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31/03/2022

Pollice da scasso (1978) di William Friedkin - Minirece

Guerra in Ucraina - Tregua possibile ma la partita si gioca in Donbass. Evacuazione civili da Mariupol. Il rublo cresce sul dollaro

Il finale di partita prima di una possibile tregua nella guerra in Ucraina si giocherà probabilmente nel Donbass.

Il fronte militare

La Russia “sta ammassando le truppe per nuovi attacchi nel Donbass e ci prepariamo per questo” ha detto il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in uno dei suoi discorsi televisivi. Mosca aveva annunciato ieri un riposizionamento dei suoi soldati per la “liberazione completa” del Donbass.

Le autorità russe hanno affermato che il 54 per cento della regione di Donetsk e 93 per cento di quella di Luhansk sono sotto il proprio controllo. Se confermati sono dati che mostrano come questa sia l’area dove sono stati raggiunti i risultati più importanti dell’operazione militare russa. Al 24 febbraio scorso, data dell’inizio della guerra, infatti i separatisti controllavano circa un terzo dell’intera regione del Donbass. Secondo le informazioni fornite dai servizi di intelligence occidentali, la Russia ha inviato dieci nuovi gruppi tattici per partecipare all’offensiva militare, di cui la maggior parte dovrebbero essere di stanza nel Donbass.

Il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashenkov ha affermato che le unità delle forze armate della Federazione Russa, hanno preso il pieno controllo del villaggio di Zolotaya Niva, superando il fiume Kashlagach e che le truppe della Repubblica di Lugansk, dopo aver completato il controllo di Zhytlovka, sono avanzate di cinque chilometri e stanno combattendo con le forze ucraine alla periferia di Kremenna.

Mariupol

Il ministero della difesa russo ha annunciato un cessate il fuoco locale a Mariupol per consentire l’evacuazione dei civili dalla città portuale assediata dell’Ucraina. Lo riporta la France-Presse. Un corridoio umanitario da Mariupol a Zaporizhzhia, attraverso il porto di Berdiansk controllato dai russi, è stato istituito dalle 10 del mattino (7 Gmt), ha detto il ministero. “Affinché questa operazione umanitaria abbia successo, proponiamo di realizzarla con la partecipazione diretta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e del Comitato Internazionale della Croce Rossa”, si legge nella nota.

“Questa sera abbiamo ricevuto un messaggio dal Comitato Internazionale della Croce Rossa sulla conferma da parte della Russia di essere pronta ad aprire un corridoio umanitario da Mariupol con transito per Berdyansk” ha affermato la vice prima ministra Iryna Vereshcuk su Telegram, annunciando l’invio da parte di Kiev di 45 autobus verso Mariupol.

La città portuale di Mariupol, facente parte della regione di Donetsk, da settimane si trova sotto assedio. La presenza in città del battaglione Azov, ha costretto i militari russi e gli uomini delle milizie della Repubblica di Donetsk a estenuanti scontri “casa per casa”, uno scenario tipico del conflitto in teatro urbano. I miliziani del battaglione Azov sono asserragliati in tre sacche all’Acciaieria, al porto e in un altro quartiere. La fuoriuscita dei civili da Mariupol, di fatto, faciliterebbe le operazioni russe per prendere il controllo della città.

Chi spara sulla Croce Rossa?

L’Ansa nel primo pomeriggio di ieri sparava un titolone in prima pagina sul fatto che a Mariupol era stato bombardato un edificio della Croce Rossa, fortunatamente senza vittime, anche perchè si trattava di un magazzino. Un atto ingiustificabile sicuramente, sempre sperando che nessun uomo armato o postazione armata fosse arbitrariamente presente nel magazzino. La notizia è stata diffusa dalla Pravda ucraina ma era stata ripresa solo da pochissimi media internazionali con il medesimo lancio uguale su tutte le testate.

Lo stesso portavoce della Croce Rossa in Ucraina ha confermato che le immagini circolate sui social media di un edificio distrutto erano magazzini appartenenti all’organizzazione a Mariupol.

La fonte della foto sono i miliziani del battaglione Azov.

Lo stesso battaglione Azov nel Twitter che ha diffuso la foto così commentava il ruolo della Croce Rossa Internazionale: “È necessario sottolineare che il CICR ha cooperato più strettamente con i russi recentemente. In particolare, aiutano la deportazione forzata degli ucraini nel paese aggressore e progettano di aprire un centro di accoglienza per gli ucraini a Rostov, in Russia”. (testuale dal loro profilo Twitter)

Occorre aggiungere però che nei giorni scorsi gli attacchi più duri alla Croce Rossa erano venuti proprio dalle autorità ucraine ferocemente contrarie ad aprire dei campi della Croce Rossa in Russia per i profughi che dall’Ucraina si sono rifugiati lì.

Ed anche ieri c’è stato un nuovo attacco: “Stiamo assistendo al cattivo esempio della Croce Rossa internazionale che sta aprendo un ufficio a Rostov sul Don” città russa a meno di 150 chilometri dal confine con l’Ucraina “e questo è il teatro dell’assurdo”. Lo ha dichiarato il sindaco di Leopoli, Andriy Sadovyi, nel suo intervento al gruppo di lavoro sull’Ucraina del Comitato europeo delle regioni. “Non sappiamo dove vadano a finire tutti i soldi donati alle organizzazioni internazionali”. Insomma chi ha sparato veramente sulla Croce Rossa?

Negoziati

David Arakhamia, rappresentante della delegazione ucraina, ha annunciato ieri sera che i colloqui di pace fra Kiev e Mosca riprenderanno domani in formato di videoconferenza. Arakhamia ha spiegato che, nel corso dell’ultimo incontro con la delegazione russa a Istanbul, i rappresentanti ucraini hanno proposto di organizzare un incontro fra i presidenti Zelensky e Putin. La delegazione di Mosca, tuttavia, ha respinto per il momento la proposta, affermando che è prematura e che è necessario lavorare ulteriormente per concordare una bozza di accordo di pace prima che i due capi di Stato si possano incontrare. Zelensky ha affermato ieri sera che i negoziati non hanno ancora portato ad accordi concreti, ma che sia innegabile che le proposte messe sul tavolo da ambo le parti abbiano quantomeno sbloccato lo stallo delle prime tornate negoziali.

Potrebbe volerci almeno un anno prima che l’Ucraina tenga un referendum sulla sua neutralità. Lo ha affermato il capo della delegazione ucraina ai colloqui di pace con la Russia, stando a quanto scrive la BBC. La neutralità ucraina è una richiesta fondamentale della Russia per porre fine alla guerra.

Sanzioni ed economia: il rublo recupera sul dollaro

Il rublo recupera sul dollaro e torna di slancio ai valori pre-aggressione russa contro l’Ucraina, attestandosi a quota 76 (-5,263%): per l’acquisto di un dollaro, in altri termini, servono adesso 76 rubli, contro gli 84,95 del 24 febbraio e i 139,7 registrati il 7 marzo nel momento di massima debolezza. Il trend rialzista ha beneficiato dell’ipotesi non esclusa dalla Cina di usare rubli o yuan nel commercio di fonti energetiche, in base a quanto riportato dalla Tass, citando il ministero degli Esteri di Pechino, secondo cui “gli operatori del mercato sono liberi di scegliere la valuta negli accordi bilaterali”.

L’India ha annunciato l’intenzione di raddoppiare le importazioni di carbone russo. Pochi giorni fa la Russia aveva sollecitato l’India a valutare investimenti nelle sue società energetiche dopo la fuga di soci occidentali. Secondo quanto scrive l’agenzia Bloomberg, le raffinerie cinesi, soprattutto quelle indipendenti, stanno acquistando sempre più petrolio russo, il greggio chiamato “Urals” che in questa fase si trova sul mercato a prezzi molto vantaggiosi. L’India è uno dei 35 paesi che si sono astenuti nella votazione Onu sulla risoluzione contro l’invasione in Ucraina e non sembra molto sensibile alle pressioni occidentali. Il commercio potrebbe anche essere potenziato da un accordo di scambio rublo-rupia. La Russia potrebbe iniziare a offrire prezzi più competitivi agli acquirenti cinesi e indiani dopo il calo dei flussi verso l’Europa.

Le Borse sono sull’altalena condizionate dalle notizie discordanti su una possibile tregua nella guerra in Ucraina. Ieri il Cremlino ha ridimensionato le attese su un accordo di tregua fra Ucraina e Russia, dopo che i colloqui di Istanbul di martedì avevano aperto spiragli di pace. Il portavoce Dmitry Peskov ha dichiarato che la Russia non ha notato “nulla di promettente”, mentre, a sorpresa, il ministro degli Esteri di Mosca, Serghei Lavrov ha definito i colloqui russo-ucraini un "significativo progresso”, aggiungendo che “Kiev capisce che Crimea e Donbass sono questioni chiuse”. Su quest’ultimo punto, però, le autorità ucraine sono divise, a dimostrazione che la strada verso una tregua resta in salita

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Guerra e relazioni internazionali. Verso il multipolarismo

Esistono differenti versioni e interpretazioni dell’attuale situazione politica, economica e finanziaria. Ci sono diversi paesi coinvolti, ognuno con interessi propri. Nell’attuale panorama geopolitico si evidenziano i principali punti di interesse della continua azione militare portata avanti dagli USA in paesi come la Siria e lo Yemen, con l’obiettivo di escludere la Russia dal Medio Oriente e ora con le minacce espansioniste della NATO a guida USA e UE, costringendo la Russia su un terreno di guerra militare diretta.

Altro tema di centrale importanza è la decisione degli Stati Uniti di bloccare il funzionamento dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), organismo a cui appartengono 164 Paesi e al quale è affidato il compito di stabilire le regole del commercio internazionale e di garantirne il rispetto.

Considerato che le regole stabilite dall’OMC sono compromesse in assenza di un organismo che ne garantisca il rispetto, l’Unione Europea ha reagito alla decisione statunitense; e la situazione in Europa non è molto tranquilla, gli Stati Uniti impongono dazi sulle merci senza passare per l’OMC e i governi devono affrontare decisioni difficili.

La Russia, che attualmente è alle prese con un profondo rinnovamento delle sue forze (non solo militari, ma soprattutto produttive) e a causa di un’economia travagliata, ha il suo ruolo in quello che sta, a tutti gli effetti, emergendo come un gioco a quattro (USA, Cina, Russia e Iran) sulla scacchiera mondiale.

Nonostante le difficoltà, Mosca ha dimostrato di saper inserirsi benissimo in quei “vuoti di potere” lasciati dagli Stati Uniti, proprio per cercare di recuperare la sfera di influenza perduta con la fine della Guerra Fredda e la profonda crisi che l’ha colpita per più di un decennio dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Gli interessi di Mosca, Pechino e Teheran coincidono quindi nella volontà – per questi tre paesi – di stabilire un fronte comune per opporsi all’unipolarismo statunitense e, in senso lato, all’Occidente.

Si possono osservare alcune somiglianze tra quanto sta accadendo oggi e le alleanze emerse tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con la differenza che lo scacchiere non è più quello europeo caratterizzato dalle potenze coloniali, ma il mondo con una superpotenza egemonica e diverse potenze regionali emergenti.

