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31/01/2025

Ercole al centro della Terra (1961) di Mario Bava - Minirece

Le amare sorprese del cuneo fiscale. Ci sono lavoratori che perdono soldi sul salario

Tra narrazione e realtà c’è una bella differenza. Dopo aver starnazzato per mesi che con il cuneo fiscale sarebbero aumentati i salari dei lavoratori dipendenti, il governo adesso è costretto ad ammettere che per molti il cuneo … è diventato “un cetriolo”.

Con la riforma introdotta dal governo – che trasforma il cuneo contributivo a cuneo fiscale – non è stato infatti possibile introdurre una «clausola di salvaguardia» che consentisse ai lavoratori di conservare gli stessi benefici del 2024.

Intanto è cambiata la platea, che è diventata più ampia per includere i lavoratori con redditi oltre i 35mila e fino a 40mila euro, che prima erano esclusi. Ma si è allargata la platea utilizzando le stesse risorse (circa 18 mld di euro), per cui la divisione della torta ha finito per premiare alcuni (i nuovi beneficiari) penalizzandone altri.

Già a novembre una analisi dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio aveva evidenziato che, per come sono scritte le norme, la fascia di reddito tra i 32.000 e i 40.000 euro, ovvero una parte del ceto medio che soffre la morsa dell’inflazione, subirà un inasprimento della pressione fiscale che farà schizzare l’aliquota marginale addirittura al 56%!

La sorpresa di fine mese (o di inizio di febbraio) ha visto molte lavoratrici e lavoratori ritrovarsi qualche euro in meno alla voce «netto» del proprio cedolino paga di gennaio.

Il quotidiano economico Italia Oggi rileva come il nuovo cuneo da contributivo è diventato fiscale e, oltre a complicare la gestione degli sconti fiscali agli stessi lavoratori, in alcuni casi ha tagliato lo stipendio rispetto all’anno scorso.

È possibile infatti che i lavoratori con reddito tra 8.500 e 9.000 euro possano, nel 2025, perdere fino a 1.200 euro di retribuzione. Tanto che è stato preannunciato l’arrivo di correttivi. Ed è possibile che i lavoratori con redditi oltre 35mila e fino a 40mila euro, che nel 2024 erano al di fuori dal cuneo, quest’anno possano guadagnare fino a 1.200 euro.

Secondo il sindacato USB, il pasticcio deriva dal nuovo sistema introdotto dal governo che ha modificato il taglio del cuneo da contributivo a fiscale attraverso un doppio intervento. “Da un lato l’introduzione di un bonus per i redditi fino a 20.000 euro, e poi una detrazione (ovvero una riduzione dell’IRPEF da pagare) fino ai 40.000 euro di reddito. Ma quest’ultima decresce rapidamente sopra i 32.000 euro, producendo quindi un innalzamento della pressione fiscale in una fascia di reddito certamente non faraonica” denuncia l’USB.

Alla stessa conclusione è giunta anche la Cgil che in una nota informativa scrive che: “Le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, nella maggioranza dei casi, si ritroveranno con una retribuzione netta più bassa per effetto del nuovo cuneo, che passa da contributivo a fiscale”.

La contraddizione è emersa nelle risposte del ministero dell’Economia ad alcune interrogazioni parlamentari durante il question time in Commissione Finanze alla Camera.

Ad esempio, il dipendente con 25mila euro di stipendio lordo annuo subirà un taglio di 96 euro, circa 7 euro mensili in meno su tredici mensilità. Certo non tutti ci perdono. Alcuni lavoratori ci guadagnano: sono quelli che hanno redditi di lavoro dipendente fino a 8.500 euro oppure quelli con redditi da 35mila a 40mila euro che prima erano esclusi dal cuneo contributivo. Un dipendente con uno stipendio di 40 mila euro troverà, a fine mese, circa 35 euro in più (guadagnando circa 460 euro annui).

Ma questo non vale per tutti. Mentre il cuneo contributivo si basava sul solo reddito di lavoro dipendente, il nuovo cuneo si basa sul reddito complessivo del lavoratore. Accade così che il lavoratore con 35mila euro di retribuzione e altri 10mila euro di redditi diversi, che nell’anno 2024 ha fruito del cuneo contributivo per 1.938 euro, nell’anno 2025 non beneficerà dello sconto del cuneo fiscale: il suo reddito complessivo supera i 40mila euro, limite oltre il quale non se ha più diritto.

Le richieste di chiarimenti presentate nel question time riguardano gli effetti distorsivi conseguenti alla riforma del cuneo che se era contributivo fino al 2024, da gennaio è diventato fiscale.

Uno dei problemi è la perdita del cosiddetto trattamento integrativo, dall’importo massimo mensile di 100 euro, per i lavoratori dipendenti con reddito compreso nella fascia da 8.500 a 9.000 euro. L’altro è il beneficio circoscritto esclusivamente ai lavoratori con redditi oltre 35mila euro. Infine c’è il beneficio riservato alla nuova platea di circa 1,3 mln di lavoratori dipendenti con reddito da 35mila a 40mila euro, esclusi fino all’anno scorso dal cuneo contributivo.

Il ministero ha dovuto ammettere che il problema c’è. I lavoratori con una retribuzione da 8.500 a 9.000 possono perdere quest’anno fino a 1.200 euro derivante dal venire meno del diritto al trattamento integrativo.

Questo meccanismo, dall’importo massimo di 100 euro mensili, è riservato ai titolari di reddito complessivo fino a 15 mila euro e con Irpef superiore alle detrazioni di lavoro dipendente. La perdita del diritto al trattamento deriva dal fatto che, nel 2024, fruendo del cuneo contributivo (taglio del 7% dei contributi), ai lavoratori veniva aumentata la base imponibile fiscale trasformandoli da soggetti c.d. incapienti (che non pagano Irpef) a soggetti contribuenti (che pagano tasse) guadagnando, di conseguenza, il diritto al trattamento integrativo.

Quest’anno, non essendoci più il taglio contributivo, questi lavoratori a basso reddito sono ritornati incapienti e, conseguentemente, hanno perso il diritto al trattamento integrativo.

Rispondendo alle interrogazioni parlamentari il ministero dell’Economia ha sottolineato che si tratta di un numero limitato di lavoratori e di una platea che cambia di composizione ogni anno per motivi legati alle dinamiche reddituali e del mercato del lavoro. Si tratta in larga parte di lavoratrici e lavoratori part time con maggiori o minori ore lavorate e maggiori o minori straordinari.

Il ministero ha annunciato l’esame di correttivi nell’ambito di un processo che guarda a un maggiore sostegno a favore dei lavoratori a più basso reddito.

Ma ha risposto affermativamente anche sulle altre due richieste di chiarimento – il bonus riservato ai lavoratori con reddito oltre 35mila euro e fino a 40mila – spiegando che i benefici sono stati riconosciuti per rimediare alle criticità fatte registrare dalla normativa del 2024, ossia per evitare che i contribuenti che guadagnano un euro in più oltre la soglia dei 35mila euro vedessero bruscamente azzerato il beneficio (circa 1.200 euro).

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“Noi vittime delle torture di Almasri ci siamo illusi che l’Italia potesse fare giustizia”

Alla Camera si è tenuta una conferenza stampa di alcune delle vittime del torturatore libico Almasri, scarcerato e rimpatriato dall’Italia nonostante l’arresto diposto dalla Corte penale internazionale, hanno raccontato i crimini del capo della polizia giudiziaria di Tripoli e i sistemi con cui governa i campi libici. Pubblichiamo la loro lettera, indirizzata a Giorgia Meloni, Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Alfredo Mantovano.

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“Egregio presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ministro Matteo Piantedosi, ministro Carlo Nordio e sottosegretario Alfredo Mantovano,

vi scriviamo in qualità di portavoce dei Rifugiati in Libia ma anche come vittime e sopravvissuti di Osama Najim Almasri. I nostri corpi portano i segni dei suoi crimini e le nostre menti sono piene di ricordi che nessun essere umano dovrebbe sopportare. Quando Almasri è stato arrestato a Torino, abbiamo creduto, anche se per poco, che la giustizia potesse raggiungere quelli di noi che hanno conosciuto solo la sofferenza. Ma voi ci avete tolto questa speranza, rispedendolo in Libia, dove continuerà a fare del male ad altri, come ha fatto a noi.

Il dolore per questo tradimento è profondo. È lo stesso dolore che ci portiamo dietro da anni. Siamo venuti in Italia in cerca di protezione e siamo grati per la sicurezza che abbiamo trovato. Ma la nostra dignità, rubata in Libia, è stata rubata di nuovo qui. L’Italia era un Paese in cui credevamo, un Paese che parlava di giustizia e di diritti umani. Ma la giustizia non ci è stata data. Al contrario, abbiamo assistito alla liberazione dell’uomo che ci ha torturato.

E mentre scriviamo questa lettera, altri stanno ancora soffrendo sotto lo stesso sistema che ci ha brutalizzato. Oggi i migranti in Libia vivono in condizioni peggiori delle prigioni. Vengono torturati per ottenere un riscatto, venduti come proprietà, violentati, affamati e lasciati morire. Quelli che si trovano ancora nella prigione di Mitiga, dove Almasri ha costruito il suo impero di crudeltà, non conoscono altro che il dolore. La stessa Libia con cui lavorate, che finanziate e a cui stringete la mano è diventata una terra di sofferenza infinita per chi non ha potere.

Ora sappiamo che l’Italia non ha solo le dita in Libia, ma ha le mani intere sepolte nei suoi affari e può dire chi è libero o meno. Non siete solo testimoni di ciò che accade in quel Paese, ma contribuite a plasmarlo. Non si può affermare di combattere il traffico di esseri umani mentre si fanno accordi con chi ne trae profitto. Non potete definire Almasri “pericoloso” mentre lo proteggete dalla giustizia. Non potete definirvi difensori dei diritti umani mentre lasciate le persone a marcire nelle prigioni libiche.

Pertanto, Vi chiediamo:

1. La cessazione immediata di tutti gli accordi tra Italia e Libia che consentono abusi nei confronti dei migranti.

2. Un impegno pubblico per chiedere il rilascio di tutti coloro che sono ancora imprigionati a Mitiga e in altri centri di detenzione in Libia.

3. Una spiegazione ufficiale del perché Almasri, che il vostro stesso Governo ha definito pericoloso, sia stato rilasciato invece di essere consegnato alla Corte penale internazionale.

4. Un percorso legale per i migranti intrappolati nei centri di detenzione libici, compresa la riapertura dell’Ambasciata Italiana a Tripoli per l’ottenimento di visti umanitari.

La giustizia non può essere selettiva. Non può servire i potenti mentre gli impotenti vengono scartati. L’Italia deve rispondere delle sue scelte.

Cordiali saluti,

David Yambio, Lam Magok e le vittime di Osama Najim Almasri

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Almasri, oltre l’orrore

Sono una delle persone che hanno presentato denuncia presso la Corte Europea, attraverso un lavoro coordinato con alcuni studenti della Sorbona.

Parlo da testimone diretto: sono passato dalla Libia nel 2014 e ho visto con i miei occhi l’orrore. Oltre alle torture, c’è un uomo che si vanta di abusare di bambine di 12 e 13 anni, che costringe le ragazze migranti a prostituirsi, che riduce i ragazzi in schiavitù nei campi e si appropria dei loro soldi.

È colui che ha impiccato diverse persone nelle sue prigioni per spingere altri prigionieri a chiamare i parenti o i conoscenti per mandare i soldi.

Quest’uomo si chiama Almasri, ed è uno dei più spietati torturatori in Libia. Vende esseri umani filmando le aste. In Libia, basta pronunciare il suo nome per scatenare il terrore. Non è solo paura: è qualcosa di più profondo, un orrore senza limiti.

Ha persino costruito un aeroporto privato sfruttando i migranti, che chiama “i suoi schiavi”.

