. Le entrate di cassa nel 2021 e 2022 dal Recovery-Fund saranno di 209Mld, con un aumento di debito di 161Mld, ovvero l’equivalente di un altro +9% di rapporto debito/PIL. Il debito pubblico Italiano arriverà al 159% del PIL a fine anno, con un tasso di interesse medio dell’1,5% circa. Molto probabilmente anche nel 2021 il deficit sarà superiore al 5%. O questo paese fa riforme strutturali potenti che ci mandano su crescite elevate (almeno il 3%) per molti anni, oppure – conclude l’utente Facebook – questo è uno schema Ponzi»

Lo Stato italiano chiede in prestito soldi agli investitori, gli investitori – poveri caproni! – non sanno che stanno prestando soldi a Mister Ponzi, anche perché il Signor Ponzi li gratifica con un interesse superiore a quello che pagano Francia, Germania e Olanda. Sono contenti quando intascano gli interessi, ma non sanno che, quando si presenteranno per chiedere l'incasso del capitale versato, lo Stato italiano butterà giù la maschera, e dirà loro la verità sui conti, ovvero che la cassa è vuota, che i soldi avuti in prestito sono finiti nel pagamento di interessi, e che il tutto era una truffa, e via discorrendo.

Questa dimostrazione non fa una piega. I dati prodotti confermano ogni punto della teoria. Senonché non siamo in presenza di un’analisi economica, siamo in presenza di un mero calcolo aritmetico, degno di un modesto ragioniere. Si potrebbero avanzare svariate obiezioni a questa dimostrazione, ma la migliore è la più semplice. Ma gli investitori – assicurazioni, banche ordinarie e banche centrali, fondi pensione, fondi sovrani – sono davvero così ingenui?

Prendiamo il caso della banca centrale. Cosa fa la banca centrale quando compra titoli del debito italiano? Stampa un po’ di soldi e li dà allo Stato italiano. Con questi soldi lo Stato paga stipendi e pensioni (e interessi). La banca incassa gli interessi, e si cura del capitale solo nella misura in cui esso svaluta proporzionalmente i crediti e i contanti in circolazione. Che cos’è per la banca il capitale investito? È fiat money – moneta creata dal nulla.

Dire che è moneta interamente creata dal nulla è una esagerazione, visto che parte della ricchezza dirottata verso pensioni e stipendi proviene da una erosione delle posizioni attive (e negative) pregresse. Quando la banca centrale compra titoli, tira un bel pacco – subito, senza aspettare il signor Ponzi – a tutti quelli che hanno un saldo positivo o vantano un credito.

Come è possibile tutto ciò?

Dal punto di vista del ragioniere una cosa del genere è totalmente incomprensibile.

Il ragioniere usa la moneta come il sarto usa il metro. Se ho registrato sul libro mastro un credito verso Tizio di mille euro, alla scadenza, pensa il ragioniere, Tizio mi pagherà niente più e niente meno che mille euro.

E così sarà. Potete crederci. I numeri sono numeri!

Una volta incassata la sommetta il ragioniere corre al negozio per comprare la bicicletta che tanto desiderava, ma mille euro non sono più sufficienti, il prezzo della bici è aumentato, e sarebbe aumentato ancora di più se, nello stesso lasso di tempo, i soldi di Tizio avessero fatto qualche altro acquisto prima di arrivare al ragioniere, o se fossero serviti come base per l’emissione di nuovi crediti-debiti.

La moneta di conto è anche denaro. Il ragioniere misura con moneta, e può star certo di misurare con precisione matematica. Ma quando passa all’incasso non riceve moneta, riceve denaro. E il denaro, a differenza della moneta, è determinato, finito, spicciolo. La banconota, il soldo di argento, la cripto-valuta, sono denaro spicciolo, determinato, finito.

Cosa vuol dire determinato?

Spinoza diceva che «omnis determinatio est negatio», e con ciò voleva dire che il valore di questo denaro «qui» varia col variare delle condizioni che gli si oppongono, e siccome le condizioni sono sempre diverse, il valore del denaro non è stabile.

Hayek, come tutti gli economisti austriaci – Menger, Mises, Böhm-Bawerk, che sprezzava ogni tentativo di introdurre concetti metafisici in economia – si atteneva alla realtà effettiva. Conosceva i capricci e l’inaffidabilità del denaro, sapeva benissimo che il metro si accorcia e si allunga in continuazione. Perciò, nel suo arcinoto studio sulla denazionalizzazione della moneta, suggeriva di tenere sotto controllo i movimenti con cervelloni elettronici e display interattivi installati in ogni negozio, su ogni scaffale, su ogni prodotto, più o meno quello che vorrebbe fare Facebook con Libra, la sua moneta elettronica denazionalizzata.

Per arrestare il movimento del mondo ci vuole più di uno stupido cervellone elettronico, o di un numero sterminato di minicomputer messi nelle mani dei consumatori. Ci vuole la capa tosta di un umile ragioniere che dà fiducia ai numeri, ovvero alla metafisica, alla sostanza. E quando dice che i conti non tornano, che si tratta di uno schema Ponzi o di cose di questo tipo, non bisogna affrettarsi a dargli torto.

Dopodiché – dopodiché, sono molte le obiezioni che gli si potrebbero fare. Come per esempio quella cara ai circuitisti.

Da dove arriva il capitale iniziale? Da dove arriva la moneta del primo acquisto? Se «il primo acquisto» si ripete in ogni acquisto – come è sfuggito di chiarire ad Augusto Graziani – le cose si complicano ancora di più, e usare il denaro come il sarto usa il suo metro diventa un'impresa che solo l’ingenuità di un ragioniere può permettere di affrontare con successo – più o meno.

Dopo aver vagato a destra e a manca non resta che chiudere con un keynesiano – Federico Caffè – il quale nel 1979 [L’economia contemporanea], riproponendo un passo di Kindleberger, diceva che i monetaristi moderni si trovano in difficoltà nel decidere se debbono definire la moneta con M1, contanti e depositi a vista; M2 costituita da M1 con l’aggiunta dei depositi vincolati; M3, formata da M2 con l’aggiunta di titoli statali con elevata liquidità; o qualche altra designazione. Mi si dice che alcuni studiosi sono giunti sino a M7. Ma il mio punto di vista, dice, è che il processo è senza fine: si fissi un qualsiasi M1, e il mercato creerà nuove forme di moneta in periodi di boom per aggirare il limite e creare la necessità di fissare una nuova variabile Mj.

Poi qualcuno dice in giro che lo Stato si comporta come un Mister Ponzi qualsiasi.

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