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31/08/2023

La abuela - Legami di sangue (2021) di Paco Plaza - Minirece

[Contributo al dibattito] - Modelli di organizzazione economica e conflitti militari. Note in margine a "La guerra capitalista"

di Salvatore D'Acunto

Nel volume La guerra capitalista, gli autori Brancaccio, Giammetti e Lucarelli (2022) sostengono che alle radici delle recenti tensioni internazionali vi siano gli imponenti processi di centralizzazione dei capitali che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, e la sempre più marcata tendenza del fenomeno a travalicare i confini degli schieramenti geo-politici. I paesi usciti vincitori dalla competizione sui mercati globali (in particolare Cina, paesi arabi e Russia) starebbero usando i saldi attivi in dollari accumulati negli anni scorsi per ‘scalare’ la proprietà dei capitali americani, e il governo degli Stati Uniti starebbe reagendo a questa minaccia con variegate restrizioni all’ingresso dei capitali stranieri nella proprietà dell’industria nazionale e con misure protezionistiche di politica commerciale. Secondo il punto di vista degli autori, questo conflitto economico starebbe generando una spirale di ritorsioni a catena, moltiplicando in tal modo il rischio di veri e propri conflitti militari. Questo modello interpretativo viene messo a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, e si discutono alcune interessanti implicazioni dell’analisi rispetto al problema del design delle istituzioni di regolazione delle relazioni economiche internazionali.

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Un elemento comune a molte delle narrazioni dell’impetuoso ritorno dei venti di guerra in Europa è l’adesione dei commentatori ai canoni della drammatizzazione romanzesca o cinematografica, con il focus interamente centrato sul conflitto tra personalità connotate in senso moralistico: paladini della libertà versus autocrati fanatici, oppure ‘denazificatori’ versus persecutori di minoranze etniche.

Trame costruite cioè – indipendentemente dalle simpatie personali del commentatore di turno – attorno alla dialettica tra un eroe con cui identificarsi e un antieroe disegnato con l’obiettivo di fare da bersaglio dell’esecrazione collettiva (un “capro espiatorio”, per dirla con Girard). La conseguenza più grave di questo approccio è stato il sostanziale occultamento dei conflitti di natura economica e la scomparsa delle questioni di carattere ‘strutturale’ dal quadro interpretativo proposto all’opinione pubblica.

A questo cliché si sottrae decisamente La guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli (d’ora in avanti BGL). Sin dalle prime pagine, gli autori esplicitano una scelta di campo metodologica di segno opposto, dichiarando di voler “sgombrare il campo dalle consuete, opposte mistificazioni idealistiche” e “riportare alla luce una complessa catena di fatti materiali” (Brancaccio et al., 2022, p. 12) che spingerebbe verso un inasprimento delle relazioni internazionali, indipendentemente dalle intenzioni dei singoli attori individuali e collettivi in campo. Il filo rosso attorno a cui è costruito il volume è infatti l’idea che le regole determinate dall’assetto di organizzazione della produzione vigente forniscano agli attori individuali e collettivi potenti incentivi all’adozione di politiche commerciali e finanziarie ‘aggressive’, generando una spirale di ritorsioni a catena e moltiplicando il rischio di veri e propri conflitti militari.

Non si tratta di un approccio inedito. Sebbene la storia del pensiero economico sia stata lungamente egemonizzata da apparati concettuali che negano la rilevanza degli interessi materiali ai fini dell’esplosione dei conflitti bellici,[1] esiste invece una prestigiosa tradizione di studi che hanno attribuito un ruolo esplicativo chiave alle modalità di funzionamento dell’organizzazione produttiva o a specifici assetti della regolazione delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali. In un noto pamphlet scritto durante il primo conflitto mondiale, Lenin aveva sottolineato come la peculiare configurazione assunta dall’organizzazione produttiva nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, in particolare il consolidarsi di grandi monopoli nei settori trainanti dell’economia e l’intreccio sempre più inestricabile tra banca e industria, spingesse le potenze imperiali dell’epoca a competere con tutti i mezzi, comprese le armi, per la conquista di fonti di materie prime e di mercati in cui investire i capitali che non trovavano sbocchi sufficientemente redditizi nella madrepatria. E qualche anno più tardi, nell’analizzare le tensioni internazionali che avrebbero fatto da brodo di coltura del secondo conflitto mondiale, Keynes e Polanyi avevano attribuito un ruolo esplicativo cruciale alle regole della competizione economica internazionale, in particolare alla miscela – a loro dire esplosiva – di laissez-faire e regime monetario a base aurea.

La guerra capitalista si muove nel solco di questa nobile tradizione. Più in particolare, BGL scelgono di leggere i conflitti del presente alla luce di una categoria analitica tratta dall’apparato concettuale marxiano: la centralizzazione dei capitali. Come si vedrà, si tratta di una categoria lungamente trascurata nel dibattito, ma che gli autori considerano una lente di straordinaria efficacia per mettere a fuoco alcune tendenze dinamiche caratteristiche del capitalismo contemporaneo.

In questo saggio, proveremo innanzitutto a ricostruire lo schema interpretativo proposto da BGL nel contributo in oggetto (§ 1); in secondo luogo, metteremo tale schema a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, provando quindi a valutarne comparativamente la capacità esplicativa (§ 2); infine, proveremo a sollevare alcuni interrogativi che, a nostro modo di vedere, il volume implicitamente pone agli studiosi, in particolare a quelli impegnati nel dibattito sulle grandi questioni di teoria e storia delle istituzioni monetarie (§ 3).

1. Centralizzazione capitalistica e fratture geopolitiche

Nella ricostruzione dei tratti caratteristici della dinamica del capitalismo contemporaneo, BGL attribuiscono una valenza euristica centrale ad una categoria tratta dallo strumentario analitico marxiano: la centralizzazione dei capitali. Molto semplicemente, Marx riteneva che la mano invisibile del mercato plasmasse la struttura del sistema economico non nel senso del livellamento delle forze, ma piuttosto nel senso dell’approfondimento delle asimmetrie. I capitali che per qualche motivo (dimensione, egemonia tecnologica, basso costo delle risorse produttive o altro) riescono ad assicurarsi dei vantaggi nella competizione diventano progressivamente più forti, mentre quelli più deboli fanno fatica a mantenere i conti in equilibrio e sono costretti a ricorrere all’indebitamento per sopravvivere. La costellazione di posizioni di credito e debito prodotta da questa lotta interna alla classe proprietaria determina, a lungo andare, una spontanea tendenza verso la centralizzazione del controllo dell’attività produttiva: i capitali forti spazzano via dal campo i capitali più deboli, o li assorbono a colpi di fusioni e acquisizioni. “Il controllo dei capitali tende a concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi vincitori della guerra di mercato” (Brancaccio et al., 2022, p. 20).

L’esistenza di una propensione tendenziale del capitalismo verso la centralizzazione è stata sistematicamente negata, con argomenti variegati, dalla teoria economica mainstream. In questo filone di pensiero è sempre prevalsa l’idea che, accanto ai fallimenti, alle bancarotte e alle acquisizioni dei piccoli ad opera dei grossi, esista anche un contro-movimento spontaneo del sistema che continuamente crea nuovo capitale, nuova imprenditoria, nuova concorrenza, bilanciando quasi magicamente le tendenze centralizzatrici (Brancaccio et al., 2022, p. 24). Questa certezza granitica è stata tuttavia significativamente incrinata dall’osservazione delle linee di tendenza relative all’ultimo trentennio. Gli autori citano ad esempio un saggio pubblicato nel 2018 su The Economist, dove la legge marxiana della centralizzazione viene giudicata “[…] una descrizione ragionevole del mondo degli affari plasmato dalla globalizzazione e da internet. Le più grandi aziende del mondo non solo stanno diventando più grandi in termini assoluti, ma stanno anche trasformando un numero enorme di aziende più piccole in mere appendici” (Brancaccio et al., 2022, p. 27).

Gli autori rilevano tuttavia che, a fronte di un’abbondante aneddotica, esistono in letteratura pochi tentativi di “mettere la centralizzazione alla prova dei dati”, e trovano inoltre che quei pochi siano viziati da serie fallacie di carattere metodologico. BGL citano al riguardo uno studio di De Grauwe e Camerman (2002), che misurano la centralizzazione con il peso economico delle multinazionali in rapporto al Pil dei paesi che le ospitano e ne interpretano la tendenza declinante come una prova della fallacia della legge di tendenza evocata da Marx. BGL considerano però la misura usata da De Grauwe e Camerman inadeguata a misurare il fenomeno della centralizzazione, se propriamente intesa nel senso indicato da Marx. Per Marx, infatti, la centralizzazione può avvenire non solo tramite l’uscita dal mercato dei capitali deboli e/o tramite l’acquisizione da parte dei capitali forti, ma anche “mediante concentrazione del controllo del capitale al di là dei mutamenti del rapporto proprietario” (Brancaccio et al., 2022, p. 100). Inoltre, la rete di controllo può estendersi non solo sul territorio nazionale, ma anche all’estero. Insomma, poiché la centralizzazione travalica i confini delle singole compagini societarie e delle singole giurisdizioni territoriali, gli indicatori costruiti in base a delimitazioni fondate sui rapporti proprietari e sulla appartenenza a una giurisdizione politica possono dirci poco al riguardo.

BGL provano a superare questi problemi metodologici mutuando strumenti tratti dalla letteratura sulle reti complesse, un filone della teoria della complessità esploso negli ultimi anni e già applicato con successo ad altri ambiti dell’analisi economica (rapporti import-export tra paesi, reti produttive, reti interbancarie). Questa metodologia permette di ricostruire la reale distribuzione del potere di controllo delle aziende, nonché di misurarne la concentrazione attraverso un indicatore definito network control (Brancaccio et al., 2022, pp. 103-107). I risultati ottenuti da BGL ricostruendo la dinamica di tale indicatore nell’arco di tempo che va dal 2001 al 2016 sono di straordinario interesse: nell’intervallo oggetto dell’analisi, l’80% del capitale azionario globale è stato sotto il controllo di una percentuale variabile tra l’1 e il 2% degli azionisti, e soprattutto tale percentuale ha fatto registrare un trend di progressiva riduzione, trend intensificatosi significativamente a partire dalla recessione globale del 2007 (Brancaccio et al., 2022, pp. 115-116).

Il passo successivo del volume consiste nel passare al setaccio dell’analisi alcuni filoni di letteratura che attribuiscono alla centralizzazione dei capitali un ruolo di un certo rilievo nel determinare alcune linee di tendenza caratteristiche del capitalismo contemporaneo: la crescente vulnerabilità delle economie alle crisi, una certa propensione all’involuzione delle istituzioni politiche in senso antidemocratico, l’acuirsi delle tensioni nelle relazioni internazionali. In questo saggio non discuteremo dell’impatto della centralizzazione sull’instabilità macroeconomica, questione di cui gli autori ammettono la natura assai controversa,[2] e trascureremo anche l’analisi della ricaduta della centralizzazione sulla stabilità delle istituzioni liberal-democratiche, che nel volume occupa un ruolo marginale.[3] Concentreremo invece l’attenzione sull’impatto che, a giudizio degli autori, la centralizzazione eserciterebbe sulle relazioni internazionali, questione che costituisce il cuore tematico del volume.

L’idea di BGL è che la centralizzazione innesca dinamiche molto diverse a seconda che operi all’interno di circoscrizioni territoriali caratterizzate da forme più o meno profonde di integrazione istituzionale oppure tenda a travalicare “i consueti perimetri geopolitici”. Nel primo caso, il conflitto tra i capitali ‘forti’ e i capitali ‘deboli’ viene canalizzato verso i tradizionali dispositivi di mediazione tra gli interessi dei diversi attori in gioco previsti dai relativi assetti istituzionali (parlamenti nazionali, parlamenti federali, banche centrali, autorità antitrust, ecc.). Quindi il processo di centralizzazione “può anche subire interruzioni e contraccolpi”, ma in generale si svolge senza significative ‘rotture’ (Brancaccio et al., 2022, p. 10). Nel secondo caso, invece, niente può escludere che – in assenza di consessi dove far valere i propri interessi – i capitali deboli cerchino di difendersi dall’assorbimento altrui mediante strategie implicitamente o esplicitamente ‘aggressive’: guerre valutarie, guerre commerciali, fino ad arrivare alle guerre propriamente dette.

Questo modello interpretativo induce gli autori a leggere il conflitto russo-ucraino in una luce assai diversa rispetto alla narrazione mainstream: non come episodio a sé stante, frutto avvelenato della peculiarità delle storie svoltesi a cavallo del Dnepr e dell’incompatibilità reciproca dei ‘caratteri nazionali’ che quelle storie hanno gradualmente forgiato; ma piuttosto una tessera di un mosaico più complesso, che può essere afferrato solo sollevando l’occhio dal microscopio puntato sull’Ucraina e orientando lo sguardo sullo scenario globale, cioè provando a fare il punto sull’esito della competizione economica che ha caratterizzato l’ultimo trentennio e a valutare lo stato delle cose che ci ha lasciato in eredità.