Eppure, il governo italiano tratta questo criminale con una gravità senza precedenti, violando ogni principio di giustizia e diritto.

Questa non è solo una questione politica. È una scelta tra giustizia e complicità, tra umanità e disumanità.

Soumaila Diawara

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Qui un articolo di Avvenire pubblicato 5 anni fa che documenta soltanto alcune delle tantissime atrocità commesse nei lager libici dai criminali finanziati e supportati a suon di miliardi dall’Unione Europea e da TUTTI i governi italiani degli ultimi anni a partire da quello guidato dal “democatico” Paolo Gentiloni (Commissario europeo per gli affari economici e monetari dal 2019) che nel 2017 firmò quel “memorandum della vergogna” che pose le basi per questa immensa barbarie.

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La Bussola per la competitività europea “per vincere la corsa al vertice”

È arrivata la Bussola per la competitività della UE, una prima grande iniziativa di Bruxelles per cercare di seguire le indicazioni che aveva dato Mario Draghi nel rapporto redatto per la Commissione e presentato lo scorso settembre.

Più che un vero e proprio piano, si tratta di una “dottrina economica per i prossimi cinque anni”, come ha detto il vicepresidente esecutivo della Commissione per la Prosperità e la Strategia industriale, Stéphane Séjourné. Durante il secondo mandato von der Leyen verrà concretizzata con misure specifiche.

La politica tedesca ha dichiarato: “l’Europa ha tutto quel che serve per vincere la corsa al vertice. Ma allo stesso tempo deve superare le sue debolezze per riconquistare competitività”. Che tradotto, significa che nella frammentazione del mercato mondiale, la UE è indietro rispetto agli altri attori globali, ovvero USA e Cina.

Von der Leyen ha continuato: “la bussola per la competitività concreta le eccellenti raccomandazioni della relazione Draghi in una tabella di marcia. Ora abbiamo un piano. Abbiamo la volontà politica. Ci servono rapidità e unità. Il mondo non ci aspetterà”.

Che di nuovo, tradotto, significa che o la UE coglie questa finestra per fare un salto di qualità, o il progetto imperialistico europeo è fallito. Anche se molti potrebbero obiettare che è già così, viste le difficoltà del Vecchio Continente e l’incapacità della sua classe dirigente di immaginare una via alternativa al modello mercantilista in crisi.

In ogni caso, sono tre le aree su cui si indica di agire in maniera prioritaria: innovazione, decarbonizzazione e sicurezza. Come si legge nel comunicato della rappresentanza in Italia della UE, “la bussola definisce l’impostazione da seguire per ciascuna e presenta una selezione di misure faro per rispondervi”.

Per quanto riguarda l’innovazione, la Commissione lavorerà sulle gigafactory e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, e proporrà “piani d’azione sui materiali avanzati, le tecnologie quantistiche, le biotecnologie, la robotica e le tecnologie spaziali”. Grande attenzione sarà riposta anche sulle start-up e sull’emergere di nuove imprese d’avanguardia.

Riguardo a questo, c’è forse l’elemento più interessante di quel che per ora è stato reso pubblico, ovvero la definizione di un 28° regime d’impresa, accanto ai 27 dei membri della UE. Questo sarà un regime pienamente comunitario, applicabile a tutte le società, così che le “imprese innovative potranno fruire di un unico complesso di norme ovunque investano e operino nel mercato unico”.

Un passo non indifferente nel saldarsi di una borghesia transnazionale europea, che guiderà le politiche e le prospettive di tutte le filiere facenti capo a Bruxelles. Che ovviamente deve comunque fare i conti con le debolezze ormai conclamate dell’industria continentale.

Il “patto per l’industria pulita” e il “piano d’azione per l’energia a prezzi accessibili” serviranno a rendere attraente per gli investimenti il mercato europeo, e a ridurre i costi dell’energia. Verranno anche implementati dei programmi specifici per “settori ad alta intensità energetica, come la siderurgia, la metallurgia e l’industria chimica, che costituiscono la colonna portante del sistema manifatturiero”.

Sempre per ridurre le dipendenze e diversificare le fonti di approvvigionamento, la UE proporrà nuovi partenariati per accedere più facilmente a “materie prime, energia pulita, combustibili sostenibili per i trasporti e tecnologie pulite da tutto il mondo”. Bruxelles rivedrà anche le norme sugli appalti pubblici per “introdurvi una preferenza europea nei settori e tecnologie critici”: una sorta di “buy European”.

Accanto ai tre pilastri descritti, vi sono anche cinque “attivatori trasversali per la competitività”. Si tratta della semplificazione per le imprese, “per ridurre l’onere di rendicontazione – ha detto von der Leyen –: almeno il 25% per tutte le aziende e almeno il 35% per le PMI”, con un risparmio calcolato in 37,5 miliardi di euro.

Parliamo, tra gli altri, degli obblighi di rendicontazione sulla sostenibilità, inclusi quelli relativi a due diligence e tassonomia: insomma, ciò che rende “green” le attività imprenditoriali, almeno sulla carta. Per questo in molti hanno intravisto i segnali dell’ormai chiaro passo indietro sulla retorica della transizione profusa negli ultimi anni.

Tra gli “attivatori” si annoverano poi interventi per una maggiore integrazione del mercato unico e del mercato dei capitali, nonché del “capitale umano” (formazione, mobilità e attrazione di talenti più facile dentro la comunità europea). E infine uno “strumento di coordinamento per la competitività”.

Quest’ultimo, nel prossimo quadro finanziario pluriennale, verrà affiancato da un fondo per la competitività che sostituirà diversi strumenti finanziari oggi esistenti. Anche se nel concreto bisognerà capire cosa significa, probabilmente si parla di un’altra tappa del processo di centralizzazione del potere nelle mani di Bruxelles.

Da dove debbano arrivare i soldi per operazioni del genere rimane però dubbio. La volontà è quella di mobilitare gli investimenti privati attraverso il volano di quelli pubblici, ma se seguiamo le indicazioni di Draghi si dovrebbero trovare almeno 700 miliardi di euro l’anno entro il 2030.

La Bussola ricorda che ci sono circa 300 miliardi di euro che finiscono fuori dai confini europei ogni anno, di cui molti attratti da maggiori opportunità di profitto al di là dell’Atlantico. E i rapporti tra Washington e Bruxelles sembrano destinati a infiammarsi, di certo non a trovare un punto d’incontro per le esigenze dell’industria europea.

Molti di questi miliardi dovrebbero comunque finire nella Difesa Europea, per la quale si aspetta il Libro bianco promesso nei primi 100 giorni del suo mandato da von der Leyen. E dunque nel rilancio di un modello di guerra, non di sostegno ai lavoratori, che dovranno lottare per ribaltare questi indirizzi.

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Liberalnazismo in Germania

All’inizio del 1933 in Germania il barone Franz Von Papen, capo del partito del Centro Cattolico, l’equivalente di allora della CDU di oggi, con i suoi voti permise a Hitler – che non aveva la maggioranza in Parlamento – di diventare capo del governo. Poi si sa come è andata.

All’inizio del 2025 il partito neonazista AfD di Alice Weidel, con i suoi voti ha fatto avere la maggioranza ad una mozione anti-migranti di Friedrich Merz, leader della CDU-CSU di oggi. Dopo 92 anni il favore viene restituito.

La CDU-CSU finora è destinata dai sondaggi ad essere il primo partito in Germania nelle prossime elezioni del 23 febbraio, mentre la AfD dovrebbe essere il secondo partito. Assieme queste due forze dovrebbero detenere la maggioranza nel Parlamento tedesco. Non è detto che riescano subito a governare, ma l’assenza di vere alternative spingerà in questa direzione e in ogni caso il programma dei democristiani tedeschi, oggi, è sempre più di estrema destra.

Merz, dopo aver minacciato di “guerra totale” la Russia, ha lanciato un programma di “rottura epocale” per la Germania fondato su tre punti fondamentali: ultraliberismo economico, grande riarmo e politica di potenza, espulsione dei migranti e stretta poliziesca sulla sicurezza. A questo si aggiunge poi la scelta dello schieramento totale con gli USA di Trump e con Israele dì Netanyahu.

Insomma per la prima volta in un grande paese europeo il partito destinato ad essere in testa nei sondaggi propone il programma liberalfascista e di suprematismo occidentale del presidente argentino Xavier Milei.

Del resto tutto il curriculum di Merz porta in questa direzione. Straricco e rappresentante in Germania della multinazionale della finanza BlackRock (la stessa con cui oggi dialoga di affari Giorgia Meloni), Merz è il figlio politico di Wolfgang Schaeuble.

Ricordate il ministro delle finanze della Germania che, con Mario Draghi presidente della BCE, impose alla Grecia i memorandum che distrussero il paese? Schaeuble è stato il teorico e la guida dell’austerità come modello economico e principio guida di tutte le decisioni politiche, in Germania ed in Europa. Per lui la democrazia veniva molto dopo le decisioni economiche e di mercato: i popoli possono votare come vogliono, poi l’economia decide, fu una sua brutale affermazione.

In questa scuola di disprezzo della democrazia e dell’eguaglianza, nel nome del rigore di bilancio e della crescita dei profitti, Merz è cresciuto e ha poi dato il suo contributo. Nel 2008 il candidato cancelliere per la CDU ha scritto un libello dal titolo esplicativo: Osare più capitalismo.

Le garanzie sociali, i diritti dei lavoratori, il sostegno ai disoccupati sono solo un peso per lo sviluppo e la Germania deve liberarsene, per tornare a crescere a ritmi adeguati alle esigenze delle imprese, che devono essere sostenute riducendo le tasse ai ricchi.

Merz copia sfacciatamente Milei ed Elon Musk.

Il miliardario ex sudafricano più ricco del mondo, fanatico della diseguaglianza come motore della crescita, ha anche dato un contributo fondamentale allo sdoganamento della leader neonazista tedesca. Musk non solo ha esaltato Weidel come la “sola salvezza” del suo paese, ma in una intervista le ha permesso di affermare senza pudore che Hitler fosse “comunista” ed antisemita.

Questo delirio revisionista ha una sua logica, perché in questo modo la candidata cancelliere della AfD ha potuto contemporaneamente compiere due professioni di fede legittimanti: il liberismo economico e il sostegno ad Israele.

E poi naturalmente ci sono la deportazione dei migranti e lo stato di polizia, sui quali Merz e Weidel, come abbiamo appena visto, votano assieme già oggi.

In una Germania in profonda crisi economica, dove la folle guerra contro la Russia e l’ostilità alla Cina hanno distrutto i tradizionali sbocchi del sistema industriale e dove la Volkswagen annuncia i più grandi tagli di personale dal dopoguerra, il programma economico di estrema destra ha bisogno di costruire consenso con il razzismo di stato contro i migranti.

È una ricetta antica: ai lavoratori e ai poveri che perdono lavoro e diritti, si spiega che il loro nemico non sono le banche, i ricchi, le multinazionali con i loro stratosferici profitti. Il nemico del popolo tedesco sono i migranti che rubano lavoro e diritti. La ricetta razzista di Trump e Musk è assunta totalmente da Merz.

E se Merz e Weidel sostengono le stesse posizioni e sono in piena sintonia con la nuova amministrazione USA, perché alla fine, magari dopo un poco di schermaglie tattiche, non dovrebbero governare assieme? Solo perché Scholz, la SPD e i Verdi tedeschi chiedono di mantenere l’esclusione dal governo di AfD perché neonazista?

Come sono credibili questi sedicenti “antifascisti” che hanno sostenuto in modo fanatico la guerra alla Russia, che stanno con Israele anche nel genocidio palestinese e anzi definiscono antisemita chi lo denuncia! E che ora, per seguire l’onda reazionaria si mettono anch’essi a lanciare proclami contro "l’immigrazione incontrollata".