L’armonia tra paesi come Cina, Russia, Iran, Venezuela, Cuba e altri, può estendersi in diversi ambiti, non solo per petrolio e materie prime, ma anche in aree economico-produttive e in generale hanno cooperazione politica e commerciale, per quanto oggi cresce l’importanza di questa storica alleanza alla luce delle tensioni tra Stati Uniti, Russia e anche Iran e Venezuela.

Dopo diversi pericoli concreti dello scoppio di un conflitto regionale, ma capace di svilupparsi su larga scala, oggi la situazione internazionale oscilla nella guerra imperialista con una sorta di apparente “pace” amministrativa di gestione della “normalità” almeno secondo le ultime tendenze.

I due grandi poli imperialisti, USA e UE, confermeranno le rispettive tattiche, le stesse da più di un decennio. Gli Stati Uniti continueranno a soffocare Russia, Cuba, Venezuela e Iran attraverso guerre militari, sanzioni, blocchi, azioni indirette e offensive di milizie, mercenari, narcotrafficanti, eserciti privati ​​e paesi alleati e clienti sunniti, per smantellare la sfera di l’influenza dei russi e la realtà multipolare.

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ITA nel caos, 6 consiglieri dimissionari

Ennesima tappa negativa di un percorso iniziato malissimo. Assemblea nazionale il 5 aprile a Roma

Smottamento nel Consiglio di Amministrazione di ITA con le dimissioni di 6 consiglieri su 9 buttate sul tavolo, che di certo non appaiono come un viatico di unitarietà di vedute nella gestione della compagnia di bandiera.

Cosa significhino oggi le dimissioni dei consiglieri ancora non è chiaro anche se sembrano esserci questioni legate ai costi degli advisor per la cessione, con la compagnia e il MEF che hanno nominato propri consulenti, con una duplicazione suscettibile dell’intervento della Corte dei Conti. Di certo ci chiediamo se sia possibile che un CdA senza i due terzi dei propri componenti possa restare in carica.

Proseguono quindi i piccoli e grandi colpi di scena in negativo che hanno caratterizzato fin dall’avvio, le operazioni di start up di ITA, iniziate malissimo dopo lo spezzatino di Alitalia in tre segmenti.

Tutto è stato portato avanti in modo spregiudicato da Alfredo Altavilla, con la diminuzione del costo del lavoro fino al 30%, con assunzioni fuori da ogni controllo pubblico e di trasparenza e con discriminazioni che sono state già accertate verso le donne in maternità al momento delle selezioni e per questo scartate.

Ora la parte Aviation viene messa sul mercato, il passaggio conclusivo di un processo fatto di operazioni opache voluto dal governo Draghi tese all’azzeramento di una realtà industriale importante e strategica per il nostro Paese.

Tutto è iniziato grazie ad un investimento interamente pubblico di 700 milioni che difficilmente si recupereranno, visto che le perdite dei primi 6 mesi di operatività si avvicinano ai 200 mln di euro.

In questo quadro, un fritto misto di errori ed orrori a partire dall’occasione persa della nazionalizzazione per il rilancio unitario di Alitalia proposta nel 2020 dal secondo governo Conte, oggi rischia di svanire con il declino tutto il trasporto aereo nazionale.

Accertata la forte critica sul progetto industriale, gli scenari successivi ai bandi di cessione dei rami d’azienda di handling e manutenzione potrebbero comportare le stesse medesime sconfitte viste nella cessione della parte volo, con arbitrii nelle selezioni e nelle assunzioni, con ridimensionamento di attività e organici e perdita di migliaia di altri posti di lavoro.

Il governo deve rispondere pubblicamente di questa nuova situazione perché appare come minimo sorprendente lasciare ogni decisione nelle mani di pochissimi manager che pensano di essere i padroni del destino di quest’azienda e delle tante collegate nel settore.

In questa chiave, USB convoca l’assemblea nazionale del Trasporto Aereo martedì 5 a Roma, alle ore 10,30, in via Giolitti 5.

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La fine del dominio del dollaro?

di Michael Roberts

L’estate scorsa, quando gli Stati Uniti sono fuggiti dall’Afghanistan, ho scritto un articolo sulla storia del dominio del dollaro USA, sostenendo allora che il dollaro USA sarebbe rimasto la valuta mondiale dominante per il prossimo futuro, ma che era in declino relativo rispetto alle altre valute, proprio perché l’imperialismo USA è in declino relativo rispetto alle altre economie rivali dalla metà degli anni ’70.

L’invasione russa dell’Ucraina ha riportato alla ribalta questa discussione tra gli economisti mainstream e gli strateghi del capitale globale.

Il discorso è che il dominio del dollaro statunitense tramonterà e che l’economia mondiale è destinata a dividersi in due blocchi: Ovest e Est – dove l’Ovest è costituito da Stati Uniti, Europa e Giappone; e l’Est dai regimi “autocratici” di Russia e Cina, insieme all’India. Ma è questa la probabile riconfigurazione delle valute e dei flussi di capitale?

Nel mio post precedente, ho trattato in dettaglio il declino storico del dominio del dollaro USA nel commercio, nei flussi di capitale e come valuta di riserva. Non lo ripeterò di nuovo. Invece, in questo post, cercherò di guardare al futuro e alle conseguenze dei nuovi sviluppi nelle lotte competitive tra le potenze imperialiste, le economie ‘emergenti’ che resistono al dominio ‘occidentale’, e il più ampio mondo dei paesi periferici e poveri.

I concorrenti internazionali dell’imperialismo statunitense, come la Russia e la Cina, hanno abitualmente chiesto un nuovo ordine finanziario internazionale e hanno lavorato per spodestare il dollaro al vertice dell’attuale regime valutario globale.

L’aggiunta del renminbi, nel 2016, al paniere di valute che compone i diritti speciali di prelievo del FMI ha rappresentato un importante riconoscimento globale del crescente uso internazionale della valuta cinese. E le conseguenze del conflitto in Ucraina accelereranno chiaramente questa spinta da parte della Russia e della Cina, dato che affrontano severe e lunghe sanzioni nei mercati commerciali e monetari che ridurranno il loro accesso al dollaro e all’euro.

Ma non c’è ancora una vera alternativa nei mercati internazionali al dollaro USA. In primo luogo, non ci può essere un ritorno all’oro come merce monetaria internazionale; e il ruolo del denaro internazionale come creato dal FMI nei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) è minimo; mentre è un futuro volatile quello con altri potenziali asset monetari come le criptovalute.


E il dollaro statunitense (e in misura minore l’euro) rimane dominante nei pagamenti internazionali.


Tuttavia, un recente working paper del FMI rivela una tendenza importante. Il dollaro statunitense non viene gradualmente sostituito dall’euro, o dallo yen, o persino dal renminbi cinese, ma da una serie di valute minori. Secondo il FMI, la quota di riserve detenute in dollari dalle banche centrali è scesa di 12 punti percentuali dall’inizio del secolo, dal 71% del 1999 al 59% del 2021.

Ma questo calo è stato accompagnato da un aumento della quota di quelle che il FMI chiama “valute di riserva non tradizionali”, definite come valute diverse dalle “quattro grandi” del dollaro statunitense, dell’euro, dello yen giapponese e della sterlina britannica, vale a dire come il dollaro australiano, il dollaro canadese, il renminbi cinese, il won coreano, il dollaro di Singapore e la corona svedese.


L’FMI ha scoperto che questo passaggio alle “valute non tradizionali” è stato di ampia portata: “identifichiamo 46 diversificatori attivi che hanno spostato i loro portafogli in questa direzione, tanto che ora detengono almeno il 5% delle loro riserve in valute non tradizionali“.

I paesi che accumulano quello che il FMI chiama riserve valutarie “in eccesso”, cioè oltre a quelle necessarie per affrontare qualsiasi crisi commerciale o valutaria, stanno sempre più dirottando questo eccesso dalle “quattro grandi” valute di dollari, euro, sterlina e yen verso altre valute più piccole.

Il FMI calcola che le riserve in eccesso ora ammontano a 1,5 trilioni di dollari (inclusa la Cina), o il 25-30% delle riserve totali nelle economie non imperialiste.


Poi ci sono i paesi che non hanno riserve “in eccesso”, ma al contrario, hanno scarse riserve di dollari. Alcuni di questi hanno anche fatto ricorso ad asset valutari alternativi come le criptovalute (El Salvador e Nigeria). Per esempio, un anno fa, El Salvador ha adottato il bitcoin come moneta legale e ora ha annunciato l’emissione di un titolo di stato da pagare in bitcoin.

Queste cosiddette obbligazioni “vulcaniche” (El Salvador è vulcanica), sono progettate per raccogliere fondi per il governo e gli investitori vendendo alla fine le obbligazioni in dollari in cinque anni. Naturalmente, tutto dipende dal fatto che il valore in dollari del bitcoin salga per allora. Ma guardate la volatilità del tasso di cambio del bitcoin in dollari nell’ultimo anno.


Tutto questo suggerisce che lo spostamento della forza delle valute internazionali dopo la guerra in Ucraina non sarà in un blocco Ovest-Est, come molti sostengono, ma invece verso una frammentazione delle riserve di valuta; per citare il FMI: “se il dominio del dollaro arriva alla fine (uno scenario, non una previsione), allora il biglietto verde potrebbe essere abbattuto non dai principali rivali del dollaro ma da un ampio gruppo di valute alternative“.

Questo potrebbe avere conseguenze ancora peggiori per la pace mondiale e per la regolare espansione dell’economia capitalista mondiale di una grande scissione tra Ovest e Est. Infatti, implica quasi una situazione valutaria anarchica in cui le economie imperialiste, in particolare gli Stati Uniti, potrebbero perdere il controllo sui mercati valutari mondiali.

Implica anche che la speranza keynesiana di un nuovo ordine mondiale coordinato nel denaro globale, nel commercio e nella finanza è esclusa.

Kevin Gallagher e Richard Kozil-Wright, economisti di sinistra dell’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo), in un nuovo libro, The Case for a New Bretton Woods, sostengono che all’indomani della pandemia, i governi hanno l’opportunità di attuare riforme radicali per “(coraggiosamente) riscrivere le regole per promuovere un ordine economico mondiale post-Covid prospero, giusto e sostenibile – un momento Bretton Woods per il XXI secolo“, oppure “rischiamo di essere inghiottiti dal caos climatico e dalla disfunzione politica“.

Gli autori si richiamano all’accordo di Bretton Woods, di ispirazione keynesiana, che stabiliva regole internazionali per un commercio armonioso e flussi di capitale che i paesi avrebbero seguito.

Bretton Woods fu apparentemente un grande successo nei primi due decenni post-1945 di prosperità e crescita. Gli autori ritengono che il grande capitale finanziario non era coinvolto nell’accordo, il quale invece seguiva a livello internazionale il programma di grande successo del New Deal per l’occupazione e la crescita istituito dal presidente americano Roosevelt per porre fine alla Grande Depressione degli anni ’30: “il tentativo di Washington di internazionalizzare il New Deal“.

Gallagher e Kozul-Wright notano: “il New Deal non solo ha abbandonato il Gold standard, ma ha anche rotto con la più ampia agenda internazionale liberale, affrontando l’élite finanziaria sia in patria che all’estero e ha aperto la porta a una narrazione alternativa a sostegno di un’agenda di politica pubblica attiva”.