Secondo BGL, per comprendere questa fase storica bisogna partire da un fatto che l’opinione pubblica occidentale fa fatica a riconoscere e a razionalizzare: gli Stati Uniti, dopo aver propugnato la grande stagione della globalizzazione dei mercati, ne sono usciti inopinatamente sconfitti. Il capitale americano sta infatti subendo gli effetti di uno storico declino di competitività internazionale, plasticamente documentato dalla sequela ininterrotta di disavanzi della bilancia commerciale degli Stati Uniti dal 1977 ad oggi. Questo declino si traduce in una posizione di pesante debito verso l’estero: gli Stati Uniti hanno ormai accumulato una posizione passiva netta verso l’estero di un ammontare pari a circa il 60% del PIL (Brancaccio et al., 2022, pp. 153 e 164). A questi debiti corrispondono specularmente i crediti dei vincitori della stagione della globalizzazione. “Sono i capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del Sud-Est asiatico, del Medio Oriente, e in misura minore pure russi” (Brancaccio et al., 2022, p. 165).

Questa strutturale asimmetria tra creditori e debitori mette fatalmente in gioco il controllo del capitale da parte dei debitori. Infatti,
Negli anni, i grandi creditori [...] hanno accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo: non solo per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale. I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche russi coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via. Magari anche i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle (Brancaccio et al., 2022, p. 165).
Si tratta di uno snodo delicatissimo ai fini dell’armonia delle relazioni internazionali. Per scongiurare il pericolo di essere ‘scalati’ dal capitale asiatico, arabo e russo, gli Stati Uniti (e alcuni suoi storici alleati che versano in situazioni analoghe, come Regno Unito e Francia) devono infatti rovesciare il segno del proprio saldo commerciale, e non dispongono di molte alternative per realizzare tale obiettivo: comprimere i costi di produzione (e quindi il tenore di vita dei lavoratori occidentali) o aprirsi sbocchi commerciali con mezzi variamente ‘aggressivi’ (protezionismo valutario e commerciale, espansione militare). In sostanza, la scelta è tra acuire i conflitti interni o quelli internazionali.

Nell’ultimo quindicennio gli Stati Uniti si sarebbero decisamente orientati verso il protezionismo, prima con una politica monetaria estremamente espansiva (il cosiddetto Quantitative Easing) e poi con un ritorno in grande stile di dazi commerciali e restrizioni all’ingresso dei capitali esteri nelle imprese che operano nella fascia ‘alta’ delle catene globali del valore (in particolare nel comparto ICT). Al riguardo, gli autori tengono a sottolineare come la narrazione mainstream, che associa la deriva protezionistica americana alla ‘parentesi’ della presidenza Trump,[4] sia fallace: i dati indicherebbero infatti che questo trend sia stato inaugurato immediatamente dopo la crisi del 2008, in corrispondenza con la presidenza Obama,[5] e che si sia ulteriormente rafforzato durante la presidenza Biden (Brancaccio et al., 2022, pp. 206-207). Il cosiddetto friend-shoring delle catene di approvvigionamento, recentemente invocato dalla segretaria del Tesoro in carica Janet Yellen come misura per recuperare autonomia geopolitica nei confronti di regimi illiberali o guerrafondai (Yellen, 2022), sarebbe in realtà una prassi già consolidata da tempo, legittimata da un sostanziale consenso bipartisan, e il suo reale obiettivo sarebbe la difesa del capitale americano dal processo di centralizzazione che minaccia di fagocitarlo.

Il problema è però che il ‘blocco dei creditori’ può a sua volta reagire al protezionismo dei debitori riarmandosi e spostando la competizione sulla dimensione ‘militare’ (Brancaccio et al., 2022, p. 213). Gli autori suggeriscono che nell’ultimo quindicennio lo scenario delle relazioni internazionali si sia andato muovendo decisamente in questa direzione. Gli eccezionali tassi di crescita della spesa militare fatti registrare dai paesi creditori nell’ultimo ventennio appaiono un significativo indizio in tal senso: sembra cioè che i paesi usciti vincitori dalla competizione globale si stiano consapevolmente preparando ad una nuova fase delle relazioni economiche internazionali, in cui la possibilità di usare i dollari accumulati per acquisire i capitali occidentali sarà sempre più legata alla capacità di ‘minaccia’ nei confronti dei paesi debitori.

Una volta collocato in questo quadro analitico, il conflitto russo-ucraino andrebbe quindi letto in una luce piuttosto diversa rispetto alle narrazioni egemoni nel dibattito. Si tratterebbe cioè solo di un episodio di una contesa di carattere più generale, il cui vero oggetto sono le regole della competizione economica internazionale. Il ‘blocco dei creditori’ starebbe in sostanza mettendo in discussione il diritto degli Stati Uniti e dei loro alleati di saltare disinvoltamente dal libero-scambismo al protezionismo in base alle proprie convenienze del momento, e quindi di ‘congelare’ i dollari usati fino ad oggi dagli USA per accedere a materie prime e manufatti industriali e ora nelle mani dei suoi fornitori (Brancaccio et al., 2022, p. 12). Non è un caso che Wang Yi, ministro degli esteri della Repubblica Popolare Cinese ponga esplicitamente, come condizione per il rilancio della diplomazia nei teatri di guerra, che gli Stati Uniti smettano “di frenare lo sviluppo della Cina bloccando esportazioni e investimenti” (Brancaccio et al., 2022, p. 213).

Si tratta ovviamente di un gioco che va facendosi di giorno in giorno più pericoloso. A dispetto del fatto che i singoli capitalisti vedano ovviamente la pace come una condizione più favorevole alla realizzazione dei propri obiettivi, la complessa catena di azioni e reazioni innescata dalla tendenza alla centralizzazione sospinge l’intero sistema verso una drammatica eterogenesi dei fini (Brancaccio et al., 2022, pp. 152-53, 164), verso una guerra in senso proprio, “fatta non più solo di dazi, sanzioni e mancate acquisizioni, ma anche di bombe e movimenti di truppe” (Brancaccio et al., 2022, p. 213).

L’idea che la frattura geopolitica in essere sia situata in corrispondenza della linea che separa creditori e debitori, seppur intrigante, è probabilmente il punto più debole della ricostruzione di BGL. Alcuni tra i paesi caratterizzati da una posizione finanziaria netta sull’estero attiva particolarmente ‘robusta’ (Giappone, Taiwan, Germania, Corea del Sud, Olanda, Norvegia, Singapore) hanno infatti aderito alla linea delle sanzioni economiche contro la Russia dettata dagli Usa, e nel conflitto risultano quindi inequivocabilmente posizionati sul lato ‘occidentale’ dello schieramento. È dunque evidente che il puzzle delle ‘affiliazioni’ non può essere spiegato esclusivamente sulla base della posizione finanziaria netta sull’estero. La storia e la geopolitica pesano probabilmente in questa vicenda molto più di quanto BGL siano disposti ad ammettere. Ad esempio, difficile pensare che lo status di ‘potenze sconfitte’ di Germania e Giappone (e le significative limitazioni di sovranità che ne sono conseguite) non implichi ipoteche pesanti sulla relativa autonomia strategica,[6] così come appare irrealistico che la contiguità spaziale (con il suo inevitabile portato di conflitti legati a rivendicazioni territoriali) non condizioni il posizionamento strategico di Taiwan, Giappone e Corea del Sud.[7]

Tuttavia, se è vero che un modello eccessivamente parsimonioso come quello proposto nel volume in oggetto non riesce a spiegare in maniera soddisfacente la ‘geografia delle affiliazioni’, va anche detto che BGL portano alla luce un aspetto indiscutibilmente rilevante: difficile infatti negare che la questione del ‘potere di comando’ dei saldi attivi in dollari accumulati dalla Cina abbia un ruolo chiave nella tettonica che muove le strategie dei principali attori geopolitici.

Del resto, studiosi attenti alle interazioni tra dimensione economica e geopolitica avevano segnalato in tempi non sospetti i rischi legati al dilatarsi dell’esposizione debitoria degli Usa nei confronti della Cina. Già nel 2005, commentando la vicenda Unocal, Krugman (2005, mia traduzione) avvertiva che fosse nella natura delle cose che, prima o poi, “I cinesi non si sarebbero più accontentati del ruolo di finanziatori passivi, e avrebbero reclamato quel potere che solo la proprietà può dare”, intravedeva lucidamente in quell’episodio l’avvisaglia di una imminente competizione strategica per le risorse scarse del pianeta e qualificava come ineluttabile una svolta protezionistica nella politica degli Usa nei confronti della Cina.[8] E di lì a poco Arrighi, nel fortunato Adam Smith a Pechino, dopo aver sottolineato l’incongruenza tra comprare merci dalla Cina e contestarne il diritto di spendere i dollari incassati nell’acquisto di una multinazionale americana, avrebbe rilevato la veemente retorica anticinese suscitata dalla vicenda e manifestato le sue preoccupazioni circa l’influenza che quell’atmosfera politico-culturale rischiava di esercitare sulle scelte geopolitiche degli Usa (cfr. Arrighi, [2007] 2008, pp. 309-344).

2. Asimmetrie economiche, ‘regole del gioco’, e guerra nelle tradizioni di pensiero eterodosse

La ‘catena logica’ su cui BGL fondano la propria analisi dell’imperialismo contemporaneo è costruita su nessi teorici tratti dalla tradizione marxista. Il pensiero corre spontaneamente al noto saggio di Lenin sull’imperialismo, cui non a caso è dedicato un momento importante del volume. È quindi di un certo interesse mettere a confronto le due visioni, in modo da valutarne punti di contatto e differenze.

La catena logica di Lenin parte dall’idea marxiana della dinamica fondamentalmente asimmetrica prodotta dallo sviluppo capitalistico. “Nel capitalismo sono inevitabili la diseguaglianza e la discontinuità nello sviluppo di singole imprese, di singoli rami industriali, di singoli paesi” (Lenin, [1916] 1980, p. 76). Man mano che le asimmetrie si approfondiscono, i grandi divorano i piccoli e la centralizzazione dei capitali procede. Ad un certo punto, in alcuni paesi il capitalismo diventa “più che maturo”, al capitale “non rimane più campo per un investimento redditizio” (Lenin, [1916] 1980, p. 78) e il conflitto deve necessariamente travalicare le frontiere degli stati nazionali. I capitali ‘in esubero’ entrano quindi in competizione per l’accesso ai paesi in cui la profittabilità è più elevata e dove sono disponibili le fonti di materie prime strategiche; parallelamente, le “leghe politiche” (gli stati nazionali) entrano in competizione “sul terreno della spartizione territoriale del mondo, della lotta per le colonie, della lotta per il territorio economico” (Lenin, [1916] 1980, p. 91).

Ne risulta una divisione del mondo in sfere d’influenza tra le principali potenze. Tuttavia, si tratta di una divisione fatalmente instabile, in quanto condizionata in maniera decisiva da rapporti di forza continuamente mutevoli. Infatti, “[…] i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc.”. Di conseguenza, “[…] le alleanze inter-imperialistiche non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra […]. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste” (Lenin, [1916] 1980, pp. 138-139, corsivo aggiunto).

Gli autori ammettono l’interesse della ricostruzione di Lenin, da cui mutuano l’idea che siano le asimmetrie caratteristiche dello sviluppo capitalistico ad alterare sistematicamente i rapporti di forza tra le potenze e a rendere la guerra un evento costantemente incombente (Brancaccio et al., 2022, p. 189). Tuttavia, essi sottolineano la natura “vaga e indeterminata” della catena di cause e conseguenze su cui tale ricostruzione si fonda (Brancaccio et al., 2022, p.190) e si dolgono del fatto che “questo limite si sia protratto anche nella produzione più propriamente accademica delle epoche successive” ispirata all’opera di Lenin (Brancaccio et al., 2022, p. 196). Un nodo particolarmente critico sarebbe il nesso postulato tra ‘maturità’ del capitalismo e caduta della profittabilità, che nella visione di Lenin risulta cruciale ai fini della spiegazione della tendenza all’esportazione di capitale, ma i cui fondamenti teorici vengono lasciati inesplicati (Brancaccio et al., 2002, p. 190).

Questa vaghezza rappresenta, agli occhi degli autori, un elemento di debolezza dell’analisi, soprattutto alla luce dell’ovvio ‘sospetto’ che il fondamento in questione sia la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, notoriamente una delle proposizioni più controverse dell’impianto analitico marxiano. La scelta degli autori è, programmaticamente, di confrontarsi con il lascito di Lenin provando a ‘depurarne’ la sequenza logica dalle proposizioni meno affidabili sul piano concettuale ed empirico. Il ruolo cruciale attribuito alla categoria della centralizzazione nella spiegazione dell’imperialismo appare quindi giustificata fondamentalmente dal fatto di potersi ‘reggere in piedi’ senza la necessità di postulare correlazioni di natura controversa tra accumulazione di capitale e saggio di profitto.[9]

È altrettanto interessante mettere a confronto la ricostruzione dei ‘nuovi imperialismi’ di BGL con le interpretazioni di Keynes e Polanyi, due studiosi invece completamente estranei all’alveo epistemologico marxista, ma che tuttavia attribuirono agli incentivi materiali degli attori pubblici e privati un ruolo chiave nella spiegazione delle tensioni internazionali che sfociarono nel secondo conflitto mondiale.[10]

Keynes e Polanyi condividevano il giudizio di Marx e Lenin circa l’intrinseca incapacità delle economie capitalistiche di muoversi lungo un sentiero di equilibrio. Tuttavia, sebbene entrambi dimostrassero nei loro scritti profonda consapevolezza di una tendenza spontanea alla concentrazione della produzione,[11] nessuno dei due attribuisce (almeno non esplicitamente) un ruolo cruciale alla “centralizzazione” nella spiegazione della vocazione imperialistica delle grandi potenze dell’epoca. Piuttosto che concentrare l’attenzione sull’analisi ‘micro’ degli effetti dell’evoluzione della struttura proprietaria dell’industria e dell’attività bancaria, entrambi mettevano invece il focus sulle perturbazioni ‘macro’ indotte dalle asimmetrie caratteristicamente attinenti alla dimensione ‘spaziale’.