Come sono alternativi alla destra SPD e Verdi che della destra finiscono per essere una fotocopia sbiadita e che in Europa stanno con la baronessa Ursula von der Leyen, collega di partito di Merz e alleata di Giorgia Meloni!

Quello che sta accadendo in Germania è quello che è accaduto in Italia, in gran parte d’Europa e negli Stati Uniti.

Quando le sinistre liberal-democratiche adottano politiche liberiste e di guerra, possono restare al governo solo se l’economia va molto bene. Altrimenti è l’estrema destra, comunque nominata o mascherata che vince. Certo, questo non vuol dire che tornino dittature come quelle del secolo scorso, in generale la forma esteriore della democrazia rimane, ma la sua sostanza di giustizia, eguaglianza, pace, viene distrutta passo dopo passo.

Fino a che non si costruiranno la rottura e l’alternativa a liberismo e guerra, la destra conservatrice e liberale si sposterà sempre più su posizioni reazionarie e fasciste. Liberali e fascisti si avvicinano sempre di più in Occidente; e se questo percorso può essere chiamato da noi e altrove liberalfascismo, per ovvie ragione storiche la convergenza tra Merz e Weidel diventa liberalnazismo.

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[Contributo al dibattito] - Teheran tra la “massima pressione” di Trump e le possibilità di una intesa /2

La nuova amministrazione americana non ha ancora espresso una posizione ufficiale su come affrontare la questione del nucleare iraniano. Tuttavia, pochi giorni dopo il suo insediamento, Trump, in un’intervista a Fox News, ha espresso la speranza che i problemi dell’Iran vengano risolti senza la necessità di “un attacco da parte di Israele”. “L’unica cosa che ho detto sull’Iran – voglio che abbiano un grande paese, hanno un grande potenziale, la gente è straordinaria – è che non possono avere un’arma nucleare”, ha detto Trump.

Ci sono diversi indizi che lasciano ipotizzare che la nuova amministrazione americana tenterà di aprire un dialogo con Teheran. Secondo alcune fonti americane, questo processo sarebbe già stato avviato attraverso la mediazione europea. Sembra che durante l’incontro dei rappresentanti dell’Iran e della Troika europea a Ginevra, tenutosi una settimana prima del ritorno di Donald Trump per discutere del programma nucleare di Teheran, l’Iran abbia avanzato una “proposta” per negoziare un nuovo accordo nucleare con la partecipazione del governo americano.

Secondo alcuni osservatori, Trump è determinato a ottenere un accordo con la Repubblica Islamica a tutti i costi, per presentarlo come una sua vittoria diplomatica. In questa prospettiva, ci si possono aspettare minacce e, forse, anche un inasprimento delle sanzioni economiche imposte all’Iran, in particolare nel settore energetico e nelle esportazioni di petrolio. In extremis, Trump potrebbe persino considerare l’opzione di un attacco agli impianti nucleari iraniani, nella sua visione di ottenere accordi vantaggiosi attraverso una dimostrazione di forza. Tuttavia, è difficile pensare che il bullismo politico possa funzionare con gli iraniani, come invece ha recentemente avuto successo con i colombiani.

La situazione della regione non è più la stessa rispetto al primo mandato di Trump. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno avviato un processo di distensione stabile e tangibile con la Repubblica Islamica. Il tentativo di sostenere i diritti dei palestinesi rappresenta, almeno apparentemente, la preoccupazione principale per i paesi arabi. Il tema degli Accordi di Abramo, che Trump considera la “soluzione del secolo”, non sembra più occupare una posizione di rilievo nell’agenda dell'area. L’Arabia Saudita ha finora subordinato la normalizzazione delle relazioni con Israele alla creazione di uno Stato palestinese indipendente. Durante il primo mandato di Trump, le tensioni tra l’Iran e i due paesi arabi avevano raggiunto il loro apice. Sebbene questa situazione rimanga fragile, non vi è alcuna garanzia che stavolta questi paesi collaborino con Trump nella sua politica di “massima pressione”.

Un eventuale fallimento nel raggiungere un accordo con Teheran si rifletterebbe negativamente sull’immagine del presidente e avrebbe un impatto negativo sulla possibilità di avviare ampie iniziative regionali, prima fra tutte un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Ancora più importante, potrebbe portare a un’escalation di tensioni nella regione.

Secondo molti analisti indipendenti iraniani, il programma nucleare si è rivelato un piano profondamente dannoso per gli interessi nazionali, compromettendo gravemente sia l’economia che la sicurezza del paese. Ha portato all’imposizione di sanzioni senza apportare alcuna reale utilità e ha fornito un pretesto al regime israeliano per giustificare, dietro la minaccia iraniana, le sue nefaste aggressioni contro i palestinesi, eludendo che il problema principale sia l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi.

L’arricchimento dell’uranio alla soglia del 60% è stato sfruttato come uno strumento di negoziazione con l’Occidente dopo l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo. Per costruire una bomba nucleare, l’Iran avrebbe bisogno di raggiungere la soglia del 90% di arricchimento dell’uranio. Teheran ha ripetutamente dichiarato di non avere alcuna intenzione di costruire un’arma nucleare e, secondo i servizi di intelligence americani, non ci sono evidenze concrete che indichino un movimento in quella direzione. Inoltre, un’arma nucleare potrebbe creare una deterrenza, ma non sarebbe comunque in grado di risolvere i gravi problemi economici che Teheran sta affrontando.

In una visione ottimistica, sembra possibile un accordo sulla riduzione dell’arricchimento dell’uranio al 5% e una supervisione serrata da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica a Teheran, in cambio della rimozione graduale delle sanzioni, lasciando le altre questioni per negoziati futuri. Ciò rappresenterebbe una vittoria per il governo di Pezeshkian, che, rafforzando la sua posizione all’interno del paese, potrebbe spingersi a negoziare anche su altri temi controversi. Un simile accordo incontrerebbe il malcontento dei settori più intransigenti e ultraconservatori del potere della Repubblica Islamica, ma troverebbe il favore e il sostegno della popolazione.

Ma è quasi certo che Trump e i suoi alleati metteranno sul tavolo delle negoziazioni anche altri temi, oltre alla questione nucleare, come la politica regionale, il programma missilistico iraniano e la sicurezza di Israele, che potrebbero rivelarsi determinanti per il raggiungimento di un accordo.

Se l’amministrazione americana includesse nell’agenda i 13 punti di John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale durante il primo mandato di Trump, che miravano a costringere Teheran a modificare radicalmente la sua politica e la strategia militare, la speranza di un accordo diventerebbe quasi nulla.

Tuttavia, si sa che la questione non è così semplice, e dal cappello del presidente Trump potrebbero emergere richieste o soluzioni imprevedibili. Inoltre, il predominio del settore della sicurezza e della difesa negli Stati Uniti, la complessa burocrazia, la separazione dei poteri e le dinamiche che influenzano le relazioni estere e gli equilibri di potere globali potrebbero rendere difficile l’attuazione completa anche delle volontà del neo-presidente.

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Il mercato del lavoro italiano in Europa: ultimo per occupati e tra i primi per precarietà

Abbiamo più volte smontato le dichiarazioni propagandistiche del governo sul mondo del lavoro italiano. Sia che fossero sui mirabolanti numeri spacciati per “grande conquista delle politiche di Palazzo Chigi” o semplici uscite posticce contro il salario minimo, in un paese in cui le retribuzioni reali continuano a diminuire.

Con l’inizio del nuovo anno, pronti a sentire altri proclami senza senso, è bene ricordare la condizione del mercato del lavoro del nostro paese in Europa. Perché a guardare gli ultimi dati Eurostat disponibili, che fanno riferimento al 2023, appare evidente come il Bel Paese sia un inferno per i lavoratori.

Per onestà, bisogna dire che dal 2021 l’occupazione è cresciuta, e si sono ridotti i contratti a tempo determinato e il part time involontario. Ma il punto rimane: la perfomance italiana è stata tra le peggiori del Vecchio Continente, e confrontata con gli altri paesi europei ci vede agli ultimi posti in varie classifiche.

Innanzitutto, siamo all’ultimo posto per tasso di occupazione tra i 27 membri UE, sia in generale che per ciò che riguarda l’occupazione femminile: 61,5 occupati ogni 100 persone tra i 15 e i 64 anni, e solo 52,5 quando si tratta di donne. L’aumento di questo tasso non è stato tra i più brillanti tra il 2019 e il 2023, e siamo stati dunque superati anche dalla Grecia.

La percentuale di occupati a “tempo determinato volontario” è di certo diminuita dal 2019 (-5,3%), ma si attesta ancora all’8,3%. Solo in tre fanno peggio di noi: Portogallo, Spagna e Cipro, tre paesi del Sud Europa, alla periferia produttiva delle filiere continentali riorganizzate dal Trattato di Maastricht in poi.

Stando a studi OCSE, l’Italia detiene comunque il record di donne costrette a un part time involontario, pur essendo disponibili a svolgere un lavoro a tempo pieno. Al 2023, si parla del 50,2% del totale delle occupate, una su due. Anche in questo caso siamo all’ultimo posto nella UE, con ben 15 paesi sotto il 20%.

Se a ciò si aggiungono altri dati Eurostat – quelli che riportano come la media europea del reddito reale sia salita, sempre nel 2023, da 110,12 a 110,82 (dove 100 è il valore del 2008), ma quella italiana è calata da 94,15 a 93,74 – il quadro del mercato del lavoro italiano risulta piuttosto deludente, per usare un eufemismo.

Viviamo in un paese in cui la precarietà rimane dilagante e in cui, al contrario della narrazione dominante, la “voglia di lavorare” non solo non manca, ma viene frustrata dall’imposizione involontaria del tempo parziale. Ovviamente, a subirne le conseguenze maggiori sono innanzitutto i segmenti più ricattabili della popolazione.

Anche perché – e questo va sottolineato – la deindustrializzazione e l’imposizione di un modello di sviluppo fondato su filiere ad alta intensità di lavoro, ma a basso valore aggiunto (basti pensare a tutto ciò che gira intorno alla turistificazione) favoriscono il ricambio continuo di una forza lavoro non specializzata.. che così rimane sempre alla mercé del mercato.

Altro che “grandi conquiste” del governo. Qui c’è l’affossamento di un paese, la cui responsabilità va in capo a tutta la classe dirigente e a tutte le forze politiche che si sono alternate nell’ultimo ventennio. Almeno...

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Morta Marianne Faithfull, icona della Swinging London e del rock inglese

di Claudio Fabretti

Marianne Faithfull è morta all’età di 78 anni. Lo scrive la BBC, citando il portavoce della cantante e attrice inglese. “È con profonda tristezza che annunciamo la scomparsa della cantante, cantautrice e attrice Marianne Faithfull”, si legge in una nota. “Marianne si è spenta serenamente oggi a Londra, in compagnia della sua amata famiglia. Ci mancherà moltissimo”.

Marianne Faithfull era nata a Londra il 29 dicembre 1946 ed era arrivata nel mondo della musica a metà degli anni '60, quando aveva appena 17 anni. Emerse con la forza di una personalità fragile e fiera al contempo. Con una carriera che si estende per oltre cinque decenni, Faithfull ha saputo reinventarsi continuamente, passando da icona della Swinging London assieme a Mick Jagger, con cui ebbe una tormentata relazione tra il 1966 e il 1970, e coautrice di successi dei Rolling Stones come "Sister Morphine", a interprete e autrice tra le più apprezzate della musica britannica.

La sua carriera musicale iniziò nel 1964, quando fu scoperta da Andrew Loog Oldham, manager dei Rolling Stones. Il suo primo singolo, "As Tears Go By", scritto da Mick Jagger, Keith Richards e lo stesso Oldham, divenne subito un successo, lanciandola nell'olimpo del pop britannico. Il brano, con la sua melodia malinconica e la voce cristallina di Faithfull, segnò l'inizio di un periodo di grande notorietà.

