30/04/2025
Il 30 aprile 1975 il Vietnam è finalmente libero
di Federico Giuliani
Il 30 aprile 1975 il Vietnam è libero e indipendente. Esattamente 50 anni fa gli elicotteri Usa si alzavano in volo per portare via gli ultimi americani da Saigon, mentre le truppe nordvietnamite entravano nella città che sarebbe stata ribattezzata Ho Chi Min City. La guerra contro gli “imperialisti occidentali” era finalmente terminata. Ed era stata vinta. Dopo la Francia, infatti, anche gli Stati Uniti salutavano il Vietnam, un Paese diviso nel 1954 al termine della Prima Guerra d’Indocina (1946-1954) tra le forze coloniali francesi e i vietnamiti guidati da Ho Chi Minh, e che di lì a poco sarebbe stato riunificato sotto il nome di Repubblica Socialista del Vietnam con capitale Hanoi.
Saigon, che fino a pochi anni prima deteneva il ruolo consolidato di capitale del Vietnam non comunista, era appena entrata in una nuova era. Generali, soldati, politici e funzionari pubblici che avevano sempre dettato legge in città erano evaporati come neve al sole. I nordvietnamiti erano pronti a riconquistare questo centro urbano anche a costo di combattere isolato per isolato.
Non ce ne sarebbe stato bisogno perché i combattimenti tra le forze comuniste e le ultime difese del Vietnam del Sud si consumarono fuori dalla città. E poi perché l’ultimo presidente sudvietnamita, il generale Duong Van Minh, aveva ordinato all’esercito di deporre le armi.
La vittoria sui francesi
Dal 1975 in poi ogni 30 aprile in Vietnam si festeggia un doppio anniversario: quello della Liberazione del Sud e quello della Riunificazione Nazionale, ovvero una delle tappe più significative della storia moderna vietnamita. Per capire cosa era appena accaduto in questo Paese del Sud Est asiatico bisogna tornare indietro nel tempo.
La Francia colonizzò l’intera regione dell’Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia) tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel 1940, con Parigi alle prese con l’occupazione nazista in Europa, il Giappone invase l’Indocina francese, lasciando formalmente al potere l’amministrazione coloniale europea. Nel frattempo emersero diversi movimenti di resistenza locali, compreso il Viet Minh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam, un movimento comunista e nazionalista per liberare il Vietnam fondato da Ho Chi Minh.
Con la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, il Viet Minh prese il controllo di Hanoi e il 2 settembre 1945, Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam. La Francia non accettò l’indipendenza e cercò di riprendere il controllo del Paese. Seguirono otto anni di guerra e la clamorosa sconfitta di una potenza coloniale europea da parte di un esercito di liberazione asiatico.
La liberazione del Vietnam
Dopo la sconfitta francese nella battaglia di Dien Bien Phu vennero firmati gli Accordi di Ginevra. Il Vietnam veniva diviso temporaneamente lungo il 17esimo parallelo nel Vietnam del Nord (controllato dal Viet Minh comunista) e nel Vietnam del Sud (con un Governo anti comunista sostenuto da Francia e Stati Uniti). Nel 1956 si sarebbero dovute tenere elezioni nazionali per riunificare il Paese ma non successe niente del genere, in primis per l’opposizione del Sud (soprattutto statunitense) che temeva una schiacciante vittoria comunista.
Risultato: il sentimento anti occidentale crebbe fino ad arrivare alla guerra aperta tra il Vietnam del Nord e quello del Sud, ormai appoggiato dagli Usa, di fatto subentrati ai francesi e desiderosi di contenere l’espansione del comunismo in Asia. Washington avrebbe tuttavia miseramente fallito, così come anni prima avevano fallito i francesi. Il conflitto fu durissimo ma sfiancante. Nel 1973 gli Stati Uniti firmarono gli Accordi di Parigi con il Vietnam del Nord: gli americani si sarebbero ritirati in cambio di un cessate il fuoco e del ritorno dei prigionieri di guerra. Tuttavia, il conflitto continuò tra Nord e Sud Vietnam fino al 1975.