Diversamente dalla teoria liberale del commercio internazionale, secondo cui “la Gran Bretagna era semplicemente un altro atomo dell’universo del commercio e si collocava esattamente sullo stesso piano della Danimarca o del Guatemala” (Polanyi, [1944] 1974, p. 263), Keynes e Polanyi avevano ben chiaro come i fattori di successo nella competizione sui mercati internazionali fossero legati a variabili dalla distribuzione inevitabilmente sperequata tra le diverse circoscrizioni geo-politiche. Si pensi alle differenze tra stati-continente come gli Stati Uniti e la Cina e stati-nazione come la Gran Bretagna o la Francia con riferimento alla disponibilità di risorse materiali e umane; oppure si pensi alle differenze tra paesi ad industrializzazione avanzata e paesi in via di sviluppo per quanto concerne la posizione nell’assetto di divisione internazionale del lavoro. A giudizio di entrambi, calata dentro questo contesto di sostanziali asimmetrie, la libera competizione su mercati globali avrebbe prodotto una tendenza spontanea allo squilibrio dei saldi commerciali (e quindi alla segmentazione del mondo tra creditori e debitori strutturali). Inoltre, trattandosi caratteristicamente di variabili ad elevato grado di ‘persistenza’ nel tempo, non c’era da aspettarsi che i segnali di mercato fossero in grado di produrre mutamenti strutturali tali da rovesciare rapidamente la distribuzione dei fattori di successo e innescare spontanee dinamiche di aggiustamento.[12]

Le regole del Gold Standard, che impedivano la manipolazione ‘politica’ del valore delle monete nazionali, gettavano ulteriore benzina sul fuoco. Infatti, l’unico modo in cui i paesi in disavanzo potevano far fronte ai pagamenti correnti in valuta era restringere la quantità di moneta, in modo da mantenere i tassi d’interesse a livelli elevati abbastanza da attrarre i capitali esteri necessari alla bisogna (Keynes, [1925] 1968, pp. 189-193; Polanyi, [1944] 1974, p. 262). Tuttavia, le restrizioni monetarie avrebbero aggravato la deflazione e la disoccupazione, indebolendo il consenso delle istituzioni di governo e lasciandole di fronte alla drammatica alternativa tra inasprire il conflitto sociale interno (Keynes, [1925] 1968, p. 188) o scaricarlo all’esterno mediante l’innalzamento di barriere commerciali, l’intensificazione della lotta per il predominio sui mercati internazionali (Keynes, [1936] 2019, pp. 399-400 e 436-37) e forme arbitrarie di interferenza politica nelle proprietà degli investitori esteri (Polanyi, [1944] 1974, p. 264).

Keynes e Polanyi erano entrambi convinti che, alla lunga, le grandi potenze avrebbero finito per abbracciare politiche nazionaliste. E una volta che il protezionismo fosse diventato la cifra distintiva delle politiche nazionali, il rischio di non trovare più sbocchi per le merci nazionali, di non potersi più rifornire di materie prime essenziali per la propria industria e di vedersi espropriare gli asset patrimoniali all’estero, avrebbe fornito evidentemente ai governi robusti incentivi al riarmo (Polanyi, [1944] 1974, p. 276). In tale contesto, la potenza della flotta navale diventava infatti l’argomento più convincente per mantenere aperte le vie commerciali, per riscuotere i crediti dei propri cittadini o per resistere alla pretesa di rimborso dei propri debiti (Polanyi, [1944] 1974, pp. 264-265).

Per entrambi gli studiosi, la deriva imperialista delle relazioni internazionali nel periodo a cavallo delle due guerre mondiali era quindi il risultato di un difetto ‘genetico’ del modello di capitalismo dell’epoca: l’intrinseca difficoltà di coesistenza della moneta-merce, vitale per l’esistenza del commercio internazionale, con la moneta-segno, necessaria per le esigenze del commercio interno (Polanyi, [1944] 1974, p. 247). Gli squilibri del commercio internazionale tendevano infatti ad indebolire la relazione tra i valori di moneta-merce e moneta-segno, costringendo le autorità monetarie nazionali a riallinearli attraverso repentine rimodulazioni delle politiche creditizie, con effetti destabilizzanti sui livelli di attività e occupazione (Keynes, [1925] 1968, p. 191).

Keynes e Polanyi pervengono quindi a valutazioni molto pessimistiche circa le prospettive della pace in un mondo regolato dal principio della libera competizione sui mercati internazionali e dal sistema aureo. Keynes arriva a sostenere che il protezionismo, la penetrazione dei capitali stranieri nella struttura economica di un paese, l’imperialismo economico “sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario” (Keynes, [1933] 1991, pp. 89-90) e addirittura che “[…] non era mai stato escogitato nella storia un metodo altrettanto efficace quanto il regime aureo internazionale per mettere l’interesse di ciascun paese in contrasto con quello dei suoi vicini” (Keynes, [1936] 2019, p. 399).

Negli anni successivi, l’impegno di entrambi si concentrò sulla progettazione di un modello di regolazione delle relazioni economiche internazionali che congiurasse a tenere il mondo al riparo dalla guerra, e più precisamente sul design di una moneta ‘internazionale’ che non entrasse in conflitto con il governo della moneta ‘interna’ in funzione degli obiettivi macroeconomici nazionali. Polanyi chiuderà la sua opera più importante con un vigoroso appello ad abbandonare l’utopia di un mercato autoregolato, a liberare le economie nazionali dalla ‘camicia di forza’ rappresentata dal sistema della base aurea e a restituire ai governi la sovranità economica, condizione a suo avviso necessaria per convincere gli attori in campo ad abbandonare le tentazioni nazionaliste (Polanyi, [1944] 1974, p. 316). Contestualmente, Keynes concepirà l’ambizioso progetto di un sistema monetario internazionale adeguato a incentivare la cooperazione tra i capitalismi nazionali e proverà a difenderlo con tutte le sue energie, con esiti purtroppo sfavorevoli, nei negoziati di Bretton Woods.[13]

A dispetto dell’adozione di una chiave di lettura dell’imperialismo contemporaneo parzialmente differente da quella di Keynes e Polanyi, anche BGL (2022, p. 143) sembrano ritenere che il mondo – dopo aver provato ad aggirare il nodo in vari modi – si trovi oggi di nuovo davanti a quel decisivo crocevia. Vale quindi la pena di dedicare alcune riflessioni conclusive alle questioni attinenti al design delle istituzioni monetarie più o meno esplicitamente sollevati dal volume in oggetto.

3. Istituzioni monetarie e governo politico della centralizzazione capitalistica

Nella bella postfazione al volume di BGL, Scazzieri suggerisce di leggerne la trama in una prospettiva di storia del pensiero economico, sottolineando come le narrazioni mainstream ed eterodossa condividano sostanzialmente una interpretazione della storia economica come una tensione “[…] alla progressiva inclusione di un numero crescente di attori individuali e collettivi nella sfera delle relazioni di mercato a livello globale” (Scazzieri, 2022, p. 227). Le due narrazioni tenderebbero però ad un certo punto a divaricarsi: secondo la prima, gli incentivi allo sfruttamento dei vantaggi comparati condurrebbero alla costituzione di un armonico sistema di interdipendenze tra attori individuali e collettivi, ad una sorta di ‘fine della storia’ in cui la cooperazione internazionale soppianta i nazionalismi; in base alla seconda, invece, il sistema di interdipendenze risultante dal processo di integrazione finirebbe per strutturare relazioni di natura asimmetrica tra gli attori partecipanti, e dentro questo contesto l’operare delle dinamiche concorrenziali genererebbe flussi di liquidità tali da modificare le posizioni relative degli attori attraverso la centralizzazione della proprietà (ibidem). Di qui le reazioni volte a bloccare i processi di centralizzazione in corso e i correlati rischi di deflagrazioni suscettibili di distruggere quegli stessi sistemi di interdipendenze all’origine delle asimmetrie (ivi, p. 229).

Una delle questioni più interessanti sollevate nel volume, soprattutto per le sue implicazioni a fini di policy, ha a che fare con i fattori di innesco del conflitto ‘militare’. Perché in alcuni casi gli attori che escono sconfitti dalla competizione e vengono ‘scalati’ da altri capitali accettano più o meno di buon grado la perdita della sovranità economica e in alcuni casi no? Perché in alcuni paesi (l’Italia è un caso paradigmatico) si afferma una cultura politica secondo cui la nazionalità dei proprietari del capitale produttivo localizzato sul proprio territorio è del tutto irrilevante? E perché invece altrove anche semplici ‘minacce’ di rovesciamento degli assetti proprietari in settori del capitale nazionale considerati strategici suscitano immediate ritorsioni? Per innescare un conflitto, la centralizzazione deve raggiungere certe particolari ‘soglie’? Oppure la centralizzazione è un mero catalizzatore di energia, incapace di combustione in assenza di una ‘miccia’? E, nel caso, quali sono le condizioni scatenanti? È possibile andare un po’ più a fondo nello studio della ‘chimica’ dei conflitti?

Al riguardo, BGL propongono una intrigante chiave di lettura: la variabile decisiva sarebbe la capacità degli attori del sistema di interdipendenze venutosi a creare di istituire centri di regolazione dotati del potere di modulare la velocità del processo di centralizzazione. In particolare, un ruolo centrale in tal senso svolgerebbe l’autorità monetaria. Manovrando il tasso d’interesse, il banchiere centrale può infatti decidere della solvibilità dei capitali ‘deboli’, e quindi decretare se essi debbano essere assorbiti dai capitali ‘forti’ o conservare la propria autonomia. Sul punto, gli autori si distaccano decisamente dalle interpretazioni mainstream della politica monetaria, che descrivono il banchiere centrale come un agente ‘neutrale’, che orienta la propria azione alla minimizzazione degli scostamenti delle principali variabili macroeconomiche dai relativi valori-obiettivo. Al contrario, nella visione di BGL, il ruolo del banchiere centrale sarebbe di natura eminentemente ‘politica’: la fissazione del tasso d’interesse sarebbe cioè finalizzata all’obiettivo di favorire la massima centralizzazione capitalistica sotto il vincolo della sua sostenibilità sociale e politica (Brancaccio et al., 2022, pp. 86-87). Un ruolo chiave in tal senso avrebbe la ‘gradualità’ del processo: diluendo nel tempo il numero delle ‘vittime’ della centralizzazione, il banchiere centrale ostacolerebbe il formarsi di ‘coaguli’ di malcontento di dimensioni tali da mettere a rischio l’integrità dell’assetto istituzionale.[14]

Ovviamente, il focus posto dagli autori sulla banca centrale non esclude che nella regolazione del processo di centralizzazione capitalistica possano avere un ruolo rilevante altre istituzioni di governo delle transazioni economiche, come parlamenti nazionali e federali, o autorità di regolazione della concorrenza. In questa direzione sembra muoversi, del resto, il già citato contributo di Scazzieri quando, traducendo la questione in termini di “compatibilità tra aspetti materiali e aspetti istituzionali di interdipendenza” generate dalla divisione internazionale del lavoro (Scazzieri, 2022, p. 229, corsivo aggiunto), suggerisce implicitamente che il modello interpretativo di BGL possa essere portato ad un livello di astrazione ancora più elevato. Alla luce di tale proposta analitica, la diluizione dell’intensità dei conflitti legati alla centralizzazione capitalistica richiederebbe istituzioni in grado di rappresentare gli interessi in campo e di favorire soluzioni di compromesso. Dove invece istituzioni di governo ‘politico’ della centralizzazione non esistono o hanno capacità di mediazione insufficiente, i conflitti intercapitalistici non possono che esprimersi sui piani della ‘minaccia’, della ‘ritorsione’ o addirittura della guerra propriamente detta. In questa ottica, il governo della moneta sarebbe solo una tra le potenziali modalità di controllo della velocità della centralizzazione.