Negli anni '60, Faithfull divenne una figura centrale della Swinging London, sia per la sua musica che per la sua relazione con Mick Jagger. Durante questo periodo, pubblicò una serie di singoli di successo, tra cui "This Little Bird" e "Come And Stay With Me". Tuttavia, il suo album "Love In A Mist" (1967) segnò un punto di transizione artistica, con influenze folk e orchestrali.

Gli anni '70 furono caratterizzati da una vita personale turbolenta e da un periodo più buio per la sua carriera. La dipendenza da droghe e i problemi di salute portarono Marianne Faithfull lontano dalla scena musicale. Tuttavia, nel 1979 tornò in modo trionfale con l'album "Broken English", considerato una pietra miliare della new wave e del rock. Con brani come "The Ballad Of Lucy Jordan" e "Why D'Ya Do It?", Faithfull mostrò una voce ruvida e intensa, capace di trasmettere emozioni crude e autentiche.

Negli anni '80 e '90, Marianne Faithfull continuò a esplorare nuovi territori musicali con album come "Strange Weather" (1987) e "A Secret Life" (1995), collaborando con artisti del calibro di Angelo Badalamenti e Metallica. Parallelamente, si affermò anche come attrice, apparendo in film come "Intimacy" (2001), "Marie Antoinette" (2006) e "Irina Palm" (2007), oltre che in diversi adattamenti teatrali.

Negli anni 2000, Faithfull consolidò il suo status di icona artistica con album come "Before The Poison" (2005), in collaborazione con Nick Cave e PJ Harvey, e "Negative Capability" (2018), che affronta riflessioni su temi come la perdita e la resilienza.

La sua voce unica, le sue interpretazioni profonde e il suo spirito indomito hanno contribuito a renderla un modello di riferimento per generazioni di artiste. Con brani immortali come "As Tears Go By", "Broken English" e "The Ballad Of Lucy Jordan", annoverati ormai tra gli evergreen della popular music.

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30/01/2025

Burying the Ex (2014) di Joe Dante - Minirece

We are not robots – “L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata”

di Gioacchino Toni

Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 18,00

Se Bruce Schneier (La mente dell’hacker, 2024) invita a guardare all’hacker come, nella maggioranza dei casi, ad un operatore al servizio dei potenti, Davide Fant e Carlo Milani ne prospettano una tipologia votata piuttosto a sottrarsi al potere, legata non tanto agli smanettoni in solitaria, quanto, piuttosto agli «hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un forte approccio comunitario ed emancipante nei confronti della tecnologia».

È a partire dalla sperimentazione e condivisione mutualistica di competenze e attitudini maturate in tali ambienti che Fant e Milani, e con loro il Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche (CIRCE), hanno iniziato a discutere di “pedagogia hacker”.

L’illusione con cui in tanti avevano accolto gli strumenti digitali come liberatori dell’umanità (categoria assai vasta) senza dirsi esplicitamente da quali vincoli (da chi/cosa) ha in molti lasciato il posto al disincanto: «la solitudine dilaga, ci si sente in continua competizione, impotenti, agiti» tanto sul lavoro quanto nei contesti che si vorrebbero extra-lavorativi (distinzione che è sempre più difficile fare nell’epoca del capitalismo digitale che ha saputo estendere a dismisura la produttività quotidiana pagandone una minima parte), mentre nel frattempo si muovono rimproveri trasudanti ipocrisia nei confronti dei più giovani, incapaci di staccarsi dall’universo digitale dello smartphone.

Davide Fant e Carlo Milani, come raccontano in Pedagogia hacker (elèuthera, 2024), a partire dalle esperienze laboratoriali attivate negli ultimi anni, hanno inteso «rispondere all’urgenza di un’educazione sui temi del digitale che ponga al centro le relazioni fra persone e tecnologie» al fine di «sviluppare un metodo che produca spazi liberati, dalla produttività forzata, dall’efficienza necessaria, in cui si incontrano la tecnologia e l’organico, i corpi umani e gli apparecchi elettronici, la politica e il codice sorgente, la poesia e la fantascienza speculativa; in cui si possano assumere le nostre vulnerabilità e alimentare la capacità di immaginare». Si tratta pertanto di una pedagogia volta a individuare e proporre «tecnologie appropriate non solo perché adeguate, ma perché proprie, riappropriate da noi».

L’attitudine hacker – rivolta, oltre ai computer, a «qualsiasi sistema tecnico di interazione, a qualunque apparecchio artificiale reso operativo per via elettrica, meccanica o in altro modo» – viene riassunta dagli autori come: approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia; desacralizzazione della tecnica; apprendimento come piacere; apprendimento come frutto della ricerca e della esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali; dimensione sociale del sapere e conoscenza come bene collettivo.

Se, come mostrano le esperienze laboratoriali, per i bambini è più immediato attivare e costruire attitudine hacker, per gli adulti si tratta di riattivare l’arte del fai da te, dell’arrangiarsi, del riciclare e re-inventare attività comuni soffocate dai meccanismi abitudinari dettati dal consumismo e dal produttivismo economico. Si tratta di riscoprire il lato puramente ludico del rapporto con le tecnologie sfuggendo alla sua “messa a profitto” (gamificazione): «ci si fa hacker e si gioca per liberare il gioco, per recuperarne la dimensione visionaria e rivoluzionaria, per riscoprire la sua caratteristica imprescindibile di atto libero, aperto, creatore, caratteristica propria dell’umano come lo definiva già lo storico e filosofo Johan Huizinga alla fine degli anni Trenta».

Gli autori si dicono convinti della possibilità di costruire, insieme, «macchine conviviali, create per alleviare le fatiche e per il piacere di vivere bene insieme, nella meraviglia della continua scoperta del poter fare tecnico; macchine molto diverse dalle macchine industriali, create per l’estensione del dominio, per lo sfruttamento del mondo tramite il dominio sulla materia».

Scrivono Fant e Milani che, alla base di ogni pedagogia emancipante, «sta il porsi domande, chiedersi: Perché? Come funziona? Deve essere per forza così? Un atteggiamento tipico dei bambini (e dei visionari)», oltre che degli hacker.

La ricerca di uno spazio alternativo per le tecnologie, sostengono gli autori, deve ripartire dal corpo. È necessario «arginare la spinta delle troppe macchine al servizio dell’ansia di dominio, impazienti di renderci automi automatizzati e prevedibili». Facendo riferimento anche, ma non solo,  all’intelligenza artificiale, se ci si preoccupa del fatto che le macchine si stanno facendo “troppo umane”, non di meno occorrerebbe guardarsi anche dal fatto che queste contribuiscono a diffondere modelli di interazione e comportamento che appiattiscono gli esseri umani.

Da tutto ciò deriva la necessità di sviluppare un’attitudine hacker capace di spingere «ad assumere una posizione attiva per inventare qualcosa di nuovo fuori dagli schemi, a sperimentare, a rischiare la carta della creatività personale e collettiva». Tutto ciò, sottolineano Fant e Milani, occorre sperimentarlo collettivamente impegnandosi a costruire nuovi ambienti relazionali. Il volume racconta come e cosa è stato sperimentato in questi anni nei laboratori del gruppo CIRCE senza ambire a farsi modello da replicare, nella piena consapevolezza che si possono sperimentare altre modalità anch’esse mosse dalle medesime finalità di liberazione individuale/collettiva.

We are not robots – serie completa

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Congo - La presa di Goma e la battaglia dell’informazione nello scontro internazionale /1

Nella tarda mattinata di martedì 28 gennaio – 36 ore dopo lo scadere dell’ultimatum del portavoce dell’M23, che aveva intimato alle forze della coalizione governativa della Repubblica Democratica del Congo/RDC (esercito regolare/FARDC, milizie etniche/Wazalendo, mercenari europei, ribelli hutu ruandesi delle FDLR – eredi dei genocidari del 1994 –, unità della SAMIDRC – la missione dell’Africa Australe sotto comando sudafricano –, di deporre le armi nelle basi delle Nazioni unite (NU), la popolosa città di Goma, più di 1 milione di abitanti, capitale del Nord Kivu nell’Est della RDC, è ormai sotto il pieno controllo dell’Esercito Rivoluzionario Congolese (ARC, secondo l’acronimo francese), ala militare del Movimento del 23 marzo (M23), la ribellione in guerra col governo dal novembre del 2021.

Mentre si preparano per il loro primo meeting cittadino, indetto alle 15.30, ora locale, le truppe ribelli hanno già occupato i locali della Radio-Televisione nazionale congolese (RTNC) e l’aeroporto. Intanto, gli ultimi nuclei di resistenza dei «lealisti» sono allo sbando nei quartieri periferici. Un fuga disordinata con l’abbandono di decine di mezzi blindati. Altri militari delle FARDC (Forze armate della Repubblica democratica del Congo) hanno approfittato del corridoio umanitario che era stato offerto loro e si sono rifugiati nelle sedi dei Caschi Blu, dove sono entrati in uniforme e usciti... in abiti civili.

Da segnalare come grottesco e non unico paradosso di una situazione sulla quale i grandi mezzi di comunicazioni di massa hanno fatto disinformazione a piene mani per ragioni che vedremo più avanti, c’è la fuga di centinaia di soldati governativi aldilà della frontiera, dove sono stati accolti benevolmente dalle autorità del Ruanda... Quello stesso Ruanda che, nelle cancellerie occidentali e non solo, oltre che nelle istanze delle Nazioni Unite, è considerato il paese «aggressore» e di cui l’M23 sarebbe solo un burattino in servizio telecomandato.

Questa narrazione, operante come une spessa cortina fumogena che impedisce la lettura corretta della crisi congolese, le cui origini risalgono all’inizio degli anni 2000, comincia finalmente a essere messa in discussione, soprattutto da parte africana.

Sabato 25 gennaio, mentre l’M23 si preparava ad entrare a Goma, il comunicato della Commissione dell’Unione Africana (UA) designava, e per la prima volta, l’M23 come «opposizione politico-militare» al governo ed invitava Kinshasa, capitale della RDC, ad aprire i negoziati con i suoi dirigenti.

D’altronde, il fatto che il presidente della RDC, Félix Tshisekedi Tshilombo, continui a non volerne sapere di sedersi al tavolo delle trattative con i capi dell’M23 (argomentando che, dietro di loro, si cela la mano del Ruanda...) comincia ad irritare seriamente soprattutto i suoi partner africani. In particolare i presidenti dell’Angola e del Kenia, Joao Laurenço e William Ruto, che si adoperano da anni per trovare una soluzione alla crisi nelle due sedi del «Processo di Luanda» e del «Processo di Nairobi».

Tanto più che, dal 15 dicembre 2023, la direzione dell’M23 fa parte di una più vasta coalizione di forze d’opposizione pan-congolesi denominata Alleanza del fiume Congo (AFC), il che rende ancor meno credibile la narrazione di un movimento ribelle che sarebbe in realtà un surrogato dell’esercito ruandese (RDF).

Per il resto, obiettivi e rivendicazioni dell’M23 sono conosciuti da sempre da tutti gli attori e gli osservatori del conflitto. Se nell’immediato Bertrand Bisimwa e Sultani Makenga – rispettivamente presidente e capo militare della ribellione – sono al lavoro par quella che chiamano la «mutazione delle condizioni di sicurezza della città di Goma» per tutti i suoi abitanti, da anni perseguitati dalle violenze e dagli abusi di una soldatesca indisciplinata e mal pagata, e per il ritorno conseguente degli sfollati fuggiti in seguito ai recenti combattimenti, questa linea di condotta è assolutamente iscritta nel programma di fondo del movimento.

Programma in cui la protezione delle popolazioni (R2P, responsabilité de protéger, secondo la dottrina dell’ONU) resta l’asse principale della sua azione e, più in generale, della sua esistenza.