“I comunisti governavano ancora di fatto gran parte delle campagne e si erano infiltrati a ogni livello del Governo sudvietnamita, dal palazzo presidenziale in giù. Furono i soldi americani, non la lealtà, a guidare lo sforzo bellico sudvietnamita. Senza alcuna prospettiva di aiuto americano, l’esercito sudvietnamita crollò nella primavera del 1975”, scriveva il Time ricordando quegli anni. Il 30 aprile del 1975 Saigon cadde definitivamente. E il Vietnam si scopriva libero da ogni ingerenza occidentale.
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Il 30 aprile 1975 il Vietnam è libero e indipendente. Esattamente 50 anni fa gli elicotteri Usa si alzavano in volo per portare via gli ultimi americani da Saigon, mentre le truppe nordvietnamite entravano nella città che sarebbe stata ribattezzata Ho Chi Min City. La guerra contro gli “imperialisti occidentali” era finalmente terminata. Ed era stata vinta. Dopo la Francia, infatti, anche gli Stati Uniti salutavano il Vietnam, un Paese diviso nel 1954 al termine della Prima Guerra d’Indocina (1946-1954) tra le forze coloniali francesi e i vietnamiti guidati da Ho Chi Minh, e che di lì a poco sarebbe stato riunificato sotto il nome di Repubblica Socialista del Vietnam con capitale Hanoi.
Saigon, che fino a pochi anni prima deteneva il ruolo consolidato di capitale del Vietnam non comunista, era appena entrata in una nuova era. Generali, soldati, politici e funzionari pubblici che avevano sempre dettato legge in città erano evaporati come neve al sole. I nordvietnamiti erano pronti a riconquistare questo centro urbano anche a costo di combattere isolato per isolato.
Non ce ne sarebbe stato bisogno perché i combattimenti tra le forze comuniste e le ultime difese del Vietnam del Sud si consumarono fuori dalla città. E poi perché l’ultimo presidente sudvietnamita, il generale Duong Van Minh, aveva ordinato all’esercito di deporre le armi.
La vittoria sui francesi
Dal 1975 in poi ogni 30 aprile in Vietnam si festeggia un doppio anniversario: quello della Liberazione del Sud e quello della Riunificazione Nazionale, ovvero una delle tappe più significative della storia moderna vietnamita. Per capire cosa era appena accaduto in questo Paese del Sud Est asiatico bisogna tornare indietro nel tempo.
La Francia colonizzò l’intera regione dell’Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia) tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel 1940, con Parigi alle prese con l’occupazione nazista in Europa, il Giappone invase l’Indocina francese, lasciando formalmente al potere l’amministrazione coloniale europea. Nel frattempo emersero diversi movimenti di resistenza locali, compreso il Viet Minh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam, un movimento comunista e nazionalista per liberare il Vietnam fondato da Ho Chi Minh.
Con la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, il Viet Minh prese il controllo di Hanoi e il 2 settembre 1945, Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam. La Francia non accettò l’indipendenza e cercò di riprendere il controllo del Paese. Seguirono otto anni di guerra e la clamorosa sconfitta di una potenza coloniale europea da parte di un esercito di liberazione asiatico.
La liberazione del Vietnam
Dopo la sconfitta francese nella battaglia di Dien Bien Phu vennero firmati gli Accordi di Ginevra. Il Vietnam veniva diviso temporaneamente lungo il 17esimo parallelo nel Vietnam del Nord (controllato dal Viet Minh comunista) e nel Vietnam del Sud (con un Governo anti comunista sostenuto da Francia e Stati Uniti). Nel 1956 si sarebbero dovute tenere elezioni nazionali per riunificare il Paese ma non successe niente del genere, in primis per l’opposizione del Sud (soprattutto statunitense) che temeva una schiacciante vittoria comunista.
Risultato: il sentimento anti occidentale crebbe fino ad arrivare alla guerra aperta tra il Vietnam del Nord e quello del Sud, ormai appoggiato dagli Usa, di fatto subentrati ai francesi e desiderosi di contenere l’espansione del comunismo in Asia. Washington avrebbe tuttavia miseramente fallito, così come anni prima avevano fallito i francesi. Il conflitto fu durissimo ma sfiancante. Nel 1973 gli Stati Uniti firmarono gli Accordi di Parigi con il Vietnam del Nord: gli americani si sarebbero ritirati in cambio di un cessate il fuoco e del ritorno dei prigionieri di guerra. Tuttavia, il conflitto continuò tra Nord e Sud Vietnam fino al 1975.