La peculiare caratteristica della moneta di intersecare trasversalmente tutte le altre dimensioni della governance economica ha tuttavia contribuito a darle una rilevanza centrale nella riflessione teorica sui temi di economia monetaria internazionale. In particolare, nella tradizione eterodossa sembra ormai acquisito che la dialettica tra allargamento delle interdipendenze economiche ed evoluzione delle istituzioni monetarie internazionali non sia per niente ‘lineare’, ma sia invece caratterizzata da una problematica ‘ricorsività’. Da un lato, la tendenza all’inclusione di un numero crescente di agenti individuali e collettivi nella sfera delle relazioni di mercato trova un limite significativo nella instabilità dei rapporti tra le valute, e spinge quindi gli attori in campo a progettare assetti istituzionali in grado di azzerarne o quantomeno contenerne le oscillazioni. Dall’altro, come sostenuto da Keynes e Polanyi, la stabilità dei rapporti tra le valute in un mondo di asimmetrie tra gli attori delle relazioni di mercato sottrae flessibilità al sistema, e crea i presupposti di squilibri tendenti a riflettersi in posizioni strutturali di credito e debito, e quindi alla lunga in processi di centralizzazione che attraversano i confini nazionali e finiscono per minacciare la stessa struttura di interdipendenze così faticosamente costruita.

Il modello interpretativo proposto nel volume aiuta quindi a spiegare il motivo per cui il dilemma del design della moneta internazionale si riproponga con tanta regolarità nella storia dell’ultimo secolo, nonché il motivo della sua stretta interconnessione con le tensioni internazionali. Il faticoso processo di ricucitura del Gold Standard dopo il primo conflitto mondiale, il controverso approdo di Bretton Woods, gli esperimenti che seguirono il Nixon Shock, il percorso dell’Europa verso la moneta unica potrebbero essere letti, alla luce del lavoro di BGL, come momenti del progressivo adattamento dell’assetto delle istituzioni monetarie internazionali al grado di centralizzazione di volta in volta raggiunto dal sistema, nella prospettiva di impedire al conflitto tra i capitali di degenerare in forme potenzialmente letali.

Ci sembra quindi che il volume ponga apertamente la questione della compatibilità tra la profondità della divisione internazionale del lavoro raggiunta in questo scorcio della storia con il regime monetario attualmente in vigore. Più precisamente, BGL sollevano implicitamente l’interrogativo se la globalizzazione possa continuare a reggersi su una moneta fiduciaria prodotta dal principale debitore del sistema. Sottolineando, quanto mai opportunamente, il rischio che per scoprirlo sia necessaria una guerra (Brancaccio et al., 2022, p. 12).

Riferimenti bibliografici

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Note

1) Una tradizione di pensiero lunga e prestigiosa – che annovera tra i suoi esponenti Quesnay, Say, Mill e Schumpeter– interpreta gli interessi materiali come un potente fattore di promozione di relazioni pacifiche tra le nazioni. Secondo costoro, imbracciare le armi significherebbe sganciarsi dalla rete del commercio internazionale, e rinunciare quindi ai benefici associati alla divisione internazionale del lavoro. Le guerre sarebbero invece l’esito caratteristico di politiche statali (protezionismo, colonialismo) orientate a procurare privilegi esclusivi a piccoli gruppi di cittadini a discapito dell’interesse generale della popolazione. Pertanto i conflitti militari tenderebbero a rarefarsi man mano che le nazioni si allontanano da forme di governo autocratico e si avvicinano al modello della democrazia: in tale assetto istituzionale, infatti, l’interesse delle maggioranze per la pace verrebbe ad assumere un peso decisivo nelle decisioni politiche. Il fattore chiave ai fini dell’armonia delle relazioni internazionali non sarebbe quindi l’organizzazione economica, bensì il modello di organizzazione politica delle comunità. Per una rassegna su questo filone di pensiero, cfr. Allio (2014, capp. 1 e 2). Per una rassegna degli sviluppi più recenti della letteratura sul rapporto tra commercio internazionale e conflitti militari, cfr. Caruso (2017, cap. 4).

2) Dalla rassegna della letteratura proposta nel cap. 4 della prima parte del volume, emerge una estrema varietà di posizioni sul punto. Anche volendo limitarci al solo dibattito di area marxista, il paesaggio è tutt’altro che omogeneo. Marx (1894) sostiene molto chiaramente che la centralizzazione dei capitali, sganciando sempre più nettamente il controllo dalla proprietà, favorirebbe negli attori imprenditoriali (e nelle istituzioni finanziarie che ne controllano l’approvvigionamento di risorse) comportamenti caratterizzati da un’eccessiva propensione al rischio, accentuando in tal modo l’instabilità e la sovrapproduzione nel sistema. Seguendo linee argomentative diverse, Hilferding ([1910] 2011) e Baran e Sweezy ([1966] 1968) giungono invece entrambi a posizioni in sostanziale conflitto con le affermazioni di Marx sul punto.

3) Questa questione è invece al centro di un altro volume di uno degli autori (Brancaccio, 2022), cui rinviamo il lettore più specificamente interessato al tema.

4) Per una interpretazione in tal senso del neo-mercantilismo statunitense, cfr. Guerrieri (2021, pp. 81-94).

5) In realtà, già durante la presidenza di Bush jr., gli Stati Uniti avevano assunto atteggiamenti in esplicito contrasto con la retorica liberista ogni volta che erano venuti in gioco interessi ‘strategici’. Si pensi ad esempio alla risoluzione con cui nel 2005 il congresso mise il veto sull’offerta di acquisto della compagnia petrolifera americana Unocal da parte della China National Offshore Oil Company (cfr. Arrighi, [2007] 2008, pp. 310-312; Roubini, [2022] 2023, p. 152). La strategia di contrasto alla penetrazione cinese si è poi fatta più capillare durante la presidenza Obama, con le inchieste avviate nel 2012 su Huawei e ZTE e la conseguente esclusione di entrambe dagli appalti pubblici negli Stati Uniti (cfr. Tooze, 2021, pp. 224-226).

6) Il conflitto tra obiettivi economici e posizionamento geopolitico è particolarmente evidente nel caso della Germania. Sul punto, cfr. Halevi (2022).

7) Le ragioni geopolitiche che spingono i vicini della Cina a coalizzarsi contro di essa, a dispetto dei comuni interessi economici, sono ben illustrate in Mearsheimer ([2001] 2019, pp. 376-427).

8) “La Unocal […] sembra esattamente il tipo di azienda che il governo cinese vorrebbe controllare se avesse in mente una specie di ‘grande gioco’ in cui le maggiori potenze economiche sgomitano per l’accesso a vaste riserve di petrolio e gas naturale […]. Fosse per me, bloccherei l’offerta cinese per Unocal” (Krugman, 2005, mia traduzione).

9) Per un altro recente tentativo di razionalizzazione teorica dell’imperialismo che prova a prescindere dalla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, cfr. Hauner et al. (2017).

10) I momenti della produzione scientifica dei due studiosi in cui più compiutamente viene affrontato il tema sono Keynes ([1936] 2019, cap. 23) e Polanyi ([1944] 1974, cap. 16, 17 e 18). Per un confronto tra le rispettive posizioni, si consenta il rinvio a D’Acunto (2005).

11) Cfr. ad esempio Keynes ([1926] 1991) e Polany ([1928] 1993).

12) In particolare, entrambi ritenevano poco realistico un processo di aggiustamento dei salari e dei prezzi interni in grado di livellare la competitività internazionale. Sul punto, cfr. Keynes ([1925] 1968, p. 185) e Polanyi ([1944] 1974, pp. 245-246).

13) Per una ricostruzione dell’impegno di Keynes in questo ambito, cfr. Fantacci (2016).

14) Gli autori interpretano in questa ottica, ad esempio, la parabola della politica monetaria dell’Eurozona. La Banca centrale europea (BCE), disegnata con l’obiettivo esplicito di elevare le soglie minime di solvibilità, in modo da favorire la scomparsa dei capitali più deboli o la loro acquisizione da parte dei più forti (sul punto, cfr. anche Brancaccio e Cavallaro, 2011, p. XXXV), sarebbe stata poi costretta dall’ondata di insolvenze seguita alla crisi del 2008 a “tarare diversamente la regolazione del conflitto” tra creditori e debitori (Brancaccio et al., 2022, p. 90). I cosiddetti programmi di ‘alleggerimento quantitativo’ praticati a partire dal 2012 andrebbero cioè interpretati come il necessario baluardo alzato dalla BCE contro il rischio del coagulo degli interessi dei capitali a rischio di insolvenza sotto le bandiere del nazionalismo economico.

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Palestina. Attacchi palestinesi contro militari e coloni israeliani. Un morto e nove feriti

Sono saliti a quattro i militari israeliani feriti dall’esplosione di un ordigno a Nablus, in Cisgiordania. Le immagini diffuse in rete mostrano un’alta colonna di fumo erigersi dal luogo dell’esplosione.

L’attacco è stato rivendicato dalle Brigate al Quds, braccio militare della Jihad islamica. L’attacco esplosivo è avvenuto “nel quadro della risposta alla continua aggressione contro il nostro popolo nella città di Nablus e nei suoi campi, e in risposta ai crimini dell’occupazione sionista contro il nostro popolo palestinese in difficoltà”, ha rivendicato l’organizzazione palestinese. Sempre a Nablus, ieri si sono verificati scontri armati tra palestinesi e militari israeliani.

Ieri sera, il gruppo armato palestinese “la Tana dei Leoni” ha annunciato che uno dei suoi membri è stato ucciso “durante i preparativi per affrontare il nemico sionista a est di Nablus”.

La Tomba di Giuseppe, dove è avvenuto l’attentato, si trova nel villaggio di Balata, alla periferia di Nablus, all’interno dell’aerea A della Cisgiordania, sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), ma i militari israeliani entrano spesso nella zona scortando i fedeli ebrei che vogliono visitare la Tomba di Giuseppe.

Intanto un altro israeliano è morto e altri cinque sono stati feriti questa mattina in uno speronamento avvenuto vicino al check point Maccabim, a circa 20 chilometri a nord-ovest di Gerusalemme, lungo la strada 443 che collega Tel Aviv con Gerusalemme. Secondo quanto riferito dei servizi sanitari israeliani, uno dei feriti sarebbe in gravi condizioni. La polizia israeliana ha detto che l’aggressore ha investito gli israeliani con un camion, è fuggito ma in seguito è stato ucciso.

In risposta ai raid israeliani in Cisgiordania le organizzazioni palestinesi continuano a perseguire la politica del colpo su colpo.

Per motivi collegati ma diversi resta tesa la tensione a Tulkarem dove ieri la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) ha ucciso un giovane e ne ha ferito un altro durante scontri a fuoco con combattenti palestinesi nel campo profughi di Tulkarem seguiti alla rimozione di barriere erette per impedire l’ingresso di mezzi militari israeliani.

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Libia - La “furbata” con Israele colpo di grazia per il governo di Tripoli?

Le manifestazioni di protesta in Libia per l’incontro segreto avvenuto la scorsa settimana a Roma tra i ministri degli Esteri di Libia e Israele, sono arrivate fino all’assalto alla residenza dell’attuale premier Dabaiba e potrebbero avere pesanti conseguenze sulla stabilità del Governo di unità nazionale della Libia “riconosciuto” dalla comunità internazionale.

La ministra degli Esteri libica è fuggita a Londra, dopo aver lasciato il Paese a bordo di un jet privato.

Le proteste anti-governative e anti-israeliane si sono svolte sia nella capitale Tripoli che in altre città libiche come Zawiya e Misurata, sede di potenti milizie che non solo rifiutano ogni normalizzazione con Israele, ma adesso chiedono anche le dimissioni del premier “ad interim”, Abdulhamid Dabaiba.

Fonti libiche indicano che l’incontro informale tra Mangoush e Cohen era stato autorizzato dal capo dell’esecutivo, che ieri si è affrettato a visitare l’ambasciata palestinese a Tripoli, annunciando la rimozione di Mangoush dall’incarico e ribadendo un secco “no” a ogni tentativo di instaurare relazioni con Israele, ma potrebbe essere una mossa tardiva.

La Camera dei rappresentanti libica – da tempo in rotta con il premier Dabaiba – ha raccomandato che il Comitato 6+6 per redigere le “regole” per andare alle auspicate elezioni (forse nel 2024) non permetta a chi abbia avuto contatti con Israele di candidarsi alle elezioni.

Pochi giorni fa, il governo libico di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite aveva subito un duro colpo dagli Stati Uniti, che per la prima volta avevano sostenuto l’idea di insediare un nuovo governo tecnico per traghettare il Paese alle elezioni, scaricando di fatto Dabaiba.

Intanto a est della Libia l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar ha rafforzato i rapporti con Mosca grazie alla visita a Bengasi del viceministro russo Yunus-Bek Yevkurov.

Sul campo la Brigata Tariq bin Ziyad di Saddam Haftar, figlio dell’uomo forte della Cirenaica, ha lanciato un’operazione militare di terra e aerea contro i gruppi dell’opposizione ciadiana e le milizie delle tribù Tebu nel Fezzan, la regione meridionale libica ricca di petrolio e miniere d’oro al confine con Ciad e Niger.

È la conferma che la Libia rimane un paese instabile, teatro di scontri e divisioni tra coalizioni politiche e militari rivali, di fatto senza un governo eletto ma solo “riconosciuto” e legittimato dall’estero ma inconsistente all’interno del paese.

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Gabon, la decolonizzazione travolge l'ultima "enclave neocoloniale"

Strage in ferrovia, dopo tagli ed esternalizzazioni

Una strage sul lavoro. Come tante altre e che fa notizia anche sui media di regime non solo per la dimensione – cinque morti – ma anche per l’orrore delle modalità.