Gli autori sostengono che questo è il modello a cui dobbiamo tornare per realizzare un’espansione armoniosa e uniforme dell’economia mondiale da qui in avanti. “Fornisce un progetto di cambiamento che nessuno interessato al futuro del nostro pianeta può permettersi di perdere“.

Sfortunatamente, questo “progetto” non accadrà nel XXI secolo – al contrario. L’accordo di Bretton Woods fu possibile solo perché, nel 1944, gli Stati Uniti governavano il mondo e potevano dettare i termini per il commercio internazionale, i pagamenti e i controlli valutari.

E i primi due decenni dopo il 1944 furono un periodo di alta redditività del capitale nelle maggiori economie che permise a tutti i partecipanti di guadagnare (anche se in modo ineguale) dal bottino del lavoro a basso costo a livello globale (a spese del cosiddetto terzo mondo, che non aveva voce in capitolo a Bretton Woods) e dall’introduzione di nuove tecnologie sviluppate durante la guerra.

Ma come la teoria marxista ha dimostrato, questa “età dell’oro” non poteva durare una volta che la redditività del capitale ha cominciato a scendere e quando il dominio degli Stati Uniti nel commercio e nei flussi di capitale ha cominciato a diminuire.

La fine di Bretton Woods fu un prodotto del cambiamento delle condizioni del capitale globale. Non fu causato da un cambiamento dell’ideologia economica dalla macro-gestione internazionale keynesiana al libero mercato “neoliberale” delle valute e del commercio.

Fu il cambiamento delle condizioni economiche che forzò un cambiamento nell’ideologia dell’economia e dei politici verso i “liberi mercati”, le valute fluttuanti e la deregolamentazione del commercio e dei flussi di capitale (globalizzazione).

Una rinascita di una nuova ‘Bretton Woods’ non è possibile nel XXI secolo. Tendenzialmente non c’è più nessun potere economico dominante che possa dettare le condizioni agli altri; e questa non è una “età dell’oro” di alta redditività che tutte le maggiori economie possano condividere.

Al contrario, la redditività del capitale nelle maggiori economie è vicina ai minimi di 50 anni e il dominio delle quattro grandi valute nei mercati capitalistici mondiali si sta frammentando in una miriade di piccoli regimi valutari (come suggerisce il FMI).

Non fraintendetemi, il dollaro è ancora al posto di guida dei mercati mondiali. Infatti, nei crolli globali e nelle crisi geopolitiche, il dollaro diventa la più forte tra le valute fiat, accanto all’oro come valuta di base del mondo. E questo è soprattutto il caso quando i tassi di interesse sembrano destinati a salire più negli Stati Uniti che in altre grandi economie.


La differenza ora è che l’aumento dei tassi d’interesse e un dollaro forte non annunciano un’economia capitalista mondiale più armoniosa, ma piuttosto un disastro per i paesi più deboli e più poveri a livello globale.

Un recente studio dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, basato sulla misurazione dell’impatto dinamico della perdita del commercio e della diffusione della tecnologia, ha scoperto che “un potenziale disaccoppiamento del sistema commerciale globale in due blocchi – un blocco USA-centrico e un blocco Cina-centrico – ridurrebbe il benessere globale nel 2040 rispetto a una linea di base di circa il 5%. Le perdite sarebbero maggiori (più del 10%) nelle regioni a basso reddito che beneficiano maggiormente delle ricadute tecnologiche positive del commercio“.

Ho il sospetto che il danno alle economie più povere sarebbe ancora maggiore in un mondo valutario più frammentato. Ma questo è qualcosa che affronterò nel mio prossimo articolo.

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Guerra in Ucraina - Negoziati in corso ma bombardamenti intensi nel Donbass. Il “ritiro” da Kyev angustia le intelligence occidentali. Mosca chiede di pagare in rubli le materie prime

Lo stato dei negoziati a Istanbul

Kiev sarebbe pronta ad accettare lo status di Paese neutrale e chiede che ci siano “Stati garanti”, in primis la Turchia. Sul futuro della Crimea, invece, si deciderà entro 15 anni. Questi sono i primi spiragli che emergono dopo gli ultimi tavoli di confronto tra le parti. Mosca per ora si mostra cauta parlando di “Strada ancora lunga”. L’esito dei colloqui di pace fra Ucraina e Russia avvenuti ieri a Istanbul non segna però la fine del conflitto. Quanto accaduto sembrerebbe mostrare, tuttavia, che le parti hanno continuato a parlarsi, anche non ufficialmente o sotto i riflettori, con l’intento di presentarsi all’appuntamento in Turchia con dei risultati, seppure parziali.

La delegazione ucraina ha proposto una lista di otto potenze garanti – fra cui anche l’Italia – che dovranno monitorare le attività militari della Russia, oltre a un processo “separato” per la penisola di Crimea: si tratterebbe di negoziati a parte, di una durata di massimo 15 anni, e che dovrebbero prevedere una “tabella di marcia” in cui includere anche un nuovo referendum che, rispetto a quello del 2014, sarebbe ufficialmente riconosciuto dalle autorità di Kiev. Le aperture di Mosca sull’adesione dell’Ucraina all’Ue – non nuove, visto che lo stesso Putin ha spesso affermato che la Russia non avrebbe nulla in contrario – e la posizione ribadita da Kiev sulla neutralità militare hanno sbloccato un meccanismo che si era inceppato nella prima fase a causa, ovviamente, della scarsa fiducia fra le parti.

A remare contro, oltre Zelenski, è il governo Usa, il quale si mostra scettico sugli impegni assunti dopo i colloqui in Turchia. “Dovremmo avere una visione lucida di ciò che sta accadendo sul terreno e nessuno dovrebbe lasciarsi ingannare dagli annunci della Russia”, ha detto il direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, Kate Bedingfield.

La Repubblica Popolare di Donetsk prenderà in considerazione la questione dell’adesione alla Federazione Russa dopo la completa liberazione del suo territorio, ha detto il leader della repubblica Denis Pushilin ieri in una conferenza stampa. ”Per quanto riguarda l’adesione alla Federazione Russa, questo desiderio e questa spinta, sono stati evidenti sin dal 2014" ha detto Pushilin. “Tuttavia, il compito principale oggi è quello di riconquistare i confini costituzionali della Repubblica. Poi decideremo”.

La Russia ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche del Donbass il 21 febbraio. L’attacco all’Ucraina è iniziato tre giorni dopo. Le forze armate delle Repubbliche hanno lanciato l’offensiva dai loro territori fino ai confini costituzionali della regione, cioè gli ex confini amministrativi delle regioni di Donetsk e Lugansk dal 2014.

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov intanto è in Cina. Si tratta della prima missione da parte del capo della diplomazia russa in Cina da quando è cominciata l’invasione dell’Ucraina.

Corridoi umanitari

Tre corridoi umanitari saranno aperti in Ucraina oggi ha annunciato la vice premier ucraina Iryna Vereshchuk. “Tre corridoi umanitari sono stati approvati: quelli per l’evacuazione dei residenti di Mariupol e la consegna di aiuti umanitari a Berdyansk; la consegna di aiuti umanitari e l’evacuazione da Melitopol, e un convoglio di veicoli personali per lasciare Enerhodar per Zaporizhzhya”. Gli autobus per l’evacuazione e i camion che trasportano aiuti umanitari sono partiti da Zaporizhzhya, ha aggiunto, mentre i veicoli personali possono unirsi ai convogli umanitari sulla via del ritorno da Berdyansk e Melitopol.

Fronte militare

Nella notte si segnalano scontri nella periferia nord occidentale di Kiev, mentre i servizi di intelligence occidentali si alambiccano sul parziale ritiro delle forze armate russe dalla capitale ucraina. Secondo alcuni osservatori il ritiro da Kiev sembra propedeutico ad un altro obiettivo prioritario delle forze armate di Mosca: rientrare in Russia e Bielorussia per riorganizzarsi e rifornire le truppe e, successivamente, concentrare gli sforzi sulle regioni orientali di Donetsk e Luhansk. Proprio in quest’ultima regione si segnala questa mattina un bombardamento sulle le città di Lysychansk, Kreminna, oltre che Popasna, Severodonetsk e Rubizhne.

I raid russi hanno distrutto due grandi depositi di armi missilistiche e di artiglieria delle forze armate ucraine nel villaggio di Kamianka, nella regione di Donetsk. Risultano distrutti due grandi depositi di carburante nelle zone di Starokonstantinov e Khmelnytskyy, da cui veniva fornito il carburante per i veicoli corazzati delle forze ucraine nel Donbass.

Nella notte, ci sono stati raid aerei praticamente in tutta l’Ucraina e ci sono stati bombardamenti a Chernikiv e nella regione di Khmelnytsky: lo ha reso noto un consigliere del ministero dell’Interno ucraino, Vadim Denisenko. Denisenko ha detto che quasi tutta la notte nella regione di Kiev sul territorio vicino a Irpen ci sono state operazioni militari. “Pertanto, per il momento, non è possibile dire che i russi stanno riducendo l’intensità delle ostilità nelle direzioni di Kiev e Chernikiv”.

Anche la città di Chernihiv, nel Nord dell’Ucraina, è stata sottoposta “tutta la notte” a bombardamenti russi ha denunciato su Telegram il governatore della regione, Viatcheslav Tchaous.

Russia risponde alle sanzioni chiedendo il pagamento in rubli

In Russia, il presidente della Duma di Stato, Vyacheslav Volodin, ha proposto di ampliare l’elenco delle merci esportate in rubli, ovvero grano, petrolio e legname, tutto da pagare con la valuta russa.

“Sarebbe giusto, laddove vantaggioso per il nostro Paese, ampliare l’elenco delle merci esportate in rubli: fertilizzanti, grano, petrolio, petrolio, carbone, metalli, legname”.

E poi più in generale ha aggiunto: “I Paesi europei hanno tutte le possibilità di mercato per pagare in rubli. Non è una tragedia. La situazione è molto peggiore quando ci sono i soldi, ma non le merci. Gli europei dovrebbero smettere di parlare e cercare scuse per non pagare in rubli. Se vuoi il gas, cerca i rubli” ha scritto nel suo canale Telegram.

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Ucraina - Come e perché è stata preparata la guerra

di Atilio Boron

Prima di essere eletto presidente degli Stati Uniti, Dwight D. Eisenhower fu il primo comandante della NATO. Nel febbraio 1951, pochi mesi dopo il suo insediamento, scrisse: “Se tra 10 anni tutte le truppe americane di stanza in Europa allo scopo di assicurare la difesa nazionale non saranno tornate negli Stati Uniti, allora questo progetto, la NATO, sarà fallito”.

Le truppe non tornarono, ma la loro presenza in Europa continuò a crescere. Non solo, ma una volta disintegrata l’Unione Sovietica, e contrariamente alle solenni e vuote promesse dei principali leader dei governi occidentali (Clinton, Bush, Obama, Helmut Kohl in Germania, Tony Blair nel Regno Unito, ecc.) che “la NATO non si sarebbe mossa di un centimetro verso est”, hanno spostato attrezzature e truppe fino ai confini della Russia.

Ma come! Il nemico non era l’Unione Sovietica e il comunismo? No. Il nemico era, ed è, la Russia, un paese vasto e potente la cui sola presenza, sotto il dominio comunista o capitalista, è un ostacolo ai piani di dominio mondiale degli USA (Chomski dixit).