Nelle cosiddette «zone liberate», i militari e i civili dell’M23 svolgono un’attività profonda di sensibilizzazione volta alla riconciliazione delle diverse comunità, specialmente laddove erano insorti conflitti o dove le autorità governative avevano creato le condizioni per deprecabili litigi e violenze inter-tribali, diffondendo discorsi di odio per dividere i diversi gruppi etnici.

Ci si domanda allora: cosa ha a che vedere una presunta “macchinazione di Kigali”, la capitale del Ruanda, con l’insorgenza di un gruppo di militanti e di combattenti che, nell’Est della RDC, si battono da anni per ricreare le condizioni della sicurezza della vita collettiva e della coesistenza pacifica tra le differenti comunità?

Se l’M23 è un movimento di Congolesi, per la maggior parte originari delle provincie orientali, e il conflitto che imperversa da lunghi anni nella zona è l’espressione di una crisi tutta congolese, come e perché è nata la cortina fumogena che ne occulta le cause originarie e addita – all’opinione internazionale e ai potenti di questo mondo – il capro espiatorio ruandese come “colpevole” di tutti i mali della RDC, le cui autorità sono per giunta sistematicamente sdoganate da 24 anni nonostante un mal governo costellato da massacri sistemici e da una predazione illimitata?

Le radici della ribellione dell’M23 risalgono alla fine della guerra del 1998-2002. Al termine delle ostilità tra i paesi e i movimenti belligeranti (il Ruanda e l’Uganda contro la RDC, in particolare), l’Est della RDC continuava e essere preda delle violenze dei vecchi genocidari delle FDLR (le Forze democratiche di liberazione del Ruanda, alleate da sempre e per sempre con i diversi regimi e governi congolesi).

Quest’ultimo gruppo era arrivato nell’Est del Congo 9 anni prima, nell’estate del 1994, dopo essere stato sconfitto dalle forze patriottiche ruandesi che avevano messo fine al genocidio dei Tutsi (aprile-luglio 1994). Qui, i suoi combattenti avevano cominciato a dare la caccia ai Tutsi congolesi, per finalizzare l’opera di sterminio cominciata, ma non terminata, in Ruanda.

Da quell’epoca a oggi, questa situazione, invece di risolversi, si è aggravata, e i gruppi etnici oggetto di violenze a carattere genocidario si sono estesi dai Congolesi ruandofoni (Tutsi, ma anche Hutu dell’Est RDC), ai Banyamulenge del Sud Kivu, ai Nande del Grande Nord del Nord Kivu e agli Hema dell’Ituri.

I primi gruppi antigovernativi di resistenza a questa situazione di violenze endemiche – favorita dalle autorità secondo il vecchio principio del divide et impera, hanno cominciato a formarsi nel 2003. Nel 2005, il generale tutsi Laurent Nkunda ha fondato il Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP), di cui l’M23 è l’erede.

Durante tutto questo periodo, dal 2003 all’incirca – ma anche a partire dall’inizio della guerra scoppiata nel 1998 – fino ad oggi, una narrazione romanzesca si è sviluppata invadendo le tv, la stampa, i social, le Nazioni Unite e la diplomazia internazionale.

Questa versione artificiale dei fatti ha cancellato dal contesto storico le fonti della crisi, la presenza di politiche tribaliste e razziste da parte del potere congolese, e quella di forze operanti di conseguenza. Il tutto per rinviare all’opinione pubblica l’immagine di un Ruanda “destabilizzatore” dell’Est RDC, animato dall’intenzione mal celata di appropriarsi delle sue ingenti ricchezze in minerali strategici.

Non deve meravigliare che Parigi sia il motore principale di questa questa narrazione che è stata elaborata, e continua ad esserlo attraverso i suoi pseudo “esperti”, mobilitati nel Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace delle NU (DPKO, secondo l’acronimo inglese), da sempre un suo feudo, ed incaricati di divulgare ed aggiornare la versione fittizia.

Corresponsabile del genocidio di 1 milione de Tutsi nel 1994, la Francia continua ad avere il dente avvelenato contro Kigali, i cui dirigenti attuali le hanno fatto subire, 31 anni fa, una delle rare sconfitte in terra africana. Se è vero che da qualche anno è stato messo in atto dalle due capitali un riavvicinamento tutto diplomatico, l’Eliseo continua a mestare nel torbido ed accusa ancor oggi Paul Kagame, presidente del Ruanda, di teleguidare l’M23 in un’aggressione contro il suo vicino congolese.

Il tutto avviene con la piena consapevolezza che il persistere di questa narrazione è diventato oggi forse l’ostacolo principale alla soluzione della crisi.

Ma che importa alla Francia, e alle altre grandi e medie potenze che la seguono in questa avventurosa disinformazione, quando la demonizzazione del Ruanda è simmetrica al sostegno di un regime, quello della RDCD, da cui si aspettano, come ritorno, fior di contratti a buon mercato e svendita delle risorse naturali strategiche?

Sia comunque aggiunto, come stimolo alla riflessione, che l’azione dell’M23 si iscrive a pieno titolo nelle dinamiche decoloniali ed antifasciste del Multicentrismo e dell’opposizione a un mondo unipolare dominato dal blocco euro-atlantico, in cui la continuità di un Congo «mercato aperto» alle multinazionali, come dai tempi di Re Leopoldo (1865-1908) è uno dei presupposti da cui non derogare.

Spiace allora veder cadere nella trappola della narrazione imperialista diverse forze progressiste che si esprimono oggi in appoggio ad un regime congolese che pratica ormai da anni una politica di oppressione e di massacri di stampo genocidario sulle proprie popolazioni civili.

È d’obbligo allora una domanda: si può sostenere la lotta dei Palestinesi contro il genocidio a Gaza ed appoggiare nello stesso tempo, direttamente o solo indirettamente, il regime della RDC che pratica lo sterminio delle sue sue popolazioni?

Comunque sia, su questa complessità, ritorneremo periodicamente con altri interventi nello svilupparsi degli avvenimenti che si preannuncia tumultuoso.

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USA - Precipitato un'altro F-35

Un F-35 di quinta generazione, appartenente all’US Air Force, è precipitato martedì 28 gennaio alle 12:49 in Alaska durante un volo di addestramento. L’incidente è avvenuto presso la base aerea di Eielson, durante l’avvicinamento nella fase di atterraggio (qui le immagini dell’impatto)

La causa dell’incidente

A quanto si apprende, il pilota ha segnalato una situazione di emergenza alla torre di controllo e si è eiettato dalla cabina di pilotaggio. Attualmente si trova ricoverato presso il Bassett Army Hospital, sotto osservazione.

L’Associated Press riporta che il pilota “ha avuto un malfunzionamento in volo”, come ha dichiarato in una conferenza stampa il colonnello dell’Aeronautica Militare Paul Townsend, comandante del 354° Fighter Wing.

I tanti incidenti accaduti all’F-35

Quello di martedì è l’ennesimo incidente negli ultimi anni che riguarda il caccia di quinta generazione prodotto da Lockheed Martin.

Nel settembre 2018, un F-35B del Corpo dei Marines si è schiantato nella Carolina del Sud.

Nell’aprile 2019, un F-35A giapponese è precipitato nell’Oceano Pacifico al largo del Giappone settentrionale.

Nel maggio dell’anno successivo, un F-35A dell’aeronautica statunitense si è schiantato in Florida durante un’addestramento di routine.

Nel settembre del 2023, un incidente analogo a quello occorso cinque anni prima è occorso a un altro F-35B dei Marine, caduto ancora nella Carolina del Sud.

Nel 2024, ad aprile, un F-35B sempre dei Marines è stato danneggiato da un colpo sparato con il suo stesso cannone. A maggio invece lo stesso modello di caccia si è schiantato fuori dal perimetro della base aerea di Albuquerque.

La produzione di Lockheed Martin

Lo scorso anno Lockheed Martin ha consegnato 110 caccia F-35 alle forze armate statunitensi e ai suoi alleati, raggiungendo il massimo della consegne pianificate per il periodo, comprese tra i 75 e i 110 aerei.

Dall’inizio della produzione, i caccia prodotti sono stati più di 1.000, numero accreditato di triplicare nel corso del prossimo decennio, al ritmo di 100-150 modelli annui.

Si può ancora parlare di superiorità tecnologica occidentale?

La scorsa settimana avevamo trattato il dilemma in cui si trova il Regno Unito, alle prese con la scelta di valore strategico tra la scelta dell’F-35 statunitense o l’Eurofigheter europeo, il primo tecnologicamente più avanzato, il secondo con un maggior impatto per l’industria e il lavoro nell’Isola – al netto delle considerazioni geopolitiche.

La realtà è che la superiorità tecnologica occidental-statunitense, anche in campo militare, mostra i segni del tempo e della crisi in cui sì è ficcato il blocco euroatlantico.

La vicenda DeepSeek, così come accaduto per Huawei o Lenovo in altri settori, non sono che manifestazioni di un tendenza che emerge con sempre più frequenza: l’inizio della fine dell’egemonia occidentale anche nel campo dello sviluppo tecnologico, dove la Cina sta lanciando la sfida non più come “fabbrica del mondo”, ma come “segmento più sviluppato della catena del valore”.

A giudicare dalle performance dell'“avanzatissimo” F-35, al pari degli andamenti dei maggiori titoli hi-tech sui mercati finanziari, forse al Pentagono hanno smesso di dormire sonni tranquilli.

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Germania - Sdoganati i neonazisti, fine della recita “democratica”

Cade l’ultima fragile barriera «europea ed europeista» che impediva alla destra neofascista di determinare le politiche di un Paese. Ed è accaduto in Germania, il più importante e grande dei paesi europei.

Era anche rimasto l’unico a tener fuori dalle maggioranze parlamentari, magari solo per approvare una singola legge, gli eredi del nazismo. E non a caso l’hanno fatto sull’immigrazione, diventata dappertutto l’unico o principale «tema politico» su cui viene indirizzata una insicurezza sociale crescente che origina, però, da tutt’altre condizioni concrete: salari bloccati da anni (quasi venti, in Germania), potere d’acquisto in calo, precarietà occupazionale, crisi industriale colossale (l’automotive a pezzi), riduzione del welfare (anche se, certo, non nella misura in cui è stato tagliato in Italia), disuguaglianze crescenti e sfacciate, sottosviluppo dell’Est rispetto al resto del paese.

Il tutto per opera della «democrazia cristiana», ovvero la Cdu ora guidata da Friedrich Merz, che ha presentato e farà approvare – non appena avrà vinto le elezioni, da qui ad un mese – provvedimenti di drastica restrizione sia per nuovi ingressi di migranti che per la cacciata di colore che vengono considerati “indesiderabili” o semplicemente in esubero.

“Sì, potrebbe essere che l’AfD, per la prima volta, renda possibile l’approvazione di una legge necessaria”, ha detto Merz mercoledì in un acceso dibattito parlamentare. “Ma signore e signori, siamo di fronte alla scelta di continuare a guardare impotenti mentre le persone nel nostro paese vengono minacciate, ferite e uccise”, ha proseguito, “o di alzarci e fare ciò che è indiscutibilmente necessario in questa materia”.

AfD non è solo un partito chiaramente neonazista, ma ha anche recentemente ottenuto l’apprezzamento esplicito di Elon Musk, nuovo boss dei tecnomiliardari (“superare il complesso di colpa per il passato”), a sancire che il nuovo capitalismo occidentale spalanca di nuovo le porte alla dittatura genocida pur di provare a mantenere l’egemonia sul mondo.

Le giustificazioni per la scelta democristiana sono ridicole, perfettamente uguali a quelle che – in Italia o altrove – sono state sempre sollevate per operazioni simili. Il cambio di rotta di Merz per accettare tale sostegno fa infatti parte di un presunto sforzo pre-elettorale per “riconquistare gli elettori che sono passati all’estrema destra a causa della questione migratoria”.