I cinque operai, insieme ad altri due rimasti casualmente solo sfiorati, sono stati travolti da un treno mentre stavano lavorando sui binari della linea ferroviaria Torino-Milano, vicino alla stazione di Brandizzo, in Piemonte.

I corpi di Michael Zanera, 34 anni, di Vercelli; Giuseppe Sorvillo, 43 anni, di Brandizzo; Saverio Giuseppe Lombardo, 52 anni, di Vercelli; Giuseppe Aversa, 49 anni, di Chivasso; Kevin Laganà, 22 anni di Vercelli sono stati frantumati e sparsi nel raggio di centinaia di metri.

I due sopravvissuti sono rimasti sotto choc. Così come il macchinista del treno, in cabina con un secondo collega, come da regolamento rimasto in vigore, nonostante i pluridecennali tentativi di sostituirlo con un meccanismo “automatico” risalente agli anni '30 del secolo scorso e chiamato significativamente “uomo morto”, perché si attiva solo quando il macchinista alza il piede da un pulsante, nel caso di un malore.

Ora, come sempre, si parla delle indagini, della visione delle telecamere sul tracciato e in cabina, ecc.

E certamente i dettagli tecnici di questa singola tragedia dovranno essere accertati con molta attenzione.

Ma quel che si sa è sufficiente a far dire che la responsabilità principale sta nella logica del “taglio dei costi” applicata alle ferrovie come a centomila altre imprese, non importa se pubbliche (come le Fs) o private.

Lasciamo parlare i fatti.

I cinque operai erano tutti dipendenti della società Sigifer di Borgo Vercelli, non ferrovieri. Un classico caso di “esternalizzazione”, insomma, che vede lavoratori non del settore muoversi in un ambiente altamente pericoloso e che conoscono solo per sommi capi, chi con più esperienza, chi con meno.

Certamente esistono procedure che governano i casi di manutenzione della linea (si tratti di binari o di linee elettriche), e altrettanto certamente saranno state rispettate per come si può in piena notte, con l’ordine di fare presto e senza interrompere il traffico (peraltro già molto limitato dall’ora).

In quelle condizioni, insomma – fretta, scarsa visibilità, lavoratori di settori e aziende diverse (metalmeccanici e ferrovieri) – è molto più facile che si creino quei “difetti di comunicazione” che ora vengono invocati come “cause” della strage anziché come “risultati” pressoché inevitabili di ristrutturazioni, riduzioni di personale, esternalizzazioni e subappalti.

Due numeri per capire di cosa si sta parlando.

Il treno investitore stava viaggiando a 160 chilometri l’ora. Quindi il macchinista non sapeva che c’erano lavori in quella tratta, oppure era stato male informato sul luogo esatto. Altrimenti avrebbe ridotto la velocità fino ad andare a passo d’uomo.

E gli operai, a loro volta, non erano in condizioni di poter sentire che il convoglio stava arrivando (e pure, a quella velocità, fa un rumore impressionante).

Attualmente, certifica il sito di Ferrovie dello Stato, sono circa 83.000 i dipendenti diretti, tra personale viaggiante, dirigenti, impiegati, addetti alla sicurezza, ecc.

Erano 220.000 prima della “cura” neoliberista, che vide tra i principali protagonisti Mauro Moretti, ex segretario generale della Filt Cgil che saltò dall’altro lato della barricata venendo nominato amministratore delegato del gruppo Fs (finendo per essere processato per la strage di Viareggio).

Era l’epoca della grandi “privatizzazioni”, studiate da Mario Draghi (allora “solo” direttore generale del ministero del Tesoro), decise dai governi di centrodestra e centrosinistra (da Berlusconi a Prodi, a D’Alema), controfirmate da Pierluigi Bersani come ministro dello sviluppo economico.

In pratica, con una rete ferroviaria praticamente delle stesse dimensioni, con un core business focalizzato sull’alta velocità a discapito delle tratte regionali (oramai quasi totalmente delegate ad aziende subcontrollate, con una mission “manageriale” orientata al massimo risparmio), con un mare di aziende private collaterali chiamate a svolgere singoli lavori (come la Sigifer della tragedia di cui ci stiamo occupando) lavora appena un terzo dei dipendenti di 30 anni fa.

Se cercate una ragione, delle cause vere e dei colpevoli, dovete cercare nella fame di profitto, nel “taglio della spesa pubblica”, nella politica e nel management.

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Reazioni e commenti:

Non parlate di incidente!

Michael Zanera, 34 anni, di Vercelli; Giuseppe Sorvillo, 43 anni, di Brandizzo; Saverio Giuseppe Lombardo, 52 anni, di Vercelli; Giuseppe Aversa, 49 anni, di Chivasso; Kevin Laganà, 22 anni di Vercelli Sono stati assassinati stanotte mentre lavoravano sulla linea ferroviaria Torino-Milano, uccisi dalle privatizzazioni e dalle liberalizzazioni delle ferrovie.

Nel porgere alle famiglie le nostre più sentite condoglianze, vogliamo denunciare con forza questa logica che ha portato alla proliferazione di appalti e subappalti: tutto fatto per poter sfruttare di più i lavoratori e impedire agli stessi di organizzarsi.

Ma questa frantumazione del lavoro diventa anche frantumazione dell’organizzazione del lavoro: Questa è la causa della morte di questi 5 operai.

Ken Loach ci ha fatto addirittura un film, nel 2001, perché i disastri delle privatizzazioni introdotte in Inghilterra dalla Thatcher e riprodotte in Italia dai liberisti di casa nostra, sono noti da tempo. Basta con le liberalizzazioni, basta con le privatizzazioni: occorre ricostruire una azienda pubblica che gestisca il trasporto su rotaia in Italia.

Per cambiare questo andazzo FIRMATE LA LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE sostenuta da Unione Popolare che vuole introdurre nel codice penale il reato di omicidio sul lavoro, come fatto in passato con l’omicidio stradale. UN OMICIDIO NON È UN INCIDENTE!

Paolo Ferrero

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Fermiamo la strage!

Mobilitiamoci per il reato di omicidio sul lavoro!

Superata la quota di 750 omicidi sul lavoro nel 2023, questa mattina l’ennesima strage di operai ferrovieri a Brandizzo!

È il momento di fermare la guerra interna contro i lavoratori e lavoratrici nel nostro paese e introdurre il reato di omicidio sul lavoro!

Anche come Potere al Popolo e Unione Popolare sosteniamo e invitiamo alla mobilitazione!

Sosteniamo lo sciopero di 24h delle ferrovie lanciato dall’Usb dalle 15 di oggi e quello di domani degli operai dell’ USB Piaggio , indicando nel presidio di Lunedì 4 settembre ancora alla Piaggio di Pontedera(Ingresso stazione ferroviaria) un momento di rilancio della mobilitazione contro gli omicidi sul lavoro anche sul nostro territorio!

Insieme al comitato provinciale, a sostegno della campagna contro gli omicidi sul lavoro, sarà presente anche Emma Marrazzo: madre di Luana D’Orazio, operaia uccisa il 3 maggio 2021 a Montemurlo dalla manomissione delle misure di sicurezza dei telai della fabbrica dove lavorava, scientemente rimossi per aumentare la produttività e il profitto dei padroni!

Potere al Popolo

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Spiato Marco Cappato. Un “vizietto” duro a morire

Il portavoce dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato ha denunciato di essere spiato tramite un troyan ed ha chiesto alla premier Giorgia Meloni di verificare se sia spiato dai servizi.

Marco Cappato, oltre alla battaglie sul diritto al fine vita è anche candidato alle elezioni suppletive di Monza per il seggio del Senato che fu di Silvio Berlusconi

“Chiedo formalmente alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni di verificare se corrisponda al vero l’informazione a me giunta anonimamente che dal febbraio 2023 sarei sottoposto a captazione informatica del telefono, cioè intercettazione permanente e totale, attraverso Trojan di Stato e che siano in corso intercettazioni con microcimici nelle mie sedi abituali di lavoro e di vita dal marzo di quest’anno”, ha denunciato Cappato in un intervento sui social.

Cappato ha dichiarato che “il monitoraggio sarebbe ad opera dell’Agenzia informazioni e sicurezza, Aisi, su richiesta del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica, Dis, autorità delegata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri”.

Le intercettazioni, secondo Cappato, sarebbero disposte “per eventuali ipotesi di contestazione del reato di associazione sovversiva ed eventuali reati riscontrati in fase di indagine. Nel caso in cui questa informazione, che potrebbe anche riguardare le persone con le quali collaboro da anni, dovesse essere in tutto o in parte corrispondente al vero, allora – ha aggiunto – chiedo alla presidente del consiglio dei ministri Giorgia Meloni di disporre immediatamente interruzione di tale attività perché in patente violazione con il libero esercizio dei diritti civili e politici fondamentali previsti dalla nostra Costituzione, che la Repubblica italiana ha l’obbligo di rispettare anche in virtù dell’avere ratificato tutti gli strumenti internazionali dei diritti umani. Quindi chiedo su questo una risposta immediata”.

Immediata è arrivata la risposta della vera “anima nera” di Palazzo Chigi, il sottosegretario con delega ai servizi segreti Mantovano: “Escludo nel modo più assoluto che vi sia o vi sia stata attività di intercettazione nei confronti dell’on. Marco Cappato”.

Fin qui, dunque, c’è la denuncia di un esponente politico e la negazione del responsabile del governo in materia sull’eventuale spionaggio dei servizi segreti di Stato ai danni del primo.

Ma se Marco Cappato afferma di aver rilevato un captatore informatico, più noto come troyan, nel proprio telefono ed anche nei locali dove agisce con la propria associazione, chi ha il potere e le competenze per averglielo installato?

È utile, in tal senso, andarsi a rileggere le pagine del recente libro-intervista di “uno del mestiere” come Luigi Bisignani e di cui abbiamo già parlato sul nostro giornale.

Nel libro “I potenti al tempo di Giorgia Meloni” Bisignani, noto anche come “l’uomo che sussurrava ai potenti”, parla infatti di “400 utenze captate” dall’Intelligence, utenze “su vari personaggi che ruotavano intorno al suo mondo (di Meloni, ndr)”, tra cui rientra “anche qualche giornalista”. Secondo Madron e Bisignani i Servizi Segreti italiani hanno insomma attenzionato, sorvegliato, controllato centinaia di persone. Con una domanda che pesa come macigno: con quale tipo di autorizzazione? Sembrerebbe nessuna.

In un passaggio interessante del suo libro, “uno del mestiere” come Luigi Bisignani scrive che l’intelligence italiana effettuerebbe centinaia di intercettazioni preventive. Le intercettazioni preventive sono legittime per i servizi segreti ma occorre che siano autorizzate preventivamente da un magistrato.

Ma quelle indicate non sarebbero intercettazioni come quelle che subiscono gli indagati: in questo caso non rimangono degli atti, vengono effettuate dai servizi segreti motu proprio, senza alcuna finalità giudiziaria. Servono ufficialmente a capire “se ci sono dei potenziali rischi per la tenuta del sistema istituzionale ed economico del Paese”.

Non solo. Nel libro ci sono infatti sedici pagine dedicate alla passione della Meloni per l’intelligence e il lavoro degli 007, con dettagli sul ruolo di Mantovano, attuale segretario alla Presidenza del Consiglio e uomo chiave della “cabina di regia” nella violenta repressione delle manifestazioni al G8 di Genova, nel luglio 2001.

L’attività di Marco Cappato e dell’Associazione Luca Coscioni non può certo considerarsi “eversiva”, così come quella di alcuni gruppi ecologisti.

Magari scomoda e di rottura, visto che sul diritto al fine vita le resistenze oscurantiste in Italia sono fortissime. Ma che, secondo Cappato, l’Aise (i servizi segreti per il fronte interno) monitori anche questo tipo di attività, da un lato sorprende, dall’altro meno. Anche perché nelle fisime dei servizi non sempre c’è l’obbligo di ricorrere all’autorizzazione di un magistrato, e le strade che portano a spiare esponenti politici, sociali o dell’informazione sono infinite e indefinite per i criteri di noi semplici mortali.

Esistono infatti dei trojan dei servizi segreti che possono essere installati nei sistemi di destinazione da remoto a insaputa dell’utente e senza alcuna interazione da parte sua. Il software Pegasus del produttore israeliano NSO, ad esempio, viene distribuito tramite la rete del telefono cellulare ed è stato creato appositamente per lo spionaggio di massa di oppositori politici o presunti tali.

Una procedura diventata talmente semplice da poter essere estesa ad libitum senza particolari sforzi o autorizzazioni in base al criterio di “meglio saperne di più non guasta”.

Se lo spionaggio di massa è diventata una possibilità a buon mercato, i servizi non possono che approfittarne.

Per ora il Sottosegretario Mantovano ha smentito. È stata presentata una interrogazione parlamentare a cui il governo dovrà rispondere ma Cappato sembra disporre di prove e informazioni che potrebbero nuovamente scuotere la nebbia che, da sempre, circonda l’attività dei servizi segreti italiani o delle loro “estensioni motu proprio” che, come tutte le estensioni, possono fare guai, soprattutto se vengono “sgamate”.