Quando nel 1997 Bill Clinton iniziò l’allargamento della NATO, la nipote di Eisenhower, Susan, raccolse le firme di 49 rinomati specialisti (militari, diplomatici e accademici) e pubblicò una lettera aperta il 26 giugno affermando che il “piano di espansione della NATO è un errore politico di proporzioni storiche”.

Susan prese attentamente nota dell’opinione espressa poco prima – il 5 febbraio in un articolo del New York Times – nientemeno che da George Kennan, il diplomatico il cui famoso “Long Telegram” del 22 febbraio 1946 al presidente Harry Truman (firmato con lo pseudonimo di Mister X) era stato l’architetto della politica di “contenimento” dell’espansionismo sovietico che avrebbe poi portato alla creazione della NATO.

Profondamente turbato dalle intenzioni di Clinton, Kennan scrisse in quel pezzo che “l’espansione della NATO sarebbe il più tragico errore nella politica degli Stati Uniti in tutta l’era post-guerra fredda... perché spingerebbe la politica estera della Russia in una direzione che non sarebbe decisamente quella che vogliamo”.

Clinton, e con lui l’intero complesso militare-industriale e finanziario, ignorarono gli avvertimenti del veterano diplomatico e continuarono con le loro politiche. Stimolare le guerre e le spese militari era ciò che Washington avrebbe dovuto fare, dato che i suoi politici nell’amministrazione e nel Congresso finanziano le proprie carriere pubbliche con i contributi delle grandi imprese di quel settore.

L’URSS non era ancora crollata quando il vice segretario alla difesa di George W. Bush padre, Paul Wolfowitz, era a capo dell’esercito statunitense. Per Bush senior, Paul Wolfowitz, produsse una “Defense Planning Guidance” che fu fatta trapelare alla stampa il 7 marzo 1992, in cui si afferma nel suo primo paragrafo che “il nostro primo obiettivo è quello di prevenire il riemergere di un nuovo rivale, sia sul territorio dell’ex Unione Sovietica o altrove, che rappresenti una minaccia... Il che richiede che ci sforziamo di impedire a qualsiasi potenza ostile di dominare una regione le cui risorse, sotto controllo consolidato, sarebbero sufficienti a generare potenza globale”.

L’indignazione fu enorme e l’estremo unilateralismo del suo contenuto lo portò ad essere etichettato, anche in certi media dell’establishment, come imperialista. Ha anche causato disagio il fatto che il suo autore abbia affermato senza mezzi termini l’importanza degli “interventi militari preventivi” per neutralizzare possibili minacce di altre nazioni e per evitare che regimi autocratici diventino superpotenze.

Naturalmente, il destinatario del documento è chiaramente la Russia post-sovietica. Dopo che il documento è trapelato alla stampa, il Pentagono ha pubblicato la versione annacquata, di fatto un mero tentativo di “riduzione del danno”, coprendo senza successo le sue espressioni più brutali con un linguaggio più diplomatico, ma senza abbandonare minimamente le tesi centrali della “Defense Planning Guidance”. (“U.S. Strategy Plan Calls For Insuring No Rivals Develop”, New York Times, 8/03/1992).

La ricostruzione della potenza economica e militare della Russia ha stimolato nuove riflessioni e documenti politici che raccomandavano alla Casa Bianca varie linee d’azione.

I progressi militari della Russia sono stati evidenti nel suo ruolo decisivo nella sconfitta dell’insurrezione jihadista in Siria, un pantano creato dalla decisione di Washington di rovesciare Bashar al-Assad con l’aiuto dello Stato Islamico e dei suoi decapitatori seriali.

Lo stesso è stato vero quando, dopo il colpo di Stato del 2014 in Ucraina, con un’operazione fulminea Vladimir Putin riportò la Crimea sotto la giurisdizione russa.

Ma il 2019 vide la comparsa di un documento fondamentale pubblicato nientemeno che dalla Rand Corporation e il cui titolo dice tutto: “Overextending and unbalancing Russia”.

Secondo i suoi autori, le sue pagine “elencano opzioni non violente e costose che gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero promuovere nelle aree economiche, politiche e militari per stressare la Russia – sovraccaricando e sbilanciando – la sua economia, il suo esercito e la stabilità del suo regime politico”.

Il documento esamina a lungo le varie aree per ognuna delle quali presenta diverse opzioni. Per esempio, in economia, imponendo sanzioni e barriere commerciali, ponendo fine alla dipendenza europea dal gas russo, favorendo le esportazioni di gas degli Stati Uniti verso l’Europa, e incoraggiando l’emigrazione di scienziati e persone altamente istruite per privare la Russia di questo tipo di risorse umane.

Per ciascuna di queste opzioni, la probabilità di successo della misura, i suoi benefici così come i suoi costi e rischi sono stati stimati, ed è stata formulata una raccomandazione.

Nel campo militare, il primo di questi era quello di fornire aiuti letali all’Ucraina, aumentare il sostegno ai ribelli siriani, promuovere la liberalizzazione in Bielorussia, espandere i legami tra gli Stati Uniti e il Caucaso meridionale e ridurre l’influenza russa in Asia centrale.

Di nuovo, ognuna di queste alternative è valutata in termini di probabilità di successo, benefici e costi. Il rapporto è disponibile qui.

Conclusione: come abbiamo detto prima della pubblicazione di questo documento e come riaffermiamo con ancora più forza, l’Ucraina è una guerra provocata immoralmente dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei.

Senza tener conto dei terribili costi umani della guerra, che le potenze occidentali stanno ora piangendo lacrime di coccodrillo, hanno chiuso tutte le opzioni alla Russia, che a un certo punto aveva persino proposto di avviare colloqui per entrare nella NATO; un atteggiamento che non ha suscitato nelle democraticissime e umaniste potenze occidentali la minima intenzione di iniziare anche solo colloqui sull’argomento.

Nessuna delle giuste richieste di sicurezza della Russia è stata ascoltata, come se un ordine mondiale stabile e sicuro potesse essere costruito per tutti tranne che per una superpotenza come la Russia, assediata dal Baltico al Mar Nero.

I piani perversi di Wolfowitz e della Rand sono inconfutabilmente eloquenti. È la tabella di marcia che gli Stati Uniti hanno elaborato, con la complicità di spregevoli governi europei, per distruggere la Russia come hanno fatto con la Jugoslavia.

Nessuno può prevedere come finirà questa guerra. Vale la pena ricordare, tuttavia, con von Clausewitz, che per secoli la Russia è stata attaccata, molestata e invasa. In ogni caso sembrava all’inizio che la disfatta fosse inevitabile, ma è sempre riuscita a ribaltare ciò che sembrava scontato e a sconfiggere i suoi aggressori.

Sarà diverso questa volta?

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Ultimi giorni dell’umanità e stupidità eterna

Ho riletto in questi giorni il capolavoro di Karl Kraus, “Gli ultimi giorni dell’umanità”. Questo libro mette in scena la più grande tragedia umana: la guerra. Mentre procedevo nella lettura, mi sembrava di avere in mano un libro scritto oggi e che riguarda il nostro presente e, specialmente, il nostro futuro.

In particolare, sono quattro le dimensioni di quest’opera che mi sono sembrate perfette per descrivere l’attuale situazione e gli scenari che potrebbero aprirsi: la sostituzione del pensiero, e dell’atto stesso del pensare, con l’opinione; la manipolazione della realtà, che appartiene alla sfera della politica e del giornalismo; la dimensione dei “valori”, come forma sostitutiva delle motivazioni profonde (e materiali) del conflitto; e infine quella della critica, che si distacca dalle altre dimensioni, sia per il linguaggio che per l’ampiezza dello sguardo.

Ora, l’opera di Kraus è l’opera della Prima Guerra Mondiale; il nostro momento storico può essere considerato, al limite, simile all’anteguerra, ossia agli anni che hanno anticipato quella tragedia. In un certo senso, però, proprio perché permette di cogliere il passaggio culturale che ha consentito al discorso bellicista di trasformarsi in prassi militare, e quindi di documentare il passaggio mentale che lo ha reso possibile, è un’opera quanto mai contemporanea.

L’oggetto del libro di Kraus è la parola: una parola che anticipa la guerra, che la fa risuonare come mantra nelle coscienze; una parola “stupida”, che propugna l’ebrezza dell’atto di eroismo, che invita alla mobilitazione totale, che irride chi non vuole la guerra o chi diserta, che arringa la folla con slogan bellicisti, che fa risuonare il fervore dell’intervento militare, che ha disprezzo di chi prova a pensare fuori dagli schemi, che costringe la logica nella gabbia della propaganda, che incarna lo spirito profondo del capitalismo.

Si tratta, a ben vedere, di una parola molto simile a quella che domina l’attuale dibattito sulla guerra in Ucraina. Un’opera, dunque, quella di Kraus, per certi versi profetica, di cui bisognerebbe fare tesoro: per comprendere, almeno, quale destino può scatenare la parola che ha invocato “il dio del massacro” e trascinato “nel gorgo della morale” l’umanità intera.

Dal momento che, come dice lo stesso Kraus, quest’opera ha per oggetto il discorso bellicista colto nel suo stesso farsi, il suo nucleo non può che procedere mettendo a confronto una esigenza, quella di praticare un mezzo atto a vanificare quel discorso, e un’impossibilità, quella di fallire facendolo. Il fondo malinconico dell’opera è infatti in questa contraddizione: la critica, intesa come processo di chiarificazione delle cause profonde della guerra, non può che fallire.

Detto altrimenti, se la critica di Kraus individua le cause profonde del massacro nel legame tra “industria ed esercito”, il meccanismo della “menzogna” come processo di regolazione delle dinamiche della coscienza è talmente potente da rendere la critica stessa inoffensiva; la guerra, così, è destinata a presentarsi come occasione di redenzione, un’autentica opportunità di liberazione. E la “stupidità”, alla fine, trionfa, trascinando i popoli nella catastrofe.

C’è ancora, oggi, la possibilità di scegliere una parola antimilitarista e non stupida?

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30/03/2022

American Psycho (2000) di Mary Harron - Minirece

Cile - Il governo Boric alla prova degli studenti. I problemi restano...

Il primo dovere della polizia è proteggere la popolazione. E proteggere e garantire i loro diritti. Tra questi uno, vitale per la democrazia: il diritto di manifestare. Un bambino si dibatte attualmente tra la vita e la morte per aver esercitato quel diritto, lo stesso che il presidente in carica esercitava non molto tempo fa. Brutto segnale. Molto brutto.

Prima mobilitazione studentesca ai tempi di Boric: un giovane colpito da pallottole e un altro in pericolo di vita

Almeno due giovani sono rimasti gravemente feriti nel mezzo delle mobilitazioni di studenti universitari e delle scuole superiori per miglioramenti nutrizionali che hanno avuto luogo a Santiago e in altre città del Paese questo venerdì, 25 marzo.

Intorno a mezzogiorno, uno studente universitario ha ricevuto una pallottola al petto da un funzionario dei Carabineros nel mezzo dell’Alameda, all’altezza del cerro Huelén (Santa Lucía) a Santiago. Fortunatamente è stato trasferito quasi subito all’Ospedale Centrale, a pochi isolati da lì, ed è fuori pericolo.