“I comunisti governavano ancora di fatto gran parte delle campagne e si erano infiltrati a ogni livello del Governo sudvietnamita, dal palazzo presidenziale in giù. Furono i soldi americani, non la lealtà, a guidare lo sforzo bellico sudvietnamita. Senza alcuna prospettiva di aiuto americano, l’esercito sudvietnamita crollò nella primavera del 1975”, scriveva il Time ricordando quegli anni. Il 30 aprile del 1975 Saigon cadde definitivamente. E il Vietnam si scopriva libero da ogni ingerenza occidentale.
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Dazi, sconti e scontri. Per Trump non butta bene
Il caos dazi si complica, invece di sciogliersi. Dalla contea di Macomb, nel Michigan un tempo sede della concentrazione più alta al mondo di fabbriche automobilistiche, Donald Trump ha dovuto correggere in più punti il suo molto schematico sistema di tariffe punitive.
Sulle auto straniere era stato deciso un sovraccarico doganale del 25%, e altrettanto su acciaio e alluminio. Il problema diventato subito esplosivo è che in questo modo i componenti fondamentali provenienti dall’estero subivano una doppia imposizione straordinaria, che faceva aumentare il costo di produzione anche per gli autoveicoli fabbricati negli States.
Del resto è noto che produrre un’auto, oggi, significa assemblare parti costruite un po’ in tutto il mondo, così che non esiste più praticamente la possibilità concreta di avere un prodotto totalmente “made in” qualsiasi paese. Ricordiamo per esempio che il terremoto che provocò lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima (2011) bloccò per qualche tempo la produzione di chip e centraline che dovevano esser montate su un’infinità di modelli in tutto il mondo.
La parziale marcia indietro di Trump si traduce in una “dose scalare” di rimborsi – fino al 3,75% del valore delle vetture finali, e per il secondo anno al 2,5% del valore – in modo da dar tempo alle industrie di adattarsi al “nuovo corso”.
Ma è una sofferenza continua. Jeff Bezos, patron di Amazon, ha deciso di rendere pubblica la quota di aumento dei prezzi addebitabile ai dazi per ogni singolo prodotto venduto sulla sua piattaforma (che all’80% vende merci “made in China”), in modo da schivare le critiche e la disaffezione dei consumatori Usa.
La giovane portavoce della Casa Bianca lo ha additato pubblicamente come responsabile di un «atto ostile e politico». Come se Bezos fosse un normale “democratico” e non uno dei protagonisti delle “magnifiche sette” della new economy che si erano schierate con Trump subito dopo la sua elezione.
Bezos, va ricordato, si era esposto al punto di aver scritto un editoriale in cui annunciava di aver imposto un drastico cambio di linea al Washington Post, storico baluardo del giornalismo progressista Usa (memorabile il Watergate che costrinse Richard Nixon alle dimissioni), ora di sua proprietà.
Un editoriale che annullava oltretutto l’ultima foglia di fico messa sulla “libertà di stampa”: al WaPo c’è un padrone, come in tutti i giornali, e la linea la fa lui, non i giornalisti. Punto.
Ma non sono finite qui le pessime notizie per la nuova amministrazione “di rottura”. Proprio la politica dei dazi eccezionali, specie contro la Cina, sta preparando un enorme problema per i consumatori Usa meno abbienti.
Come chiariscono molti analisti seri, è nei supermercati che si va preparando lo shock per i consumatori statunitense, specie quelli che hanno votato sotto l’illusione “Maga” (Make America great again). Va ricordato, per esempio, che la sola catena di distribuzione WalMart – la più grande e capillare, un milione di dipendenti pagati pochissimo, dove puoi trovare dallo spazzolino al fucile mitragliatore – già venti anni fa rappresentava da sola il 12% del mercato di sbocco delle esportazioni cinesi. Allora prodotti “poveri” per lavoratori altrettanto poveri, ma nel paese più ricco del mondo...
Oggi la situazione è radicalmente cambiata (per la Cina, soprattutto), e quelle merci-salario indispensabili sono oggi fabbricate in molti altri paesi “in via di sviluppo”. Ma la politica dei dazi trumpiani è universale, per quanto differenziata. Quindi...