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Politica che comanda l’economia. Il segreto della Cina

Ragionare in termini ideologici (non “teorici”, che è all’opposto attività molto seria) porta sempre in un buco nero del pensiero da cui non si sa più come uscire.

È quel che avviene quasi sempre quando si prova a dare un giudizio sulle società “di transizione” dal capitalismo come lo conosciamo qui in Occidente (il neoliberismo praticamente senza freni) ad altre forme più o meno “progettate”.

In genere ci si ferma quasi subito di fronte alla domanda “è socialismo oppure no?”. Siccome la domanda è posta quasi sempre in termini, appunto “ideologici” – come se una società reale potesse corrispondere a criteri astratti, per altro molto variabili da “pensatore” a “pensatore” – la risposta non può che essere sempre negativa. Sia che si parli dei Soviet negli anni Venti o successivi; sia che di parli di Cina (nei vari periodi post-rivoluzione); sia che si discuta di paesi latino-americani (da Cuba “in giù”).

In effetti si deve dire che nessuna di queste società è “perfettamente socialista”. E neanche i gruppi dirigenti di quei paesi sono così ingenui da sostenerlo.

Stanno guidando società complesse – certo molto di più dei ristretti circoli di “pensatori” che le giudicano – con risultati assai diversi tra loro. Del resto sono ognuna il risultato di evoluzioni, tradizioni, culture, risorse differenti. E nessuno mai, salvo che nei sogni solitari notturni, può pensare che basti uno schiocco di “decreti rivoluzionari” per avere il mondo perfetto.

La premessa serve ad introdurre un piano di riflessione molto più concreto e “laico”, non ideologico, appunto.

E l’occasioni giusta ci sembra questo articolo – come sempre acuto – di Guido Salerno Aletta apparso su MilanoFinanza, che certo è non il tempio del comunismo...

Al contrario delle narrazioni catastrofiste che appaiono sul Corriere o su Repubblica, secondo cui difficoltà e fallimenti nel settore immobiliare, oppure il sostanziale controllo pubblico imposto su Alibaba, “proverebbero” – a giorni alterni – che “il modello cinese sta crollando” oppure che “la dittatura reprime le ‘isole di libertà’ imprenditoriale”, Salerno Aletta apre in modo lapidario: “La politica cinese sta virando decisamente a sinistra”.

Per dirlo usa i criteri normali nel ‘libero mercato’. Ossia: come viene redistribuita la ricchezza prodotta? Aumentando a dismisura i profitti aziendali oppure aumentando salari, consumi, servizi per l’insieme della popolazione?

Qui da noi, in particolare in Italia, sappiamo come va. I salari continuano a calare da trenta anni, e l’inflazione degli ultimi due anni sta dando loro la mazzata finale. Un quarto dei lavoratori guadagna meno di 9 euro l’ora (1.100 nette al mese, grosso modo), e molti di loro meno di quanto costa un affitto in città.

Tutti i guadagni di produzione o di Pil finiscono alle imprese, agli evasori fiscali, alle migliaia di “intermediatori” posizionati tra lavoro e salario, tra bisogni e loro soddisfazione. Per esempio, la sanità privata...

Al contrario, spiega Salerno Aletta con categorie e dati che sarebbero riconosciuti anche alla Bocconi, a Pechino il “processo di crescita […] viene sempre più ricondotto verso obiettivi di sviluppo in cui il benessere economico deve essere sostenibile dal punto di vista ambientale, demografico e finanziario”. Non fatelo sapere a Rampini, potrebbe venirgli un infarto...

Segue una lunga lista di politiche messe in atto in questi ultimi anni, sotto la direzione di Xi Jinping, che vanno razionalmente in questa direzione. Comprese le “politiche a favore della natalità” – su cui sparano castronerie inascoltabili quasi tutti i parlamentari nostrani – che, guarda un po’ vertono su salari crescenti, servizi sociali, diritto alla casa, tendenziale eliminazione della scuola privata (ridotta a “funzione no profit”!), ecc.

Ci vuole proprio tanto a capire che – qualsiasi scelta di vita individualmente si faccia – si faranno più figli se si ha un reddito sufficiente a mantenerli, curarli, istruirli, farli socializzare in modo razionale e senza abbandonarli per strada?

Le politiche italiane, tutte coerenti con il dogma neoliberista, hanno prodotto il risultato che conosciamo: dall’oltre un milione di nuovi nati l’anno (anni ‘60) a meno di 400.000. Politiche, insomma, non solo “depressive” sul piano economico, ma decisamente mortifere su quello sociale.

Viene da pensare alla definizione marxiana di proletariato: “coloro che possiedono come ricchezza unicamente i loro figli”. Ora più neanche quelli...

Il punto vero è dunque concettualmente semplice: se in una formazione sociale sono gli interessi privati a determinare le scelte della politica (collettive, forzatamente), abbiamo un sistema fondamentalmente neoliberista.

Se invece abbiamo una formazione sociale in cui sono gli obiettivi politici ad orientare, secondo un piano sempre aggiornabile nel tempo, le forze economiche ed anche gli interessi privati, allora abbiamo un sistema di economia mista (pubblico e privato).

Poi, naturalmente, non tutte le politiche sono uguali. Alcune possono andare nel senso della costruzione del socialismo, altre certamente no. Ma che si discuta concretamente, nel merito, non per schemi idealistici.

Da notare, infine, come la Storia si ancora una volta molto ironica. Mettendo al centro l’aumento dei consumi popolari Pechino sta (paradossalmente?) scalzando gli Stati Uniti dal ruolo di “compratore globale di ultima istanza“. Ergo, di potenza tendenzialmente egemone...

Non vi tedieremo oltre e vi lasciamo alla lettura dell’articolo di MilanoFinanza.

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La Cina è il nuovo compratore globale di ultima istanza

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza

La politica cinese sta virando decisamente a sinistra. Il liberismo guidato politicamente, il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ che l’ha caratterizzata per oltre un trentennio, da quando Deng Xiaoping aveva accettato un processo di crescita in cui qualcuno potesse arricchirsi prima degli altri, viene sempre più ricondotto verso obiettivi di sviluppo in cui il benessere economico deve essere sostenibile dal punto di vista ambientale, demografico e finanziario.

La crisi americana del 2008, con il crollo del commercio internazionale che aveva prodotto, aveva già indotto la prima grande mutazione, spostando il vettore della crescita cinese dalle esportazioni al mercato interno e individuando una serie di obiettivi strategici a lungo termine, di indipendenza tecnologica, che spostavano verso l’alto la posizione della Cina nella divisione internazionale del lavoro.

Il duplice mutamento di allora, verso l’interno e verso l’alto, non aveva intaccato ma anzi enfatizzato la dinamica in termini quantitativi, con la crescita del ceto di persone molto ricche da una parte e di una fascia di milioni di famiglie benestanti, tutte assai attente dal punto di vista dei valori e dei consumi a ripetere i paradigmi occidentali.

Parallelamente si erano andati sviluppando modelli di investimento di tipo speculativo, sia nel settore immobiliare che in quello degli asset di borsa, mentre l’economia reale continuava ad ampliare le dimensioni dell’industria di base e pesante, con un aumento del fabbisogno energetico, senza ridurne l’intensità rispetto al pil e quindi con consumi crescenti di carbone e delle emissioni di CO2.

Ancora oggi, nonostante ne sia stato traguardato al 2060 l’obiettivo della parità, la Cina non ha ancora raggiunto il picco di crescita delle emissioni.

Sempre in termini prospettici, per quanto riguarda il fattore demografico, sono state assunte decisioni importanti a favore della natalità per evitare che si concretizzasse la triste profezia secondo cui la Cina sarebbe diventata un Paese vecchio prima di essere riuscito a diventare ricco.

Gli interventi politici di questi ultimi mesi, addirittura eclatanti nel caso del blocco dell’ipo della Ant di Jack Ma, indicano la volontà di evitare che le istituzioni finanziarie tradizionali debbano subire l’ingresso di nuovi concorrenti spregiudicati, in aggiunta al già radicato fenomeno dello shadow banking.

Il settore finanziario è stato messo sotto attenta osservazione, non solo per evitare il ripetersi delle speculazioni di borsa già determinate dal delisting di imprese cinesi quotate negli Usa per beneficiare di un mercato interno assai liquido, ma anche per cercare di anticipare quello sgonfiamento della bolla dei valori azionari con cui prima o poi dovrà confrontarsi anche la Federal Reserve.

Ancora, il lancio ufficiale dello yuan digitale è stato un altro segnale preciso, che ha avuto il duplice scopo di avviare la sperimentazione di una valuta capace di aggiungersi in prospettiva alle transazioni commerciali internazionali ora monopolizzate dal dollaro e di tagliare l’erba alla crescita incontrollata delle criptovalute.

In questi ultimi mesi si è visto un rallentamento anche del credito e delle aste di terreni edificabili, che ha avuto come conseguenza un andamento riflessivo della dinamica del settore delle costruzioni e delle attività produttive connesse, in particolare del ferro, e dei valori immobiliari: «Le case si costruiscono solo per abitarle», è lo slogan del momento, che indica la volontà di stroncare sul nascere ogni fenomeno speculativo. Il colpo di freno va dato assai prima che il settore inizi a sbandare.

La «prosperità condivisa» è divenuto il nuovo obiettivo unificante delle misure di indirizzo e controllo dell’economia cinese per evitare che i modelli di mercato e di competizione economica che ne derivano siano confliggenti con gli obiettivi di coesione sociale.

C’è stato ad esempio un intervento deciso per ridimensionare il settore dell’istruzione privata, che si è sviluppato per la preparazione dei giovani che si accingono a sostenere l’esame di Stato per accedere alle università e, in relazione al punteggio acquisito, ai migliori atenei.

Mentre questo settore dovrà trasformarsi in organizzazioni no-profit, il settore pubblico ha deciso di finanziare in modo assai ampio il sostegno scolare: si cerca di ridurre così l’elevato e crescente costo di mantenimento dei figli cui vanno incontro le famiglie, che disincentiva la politica a favore della natalità che pure è stata intrapresa.

Il sostegno pubblico a favore delle famiglie con prole rischiava infatti di essere più che compensato dall’aumento dei costi per l’istruzione privata.

La stretta sulla privacy, che parimenti viene condotta, ha l’obiettivo di contrastare l’acquisizione e l’uso incontrollato della straordinaria mole di dati acquisibili attraverso le piattaforme digitali e che l’intelligenza artificiale consente di elaborare: la limitazione che viene imposta, subordinando l’acquisizione dei dati biometrici, finanziari e di localizzazione all’espresso consenso dell’utente, e il divieto di vendita nell’ambito di sessioni in streaming di una serie di prodotti, quali medicine, dispositivi-spia o congegni che consentono di barare ai test, serve a evitare le distorsioni sociali e politiche che derivano dallo straordinario successo di cui è protagonista l’industria cinese operante in questi settori.

Infine, c’è una particolare attenzione al tema della concentrazione della ricchezza e delle disuguaglianze: «chi ha di più» è stato esortato a «dare di più a chi ha di meno». Non sono state necessarie altre parole per assistere anche in Europa a una brusca caduta del valore dei titoli legati all’industria del lusso.

Se fino al 2008 era la Cina che guardava con apprensione all’andamento dei mercati esteri, sbocco principale delle sue produzioni, ormai è il mercato interno cinese a fare da driver alle esportazioni mondiali, dai prodotti agricoli alle materie prime ai prodotti di alta gamma. Si accinge a diventare il vero compratore globale di ultima istanza, surclassando definitivamente gli Usa.

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30/08/2023

La nona porta (1999) di Roman Polanski - Minirece

Vertice europeo su Ucraina e Niger. La Ue fa i conti con i propri scheletri nell’armadio

I ministri della Difesa e degli Esteri dell’Unione europea si riuniscono oggi e domani a Toledo. I temi in discussione sono ovviamente la guerra in Ucraina e la situazione in Niger dopo il rovesciamento del presidente filoccidentale.

I ministri della Difesa dell’Ue discuteranno in particolare della situazione in Ucraina insieme al ministro della Difesa ucraino Reznikov, mentre i ministri degli Esteri faranno lo stesso domani con il loro omologo Kuleba.

Nell’ultima riunione del Consiglio a luglio, i ministri degli affari esteri dell’Ue avevano iniziato la discussione sul tipo di impegni di sicurezza a lungo termine che l’Unione Europea dovrà assumere per l’Ucraina.

Secondo il rappresentante per la Politica estera europea, il guerrafondaio Josep Borrell, occorre aumentare la dotazione del “Fondo europeo di sostegno alla pace”, attraverso il quale gli Stati europei finanziano l’invio di armi a Kiev, per un totale di 20 miliardi, ossia cinque miliardi l’anno per i prossimi quattro anni. In pratica un impegno economico e militare consistente e duraturo che impegna mani e piedi la Ue in un conflitto con la Russia.

L’altro “rogna” di cui discuteranno insieme sia i ministri della Difesa che quelli degli Esteri sarà la situazione in Niger dopo il colpo di stato del 26 luglio che ha destituito il presidente Mohamed Bazoum, notoriamente legato alla Francia. L’Ue ha ribadito il suo sostegno a Bazoum ed ha espresso il suo pieno sostegno alle misure e alle sanzioni adottate dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale contro i militari che hanno preso il potere in Niger.