Un altro giovane, questa volta liceale del Liceo 7, è stato aggredito violentemente da una banda di criminali, sospettati di avere legami con la stazione di polizia del Municipio della Stazione Centrale, che si trova accanto all’Università di Santiago, incidente che si è verificato anche questo nel contesto delle proteste studentesche. Il minore è ricoverato in ospedale e con diagnosi riservata.

In entrambi i casi, le autorità della nuova amministrazione statale guidata da Gabriel Boric, oltre a sindaci e vari settori sociali e politici, hanno condannato i crimini e si sono impegnati a indagare su di essi. Mentre la portavoce del governo, Camila Vallejo, ha descritto l’accaduto come “estremamente grave” e ha istruito un’indagine interna ai Carabineros. L’Istituto Nazionale dei Diritti Umani, INDH, ha dichiarato che sta studiando la presentazione di una denuncia al Pubblico Ministero.

Intanto, dal punto di vista degli stessi studenti che hanno messo in campo le manifestazioni per aggiornare l’importo delle borse di studio alimentari il cui valore è simile a quello di dieci anni fa, c’è malessere.

La cultura repressiva e militarizzata coniata dai Carabineros de Chile fin dall’inizio della dittatura di Pinochet è il modo predominante in cui l’entità in uniforme si relaziona con la società dissidente e il diritto alla protesta sociale. In termini recenti, basti ricordare gli omicidi, le amputazioni oculari, gli attacchi sproporzionati e gli arresti ingiustificati ai danni di civili in cui l’istituzione in divisa è stata direttamente coinvolta durante la rivolta sociale iniziata nell’ottobre 2019.

Parimenti, sebbene il rapporto tra criminalità organizzata, traffico di droga, territorializzazione antisociale e la loro collaborazione con le forze dell’ordine sia vecchio di anni, l’azione del 25 marzo contro gli studenti è stata attivata con particolare violenza nell’Alameda, questa volta, nel quartiere Stazione Centrale, dove, tra la copiosa vendita ambulante, i gruppi criminali si muovono liberamente, come le mafie.

Nel bel mezzo del pestaggio contro i giovani, i criminali hanno mostrato armi da fuoco e hanno operato come gruppo di supporto alla repressione delle Forze Speciali dei Carabineros. Nessuno dei banditi è stato arrestato, è stato invece aggiornato il vecchio rapporto dell’appoggio in conto terzi tra una fazione della criminalità organizzata e la polizia.

Trascorse due settimane dal cambio di governo nazionale, la nuova amministrazione ha dovuto affrontare con poca fortuna una visita del ministro dell’Interno, Izkia Siches, nel comune di Ercilla, nel territorio mapuche in resistenza di Temucuicui, senza ottenere altro risultato che un clamoroso rifiuto delle comunità della zona. *

Allo stesso modo, e per la grave crisi economica che sta attraversando il Paese, con un vertiginoso aumento del costo della vita per le grandi maggioranze sociali (in un anno il prezzo del pane è aumentato del 13%, la carne bovina del 26% e il carburante di oltre il 30%, mentre i salari sono diminuiti dello 0,6% secondo l’Istituto nazionale di statistica, INE), gran parte della popolazione chiede un nuovo prelievo del 10% dei propri risparmi pensionistici gestiti dall’AFP privata.

Durante il governo di Sebastrián Piñera, la pressione sociale e politica ha costretto il regime di destra a consentire il ritiro dei fondi dei lavoratori e delle lavoratrici in tre occasioni, nonostante le proteste dell’industria pensionistica.

Tale provvedimento ha però consentito di decomprimere e contrastare – in un contesto di totale mancanza di investimenti o aiuti diretti e di progressiva regolamentazione statale – un processo ascendente di ingovernabilità e mitigare gli effetti della crisi conseguente alla pandemia di Covid–19.

Ma stavolta, quelli che si oppongono a un nuovo ritiro dei risparmi pensionistici, fanno parte del governo Boric, in particolare il capo del portafoglio del Tesoro ed ex presidente della Banca Centrale, Mario Marcel, economista militante della dottrina monetarista della Scuola di Chicago, la stessa i cui discepoli nati durante la tirannia civile-militare eseguirono rigorosamente il più feroce programma di privatizzazione di tutte le imprese e servizi dello Stato cileno della sua storia.

Infatti, sotto questa ortodossia antipopolare, è stato creato il capitale originario per l’espansione e il rafforzamento oligopolista dei grandi e pochi gruppi economici che controllano l’economia del paese, e che hanno da tempo esteso i loro interessi al resto dell’America Latina.

Certamente e gradualmente, le mobilitazioni studentesche, cittadine e popolari stanno costruendo un piano di manifestazioni sociali, indipendentemente dal governo nazionale, mentre si intensifica una crisi multidimensionale le cui esigenze sociali emergono a causa dei bisogni oggettivi della popolazione impoverita.

https://madmimi.com/p/1337b31?pact=1802754-167164586-7004672224-6d0d2a58413e1d859b7cc1c5f95babe5249585dc

* Il 15 marzo, dopo solo 5 giorni dall’insediamento del nuovo Presidente del Cile, Gabriel Boric, la sua ministra degli Interni, Izkia Siches, ha pensato di andare nel Wallmapu a incontrare i familiari di Camilo Catrillanca, giovane mapuche assassinato durante il governo di Sebastian Piñera.

Ma la sua visita (con nutrita scorta al seguito) è stata bloccata con spari in aria dalle autorità di difesa del territorio mapuche recuperato poiché non erano stati rispettati i protocolli di sicurezza stabiliti da dette autorità.

La neoministra credeva forse di poter bypassare, per/con una visita di cortesia, i protocolli vigenti, ma le è stato così chiarito che nei territori recuperati le cose funzionano come decide l’autorità mapuche e non lo Stato cileno. Il colloquio col padre di Camilo è comunque avvenuto perché è stato lui a recarsi dalla ministra al di fuori dei territori.

Successivamente, è stato anche chiarito che non ci possono essere colloqui seri per affrontare la questione del Wallmapu se non si parte da alcuni punti imprescindibili come la liberazione dei prigionieri politici mapuche (la cui esistenza è stata recentemente negata proprio da un ministro del nuovo governo Boric), l’uscita dalla zona delle imprese forestali e la restituzione dei terreni.

https://interferencia.cl/articulos/exclusivo-habla-el-lonko-de-temucuicui-si-quieren-entrar-asi-estan-muy-equivocados-podemos

https://www.eldesconcierto.cl/nacional/2022/03/15/juan-pichun-vocero-de-la-cam-no-tenemos-prisa-por-sentarnos-en-este-momento-con-nadie.html

https://www.eldinamo.cl/politica/Expulsion-de-forestales-u-ocupacion-territorial-el-ultimatum-de-6-meses-a-Gabriel-Boric-en-La-Araucania-20220323-0059.html

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Una salutare crisi di governo (che non ci sarà)

Fu Matteo Renzi, nel 2014, a sottoscrivere l’impegno a portare la spesa militare in Italia al 2% del PIL. Poi ovviamente questa scelta criminale fu difficile da realizzare, in piena crisi economica.

Tuttavia l’aumento delle risorse pubbliche a favore delle armi fu costante. A danno della scuola e soprattutto della sanità, con un costo sociale e anche di vite umane che abbiamo visto esplodere nella pandemia.

Ora Mario Draghi, grazie alla guerra in Ucraina, può passare alla realizzazione di questo obiettivo che Donald Trump prima, e Biden poi, avevano brutalmente imposto ai paesi della NATO.

Per l’Italia sarebbe una mazzata terribile: 14 miliardi all’anno – 140 in dieci anni – in più per la guerra sottratti alle spese sociali e civili.

Sì, perché contemporaneamente il Presidente del Consiglio rifiuta lo scostamento di bilancio, cioè torna all'austerità. Cioè ogni centesimo che va alle armi viene sottratto ad altre spese.

Il partito di Giorgia Meloni, nuova fan di Draghi, ha proposto di finanziare l’aumento delle spese militari con il taglio del reddito di cittadinanza. I poveri pagano i carri armati, sembra una vignetta antimilitarista dei socialisti di fine '800, invece è la tremenda realtà della classe politica italiana di oggi.

Ma siamo davvero così disarmati al punto da non poter rinunciare alle nuove spese NATO? Non pare proprio. Secondo i dati del SIPRI di Stoccolma la spesa militare USA è di circa 800 miliardi di dollari all’anno. Quella dei paesi della UE di 235 miliardi. Insomma i paesi NATO e UE spendono per armi ogni anno più di 1000 miliardi.

La Russia spende invece circa 70 miliardi. Quindi la spesa della NATO, che da sola è la metà di TUTTA la spesa militare mondiale, è QUATTORDICI volte superiore a quella della Russia. Sarebbe ragionevole diminuire quella spesa, non aumentarla. Anche perché questo incremento si tradurrà soprattutto in un colossale affare per il sistema industriale degli USA, come è stato per i famigerati F-35.

Non è casuale dunque che i due capi di governo italiani più dipendenti dagli USA e il PD, primo partito della NATO, siano i protagonisti della folle corsa al riarmo del nostro paese. Corsa al riarmo che ha fatto indignare e vergognare il Papa, per questo censurato dalla RAI e dai principali giornali.

Se il governo Draghi cadesse proprio sull’aumento delle spese militari sarebbe un fatto salutare per la nostra democrazia e per la pace nel mondo.

La volontà della grande maggioranza degli italiani, contraria a questa decisione, sarebbe finalmente rappresentata nelle istituzioni politiche. Purtroppo non credo che questo avverrà.

Sì, Giuseppe Conte minaccia sfracelli, ma aggiunge anche che gli impegni andranno rispettati, solo un poco più in là, magari dopo le elezioni.

La crisi del governo più guerrafondaio dal 1945 ad oggi sarebbe una buonissima cosa, ma non credo che questa classe politica indecente, che vota tutto al 98%, abbia ora uno scatto di dignità. Troveranno il trucco per stare assieme e continuare a farci pagare tutto.

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Gravi danni collaterali

di Guido Salerno Aletta

L'aumento incontrollabile dei prezzi all'importazione ed il pessimo contesto economico che, dopo due anni di crisi sanitaria, deriva dalla guerra in corso in Ucraina, rischiano di abbattere il saldo strutturale attivo del commercio estero dell'Italia: questo risultato, che è stato conquistato a partire dal 2011 con una deflazione salariale senza precedenti e con l'abbattimento per via fiscale della domanda di beni importati, aveva consentito di portare in positivo per la prima volta nella storia la posizione finanziaria netta dell'Italia, compensando così completamente anche il peso del debito pubblico in mani straniere. Poiché le attività complessive sull'estero avevano finalmente superato le passività, l'Italia poteva dirsi finanziariamente solvibile: ma questa garanzia di stabilità rischia ora di venire meno.

Il fatto è che, stavolta, non c'è più niente da tagliare: il reddito disponibile delle famiglie è già falcidiato dall'aumento delle bollette e del prezzo dei carburanti, mentre le erogazioni sociali non possono essere ridotte a meno di rischiare che lo stato di prostrazione così indotto porti a reazioni incontrollabili. Il piano di investimenti pubblici previsto dal PNRR rischia a sua volta di vanificarsi in termini reali per via dell'aumento dei prezzi impliciti.