Poi, certo, si prova a nascondere i problemi sotto le promesse (un quasi accordo in arrivo con l’India, una revisione contrattata con la Cina, ecc.), ma questa è la parte più “vecchio stile”, comprensibile da chiunque non sia un tifoso ottenebrato dalla fede.
Sembra strano, vendendo l’amministrazione Usa oggi totalmente in mano ad imprenditori miliardari. Ma pare proprio che non si siano resi conto di vivere e prosperare in un “sistema” indipendente dalle volontà individuali e che, manomettendolo, avrebbero provocato scosse telluriche impossibili da controllare “as usual”.
Succede, se non capisci la differenza abissale tra controllare un’azienda e governare un Paese. Di quelle dimensioni, poi...
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Sulle auto straniere era stato deciso un sovraccarico doganale del 25%, e altrettanto su acciaio e alluminio. Il problema diventato subito esplosivo è che in questo modo i componenti fondamentali provenienti dall’estero subivano una doppia imposizione straordinaria, che faceva aumentare il costo di produzione anche per gli autoveicoli fabbricati negli States.
Del resto è noto che produrre un’auto, oggi, significa assemblare parti costruite un po’ in tutto il mondo, così che non esiste più praticamente la possibilità concreta di avere un prodotto totalmente “made in” qualsiasi paese. Ricordiamo per esempio che il terremoto che provocò lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima (2011) bloccò per qualche tempo la produzione di chip e centraline che dovevano esser montate su un’infinità di modelli in tutto il mondo.
La parziale marcia indietro di Trump si traduce in una “dose scalare” di rimborsi – fino al 3,75% del valore delle vetture finali, e per il secondo anno al 2,5% del valore – in modo da dar tempo alle industrie di adattarsi al “nuovo corso”.
Ma è una sofferenza continua. Jeff Bezos, patron di Amazon, ha deciso di rendere pubblica la quota di aumento dei prezzi addebitabile ai dazi per ogni singolo prodotto venduto sulla sua piattaforma (che all’80% vende merci “made in China”), in modo da schivare le critiche e la disaffezione dei consumatori Usa.
La giovane portavoce della Casa Bianca lo ha additato pubblicamente come responsabile di un «atto ostile e politico». Come se Bezos fosse un normale “democratico” e non uno dei protagonisti delle “magnifiche sette” della new economy che si erano schierate con Trump subito dopo la sua elezione.
Bezos, va ricordato, si era esposto al punto di aver scritto un editoriale in cui annunciava di aver imposto un drastico cambio di linea al Washington Post, storico baluardo del giornalismo progressista Usa (memorabile il Watergate che costrinse Richard Nixon alle dimissioni), ora di sua proprietà.
Un editoriale che annullava oltretutto l’ultima foglia di fico messa sulla “libertà di stampa”: al WaPo c’è un padrone, come in tutti i giornali, e la linea la fa lui, non i giornalisti. Punto.
Ma non sono finite qui le pessime notizie per la nuova amministrazione “di rottura”. Proprio la politica dei dazi eccezionali, specie contro la Cina, sta preparando un enorme problema per i consumatori Usa meno abbienti.
Come chiariscono molti analisti seri, è nei supermercati che si va preparando lo shock per i consumatori statunitense, specie quelli che hanno votato sotto l’illusione “Maga” (Make America great again). Va ricordato, per esempio, che la sola catena di distribuzione WalMart – la più grande e capillare, un milione di dipendenti pagati pochissimo, dove puoi trovare dallo spazzolino al fucile mitragliatore – già venti anni fa rappresentava da sola il 12% del mercato di sbocco delle esportazioni cinesi. Allora prodotti “poveri” per lavoratori altrettanto poveri, ma nel paese più ricco del mondo...
Oggi la situazione è radicalmente cambiata (per la Cina, soprattutto), e quelle merci-salario indispensabili sono oggi fabbricate in molti altri paesi “in via di sviluppo”. Ma la politica dei dazi trumpiani è universale, per quanto differenziata. Quindi...
Poi, certo, si prova a nascondere i problemi sotto le promesse (un quasi accordo in arrivo con l’India, una revisione contrattata con la Cina, ecc.), ma questa è la parte più “vecchio stile”, comprensibile da chiunque non sia un tifoso ottenebrato dalla fede.