In Niger sono ancora presenti centinaia di militari dei contingenti francesi, tedeschi, italiani e di altri stati europei.

Lo smacco subìto in Africa dalla Francia, ex potenza egemone, ha ripercussioni su tutta l’Unione Europea che, nella competizione globale in corso, aveva puntato molto sulle risorse strategiche presenti nei paesi africani e oggi si ritrova invece travolta da una ondata di profonda ostilità che ha visto rovesciare i governi fantoccio filoccidentali non solo in Niger ma anche in Mali e Burkina Faso.

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Africa inquieta. Militari al potere anche in Gabon

Un gruppo di alti ufficiali delle forze armate del Gabon si è rivolto ai cittadini attraverso la televisione nazionale nelle prime ore di oggi, annunciando di aver assunto il potere nel Paese. A riferirlo è l’agenzia Nova.

L’apparente golpe militare segue l’annuncio da parte della commissione elettorale della vittoria del presidente uscente, Ali Bongo Odimba (la cui famiglia è al potere da 53 anni), alle elezioni che si sono tenute in Gabon domenica.

Uno dei militari ha dichiarato al canale televisivo Gabon 24: “Abbiamo deciso di difendere la pace ponendo fine all’attuale regime”. Ciò, ha aggiunto, è dovuto a “un governo irresponsabile e imprevedibile che provoca un continuo deterioramento della coesione sociale che rischia di portare il Paese nel caos”.

Il comunicato è stato letto a nome del “Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni”: “Tutte le istituzioni della Repubblica sono sciolte: il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale e la Corte costituzionale. Invitiamo la popolazione a rimanere calma e serena e riaffermiamo il nostro impegno a rispettare gli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale”, ha proseguito, annunciando la chiusura delle frontiere del Paese “fino a nuovo ordine”. È bene ricordare che anche in Gabon c’è una base militare francese.

Il golpo di stato in Gabon è inesorabilmente fonte di ennesima preoccupazione per il governo e le compagnie private francesi come la TotalEnergies e il gruppo minerario Eramet che hanno forti investimenti nel paese.

Da Parigi è subito arrivata la condanna dell’azione di forza ed il portavoce del governo, Olivier Veran, ha chiesto che “il risultato elettorale, quando sarà conosciuto, venga rispettato”, mentre il leader della sinistra francese Jean-Luc Melenchon ha dichiarato che il Gabon “è riuscito a liberarsi del suo fantoccio presidenziale solo grazie all’intervento dei suoi militari”, e che il presidente francese Emmanuel Macron, “ancora una volta, avrà compromesso la Francia sostenendo l’insopportabile fino alla fine”.

Secondo i risultati annunciati dal Centro elettorale gabonese il principale rivale di Bongo, Albert Ondo Ossa, ha ottenuto solo il 30,77% dei voti. Albert Ondo Ossa aveva denunciato “brogli orchestrati dal campo di Bongo” due ore prima della chiusura dei seggi, sabato, e in quel momento stava già rivendicando la vittoria.

La commissione elettorale aveva annunciato la rielezione di Bongo con il 64,27% dei voti, ma l’opposizione aveva definito l’elezione truccata. Il rovesciamento del presidente metterebbe fine al potere della sua famiglia in Gabon, durato 53 anni.

Gli ufficiali saliti al potere hanno proclamato inoltre lo scioglimento delle istituzioni statali. Secondo fonti ripresa dai media locali, nella notte la capitale Libreville è stata teatro di scontri a fuoco. Dal governo del Gabon non è giunto sinora alcun commento ufficiale.

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È vero che Zelensky ha detto di voler trattare?

Gli Usa preoccupati dalla ipotesi di due conflitti simultanei in Asia

La recente tappa del vice-presidente di Taiwan William Lai, ufficialmente in visita in Paraguay – uno dei pochi Stati a riconoscerla – negli Stati Uniti, ha surriscaldato nuovamente il clima diplomatico ed ha portato ad una serie di manovre cinesi attorno a Formosa.

La tensione sembra destinata a non calare in vista delle elezioni presidenziali taiwanesi del 2024.

Come riporta Le Monde: «William Lai, favorito alle elezioni presidenziali taiwanesi del 2024, che si è auto-definito “indipendentista pragmatico”, è la bestia nera di Pechino».

La strategia degli accordi bilaterali sta mutando, portando ad ambiti più allargati, nella direzione della creazione di una non formale – ma sostanziale – sorta di ‘NATO asiatica’ a guida statunitense.

E Washington si sta attrezzando per scenari inediti di escalation bellica.

In questo senso è estremamente interessante uno studio dell’Atlantic Council – pubblicato il 16 agosto – sul possibile impegno militare contemporaneo “su due fronti” per gli Stati Uniti, sia contro la Cina che contro la Corea del Nord, al di là di un qualche accordo diplomatico-militare tra i due Stati Asiatici.

L’Atlantic Council è un think-tank formato nel 1961 che aveva come mission il consolidamento della politica “atlantista” tra le due sponde dell’Oceano.

Lo studio di Markus Garlauskas, dal titolo significativo “Gli Stati Uniti e i loro alleati devono essere pronti a scoraggiare una guerra su due fronti e attacchi nucleari nell’Asia orientale”, parte proprio dal fatto che anche una delle due principali linee di faglia potrebbe scaturire una lunga guerra guerreggiata dai possibili risvolti nucleari.

In sintesi, Washington deve attrezzarsi quanto prima ad una tale eventualità, anche alla luce degli avanzamenti degli arsenali militari di Pechino e Pyongyang (citati analiticamente nel dossier), pena una inadeguatezza di fondo nell’affrontare la situazione.

Per lo studioso «le sfide alla deterrenza nell’Asia orientale hanno iniziato a cambiare radicalmente negli ultimi anni, mettendoli sulla buona strada per presentare gravi rischi per gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti nel prossimo decennio».

L’arco di tempo considerato, in cui i rischi potrebbero concretizzarsi, va dal 2027 al 2032.

L’analisi dettagliata, che pone con chiarezza quello che l’establishment statunitense vede come uno spauracchio, allerta i decision maker di Washington secondo cui: “gli Stati Uniti e i loro alleati non possono più pensare ai conflitti con la Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Nord isolatamente gli uni dagli altri, e devono intraprendere azioni urgenti per presentarsi alla possibilità che un’azione nucleare limitata scateni uno scenario di conflitto nell’Asia Orientale“.
Lo studio quindi propende per un cambio di paradigma che implica mutamenti sostanziali di fronte a questa minaccia che va concretizzandosi.

A Washington, quindi, ragionano in termini concreti sull’ipotesi di un conflitto di non breve durata e simultaneo contro due potenze nucleari e senza prendere in considerazione la possibilità di avviare un reale processo di distensione e di accordo sulla limitazione reciproca dello strumento nucleare (come avvenne, con mille difficoltà, nella Guerra Fredda tra USA e URSS).

Al contrario, disponendo della necessaria deterrenza – cioè una indiscutibile superiorità strategica, potremmo dire – affinché tale scenario non possa verificarsi, rilancia. In gergo si tratta dell’approccio escalate to de-escalate.

Un opzione piuttosto arrischiata almeno per due ordini di motivi.

Il primo è l’idea che un guerra nucleare possa essere confinata in ambito tattico, e non trascendere in ambito strategico, è assolutamente non scontata.

Il secondo è che non vi sono cornici condivise a livello internazionale in grado di evitare che un conflitto “locale” tra due dei principali competitor su scala mondiale tracimi.

Si passerebbe dalla “terza guerra mondiale a pezzi”, su cui da tempo ha allertato persino il Pontefice, alla “terza guerra mondiale” tout court.

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Quale destino per l’Ucraina post-majdanista?

Secondo il giornale libanese Al-Binaa, altri segnali sarebbero giunti a confermare quanto si ripete da tempo: gli USA sarebbero alla ricerca della strada per disfarsi di Vladimir Zelenskij.

La diversa retorica dei media occidentali, osserva Al-Binaa, testimonierebbe che USA e NATO cominciano ad ammettere il mutato equilibrio di forze nel mondo. Indicativi, sarebbero i colloqui dello scorso 21 agosto del presidente degli Stati maggiori riuniti USA, Mark Milley in Vaticano, ricevuto dal papa.

Il forse troppo ottimista (e certamente molto fantasioso) redattore del quotidiano di Beirut ipotizza che Milley avrebbe ammesso il fallimento della controffensiva ucraina e avrebbe addirittura chiesto consiglio a Bergoglio su una possibile “uscita dignitosa” americana dall’Ucraina.

I due avrebbero discusso, appunto, del modo «di disfarsi dell’attuale presidente ucraino» e nientepopodimeno che di un fantascientifico «accordo, secondo cui gli USA smantellerebbero i propri sistemi antimissilistici in Polonia, Romania e Turchia».

Come si dice dalle nostre parti, “tutto pol’esse”; anche se è quantomeno spassoso pensare a uno yankee in ginocchio a “chiedere consiglio” a chicchessia ed è difficilissimo non solo credere, ma anche solo immaginarsi gli USA intenti a ritirare proprie armi, almeno che non sia per riposizionarle in altre lochescion ritenute al momento più favorevoli.

In ogni caso, la scorsa settimana, anche la presidente ungherese Katalin Novak ha fatto visita al papa, dopo di che ha dichiarato che «presto arriverà il momento per la soluzione del conflitto in Ucraina».

Pronunciato dalla “beniamina” di Viktor Orban, il presagio dovrebbe mettere sul chi va là almeno Vladimir Zelenskij, tanto più che Novak, più o meno negli stessi giorni, nel corso della terza conferenza internazionale della cosiddetta “Piattaforma di Crimea”, ha detto chiaro e tondo al capo della junta nazigolpista che, a guerra finita, la Transcarpazia costituirà una preziosa risorsa per gli ungheresi e per Budapest.

Nel viaggio verso Kiev, Novak ha attraversato la Transcarpazia, dove il 20 agosto ha «avuto l’opportunità di celebrare la nostra giornata nazionale insieme alla comunità nazionale ungherese».

«Come ha detto Lei», ha dichiarato, rivolta direttamente a Zelenskij, la Transcarpazia «è una risorsa per il futuro, quando finalmente inizieremo a ricostruire l’Ucraina. Può servire come risorsa anche per noi, contiamo su di voi per avere un’amicizia molto forte tra gli ungheresi e gli altri rappresentanti delle comunità della Transcarpazia».

In questo modo, osserva PolitNavigator, parlando di “altre nazionalità”, Novak ha evitato di ricordare che, oltre agli ungheresi, nella regione vivono anche ucraini, classificati invece al pari di tutti gli “altri”, senza che ciò abbia sollevato obiezioni da parte di Zelenskij.

Ovviamente, da sempre, non è solo l’Ungheria ad avanzare pretese su territori ucraini. L’ex consigliere del Pentagono Douglas Macgregor, in un’intervista a Dialogue Works, torna a puntare il dito su Polonia e Lituania, che potrebbero azzardare un intervento in Ucraina occidentale “aggirando” la NATO.

Ma se ciò avverrà, pur se l’azione fosse “non coordinata” coi vertici atlantici, le truppe di Varsavia e Vilnius verrebbero viste come truppe NATO, con tutte le conseguenze del caso.

Su un’altra linea, l’ex Ministro dell’istruzione ucraino (2010-febbraio 2014) Dmitrij Tabačnik, suggerisce invece a Mosca di pensare a come restituire parte delle attuali regioni ucraine ai precedenti titolari: Polonia, Ungheria e Romania e, ovviamente, Russia. Lo ha detto ai microfoni di Krym 24.

Se non apprendiamo la «lezione e non cambiamo noi stessi, i nostri figli e nipoti dovranno affrontare lo stesso problema. Mio nonno ha combattuto da Kiev a Stalingrado e da Stalingrado a Vienna. Per fortuna, è morto a 90 anni, nel 1992. Non avrebbe potuto sopportare uno scontro tra russi e russi. Pertanto, penso che, prima di tutto, le terre russe dovrebbero tornare alla Russia; come storico, credo che la Galizia non sia terra ucraina e la popolazione tutt’altro che ucraina: sono galiziani, un gruppo etnico a sé».

Secondo Tabačnik, a tutt’oggi né Varsavia, né Budapest, né Bucarest riconoscono le acquisizioni ucraine; Kiev dovrebbe insomma rinunciare ai territori acquisiti alla fine della guerra, a est e a ovest; si dovrebbe fare dell’Ucraina centrale un’area cuscinetto in cui, trascorso un ventennio dopo la de-nazificazione, dovrebbe tenersi un referendum sulla autodeterminazione.

Le dichiarazioni dell’ex Ministro hanno sollevato le proteste del presidente del Congresso delle comunità russe di Crimea, Sergej Šuvajnikov, secondo il quale «non si deve conservare la minima isola di ucrainicità! Non si può parlare in quel modo: questo lo diamo a quelli, quest’altro a questi o a quegli altri. Si tratta di territori primordialmente russi, conquistati; come storico, Tabačnik dovrebbe sapere in quali aree fossero stanziate le tribù russe, slave. Dobbiamo perseguire questa ucrainicità anti-russa; essa deve essere eliminata. Se rimarrà anche solo un’isoletta di ucrainicità, quegli stessi stati la nutriranno e di nuovo inizierà a combattere contro la Russia».