Jürgen Hardt, un alto parlamentare della CDU, ha detto alla stampa che la mossa aiuterà a garantire che i partiti mainstream smettano di perdere voti a favore dell’AfD e potenzialmente ne riconquistino alcuni. “Ci stiamo assicurando che nessun altro si avvicini all’AfD, perché possono trovare una risposta politica alle loro preoccupazioni urgenti all’interno dei partiti democratici”.

Un po’ come Walter Veltroni che ogni tre per due sentenzia che “la sinistra si deve occupare della sicurezza”, no? Ed in effetti anche il cancelliere uscente Scholz, “socialdemocratico”, ha fatto qualcosa di simile negli ultimi giorni del suo mandato e nella prima parte della campagna elettorale in corso. Salvo indignarsi, ieri, dalla tribuna parlamentare quando questo modo di “cedere terreno” alla destra arriva contro il muro degli atti concreti.

Non ci vogliono geni della politica per capire che se ti adatti a seguire l’agenda politica fissata dall’ultradestra farai una politica di ultradestra (a prescindere da chi ci mette la faccia in un primo momento), diffonderai ulteriormente il virus autoritario, suprematista, razzista, “coccolandolo” come comprensibile, giustificato, ecc.

È interessante far notare che lo schema ideologico del vecchio nazismo tedesco si vada così riproponendo ora quasi integralmente. Semplicemente ha sostituito l’antisemitismo storico con l’odio razziale contro i migranti. Trovato il nuovo “nemico”, il resto può tornare (o forse non se n’era mai andato davvero)...

La Germania, ricordiamo, è in questo momento il paese europeo – insieme forse alla Francia – in cui la sedicente lotta all’“antisemitismo” si manifesta come divieto legale di qualsiasi critica allo Stato di Israele (dunque, in realtà, all’“antisionismo”; ad una linea politica, insomma, non condivisa peraltro neanche da tutti gli ebrei nel mondo).

Dopo aver pasticciato con le ideologie – prima dichiarandone la “fine” in nome del “pensiero unico” neoliberista (il famoso “non c’è alternativa” della Thatcher), poi equiparando tutte le ideologie non liberali come “dittatoriali” – ora l’establishment europeo e tedesco in particolare si ritrova esattamente al punto di partenza: imbarcare il neonazismo nella gestione del paese.

Tutte le contorsioni ideologiche possibili sono infatti rintracciabili nella “giustificazione” che lo stesso Merz ha voluto dare alla sua scelta: “Sì, potrebbe essere che l’AfD, per la prima volta, renda possibile l’approvazione di una legge necessaria”, ha detto Merz. “Ma signore e signori, siamo di fronte alla scelta di continuare a guardare impotenti mentre le persone nel nostro paese vengono minacciate, ferite e uccise, o di alzarci e fare ciò che è indiscutibilmente necessario in questa materia”.

Sfruttamento cinico di qualche episodio di cronaca nera (sulle cui cause concrete sarebbe magari il caso di interrogarsi), disinvoltura altrettanto cinica nell’accettazione dei “complici di strada” e solita teoria del “non si può fare diversamente”.

La crisi economica dell’Occidente neoliberista è lentamente scivolata verso la crisi di egemonia globale. Ma ora sta rapidamente degenerando in devastazione morale. Sotto la volontà di dominare il mondo, insomma, non c’è più niente. Né “democrazia”, né “valori”, né speranze di miglioramento.

Non c’è futuro, su questa strada...

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Intelligenza artificiale: la Francia apre la strada alla sorveglianza di massa in Europa

Riconoscimento facciale in tempo reale, interpretazione delle emozioni, categorizzazione dei pensieri religiosi, sessuali e politici... La Francia ha attivamente spinto affinché queste pratiche fossero autorizzate dall’«AI Act», il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, come rivelano Disclose e Investigate Europe attraverso documenti confidenziali.

Immaginate di partecipare a una manifestazione per il clima, indossando un distintivo o mostrando un cartello. Una telecamera “intelligente” rileva questi segnali, registra il vostro volto e trasmette le immagini alla polizia per confrontarle con un database di persone ricercate per crimini ambientali. Anche se non comparite in quel database, i dati restano archiviati. Oppure pensate a un naufrago appena sbarcato sull’isola di Lampedusa. Fermato, viene interrogato con una telecamera in grado di rilevare emozioni. Il sistema registra segni di nervosismo, paura o indecisione e conclude che il migrante mente sulla sua età o origine. La sua richiesta di asilo viene respinta.

Questi scenari, che sembrano usciti da un film di fantascienza, potrebbero diventare realtà nelle prossime settimane. Il 2 febbraio entreranno in vigore gli articoli più controversi – definiti “rischi inaccettabili” – del regolamento europeo sull’intelligenza artificiale (IA), aprendo una serie di porte alla possibilità di controllare gli spazi pubblici. Eppure, il regolamento avrebbe dovuto regolamentare l’uso dell’intelligenza artificiale per proteggerci dalle minacce ai diritti fondamentali e alle libertà pubbliche in Europa. Tuttavia, dopo due anni di negoziati segreti tra gli Stati europei, questo quadro è stato smantellato dalle pressioni della Francia, che ha ottenuto esenzioni significative imponendo il tema della “sicurezza nazionale”.

Questo emerge dall’analisi di un centinaio di documenti riservati sull’AI Act, ottenuti da Disclose e Investigate Europe. I resoconti delle negoziazioni rivelano come Parigi sia riuscita ad aprire una breccia per consentire la sorveglianza di massa negli spazi pubblici.

La “linea rossa” della sicurezza nazionale

Il lobbying della Francia inizia alla fine del 2022. In quel momento, i dibattiti sul progetto della Commissione europea, avviato nell’aprile 2021, sono particolarmente tesi. Al centro delle discussioni tra i 27 Paesi dell’UE vi è la classificazione dei rischi legati all’uso dell’IA. Parigi si oppone fin da subito all’idea che la futura legge europea vieti alcune tecnologie particolarmente invasive, considerate “rischi inaccettabili” per le libertà pubbliche.

Il 18 novembre 2022, durante una riunione a porte chiuse con i suoi omologhi europei, il rappresentante francese dichiara, secondo un resoconto in possesso delle due testate: «L’esclusione delle questioni di sicurezza e difesa [dal quadro del regolamento]... deve essere mantenuta a tutti i costi». Con questa richiesta, la Francia vuole mantenere la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale in tempo reale negli spazi pubblici, in caso di rischio per la sicurezza nazionale. Lo stesso vale per il mantenimento dell’ordine pubblico. Una fonte coinvolta nei negoziati conferma: «La Francia considera l’ordine pubblico parte della sicurezza nazionale; per questo ha richiesto che tutti gli aspetti del mantenimento dell’ordine siano esclusi dal regolamento. È l’unico Paese ad aver chiesto questa esclusione totale».

Manifestanti accusati di disturbare l’ordine pubblico potrebbero così diventare bersagli legali del riconoscimento facciale. Il governo francese e i suoi rappresentanti a Bruxelles, interpellati più volte, non hanno risposto alle domande di Disclose e Investigate Europe.

Matignon in prima linea

L’attivismo della Francia a favore di tecnologie altamente invasive è confermato da una lettera inviata, a fine novembre 2023, al Segretariato del Consiglio dell’UE. Questo documento, ottenuto dalle due testate, è firmato dal Segretariato Generale degli Affari Europei (SGAE), un servizio sotto l’autorità di Matignon e responsabile del coordinamento interministeriale per le politiche europee. Il testo ribadisce la “linea rossa” della Francia sulla sicurezza nazionale e insiste per poter utilizzare l’IA negli spazi pubblici “in caso di emergenza giustificata”.

Gli sforzi della Francia sono stati premiati. L’articolo 2.3 dell’AI Act afferma infatti che «il presente regolamento (...) non pregiudica le competenze degli Stati membri in materia di sicurezza nazionale». Secondo Aljosa Ajanovic, membro dell’EDRI, un’organizzazione per la difesa dei diritti dei cittadini europei, questo principio «permette di introdurre sistemi di sorveglianza biometrica di massa che rischiano di influenzare pesantemente le nostre libertà di movimento, di riunione, di espressione, oltre che la nostra privacy».

L’articolo 46, paragrafo 2 del regolamento europeo specifica inoltre che «in una situazione di emergenza debitamente giustificata per ragioni eccezionali di sicurezza pubblica (...) le autorità di polizia» possono utilizzare «un servizio di IA ad alto rischio specifico», senza previa autorizzazione.

Appartenenza religiosa e politica

Se uno Stato ritiene che la sua sicurezza sia a rischio, potrà anche cercare una persona sulla base della “razza, opinioni politiche, affiliazione sindacale, convinzioni religiose o filosofiche, vita sessuale o orientamento sessuale”, grazie alla scienza algoritmica. Una grave minaccia alle libertà pubbliche e ai diritti civili, come emerge da un passaggio della lettera del Segretariato Generale agli Affari Europei. In esso si sottolinea che la Francia ritiene «molto importante preservare la possibilità di cercare una persona sulla base di criteri oggettivi che esprimano una convinzione religiosa o un’opinione politica».

Un badge di un movimento ambientalista classificato come “estremista e violento” potrebbe quindi giustificare l’attivazione di telecamere pilotate dall’intelligenza artificiale.

«È agghiacciante vedere l’UE consentire alle sue polizie di utilizzare questi sistemi per tentare di rilevare l’orientamento sessuale», si indigna Félix Tréguer, autore di Technopolice, la sorveglianza poliziesca nell’era dell’IA e portavoce della Quadrature du Net, un’associazione francese per la difesa delle libertà digitali. «Anche questa è l’intelligenza artificiale», prosegue, «il ritorno di teorie naturalizzanti, pseudoscienze e categorie arbitrarie, ora integrate in potenti sistemi automatizzati per attuare la violenza di Stato».

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«La maggior parte delle volte, le persone non sapranno di essere state sorvegliate»

Sarah Chander, cofondatrice dell’ONG Equinox

Durante le discussioni sull’AI Act, la Francia ha posto altre due “linee rosse”. Parigi ha infatti richiesto che le prigioni e le aree di controllo alle frontiere fossero « escluse dalla definizione di spazio pubblico », come emerge dal resoconto di una riunione del novembre 2023. Anche in questo caso, insieme a Paesi come la Grecia, la Francia è riuscita a ottenere ciò che voleva.

Tra poche settimane, gli Stati membri potranno quindi implementare sistemi di riconoscimento delle emozioni alle loro frontiere. Si tratta di software che, collegati a una telecamera, potranno essere utilizzati durante interrogatori di persone migranti. L’obiettivo sarà, ad esempio, quello di valutare – con un grado di affidabilità più o meno alto – il loro livello di nervosismo o ansia, per capire se mentono sul loro Paese di origine, sull’età o sulle ragioni che li hanno spinti a partire. « Ciò che è subdolo nell’uso dell’intelligenza artificiale da parte della polizia e nei controlli migratori è che, la maggior parte delle volte, le persone non sapranno di essere state sorvegliate da questi sistemi », denuncia Sarah Chander, cofondatrice di Equinox, un’ONG che combatte le discriminazioni razziali in Europa.

Dietro l’attivismo della Francia si cela infine il desiderio di lasciare maggiore libertà di azione all’industria europea dell’intelligenza artificiale. Lo lascia intendere il rappresentante francese durante una riunione del 15 novembre 2023: « bisogna mettere in guardia con urgenza contro gli impatti negativi [che potrebbe avere il regolamento] sulla capacità di innovazione dell’UE », dichiara. Insiste, aggiungendo che c’è il rischio che « le aziende trasferiscano le loro attività in regioni dove i diritti fondamentali non hanno alcun peso ».