Non è solo l'Italia a trovarsi in questa difficoltà. Eurostat ha rilevato un andamento analogo in tutta l'area: nei rapporti extra Ue, la Germania ha più che dimezzato il saldo attivo che si è ridotto dai 13 miliardi di euro del gennaio 2021 ai 6,1 miliardi dello scorso mese di gennaio; il Belgio è passato dalla parità a –3 miliardi; la Grecia da -0,7 miliardi a -1,9; l'Olanda da -10,6 miliardi a -19; la Francia ha ribaltato il segno passando da +1,4 miliardi a -1,4; l'Italia è passata da +1,8 miliardi a -4,2.

Per l'Italia, il ritorno in negativo del saldo commerciale complessivo sull'estero, che è stato di -0,9 miliardi per l'area Ue e dei citati -4,2 miliardi per l'area extra-Ue, è dunque un segnale di allarme pericolosissimo: l'andamento dei prezzi all'importazione non è recuperabile a livello interno né con nuovi tagli ai costi ed ai salari né con incrementi di produttività. Le imprese con il conto economico strutturalmente in rosso per via dei costi aumentati, chiuderanno.

Mentre l'attenzione dei media è tutta concentrata sulle vicende della guerra in Ucraina, occorre cominciare a stimare gli effetti per l'Europa, e per l'Italia in particolare, di questo conflitto che si verifica in un momento estremamente difficile.

Già all'inizio di gennaio c'era un vivissimo allarme per l'andamento dell'inflazione dei prezzi all'importazione e per le difficoltà di approvvigionamento di una serie di prodotti: dal gas ai fertilizzanti, dal grano ai minerali usati dalle industrie, tutti andavano contemporaneamente fuori scala.

In Italia, come del resto in tutta Europa, veniva già ad essere pregiudicata la previsione di un ritorno ai livelli di produzione pre-pandemia: il rimbalzo dei primi mesi del 2021 si era cominciato ad affievolire già durante l'estate per via dell'aumento dei prezzi alla produzione che cominciavano ad incidere sull'attività industriale e della contrazione della disponibilità di reddito delle famiglie.

Il conflitto in Ucraina comporta una serie di conseguenze: il venir meno, per via delle sanzioni alla Russia, dell'export verso quel Paese; la prospettiva di dover trovare approvvigionamenti energetici alternativi rispetto al gas attualmente proveniente dalla Russia, con incertezze crescenti circa la continuità degli approvvigionamenti in corso; la carenza di una serie di prodotti finora importati dalla Russia e dalla Ucraina, sia per il blocco dell'export già deciso per ritorsione verso i Paesi ostili sia per oggettive difficoltà dei trasporti dall'area interessata al conflitto. Non c'è più solo un problema di prezzi in aumento, dal grano ai fertilizzanti come rilevato in precedenza, ma anche di indisponibilità sul mercato: la prospettiva è quella di un razionamento di questi prodotti.

Siamo in una fase di stallo.

La politica monetaria della Bce non può essere più espansiva, perché altrimenti verserebbe altra benzina sulle fiamme dell'inflazione che già arde con aumenti dei prezzi alla produzione superiori al 20% ed aspettative di crescita anche del 7% nel 2022 di quelli al consumo.

Le politiche fiscali, già ampiamente espansive nel biennio 2020-2021 per contrastare gli effetti della crisi sanitaria sull'economia, si trovano alle prese con la necessità di contenere il deficit per non aggravare le tendenze inflattive e per non esasperare il rapporto debito/PIL, ingigantitosi per via degli eventi del biennio pandemico a causa del concomitante aumento delle spese pubbliche in disavanzo e della caduta del prodotto.

C'è un terzo elemento di cui tener conto: le politiche economiche dell'Unione europea, e quelle dell'Italia in particolare, sono state orientate al perseguimento degli obiettivi del NGUE attraverso i PNRR: verso la transizione energetica e quella digitale. Gli investimenti sono dunque prevalentemente orientati all'incremento delle fonti di energia rinnovabile, solare ed eolico in primo luogo. A livello europeo, la cosiddetta tassonomia della transizione energetica considera comunque compatibili ancora l'uso del gas e del nucleare in tutta questa fase. Per quanto riguarda l'Italia, si considerava fermo il sistema degli approvvigionamenti in essere.

La decisione strategica assunta a livello europeo e condivisa dal governo italiano di non dipendere più dal gas russo nel più breve tempo possibile ha dunque cambiato il quadro di riferimento degli approvvigionamenti energetici in essere: occorre innanzitutto aumentare quelli di gas metano che provengono dall'Algeria e dal Kazakhistan, ed aprire al GNL proveniente dal Qatar e dagli Usa con investimenti per nuovi rigassificatori e per le strutture interne di distribuzione. In pratica, occorre rivedere l'intera strategia di transizione energetica elaborata in precedenza, ivi compresa quella del passaggio all'auto elettrica entro il 2035: la riduzione del reddito disponibile alle famiglie per via della inflazione in atto e le incertezze sul futuro rendono assai poco verosimile anche l'obiettivo della sostituzione del parco automobilistico esistente con altre vetture ibride o full-electric che, nonostante i contributi pubblici, sono molto più care rispetto a quelle dotate di motori a combustione interna.

Il quadro economico italiano si avvia dunque ad una profonda recessione in un quadro di elevata inflazione, senza poter contare né su nuove politiche fiscali espansive né su nuove politiche monetarie accomodanti.

A Bruxelles si ipotizzano nuove emissioni di prestiti, ripercorrendo l'esempio del Recovery and Resilience Plan, sia per affrontare i maggiori costi dell'energia sia per finanziare le maggiori spese della difesa.

Tutto le politiche europee vengono rottamate, un giorno dopo l'altro.

Il sistema delle aste per i diritti di emissione della CO2, ad esempio, che pure era stato considerato indispensabile per aumentare continuamente i prezzi dell'energia ed indurre così i consumatori a risparmiare elettricità sembra un fantasma del passato: ci ha pensato la realtà dei mercati speculativi a far andare alle stelle i prezzi.

Pure il sistema delle aste spot per comprare il gas alla giornata, anziché con contratti a lungo termine, verrebbe ora rimpiazzato da un coordinamento europeo degli acquisti e da un sistema di stoccaggio centralizzato.

Ad un ritmo sempre più accelerato, ogni nuova emergenza seppellisce le precedenti: del Fiscal Compact non si parla più, della riforma del MES ancor meno, mentre sembra scomparso anche l'obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 che pure era stato al centro del dibattito politico del G20 di Roma, il 30 ed il 31 ottobre: appena sei mesi fa.

Abbiamo visto di tutto ed il contrario di tutto: dall'austerità senza eccezioni, con le condizionalità inflessibili dappertutto, alle politiche fiscali espansive ed alle politiche monetarie ultra accomodanti.

Mentre a Bruxelles si continua a discutere dei massimi sistemi, l'Europa affonda.

Pandemia, inflazione, guerra in Ucraina: anche il mercantilismo all'italiana è arrivato al capolinea

Gravi Danni Collaterali

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La guerra nella guerra

Il precipitare della situazione ucraina dopo l’invasione da parte della Russia dello scorso 24 febbraio ha scompaginato gli equilibri internazionali determinando una ridefinizione dei campi a livello internazionale e, di riflesso, anche alle nostre latitudini. Senza entrare nel merito di una questione complessa, che andrebbe trattata in termini generali nelle sedi opportune e che potremmo sintetizzare come la certificazione dell’irreversibile emersione di un mondo multipolare in sostituzione di quello a guida del “poliziotto americano”, appare sempre più difficile eludere una serie di questioni che, almeno tra chi non si è accorto il mese scorso che alle porte d’Europa si stava per determinare una situazione esplosiva provocata dalla strutturale crisi in cui l’imperialismo è precipitato, dovrebbero essere sciolte.

Diciamo un’ovvietà – guardando al mondo dei compagni – se ricordiamo che questo conflitto ha radici profonde e non è di certo imputabile a quella che la narrazione personalistica delle più grandi testate giornalistiche (per altro con interessi diretti nel riarmo dell’Europa come notavamo sui social in questi giorni) imputano alla follia di un pazzo – ovviamente Putin – o ai deliri imperial-sciovinisti di una ex-potenza mondiale declassata a potenza regionale come la Russia. Quella che oggi è guerra dispiegata nel cuore d’Europa è infatti stata per otto anni un massacro a bassa intensità per le popolazioni russofone del Donbass e della zona orientale dell’Ucraina. Un massacro che ha prodotto all’incirca 14.000 morti frutto di un martellamento incessante da parte di quella che oggi viene ribattezzata in blocco come la “resistenza” ucraina. Operazione di neutralizzazione delle autoproclamate repubbliche del Donbass, portata avanti non da un esercito qualsiasi ma da formazioni militari e paramilitari dichiaratamente naziste, checché ne dicano i vari Nicastro o penne a servizio dell’industria bellica che hanno buttato al cesso, in sole 3000 battute, qualsiasi residuale dignità della professione giornalistica in questo paese[1].

Questa tragedia, grazie alla generosa iniziativa dei compagni della Banda Bassotti e l’esperienza della Carovana Antifascista di cui abbiamo fatto parte, è riuscita ad emergere anche alle nostre latitudini spezzando l’embargo mediatico imposto all’opinione pubblica e ai compagni di tutto il mondo. Quando parliamo della tragedia del Donbass, stiamo guardando infatti a una guerra durata otto anni che ha visto formazioni di stampo ultranazionalistico e naziste portare avanti un’offensiva che rasentava la pulizia etnica, una riconquista – mai completamente avvenuta per fortuna – che non voleva di certo limitarsi ad un nuovo controllo del territorio perduto dopo il 2014 ma puntava intenzionalmente all’annichilimento di un’etnia, quella russa e russofona, e alla messa in opera di un progetto di riconquista di aree storico-geografiche non assimilabili alle aree “europee” dell’attuale Ucraina, quelle che sostanzialmente vanno dall’area occidentale al confine polacco. E questo è un dato collaterale se si guarda alla dinamica generale innescatasi dopo l’invasione decisa da Mosca, ma se si parla di nazismo e rinascita di movimenti d’ispirazione nazista nel cuore d’Europa non lo è per niente. Un elemento che inoltre, se eluso, ci porterebbe inevitabilmente a non comprendere fino in fondo la situazione in atto e a non cogliere che ad est non si sta combattendo solamente una guerra tra potenze, ma si sta combattendo anche una “guerra nella guerra”. Una guerra tra blocchi, certo, ma anche una guerra ideologica e per la sopravvivenza del popolo del Donbass che fino al 23 febbraio era costretto a subire la minaccia di neutralizzazione da parte di un governo che, dal 2014, non ha in nessun modo nascosto le sue volontà di “ucrainizzazione” del territorio delle Repubbliche indipendenti (né con modalità soft sotto la forma della proibizione della lingua russa, né hard sotto la forma del confronto militare).

Fa specie leggere di analisi che provano a derubricare il macroscopico dato – senza pretendere che lo sia agli occhi della stanca opinione pubblica assuefatta da una gestione emozionale e traumatica dell’informazione, ma almeno tra chi ancora si definisce compagno – lo ripetiamo, macroscopico dato della presenza di organizzazioni naziste con piena agibilità e autonomia a problema minore o, peggio ancora, a problema presente su entrambi i fronti. È naturale – ça va sans dire – che la propagandata “denazificazione” da parte della Russia è un espediente ideologico di legittimazione per un’invasione che ha ben altre mire politico-militari (e ci mancherebbe altro: alle porte di Mosca è la NATO a mettere i missili, non di certo l’Internazionale nera).