Sembra strano, vendendo l’amministrazione Usa oggi totalmente in mano ad imprenditori miliardari. Ma pare proprio che non si siano resi conto di vivere e prosperare in un “sistema” indipendente dalle volontà individuali e che, manomettendolo, avrebbero provocato scosse telluriche impossibili da controllare “as usual”.
Succede, se non capisci la differenza abissale tra controllare un’azienda e governare un Paese. Di quelle dimensioni, poi...
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Kashmir: quinta notte di scontri al confine tra Pakistan e India
Per la quinta notte consecutiva i militari di India e Pakistan si sono scambiati colpi di arma da fuoco lungo la Linea di controllo (Loc), il confine de facto nella regione contesa del Kashmir.
Lo hanno riferito le forze armate di Nuova Delhi, segnalando sparatorie nei distretti di Kupwara e Baramulla e nel settore di Akhnoor. Le tensioni tra i due Paesi, entrambi dotati di arsenali nucleari, sono di nuovo esplose dopo l’attacco terroristico che il 22 aprile scorso ha provocato la morte di 26 persone (per lo più turisti) a Pahalgam, nel Territorio di Jammu e Kashmir occupato dall’India.
In seguito all’attentato si è aperta una nuova grave crisi diplomatica tra l’India e il Pakistan, in conflitto dal 1947 per il controllo del Kashmir, dopo che Nuova Delhi ha accusato esplicitamente Islamabad di sostenere il terrorismo anti-indiano nella regione.
Il 23 aprile il Comitato di gabinetto per la sicurezza (Ccs) indiano ha adottato cinque misure: la sospensione con effetto immediato del Trattato delle acque dell’Indo (Iwt) del 1960; la chiusura con effetto immediato del posto di controllo integrato di Attari (con la possibilità di rientro dal varco entro il primo maggio per i connazionali); l’esclusione a tempo indeterminato dei cittadini pachistani dal regime di visti dell’Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (Saarc) e l’obbligo di lasciare l’India entro 48 ore per quanti ne erano in possesso; l’ingiunzione ai consiglieri militari dell’ambasciata del Pakistan, dichiarati persone non gradite, a lasciare l’India entro una settimana, con il contestuale richiamo dei consiglieri militari indiani; il ridimensionamento degli organici delle rispettive ambasciate da 55 a 30 unità entro il primo maggio.
Il 24 aprile è stato il Comitato per la sicurezza nazionale (Nsc) del Pakistan a riunirsi. Islamabad ha respinto le accuse e l’annuncio di Nuova Delhi sul trattato Iwt, facendo presente che quell’accordo “non contiene alcuna disposizione per la sospensione unilaterale” e avvertendo che “qualsiasi tentativo di interrompere o deviare il flusso d’acqua di proprietà del Pakistan ai sensi del Trattato sulle acque dell’Indo, nonché l’usurpazione dei diritti delle rive inferiori, sarà considerato un atto di guerra”.
Il Pakistan ha annunciato che “eserciterà il diritto di sospendere tutti gli accordi bilaterali con l’India, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, l’Accordo di Simla, finché l’India non desisterà dal suo comportamento manifesto di fomentare il terrorismo all’interno del Pakistan, commettere omicidi transnazionali e non aderire al diritto internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite sul Kashmir”. L’Accordo di Simla del 1972 è quello che definisce la linea di controllo (Loc), la demarcazione militare, non coincidente col confine internazionale, che separa il territorio kashmiro controllato dall’India da quello controllato dal Pakistan.
In risposta a misure definite “belligeranti”, il Pakistan, a sua volta, ha annunciato l’immediata chiusura del valico di frontiera di Wagah, e la sospensione dei visti Saarc per i cittadini indiani, con la richiesta di lasciare il Paese entro 48 ore, fatta eccezione per i pellegrini sikh. Anche il Pakistan ha dichiarato persone non gradite i consiglieri militari presso l’ambasciata indiana imponendo loro di lasciare il Paese entro il 30 aprile, data entro la quale il personale indiano dovrà scendere a 30 unità. Il Pakistan, inoltre, ha chiuso il suo spazio aereo alle compagnie aeree di proprietà indiana o gestite dall’India e ha sospeso tutti gli scambi commerciali, compresi quelli da e verso Paesi terzi attraverso il Pakistan.