Un mese dopo, Emmanuel Macron riprende lo stesso argomento. Secondo il presidente francese, regolamentando « molto più velocemente e molto più severamente rispetto ai nostri principali concorrenti, finirà che regoleremo cose che non produrremo più o che non inventeremo ». A Bruxelles, molti interpretano queste dichiarazioni come un sostegno neanche troppo velato a una punta di diamante della “start-up nation” francese: Mistral AI.

Questa società francese annovera tra i suoi azionisti Cédric O, stretto collaboratore di Macron ed ex segretario di Stato per il digitale. È lui che si occupa anche delle relazioni pubbliche dell’azienda, il cui cofondatore, un anno fa, dichiarava: « Nella sua forma finale, l’AI Act è perfettamente gestibile per noi».

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L’Iraq interviene per mediare tra la Turchia e le SDF

Il governo iracheno sta attivamente cercando di mediare tra la Turchia e le Forze Democratiche Siriane (SDF), secondo un alto funzionario iracheno. Questo sforzo è stato evidenziato durante la visita del ministro degli esteri turco Hakan Fidan a Baghdad, dove ha incontrato il primo ministro iracheno Mohammed Shia Al-Sudani.

Lo stesso funzionario ha spiegato ad Al-Akhbar che la visita di Fidan ha gettato le basi per potenziali incontri regionali a Baghdad, che coinvolgono leader di Siria, Turchia, Iran e rappresentanti della regione del Kurdistan iracheno.

Queste discussioni mirano ad affrontare questioni di sicurezza, tra cui la rinascita dell’ISIS dopo la caduta del regime di Assad, la presenza del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) nel nord dell’Iraq e la sicurezza delle prigioni controllate dalle SDF, in particolare il campo di Al-Hol, che ospita migliaia di detenuti dell’ISIS e le loro famiglie. Baghdad teme che il rilascio di questi detenuti possa destabilizzare la sicurezza dell’Iraq.

Durante i colloqui, Fidan avrebbe chiesto all’Iraq di designare formalmente il PKK come organizzazione terroristica, andando oltre la sua attuale classificazione di gruppo messo al bando. Ha anche proposto la formazione di una sala operativa militare congiunta iracheno-turca per combattere il PKK.

Il ministro degli Esteri iracheno Fuad Hussein, in una conferenza stampa congiunta con la sua controparte turca, ha sottolineato la persistente minaccia dell’ISIS lungo il confine tra Iraq, Siria e Turchia. Ha affermato che le discussioni hanno riguardato la sicurezza regionale, i contatti in corso con la nuova amministrazione siriana e i futuri incontri per affrontare il terrorismo e questioni regionali più ampie.

Da parte sua, Fidan ha sottolineato l’importanza strategica delle relazioni con l’Iraq, riaffermando la necessità di un coordinamento della sicurezza, in particolare per quanto riguarda l’ISIS e il PKK. Ha, inoltre, sottolineato l’importanza dell’iniziativa “Development Road” dell’Iraq lanciata l’anno scorso, esprimendo la disponibilità della Turchia a contribuire a progetti legati allo sviluppo della regione.

L’analista politico Ali Al-Nasseri reputa la visita di Fidan principalmente incentrata sulla sicurezza, con lo scopo di discutere del futuro della Siria e sostenere la sua nuova amministrazione. Ha detto ad Al-Akhbar che proteggere il confine tra Iraq, Siria e Turchia è diventato fondamentale in seguito agli sviluppi in Siria. Ha ipotizzato che la Turchia potrebbe cercare un accordo che coinvolga tutte le parti per stabilizzare la regione, in appoggio alla nuova amministrazione siriana guidata da Ahmad Sharaa e a discapito delle attività delle SDF.

Al-Nasseri ha osservato che il ruolo di Baghdad è diventato fondamentale nei rapporti di forza regionali emergenti, suggerendo che l’Iraq potrebbe mediare le controversie e ospitare una conferenza complessiva. Alcuni report suggeriscono che Baghdad stia pianificando incontri di alto livello nelle prossime settimane per affrontare gli sviluppi regionali, tra cui il “Baghdad Dialogue Summit”.

Si prevede che l’evento riunirà personaggi chiave tra cui Hakan Fidan, il ministro degli Esteri del governo provvisorio siriano Asaad Al-Shibani, il comandante delle SDF, Mazloum Abdi e altri attori influenti per risolvere i contrasti che ostacolano il progresso regionale.

Contemporaneamente, il generale statunitense Kevin Leahy, comandante delle forze della coalizione internazionale in Iraq e Siria, ha incontrato il Primo Ministro Al-Sudani a Baghdad.

Secondo l’ufficio di quest’ultimo, i due hanno discusso della sicurezza regionale e della cooperazione tra le forze di sicurezza irachene e i consiglieri della coalizione, nel combattere i resti dell’ISIS. Al-Sudani ha ribadito l’impegno dell’Iraq nello sradicare i gruppi terroristici, evidenziando i significativi progressi compiuti nel proteggere i confini iracheni e prevenire l’infiltrazione terroristica negli ultimi due anni.

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Il Mediterraneo allargato dell’energia nei piani di Italia e UE

Negli ultimi giorni il governo italiano è stato molto attivo sul lato diplomatico e degli accordi economici nell’orizzonte di un più stretto collegamento con il Mediterraneo allargato, da Gibilterra al Golfo Persico. Un’area considerata strategica per la capacità della UE di competere a livello internazionale.

A Villa Madama, alla presenza del ministro degli Esteri Tajani e di quello dell’Ambiente, è stata firmata un’intesa con Austria, Germania, Tunisia e Algeria per il SoutH2 Corridor. Si tratta delle condutture che dovrebbero portare fino a 4 milioni di tonnellate di idrogeno verde in Europa, aiutando a raggiungere il target di 10 milioni entro il 2030.

Questa infrastruttura è parte della strategia comunitaria sulla diversificazione delle fonti di energia, e nel dicembre 2024 è stata inserita tra i progetti bandiera per l’anno in corso degli investimenti del Global Gateway. Ricordiamo come tale programma sia stato analizzato da Oxfam, Counter Balance ed Eurodad, che ne hanno rimarcato il carattere neo-coloniale e predatorio.

Sono le grandi aziende, e in generale il sistema imprenditoriale dei paesi europei a trovare vantaggio nel Global Gateway, mentre sugli altri attori coinvolti si riversano i costi sociali e ambientali di queste attività. E non a caso, a margine dell’incontro a Villa Madama, si è svolto pure un forum imprenditoriale.

Sono di certo i “prenditori” italiani a trovare il maggiore interesse nel corridoio dell’idrogeno, dato che dei 3.300 chilometri di conduttore, riadattate o costruite ex novo, 2.300 saranno nel Bel Paese. Un altro tassello di quel Piano Mattei che vuole dare all’Italia il ruolo di hub energetico della UE.

Salvatore Bernabei, direttore di Enel Green Power e Thermal Generation, ha parlato del progetto pilota che col governo tunisino punta alla produzione di idrogeno verde nel paese africano. Un’iniziativa in linea con lo “spirito di partenariato su cui si fonda il Piano Mattei”.

“L’obiettivo – ha aggiunto – è quello di integrare sempre più il Nord Africa con l’Europa, facendo dell’Italia uno snodo fondamentale per la sicurezza energetica del continente”. Tajani ha parlato di un impegno di investimento futuro che potrebbe arrivare a 400 milioni di euro, il doppio rispetto allo scorso triennio.

A questi si aggiunge l’elettrodotto Elmed, che passerà sul fondale del Canale di Sicilia e unirà Capo Bon con la stazione elettrica di Partanna, in Sicilia. Il costo complessivo è preventivato sugli 850 milioni di euro, di cui 300 saranno finanziati dal Connecting Europe Facility, il fondo comunitario per il potenziamento delle infrastrutture energetiche.

Con questi progetti, infatti, la classe dirigente europea spera di far fronte al problema che ha mandato in crisi l’industria europea negli ultimi anni: i costi dell’energia. È stato sempre Tajani a parlare di una “diplomazia della crescita” che “non può prescindere dal tema fondamentale dell’energia” per rendere le filiere competitive con gli altri grandi attori globali.

Sulla stessa scia si pongono anche gli accordi chiusi da Meloni in Arabia Saudita, alla fine della scorsa settimana. La presidente del consiglio ha firmato la dichiarazione congiunta sulla partnership strategica da instaurare con la dinastia araba, che si svilupperà largamente su vari settori, dal comparto bellico ai trasporti, dalla cultura fino a quello dell’energia, appunto.

Dei 10 miliardi di dollari di operazioni concluse a Riad, ben 6,6 miliardi sono legati a cinque accordi siglati da SACE. Tra di essi, uno è con Acwa Power, colosso saudita che si occupa di idrogeno verde e desalinizzazione, processo centrale nella produzione del primo, il quale richiede importanti quantità di acqua per l’elettrolisi.

Sempre Acwa Power ha firmato anche un memorandum con Snam, finalizzato a stabilire investimenti congiunti per la fornitura di idrogeno verde all’Europa, e anche per valutare la possibilità di creare un terminale di importazione dell’ammoniaca nella penisola, usata anch’essa nel trasporto dell’idrogeno e in questo caso collegata direttamente al SoutH2 Corridor.

Anche le intese perfezionate da Cassa depositi e prestiti e da Ansaldo riguardano progetti energetici e infrastrutturali da realizzarsi per lo più in Africa, inserite dai vertici italiani sempre dentro la cornice del Piano Mattei. Ma con Ansaldo è evidente che il focus, a Riad, si è spostato anche sul settore militare.

Fincantieri ha aperto una collaborazione con Aramco nella cantieristica civile in Arabia Saudita, mentre con Ozone for Military Industries Company cercherà di ritagliarsi uno spazio nei servizi logistici per navi militari. Elettronica S.p.A. ha firmato due intese che riguardano la difesa, l’aerospazio e la cybersicurezza.

Ovviamente, non poteva mancare Leonardo, che rinnova il memorandum già firmato a inizio 2024 ed apre la strada alla “espansione della collaborazione industriale nel campo dei sistemi di combattimento aereo e in ambito elicotteristico”, si legge in una nota dell’azienda.

Il riferimento al caccia di sesta generazione che il campione italiano delle armi sta sviluppando, insieme alla britannica BAE Systems e alla nipponica Mitsubishi, lo ha esplicitato la stessa Meloni: “siamo favorevoli all’ingresso dei sauditi nel Gcap” (il nome del progetto, ndr), il che li integrerebbe ulteriormente nella filiera di guerra euroatlantica.

A metà gennaio Palazzo Chigi aveva già chiuso un patto tripartito con Emirati Arabi Uniti e Albania. Con esso sono stati definiti i termini di una collaborazione per lo sviluppo delle rinnovabili nel paese balcanico, “con particolare attenzione – si legge in una nota – al fotovoltaico solare, all’eolico e a soluzioni ibride con potenziale di accumulo tramite batterie”.

Collegata a questi progetti è anche la costruzione di un cavo sottomarino per il trasporto di energia sostenibile da Valona alle coste pugliesi. Un altro evidente esempio del “colonialismo verde” su cui ormai si vanno raccogliendo vari contributi (di cui Dismantling Green Colonialism è di certo uno dei più completi).

Un quadro di questa proiezione, di cui l’esecutore è Roma ma il mandante è Bruxelles, è stato presentato al Parlamento Europeo proprio il 28 gennaio, col sesto rapporto “Med & Italian Energy Report 2024”. Il documento è stato redatto dal Centro Studi SRM, collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo, e dal Politecnico di Torino.

Il focus del testo è sul Mediterraneo come crocevia decisivo per il futuro energetico europeo, e sull’Italia come ponte naturale su questo specchio d’acqua. La UE è l’attore globale con la maggiore dipendenza da fonti esterne (il 58% del fabbisogno energetico è soddisfatto da importazioni).