E, a proposito di territori tornati alla Russia, Rostislav Iščenko scrive su Ukraina.ru che già oggi, dopo il ritorno di sei nuove regioni nell’orbita russa, si può dire che entreranno nella compagine russa non l’Ucraina, non il Donbass, non la Novorossija, bensì singole regioni. Ogni area si unirà per conto suo, così che un’unica politica di de-ucrainizzazione sarà soggetta alla politica di ogni singola regione.

Iščenko illustra poi il proprio personale metodo di intervento. È necessario, dice, «non vietare nulla oltre ciò che è proibito dalla legge russa, ma dare ciò che è garantito dalla Costituzione, in modo tale che essi stessi lo rifiutino. Tale metodo non funzionerebbe o incontrerebbe enormi difficoltà se avessimo a che fare con un’unica entità politica controllata da Kiev, Kharkov o Donetsk. Ma, con zone frammentate, mi sembra ineccepibile».

E porta a esempio la questione della lingua: la Costituzione non consente di proibire lo studio dell’ucraino nelle scuole ucraine. Se l’Ucraina si conservasse come una sorta di unità politica (anche autonoma nella compagine russa), elaborerebbe un’unica norma linguistica e, sul territorio di quell’autonomia, assicurerebbe una costante, se pur limitata, offerta per chi parla ucraino.

Ne approfitterebbero «scrittori, poeti e altri “artisti” “nazionali”, e su questa base si conserverebbe e riprenderebbe vita il banderismo, come era accaduto nella SSR ucraina». Ma nelle singole aree non sussisterebbe un apparato (tipo Accademia delle Scienze, o Istituto linguistico nazionale) in grado di elaborare una comune norma linguistica. L’unica norma sarebbe la «lingua russa, e diverrebbe anti-economico scarabocchiare poesie e romanzi in ucraino: non ci sarebbe sufficiente mercato».

In generale, continua Iščenko, non esiste «una norma unica per la lingua ucraina. Quella creata dai bolscevichi sulla base del dialetto di Poltava si è persa, cancellata dai nazionalisti ucraini come “troppo russificata”... Di fatto, l’ucraino parlato oggi è un suržk di centinaia, se non migliaia di villaggi locali: il suržk di Odessa differisce da quello di Vinnitsa e tutti e due da quello di Khar’kov, di Žitomir e più si va a ovest, più si moltiplicano i suržk e più differiscono da quelli dell’est, sud e centro d’Ucraina».

Dunque, per garantire il diritto costituzionale all’insegnamento nella lingua madre, «ogni regione o distretto dovrebbe farlo attingendo dal proprio bilancio locale... sarebbe un diritto, non un dovere: è una questione di principio»: ogni singolo villaggio dovrebbe scegliere se ripristinare una strada, oppure nominare insegnanti di matematica, fisica, ecc. di lingua ucraina.

Alla fine, dato che la lingua russa e gli insegnati di matematica, fisica, di lingua russa dipendono invece dal bilancio statale, si smetterebbe di optare per il “proprio” suržk banderista e il banderismo scomparirebbe.

Che il nazionalismo e il filo-nazismo banderista, nei decenni abbiano innalzato, tra le proprie “bandiere”, anche quella della lingua ucraina, è un fatto. È però da dubitare che il solo “mettere i bastoni tra le ruote” alla lingua ucraina serva a lottare contro il banderismo, sviluppatosi sul terreno del preesistente nazionalismo e rimasto, come quello, al servizio delle mire antisovietiche delle ex classi borghesi spodestate d’Ucraina, complice poi dei nazisti hitleriani.

La battaglia per liberare veramente il popolo ucraino dal banderismo e dal neonazismo è una battaglia di classe e non la sfida di un nazionalismo a un altro.

Proprio a proposito della questione della lingua, ma più in generale sulla questione dell’autodeterminazione, del diritto alla separazione, di lotta al nazionalismo borghese e di unità tra proletariato ucraino e grande-russo e, nello specifico, a proposito della “ucrainizzazione” degli organi di partito e di governo nella RSS d’Ucraina, riportiamo una nota del politologo russo Aleksandr Khaldej.

Nota preziosa, anche perché si muovono spesso accuse ai bolscevichi, di aver contribuito ad alimentare la russofobia ucraina, prima con la costituzione di una RSS ucraina distinta dalla Russia, poi col promuovere la politica di “ucrainizzazione”.

In una famosa lettera inviata nell’aprile 1926 «Al compagno Kaganovič e agli altri membri del Politbjuro del CC del KP(b)U», Stalin affronta la questione delle spinte nazionalistiche che si stavano sempre più manifestando tra le masse ucraine e anche all’interno del CC del KP(b)U, favorite da un intreccio di legami tra il PC dell’Ucraina occidentale (KPZU), nazionalisti borghesi della Unione nazional-democratica ucraina (UNDO) e il comunista ucraino Šumskij.

Scrive Stalin:
«Ho avuto una conversazione con Šumskij. (…) Ritiene che la crescita della cultura ucraina e dell’intellighenzia ucraina stia procedendo a ritmo rapido, che se non prendiamo in mano questo movimento, potrebbe sfuggirci. Ritiene che a capo del movimento dovrebbero esserci persone che credono nella causa della cultura ucraina, che conoscono e vogliono conoscere questa cultura, che supportano e possono sostenere il crescente movimento per la cultura ucraina.

Egli è particolarmente scontento del comportamento dei vertici di partito e sindacali in Ucraina che, a suo avviso, ostacolano l’ucrainizzazione. Egli pensa che uno dei peccati principali dei vertici partitici e sindacali consista nel fatto che non attirano alla direzione del lavoro di partito e sindacale quei comunisti che sono direttamente legati alla cultura ucraina. Pensa che l’ucrainizzazione debba condursi principalmente nelle file del partito e tra il proletariato.

Secondo: egli pensa che per la correzione di queste carenze, sia necessario prima di tutto cambiare la composizione dei vertici di partito e sovietici dall’angolo visuale della ucrainizzazione (…)

Ecco la mia opinione a questo proposito. Ci sono alcune riflessioni corrette nelle affermazioni di Šumskij sul primo punto. È vero che un ampio movimento per una cultura e una partecipazione sociale ucraine è iniziato e sta crescendo in Ucraina. È vero che in nessun caso dobbiamo mettere questo movimento nelle mani di elementi a noi estranei.

È vero che un certo numero di comunisti in Ucraina non capiscono il significato e l’importanza di questo movimento e quindi non si adoperano per assumerne la direzione. (...)

Ma Šumskij commette almeno due gravi errori nel farlo. Primo. Mischia l’ucrainizzazione del nostro partito e di altri apparati con l’ucrainizzazione del proletariato. È possibile e necessario ucrainizzare, a un certo ritmo, il nostro partito, lo stato e gli altri apparati al servizio della popolazione. Ma il proletariato non può essere ucrainizzato dall’alto.

È impossibile “costringere” le masse operaie russe ad abbandonare la lingua e la cultura russa e a riconoscere l’ucraino come loro cultura e lingua...

Non c’è dubbio che la composizione del proletariato ucraino cambierà con il progredire dello sviluppo industriale dell’Ucraina, nella misura in cui gli operai ucraini affluiranno all’industria dalle campagne circostanti.

Non c’è dubbio che la composizione del proletariato ucraino si ucrainizzerà, così come la composizione del proletariato, diciamo, della Lettonia o dell’Ungheria, che un tempo aveva carattere tedesco e si è poi lettonizzato e magiarizzato.

Ma si tratta di un processo lungo, spontaneo, naturale. Cercare di sostituire questo processo naturale con una ucrainizzazione forzata dall’alto del proletariato, significa condurre una politica utopistica e nociva, foriera di evocare in Ucraina uno sciovinismo anti-ucraino negli strati non ucraini del proletariato (…)

Secondo. Sottolineando del tutto correttamente il carattere positivo del nuovo movimento in Ucraina per la cultura e la partecipazione sociale ucraine, Šumskij tuttavia non vede i lati oscuri di questo movimento. Šumskij non vede che, data la debolezza dei quadri comunisti indigeni in Ucraina, questo movimento, interamente guidato dall’intellighenzia non comunista, può in alcuni punti assumere il carattere di una lotta per l’estraneazione della cultura e della socialità ucraine dalla cultura e dalla socialità comuni sovietiche, può assumere il carattere di una lotta “contro Mosca” in generale, contro i russi in generale, contro la cultura russa e la sua più alta conquista: il leninismo».
Dunque, Khaldej nota come sia oggi diffusa la tesi secondo cui se la politica di ucrainizzazione, negli anni ’30, non fosse stata condotta sotto costrizione, l’Ucraina sarebbe rimasta filo-russa e l’uso della lingua ucraina si sarebbe gradualmente ridotto a poche sperdute campagne. Si sarebbe così tolto il terreno sotto i piedi ai nazionalisti che oggi hanno separato l’Ucraina dalla Russia.

In pratica, dice Khaldej, «si presentano i bolscevichi come degli idioti, dei russofobi e dei traditori nazionali. Questa stupidità è sfruttata dai nazionalisti borghesi russi, che odiano il periodo sovietico tanto quanto lo odiasse Stepan Bandera o lo odino i liberali».

E si dice che i bolscevichi avrebbero «allevato il Leviatano nazista ucraino, quando sarebbe stato possibile schiacciarlo sul nascere senza problemi, rimuovere il problema per secoli e chiudere la questione con l’ucronazionalismo, che è diventato un trampolino di lancio per l’Occidente nella sua conquista della Russia».

Dalla lettera di Stalin a Kaganovič, emerge invece che «i bolscevichi si scontrarono in Ucraina col crescente nazionalismo delle masse contadine della popolazione, che non erano in grado di frenare. Si posero dunque l’obiettivo di intercettarlo e cambiarne il vettore. In Ucraina, anche i comunisti erano nazionalisti; non c’erano altri comunisti e non c’era da dove prenderne altri».

I bolscevichi si erano resi conto di non poter venire a capo dei nazionalisti ucraini con la repressione e la russificazione forzata; ciò avrebbe condotto, afferma Khaldej, a un «consolidamento della popolazione attorno ai nazionalisti e all’isolamento dei bolscevichi. Così Stalin decise di mettersi alla testa di ciò che non si poteva bloccare. Dirigere, cioè, per modificare il contenuto nella forma desiderata: in pratica affinché un ucraino, visto che vuole parlare ucraino, leggesse Lenin in ucraino.

Stalin ha chiaro il quadro della struttura sociale ucraina; capisce che il proletariato è russo, mentre le campagne sono ucraine e, in vista dell’inevitabile accrescimento del proletariato con popolazione contadina, prevede l’immissione di idee contadine nell’ambiente proletario.

Egli non voleva che l’ambiente proletario russo respingesse i contadini ucraini che affluivano dalle campagne verso le fabbriche».

Dunque, l’ucrainizzazione doveva essere condotta dalla dirigenza del partito secondo i propri schemi e per i propri obiettivi. Dove sta qui la “russofobia”, chiede Khaldej? Tutt’altro, Stalin intendeva sostenere le «posizioni della cultura russa e impedire il suo conflitto con la cultura ucraina nel loro inevitabile scontro, nel processo di sviluppo industriale dell’Ucraina e del suo avvicinamento alla Russia».

Tra l’altro, lo stesso Khaldej, come altri storici e politologi, ribadisce che le favole antibolsceviche oggi in circolazione, nascondono «un altro mito, accolto tacitamente in Russia: che il nazionalismo abbia in Ucraina delle radici poco profonde e non storiche e vi sia stato introdotto, durante la Prima guerra mondiale, dai comandi austro-germanici, mentre, prima di allora, tutti i piccoli-russi si sarebbero considerati russi, addirittura anche quelli che parlavano in suržik, che era allora la lingua ucraina. Un simile approccio è assolutamente falso, perché antistorico. Il conflitto tra “moskaly” e piccoli-russi era già in essere all’epoca di Bogdan Khmel’nitskij, nel XVII secolo, ma è stato accuratamente taciuto dalla storiografia sovietica e da quella russa liberale», per motivi ovviamente diversi.

Oggi, la maggior parte dei critici del potere sovietico, cerca di «presentare i bolscevichi come russofobi deliranti e stupidi. Niente di più falso. La politica di Stalin aveva permesso di spingere i nazionalisti in posizioni marginali. (…) essi, pur trovandosi in posizione marginale, divennero però una potente base sociale per gli occupanti nazisti e altre forze anti-russe. Quella base sarebbe stata molto più forte, se alla lotta economica dei comunisti in Ucraina se ne fosse aggiunta una nazionale».

E comunque, conclude Khaldej, nemmeno quelle misure poterono sradicare il nazionalismo, che seppe conservarsi all’interno delle strutture sovietiche e prendersi poi la rivincita.

Non è abbastanza chiara la diversità di approccio tra chi parta da basi nazionalistiche e chi ponga a fondamento un’analisi di classe?

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