L’Esercito indiano ha riferito che da parte pachistana è stato violato il cessate il fuoco per quattro giorni consecutivi, l’ultima volta nella notte tra il 27 e il 28 aprile. Le violazioni sarebbero avvenute in vari punti della linea di controllo e le truppe indiane hanno risposto “efficacemente”.
Per quanto riguarda le indagini, l’Agenzia investigativa nazionale (Nia) indiana ha elaborato tre identikit; secondo quanto riferito dalla polizia, i tre sospettati sarebbero tutti collegati al gruppo terroristico “Lashkar-e-Taiba” (“Esercito del bene” o “Esercito dei giusti”, attivo in Kashmir e protetto dal Pakistan) e almeno due sarebbero stranieri.
Finora le forze di sicurezza indiane hanno effettuato centinaia di fermi ed interrogatori ed hanno raso al suolo le abitazioni di diversi presunti terroristi.
Nuova Delhi ha ordinato alla portaerei Vikrant, inviata il 23 aprile in direzione delle acque territoriali del Pakistan, di tornare nel porto di Karwar.
Da parte sua il Ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif ha però sostenuto che persiste la possibilità che si arrivi ad uno scontro militare diretto tra i due paesi. Le autorità del Pakistan affermano di temere un’incursione armata “imminente” da parte delle forze armate indiane.
Fonte
Lo hanno riferito le forze armate di Nuova Delhi, segnalando sparatorie nei distretti di Kupwara e Baramulla e nel settore di Akhnoor. Le tensioni tra i due Paesi, entrambi dotati di arsenali nucleari, sono di nuovo esplose dopo l’attacco terroristico che il 22 aprile scorso ha provocato la morte di 26 persone (per lo più turisti) a Pahalgam, nel Territorio di Jammu e Kashmir occupato dall’India.
In seguito all’attentato si è aperta una nuova grave crisi diplomatica tra l’India e il Pakistan, in conflitto dal 1947 per il controllo del Kashmir, dopo che Nuova Delhi ha accusato esplicitamente Islamabad di sostenere il terrorismo anti-indiano nella regione.
Il 23 aprile il Comitato di gabinetto per la sicurezza (Ccs) indiano ha adottato cinque misure: la sospensione con effetto immediato del Trattato delle acque dell’Indo (Iwt) del 1960; la chiusura con effetto immediato del posto di controllo integrato di Attari (con la possibilità di rientro dal varco entro il primo maggio per i connazionali); l’esclusione a tempo indeterminato dei cittadini pachistani dal regime di visti dell’Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (Saarc) e l’obbligo di lasciare l’India entro 48 ore per quanti ne erano in possesso; l’ingiunzione ai consiglieri militari dell’ambasciata del Pakistan, dichiarati persone non gradite, a lasciare l’India entro una settimana, con il contestuale richiamo dei consiglieri militari indiani; il ridimensionamento degli organici delle rispettive ambasciate da 55 a 30 unità entro il primo maggio.
Il 24 aprile è stato il Comitato per la sicurezza nazionale (Nsc) del Pakistan a riunirsi. Islamabad ha respinto le accuse e l’annuncio di Nuova Delhi sul trattato Iwt, facendo presente che quell’accordo “non contiene alcuna disposizione per la sospensione unilaterale” e avvertendo che “qualsiasi tentativo di interrompere o deviare il flusso d’acqua di proprietà del Pakistan ai sensi del Trattato sulle acque dell’Indo, nonché l’usurpazione dei diritti delle rive inferiori, sarà considerato un atto di guerra”.
Il Pakistan ha annunciato che “eserciterà il diritto di sospendere tutti gli accordi bilaterali con l’India, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, l’Accordo di Simla, finché l’India non desisterà dal suo comportamento manifesto di fomentare il terrorismo all’interno del Pakistan, commettere omicidi transnazionali e non aderire al diritto internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite sul Kashmir”. L’Accordo di Simla del 1972 è quello che definisce la linea di controllo (Loc), la demarcazione militare, non coincidente col confine internazionale, che separa il territorio kashmiro controllato dall’India da quello controllato dal Pakistan.