Ma il nodo sottolineato è anche quello del commercio dei beni energetici, la cui geografia evolve con le tensioni geopolitiche e con il ridimensionamento della transizione verde. In particolare, il ruolo dei porti e dei colli di bottiglia (Hormuz, Malacca, Suez) di questo specifico mercato è attenzionato per le opportunità future che può offrire all’Italia.

Riportiamo un ampio passaggio della sintesi per la stampa del rapporto, preparata da Intesa Sanpaolo, partendo dai dati sui colli di bottiglia, perché mette in fila una serie di numeri e di questioni centrali per comprendere gli interessi strategici in gioco:
“Nei primi 11 mesi del 2024 sono passati attraverso Hormuz il 34% del commercio di greggio, il 14,3% dei prodotti raffinati, il 25,6% del gas ed il 18% dell’GNL. Per lo Stretto di Malacca invece è transitato circa il 33,5% del commercio di greggio insieme al 13% circa dei prodotti raffinati, al 15,1% degli idrocarburi gassosi ed al 17% dell’GNL”.

“Altro nodo cruciale nelle catene dell’approvvigionamento è il Canale di Suez. La sua posizione lo rende uno snodo regionale fondamentale per il trasporto di petrolio e altri idrocarburi; sono transitati per Suez il 5% del commercio totale di petrolio (greggio + raffinati), il 2,2% degli idrocarburi gassosi e l’1,2% dell’GNL. Valori che in prospettiva, quando avverrà la normalizzazione in Medio Oriente, potrebbero tornare ad essere ben superiori”.

“[…] I porti del Mediterraneo hanno nel tempo assunto il ruolo di nodi cruciali nella catena di approvvigionamento energetico, consentendo l’importazione e l’esportazione di petrolio, prodotti petroliferi raffinati e GNL. I porti si stanno configurando come veri e propri hub energetici e digitali oltre che logistici”.

“Accanto al ruolo di hub per le commodity fossili, i porti stanno diventano anche luoghi strategici per la transizione green e per favorire il “ponte energetico” tra Europa e Nord Africa. […] Le stime autorevoli dell’ESPO (European Sea Port Organization) hanno mostrato come la sostenibilità sarà il driver strategico degli investimenti dei porti europei nei prossimi 10 anni”.

“[...] Per i porti italiani il segmento energy vale il 35% del totale movimentato”
e il 69% del traffico si concentra in 5 porti: Trieste, Cagliari, Augusta, Milazzo e Genova. Il futuro è però considerato quello dei modelli green port, che uniscono innovazione e sostenibilità nell’orizzonte della transizione energetica.

Sempre nel rapporto si legge che entro il 2026 si prevede che una nave su dieci sarà alimentata da carburanti alternativi come GNL, metanolo, ammoniaca e idrogeno. Per il GNL, i terminali di Porto Levante, Ravenna e Piombino, e in generale quest’ultimo insieme a quelli di Trieste e Augusta, che stanno integrando recenti tecnologie, potrebbero diventare dei punti di riferimento almeno continentali.

Insomma, l’inizio del 2025 ha visto svilupparsi quella catena di legami, investimenti e ‘sicurezza’ che unisce Bruxelles al Mediterraneo allargato, passando attraverso il Piano Mattei e accordi simili. Un’equazione in cui l’esternalizzazione dei confini per la gestione dei flussi di manodopera va di pari passo con intese militari e politiche energetiche predatorie.

Questa proiezione euro-mediterranea andrebbe combattuta, incrinata e ribaltata, in forme di lotta e solidarietà internazionalista che vanno fatte crescere su entrambe le sponde del mare.

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29/01/2025

Charlie - Anche i cani vanno in paradiso (1989) di D. Bluth, G. Goldman - Minirece

La “democratura” di Meloni, o l’Occidente 2.0

Dopo esserci abboffati di talk show monotematici e ricostruzioni giornalistiche di diverso orientamento, ci sembra di poter dire che il nuovo “caso Meloni” sia abbastanza semplice.

L’ex ragazza del Movimento Sociale almirantiano, oggi primo ministro (e prima donna in tale ruolo), nonché al momento unica abbastanza salda sulla sedia tra i premier europei, per di più simpaticamente ammessa alla corte di Musk e Trump insieme a Milei, ha ricevuto dal Procuratore capo di Roma – Francesco Lo Voi – la segnalazione di essere stata iscritta nel registro degli indagati in seguito alla denuncia presentata da un privato cittadino, per quanto “speciale”: l’avvocato Luigi Li Gotti. La cronaca dei fatti è ricostruita fedelmente in questo altro articolo.

I reati contestati dall’avvocato sono favoreggiamento personale (nei confronti del generale libico Najeen Osama Almasri) e peculato (per l’uso dell’aereo di Stato utilizzato dai servizi segreti per rimpatriarlo). A farle compagnia sono i ministri della giustizia Carlo Nordio, quello dell’interno Piantedosi e il sottosegretario Mantovano (che ha la delega ai servizi segreti).

Di certo non è un “avviso di garanzia” e non si tratta di una iniziativa della magistratura.

Quindi su questo aspetto Meloni mente. Punto.

L’avvocato Li Gotti, peraltro, dovrebbe essere una sua vecchia conoscenza in quanto era stato come lei un militante del Movimento Sociale almirantiano, poi traslocato ovviamente in Alleanza Nazionale e infine approdato in Italia dei Valori (finto partito personale dell’ex commissario di polizia Antonio Di Pietro, protagonista dell’operazione di lawfare chiamata “Mani pulite”) giusto in tempo per fare il sottosegretario in un governo Prodi.

Professionalmente, Li Gotti è stato protagonista di processi importanti. Avvocato difensore del mafioso pentito Buscetta, legale di parte civile dei familiari del commissario Calabresi e di alcuni dei carabinieri caduti in via Fani, oltre che di altri pentiti di mafia. In pratica un rappresentante di destra nell’“antimafia” e nell’“antiterrorismo”, sulla linea del giudice Borsellino che non aveva mai nascoste le sue simpatie per “la fiamma” che ancora campeggia sotto il simbolo di Fratelli d’Italia.

Un ex amico, insomma, che tira una imprevista coltellata. Capita, in politica, anche a destra, dove comunque hanno mantenuto una qualche capacità di non lasciare indietro nessuno o quasi dei vecchi complici di gioventù...

Ma i magistrati non c’entrano nulla, in questo caso. Specie se si tiene conto che proprio ieri hanno votato per rinnovare i vertici dell’ANM premiando con la maggioranza relativa la corrente più di destra (Magistratura Indipendente, quella che fu anche di Mario Sossi ed altri), considerata da tutti “filogovernativa”.

Del resto, come i nostri lettori sanno, non abbiamo mai avallato la narrazione idiota per cui sarebbero esistite le “toghe rosse” contro il potere politico. I pochi magistrati “di sinistra” che hanno attraversato gli ultimi 50 anni si sono in genere occupati di problemi sociali o politici in senso lato, non certo delle piccole faide intestine tra conventicole imprenditorial-partitiche.

Dunque Meloni, descrivendo il “non avviso” come un “attacco della magistratura”, ha mentito anche su questo. Punto.

Il resto – “non sono ricattabile”, ecc. – è pura retorica per condire il piatto principale.

Che è secondo noi questo.

In Italia come in tutto l’Occidente neoliberista – negli Usa come nell’Unione Europa – la crisi economica e di egemonia sta riducendo al minimo i margini per la mediazione sociale e quindi anche per quella politica. Sia interna ai singoli Paesi che tra Paesi diversi.

La mediazione del resto si fa con la spesa pubblica, e se da un lato cala la possibilità di rapinare il resto del mondo (o di far pagare ad altri i nostri debiti), dall’altra “va ridotto la spesa sociale” per favorire il riarmo, ecco che la struttura fondamentale della “democrazia liberale” viene stritolata.

Nella Storia degli ultimi due secoli, a dir tanto, si è avuta “libertà democratica” – parziale, certo, al massimo come libertà di espressione e manifestazione, e solo finché restavano nell’ambito delle compatibilità nella gestione degli affari politici – solo quando gli interessi sociali contrapposti mantenevano un relativo equilibrio. Come si diceva ai tempi dei democristiani, in cui tutti, bene o male, avevano un pasto e una casa sicuri.

Questo non è più vero da almeno 30 anni, ma ora la somma delle diseguaglianze sta diventando incommensurabile. La quantità di ricchezza appropriata da pochi e il dilagare della povertà/precarietà esistenziale nell’assoluta maggioranza, è uno squilibrio sempre più ingestibile con i mezzi della “democrazia parlamentare”. Anche perché i centri di comando sono ormai stati trasferiti in altra sede (così come le industrie principali hanno delocalizzato, anche se in posti diversi).

Unione Europea, sul piano economico, e Nato su quello militare sono dispositivi istituzionali che non prevedono reale opposizione interna, frequenti frenate nelle catene di comando, interrogativi sul senso di quel che si va decidendo. Siamo entrati in una guerra senza accorgercene e siamo incapaci (come governi occidentali) persino di immaginarne l’uscita senza catastrofe finale.

Sul piano interno, questa somma di vincoli economico-militari hanno da tempo imposto una linea unica di governo, chiunque occupi temporaneamente le poltrone dell’esecutivo. Macron, Schroeder, Meloni, Starmer, ecc., sono indistinguibili tra loro nel concreto fare. Si differenziano solo per le dichiarazioni di circostanza, e nemmeno sempre.

L’offensiva degli interessi oligarchici – tecno-finanziari e militari – va dunque imponendo in tutto l’Occidente un nuovo modello di regolazione istituzionale che non prevede più alcuna “tripartizione dei poteri”, secondo il modello della Rivoluzione francese. Né partecipazione popolare, né eguaglianza politica tra tutti i cittadini (tanto meno “davanti alla legge”!), né libertà individuale (un daspo è più frequente di una contravvenzione), né stato di diritto, né autentica libertà di espressione (il “pluralismo” ormai è una cacofonia tra voci simili).

Né, soprattutto una reale “alternanza politica” sugli indirizzi da dare al Paese di appartenenza. Si moltiplicano a macchia d’olio i casi di elezioni considerate “non valide” se a vincere sono i partiti “sbagliati”. E non vale più solo per gli Stati dove è in corso un processo rivoluzionario di trasformazione sociale (il Venezuela, per esempio), ma ormai anche per paesi semi-periferici del “centro” imperiale occidentale (Romania, Georgia, Slovacchia, ora anche Serbia; ma non per l’Austria in mano ai neonazisti, guarda caso...).

Ovunque si va imponendo una forma di “governo monocratico” senza contrappesi istituzionali. E, fin quando non saranno abolite le elezioni – ridotte a passiva scelta tra prodotti tutti uguali attraverso spot televisivi – il “vincitore giusto” potrà e dovrà agire come oligarchia comanda.

Di fronte a questo processo le lamentele “democratiche” di chi non siede momentaneamente al governo risultano un tantinello vacue, comunque senza presa persuasiva. Quello che si va delineando, infatti, non è “il ritorno del fascismo”, ma qualcosa di peggio. Come del resto abbiamo cominciato a spiegare da qualche tempo...

Ci sono similitudini, è evidente. I processi reazionari, in fondo, si somigliano sempre. E ogni volta i “democratici liberali” si strappano le vesti inorriditi dalla rozzezza dei mostriciattoli che loro stessi hanno allevato e protetto quando non contavano nulla.

Un secolo fa si contrapposero, in Germania, ballando sui cadaveri degli Spartachisti uccisi a Berlino, la “democrazia liberale di Weimar” – che enunciava regole ed equilibri tutti dotati di logica e fascino kantiano – e la brutalità del “suprematismo ariano” che voleva farsi strada affermando il “nomos della terra” e del sangue.

Sappiamo com’è andata.

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