Se non fosse così, specularmente, dovremmo infatti credere alle stronzate sull’esportazione della “democrazia” o sulla legittima aspirazione da parte dei popoli extraeuropei ad entrare nell’orbita del blocco occidentale con l’obiettivo di poter democraticamente accedere ad una fetta di benessere occidentale senza diventare serbatoio di manodopera o magazzino per le merci occidentali. La denazificazione è una buffonata tanto quanto l’esportazione della “democrazia” a suon di cannonate, basi militari e destabilizzazioni che ogni area del pianeta ancora indipendente ha dovuto sopportare – per fortuna non sempre finendo sconfitta, come in Siria – dalla caduta del muro ad oggi. Ma se la “denazificazione” attualmente non esiste – anche se speriamo forte e chiaro che tra le ricadute dell’invasione ci sia l’annichilimento del più alto numero di nazisti presente sul territorio – i nazisti, dal confine polacco al confine russo, ci sono eccome. E fanno sorridere tutti coloro che per contrabbandare la loro svolta filo-europeista o per non dover smentire che il cavallo su cui avevano puntato si è rivelato un cavallo nazista, oggi sostengono che «i nazisti ci sono su entrambi i fronti». Vorremmo sperare che si tratti di una battuta o che sia il frutto di un’allucinazione di fronte ad uno degli sconvolgimenti più grossi che il nostro mondo sta vivendo dopo la Pandemia anche se, purtroppo, non sembra essere così.

Che la Russia putiniana sia un regime autoritario con caratteri dispotici, dove non solo qualsiasi forma di politica rivoluzionaria è una lotta quotidiana contro una repressione brutale ma lo è anche per chi si limita a semplici rivendicazioni democratiche lo capisce anche un bambino. Ma, a meno che non ci sia sfuggito qualche cosa di molto grosso, né nella Russia oligarchica, né nelle Repubbliche popolari vediamo organizzazioni fasciste o naziste con un grado di agibilità, influenza culturale e peso politico – in poche parole di Potere – in grado di rievocare fantasmi che non vorremmo mai vedere come in Ucraina[2]. Per organizzazioni naziste non intendiamo i quattro scemi con una passione per le telecamere che sono andati a combattere in Donbass, probabilmente più noti ai giornalisti occidentali che ai loro commilitoni. E neanche le organizzazioni paramafiose, anche di carattere nazionalistico, che pullulano in una società come quella russa e in tante altre società capitalistico-oligarchiche come quella. È più che nota infatti la rinascita di movimenti nazionalisti, panslavisti e di estrema destra in tutta l’area est-europea, Russia compresa. Le piazze stracolme di Varsavia che abbiamo visto crescere all’ombra della NATO e del benessere europeista di cui il governo reazionario di Duda si nutre sono forse la prova – da questa parte della neoeretta cortina – più evidente. Ma allo stesso tempo è un fatto che non è di certo a Mosca che si celebrano giornate nazionali in onore di collaborazionisti delle “SS” come Stepan Bandera. Non è di certo a Pietroburgo che si conferiscono onorificenze a comandanti di battaglioni integrati nell’esercito e riconosciuti dallo Stato che si sono resi autori prima di persecuzioni nei confronti di militanti della sinistra rivoluzionaria e poi di una guerra sporca durata otto anni. E non è neanche qui che il Capo dello Stato sprofonda sempre di più, mano a mano che il conflitto si approfondisce, nelle mani dei battaglioni e reparti dell’esercito più fanatici e combattivi: sempre nazisti. È nell’Ucraina di Zelens’kyj invece che tutto questo avviene con il silenzio della comunità internazionale e dei paesi europei, gli stessi che non appena si muove una critica al più pericoloso stato colonialista quale è Israele fanno piovere scomuniche e accuse di antisemitismo con una ferocia e uno zelo che fanno spavento. È nell’Ucraina che era prossima ad entrare nell’Unione Europea e sempre più vicina ad abbracciare la NATO, se non ci fosse stato lo scontro bellico aperto, che il nazismo in forma organizzata, e non come in decine di altri paesi sotto forma di bande di strada o movimenti populistici edulcorati, risorge. Non nella Russia oligarchica di Putin, ma nella “democratica” Ucraina filo-europeista.

E questo dovrebbe dircela lunga anche sulla natura della “resistenza ucraina”. Una resistenza che certamente comprende tutta quella fetta del popolo ucraino che si oppone giustamente ad un’invasione e al pericolo di una guerra di lunga durata che provocherebbe morte e distruzione più di quanto già non stia facendo, ma che comprende anche, e non in forma subordinata, chi morte e distruzione l’ha portata per otto anni in un territorio che concepiva come prateria per scorribande da pulizia etnica. E che se un domani sopravvivesse al conflitto in atto non esiterebbe un secondo a lavorare per la ricostruzione di una Ucraina nazionalista e antirussa che poco ha a che vedere con la cessazione delle ostilità.

Sui paragoni tra “resistenza ucraina” e Resistenza non ci sprechiamo neanche tempo, visto che in una fase in cui la comunicazione politica passa per il continuo cortocircuito politico-ideologico il nesso tra il nome e la cosa ha perso momentaneamente di significato. Crediamo solamente che l’emergere di simili parallelismi, oltre a far accapponare la pelle dovrebbe quantomeno interrogarci sul perché di tanto interesse nel sostegno a una così problematica “resistenza” mentre le decine di resistenze popolari ad un’invasione, da quella palestinese a quella yemenita, vengono sistematicamente eluse e non giudicate degne di essere sostenute. Non stanno forse anche loro combattendo contro un invasore? Oppure il sostegno alle resistenze in giro per il mondo si misura sull’agenda politica dei partiti di governo?

Invece dal 24 febbraio sentiamo crescere – incredibilmente anche tra le nostre fila – la richiesta di sostegno alla “resistenza ucraina” e dell’invio di armi ai “resistenti” prefigurando eclettici parallelismi tra questa e altre “resistenze” dei più disparati colori. Bisognerebbe far notare allora ai cantori orientalisti delle rivoluzioni di ieri, tramutatisi oggi in alfieri dell’interventismo governativo con una verniciatura umanitaristica e da “grandi principi” storico-filosofici, che chi chiede l’invio di armi al nostro “nemico interno” non si sta schierando soltanto nel campo internazionale, ma lo sta facendo anche in casa nostra. Ed è un attimo che le sbandate internazionali, spesso passate in cavalleria e mai fatte pesare in ragione di una relativa lontananza delle questioni trattate rispetto alle priorità del nostro “cortile di casa”, diventano faccende domestiche sui cui è difficile chiudere un occhio.

Una sinistra di classe dovrebbe, in passaggi così delicati, almeno comprendere che organizzare il fronte per una de-escalation è il minimo sindacale per far sì che la situazione non precipiti condannando così l‘Europa ad una condizione di conflitto bellico aperto in un momento in cui questa stessa sinistra si ritroverebbe spiazzata, divisa e in cui anche quelle poche lotte che stanno coraggiosamente portando avanti la prospettiva del conflitto sociale finirebbero inevitabilmente schiacciate dallo sforzo bellico. Se il minimo è questo, dovremmo allora avere la forza di dire che per gettare il cuore oltre l’ostacolo è necessario, a fronte della guerra imperialista in via di dispiegamento, ragionare sull’ hic et nunc per la sinistra di classe. E il “qui e ora”, a fronte di una condannabile e centinaia di volte condannata invasione da parte della Russia, si chiama lotta alla NATO, in tutte le sue forme, sul territorio italiano. Perché a meno che non siamo stati vittima di un’allucinazione collettiva, di basi russe nel nostro paese non ne vediamo come non vediamo testate nucleari controllate da Mosca. Vediamo invece chiaramente le 120 basi NATO, tra cui l’Allied joint force command e il comando del Security force dei Marines americani, oltre che le decine di testate nucleari presenti sul nostro territorio.

Allora sabotare la guerra imperialista da questa parte della barricata, se di questo si tratta, vuol dire sabotare la NATO.

Note

[1] Qui e qui le straordinarie doti giornalistiche dell’attuale corrispondente del Corsera a Mariupl impegnate nella glorificazione del comandante del battaglione Azov, asserragliato nella città sotto assedio dai russi e dalle milizie popolari delle repubbliche.

[2] Qui una recente inchiesta, pubblicata da una rivista non certo di estrema sinistra, dedicata all’influenza delle organizzazioni naziste sulla vita politica ucraina.

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Elezioni in Palestina. Riavvicinamento tra Hamas e FPLP

Si sono svolte il 26 marzo le elezioni locali in gran parte delle maggiori città della Cisgiordania, fra cui Ramallah, Hebron, Nablus, Jenin, a seguito di un primo round tenuto nelle città più piccole a fine 2021.

Tali elezioni sono cadute in un clima di generale disillusione popolare nei confronti del quadro istituzionale, dati la nota situazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), apparato burocratico sostanzialmente inutile al popolo palestinese, e la divisione interna ai Territori perdurante dal 2007, da quando, cioè, a seguito di un conflitto civile armato, Hamas controlla la Striscia di Gaza, mentre Fatah continua a dominare laddove vige ancora l’ANP. Quest’ultimo fattore continua a provocare il rinvio sine die delle elezioni politiche generali e di quelle presidenziali dei Territori, svuotando ulteriormente di senso anche le tornate elettorali locali, laddove vengono tenute.

Entrambe queste tornate hanno visto l’affermazione forte di liste indipendenti, ovvero registrate a nome di nessun partito, cosa che rende difficile un’analisi politica degli esiti. Tuttavia, un fatto politico di una certa rilevanza, che potrebbe avere ripercussioni future, c’è stato: Hamas, infatti, pur boicottando ufficialmente le elezioni, ha consentito ai propri esponenti locali di prendervi parte all’interno di liste indipendenti, in alleanza con il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP), storica organizzazione comunista.

Maher Harb, esponente del FPLP, ha dichiarato ad Al Monitor: ”La situazione politica generale ha spinto il FPLP e Hamas verso un riavvicinamento politico e nazionale. Le due fazioni concordano sui servizi e sui programmi sociali che devono essere offerti ai cittadini. Entrambi hanno nominato candidati influenti e socialmente accettabili in grado di soddisfare le richieste del popolo”.

Sul fronte di Hamas, Fazza Sawafta, dirigente della Cisgiordania, ha dichiarato sempre ad Al Monitor: ”L’alleanza tra Hamas e il FPLP è necessaria e dovrebbe essere favorita in vari aspetti della vita politica, alla luce della convergenza nel programma politico tra le due fazioni. La nostra alleanza è fonte di preoccupazione per Fatah e l’ANP, in quanto il FPLP fa parte dell’OLP. Abbiamo cercato di costruire l’OLP su solide fondamenta, ma Fatah e l’ANP hanno rifiutato e richiesto il riconoscimento dei principi del Quartetto internazionale [riconoscimento dello stato israeliano, rinuncia alla resistenza armata], il che ha ostacolato gli sforzi di riconciliazione”.

Sembra proseguire, così, il processo di riavvicinamento graduale di Hamas all’”Asse di resistenza”, di cui il FPLP è alleato fondamentale. Durante i primi anni della crisi siriana, il movimento islamico aveva privilegiato la propria appartenenza alla Fratellanza Musulmana, schierandosi a favore dei ribelli jihadisti contro Damasco e contando, più in generale, sull’emersione dei Fratelli Musulmani come nuovo soggetto regionale forte e legittimato da tutte le principali potenze internazionali, a seguito delle cosiddette primavere arabe.

Successivamente, prendendo atto del fallimento dell’operazione di regime change in Siria, della caduta di Al-Morsi in Egitto e del generale cambiamento dei rapporti forza in Medio Oriente, Hamas ha cambiato parzialmente il proprio gruppo dirigente e ha riorientato la propria linea.

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Ancora provocazioni ed attacchi contro il Reddito di Cittadinanza

Da circa un mese – sostanzialmente dall’inizio della guerra nel cuore dell’Europa – si registrano, nel dibattito pubblico, boutade e intemerate di ogni tipo che, spesso, durano il tempo del loro “lancio in agenzia”. Un fenomeno (decadente) che possiamo tranquillamente ascrivere nel banale e noioso politicantismo che appesta le cronache dell’Italietta e che – da tempo – caratterizza lo stato dell’arte della Politica nelle nostrane latitudini.

Con l’approssimarsi del voto parlamentare circa l’aumento delle spese militari, nell’ambito del generale riarmo imperialista europeo, quel vecchio esponente del neofascismo – convertito da tempo al chiacchiericcio edonista dei salotti televisivi – che risponde al nome di Ignazio La Russa (attualmente in Fratelli d’Italia), si è prodigato nell’ennesima provocazione: “Utilizziamo i fondi del Reddito di Cittadinanza per finanziare l’aumento delle spese militari”.

Avremmo ignorato tale dichiarazione se questa cosiddetta proposta/suggerimento all’Esecutivo non suonasse come una gravissima offesa alla dignità delle centinaia di migliaia di persone – collocate particolarmente nel Meridione d’Italia, ma anche nelle periferie delle aree metropolitane del Nord – le quali letteralmente sopravvivono con l’ausilio del Reddito di Cittadinanza (che, sia detto con estrema nettezza, è uno strumento limitato, parziale e assolutamente insufficiente, dal punto di vista delle modalità di accesso e della scarsa dotazione finanziaria, a far fronte all’attuale crescente costo di tutti gli indicatori economici di una vita civile).

Emerge ancora una volta – oltre la superficialità stilistica di queste provocazioni antipopolari – la profonda concezione classista, razzista e scopertamente punitiva verso i poveri che questi personaggi squadernano ogni volta che la contingenza politica offre loro la possibilità di mettersi in mostra.

Un vero e proprio Odio di Classe contro un settore sociale che dopo la devastante crisi pandemica globale e sotto i primi effetti dell’economia di guerra è in espansione al Sud come al Nord.

Basta non solo leggere le periodiche indagini statistiche del comparto che indicano un aumento assoluto delle nuove povertà, ma già uno sguardo alle file quotidiane alle Mense Sociali, ai Caf, ai Patronati e alle Parrocchie, basta per cogliere il carattere di massa e diffuso dei variegati fenomeni di povertà e di indigenza che stanno aumentando con tassi di crescita ben al di sopra dell’ordinario.

Ed è in questo contesto – in tale tragedia sociale – che le boutade alla La Russa o di qualsivoglia altro soggetto dovrebbero suscitare un sussulto di rabbia degna per far ingoiare tali insulti.

Intanto – però – tocca a tutti noi, alle organizzazioni anticapitaliste e al sindacalismo conflittuale tentare di rintuzzare, colpo sul colpo, a questo osceno martellamento.

Dobbiamo liberarci da una nefasta subalternità – prima culturale e poi politica – ad una narrazione “lavorista” (di sfruttamento, per dirla giusta) la quale si nutre concretamente di lavoro atipico, malsano e malpagato ed affermare il sacrosanto diritto a campare indipendentemente dalle compatibilità vigenti e dall’insieme dei dispositivi su cui si regge il moderno mercato del lavoro materiale ed immateriale.

L’aver lasciato, sostanzialmente, il monopolio della gestione politica della questione Reddito di Cittadinanza al Movimento 5 Stelle e aver – magari inconsapevolmente – auspicato in una “tenuta politica” di questa forza ha, di fatto, indebolito il già limitato provvedimento legislativo, ma ha contribuito anche all’affermarsi di una schifosa campagna di discriminazione e di colpevolizzazione coatta verso i percettori del RdC, che vengono spesso etichettati con aggettivi di scuola lombrosiana.

Sarebbe ora di non lasciare senza risposte immediate le provocatorie avvisaglie contro il RdC, ricominciando a discutere su come articolare ed intrecciare la questione Reddito con la lotta per il Salario Minimo e con la necessaria mobilitazione contro gli aumenti di prezzi e tariffe.

È ora di prendere parola, di toglierla a chi non ha la legittimità di intervenire e di ritrovare un protagonismo collettivo ed organizzato.

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L’Europa nella trappola della “guerra di civiltà”

“Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (i volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente le strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente” [1]

Alcuni giorni fa ho ricevuto dei video in cui si vedono militari ucraini infierire su quelli russi appena catturati (alcuni giovanissimi) con una crudeltà ed una violenza inaudita. Alcuni di essi erano feriti, anche gravemente, ma il trattamento che gli veniva riservato era altrettanto feroce. Ho chiesto una verifica delle fonti di questi video ed ho ricevuto dei riferimenti precisi.

Non lo so se i militari che compiono queste atrocità siano, o no, quelli del famigerato battaglione neonazista “Azov”, se siano o meno dei “regolari” o se appartengono ad altri “battaglioni” di quelli che portano, ugualmente, sulla manica della divisa, l’effige del collaboratore nazista Stepan Bandera.

D’altronde, è sviante distinguere tra “regolari” ed “irregolari”, ovvero, tra militari e paramilitari dal momento che sappiamo che questi battaglioni sono organicamente inquadrati all’interno dell’esercito nazionale ucraino.

Tuttavia, so che l’oligarca miliardario ucraino, finanziatore e vero regista della folgorante ascesa politica di Zelensky, Igor Kolomoysky, è stato anche uno dei principali finanziatori del battaglione “Azov” sin dalla sua costituzione nel 2014 come delle altre milizie private quali i battaglioni “Dnipro” e “Aidar” schierate personalmente per proteggere i suoi interessi finanziari.

L’articolo 14 della Convenzione III relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, sottoscritta nel 1949, prevede che “i prigionieri di guerra hanno diritto, in ogni circostanza, al rispetto della loro persona e del loro onore”.

L’ orrore che ho visto in quei video è maledettamente simile a quello che si vedeva nei video dell’ISIS che giravano in rete qualche anno fa. Nei video di propaganda dell’ISIS c’erano anche dei bambini che venivano addestrati a combattere e ad uccidere. So che i battaglioni ucraini neonazisti stanno facendo la stessa cosa con i bambini ucraini.

Mi chiedo: ciò che ho visto in quei video orribili è il prodotto dell’addestramento che hanno ricevuto dalla NATO e dagli USA? Sono questi i “valori” che l’occidente vuole tutelare inviando 2,5 miliardi di armi a questa gente?

Circa 20 giorni,fa Mike Repass, ex comandante del Comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti in Europa, ha dichiarato alla CNN: “La NATO e gli Stati Uniti hanno fatto un lavoro magnifico nell’addestrare l’esercito ucraino. Quando ho visitato un’unità delle forze speciali ucraine a settembre, ho percepito immediatamente che questi ragazzi erano ben addestrati; sembravano i nostri ragazzi. Avevano gli stessi automatismi, gli stessi processi di pianificazione”.

L’Europa prima di schierarsi e di paragonare ciò che succede in Ucraina alla resistenza al nazifascismo avrebbe dovuto capire che il suo silenzio sul massacro alla camera del lavoro di Odessa del 2014 e sui successivi otto anni di guerra condotta, in prima fila, dai battaglioni neonazisti contro le popolazioni delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk che hanno causato tra le 14.000 e le 16.000 vittime avrebbe, prima o poi, aperto la strada a tragedie ancora più grandi. E così, l’orrore taciuto del Donbass è oggi diventato l’orrore di tutta l’Ucraina.

E, dopo tutto questo assordante silenzio, nel giro di pochissimo tempo, siamo passati dall’odio verso i musulmani a quello contro i russi, che, ora, ci vengono rappresentati come i nuovi barbari. Ora il nemico è il russo, qualsiasi russo, vivo o morto, anche Fëdor Dostoevskij. Dicono: dopo l’Ucraina toccherà alla Moldavia, poi ai Paesi Baltici e poi i nuovi barbari invaderanno l’Europa intera.

Si, perché l’incessante, martellante, propaganda bellica cui siamo sottoposti dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina si basa sull’eterna semplificazione del mondo che scinde l’interno, che conterrebbe tutto il bene, dall’esterno, in cui alloggerebbe tutto il male.

Quale credibilità può avere l’Occidente quando pretende di tracciare un confine tra sé ed il “male assoluto”? Quando ciò che oggi rinfaccia a Putin è ciò che ha sempre fatto nei confronti del popoli del mondo? Quanti doppi standard?

Sono troppe le crepe nella narrazione che ci vorrebbe tutti arruolati ed in guerra: ci sono dittatori utili di cui “però si ha bisogno” (parole di Draghi) e dittatori cattivi; ci sono profughi meritevoli della nostra solidale compassione e profughi che è meglio che crepino in mare o a ridosso dei nostri confini; ci sono guerre “giuste”, “umanitarie” e ci sono guerre ingiuste e malvagie. E anche le vittime della guerra non sono tutte uguali: sui media occidentali quelle che non servono a provocare un’onda emotiva contro il nemico di turno vengono semplicemente ignorate, da sempre.

La verità è che Putin siamo noi e che sono troppe le domande senza risposta che ci impediscono di definire un “noi” ed un “loro”.

L’errore primigenio e fatale dell’Europa è stato quello di confondere i propri confini esterni (quelli tra “bene” e “male”) con quelli della NATO. Non Europa di pace, non Europa mediterranea, ma Unione Europa Atlantica ed Atlantista, complice organica di un’organizzazione politico-criminale che non ha mai smesso di seminare nel mondo distruzione e morte proprio perchè concepita ed organizzata, fin dall’inizio, unicamente per fare la guerra.

La guerra reca sempre con sé un tragico carico di orrore che non è mai ascrivibile esclusivamente ad una delle parti in conflitto. Tuttavia, il discorso pubblico sulla guerra esplosa all’interno dell’Europa è, immancabilmente, schiacciato dal solito archetipo che identifica due principi assoluti, il Bene e il Male, in perpetuo ed insanabile contrasto tra loro.

È il solito paradigma dei guerrafondai adattato ai tempi delle guerre ibride ed è ciò che impedisce qualsiasi ragionamento che non contenga una premessa di schieramento a priori. È ciò che mira a distruggere in partenza qualsiasi possibilità di intraprendere percorsi di pace, di dialogo e di convivenza tra i popoli, pur nelle reciproche differenze, storiche, politiche e culturali.

È l’assurda e folle logica alla quale dobbiamo sottrarci se vogliamo davvero costruire un movimento contro la guerra che fermi la deriva bellicista in atto, prima che sia troppo tardi.

Note

[1] “Aspettando i barbari” Konstantinos Kavafis, 1898.

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