In risposta a misure definite “belligeranti”, il Pakistan, a sua volta, ha annunciato l’immediata chiusura del valico di frontiera di Wagah, e la sospensione dei visti Saarc per i cittadini indiani, con la richiesta di lasciare il Paese entro 48 ore, fatta eccezione per i pellegrini sikh. Anche il Pakistan ha dichiarato persone non gradite i consiglieri militari presso l’ambasciata indiana imponendo loro di lasciare il Paese entro il 30 aprile, data entro la quale il personale indiano dovrà scendere a 30 unità. Il Pakistan, inoltre, ha chiuso il suo spazio aereo alle compagnie aeree di proprietà indiana o gestite dall’India e ha sospeso tutti gli scambi commerciali, compresi quelli da e verso Paesi terzi attraverso il Pakistan.
L’Esercito indiano ha riferito che da parte pachistana è stato violato il cessate il fuoco per quattro giorni consecutivi, l’ultima volta nella notte tra il 27 e il 28 aprile. Le violazioni sarebbero avvenute in vari punti della linea di controllo e le truppe indiane hanno risposto “efficacemente”.
Per quanto riguarda le indagini, l’Agenzia investigativa nazionale (Nia) indiana ha elaborato tre identikit; secondo quanto riferito dalla polizia, i tre sospettati sarebbero tutti collegati al gruppo terroristico “Lashkar-e-Taiba” (“Esercito del bene” o “Esercito dei giusti”, attivo in Kashmir e protetto dal Pakistan) e almeno due sarebbero stranieri.
Finora le forze di sicurezza indiane hanno effettuato centinaia di fermi ed interrogatori ed hanno raso al suolo le abitazioni di diversi presunti terroristi.
Nuova Delhi ha ordinato alla portaerei Vikrant, inviata il 23 aprile in direzione delle acque territoriali del Pakistan, di tornare nel porto di Karwar.
Da parte sua il Ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif ha però sostenuto che persiste la possibilità che si arrivi ad uno scontro militare diretto tra i due paesi. Le autorità del Pakistan affermano di temere un’incursione armata “imminente” da parte delle forze armate indiane.
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ANP: per il futuro leader una successione pianificata sotto l’influenza occidentale
Ramallah. Le recenti riunioni del Consiglio Centrale (23-24 aprile) e del Comitato Esecutivo (26 aprile) dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) non sono state una sorpresa. Al di là dei luoghi comuni politici, questi incontri avevano un obiettivo chiaro: ottemperare ufficialmente alle pressioni arabe e occidentali attraverso una significativa ristrutturazione della leadership, in particolare istituendo la carica di Vicepresidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Come ampiamente previsto, Hussein al-Sheikh è stato nominato a questo ruolo di nuova creazione, un evento celebrato apertamente da alcuni stati arabi, ricevendo in particolare le congratulazioni del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed.
L’ascesa di al-Sheikh non è un semplice rimpasto di posizioni, ma una mossa calcolata da parte di alcune forze esterne arabe e occidentali per progettare un processo di successione su misura per i propri interessi, inclusa la riduzione dei poteri del Presidente Mahmoud Abbas a un ruolo più simbolico.
Hussein al-Sheikh, che vanta ampi rapporti con “Israele” e gli Stati Uniti grazie al fatto che guida l’Autorità per gli Affari Civili dell’ANP – responsabile del coordinamento con “Israele” – è quindi diventato il successore designato di Abbas.
La sua influenza è cresciuta significativamente dopo il suo ingresso nel Comitato Centrale di Fatah nel 2009 e nel Comitato Esecutivo dell’OLP nel 2022, succedendo infine a Saeb Erekat come segretario.
Il consolidamento del potere di al-Sheikh ha coinciso con la sistematica emarginazione dei suoi rivali nell’arena politica palestinese, in particolare all’interno del movimento di Fatah. La sua ascesa è stata rafforzata dal forte sostegno arabo e dal sostegno diretto di Abbas, ulteriormente consolidato da una serie di cambiamenti nella leadership e nella sicurezza.
Il licenziamento del Primo Ministro Mohammad Shtayyeh e la sostituzione di importanti leader della sicurezza palestinese con fedelissimi della guardia personale di Abbas rientravano in questa più ampia ristrutturazione. Inoltre, migliaia di alti ufficiali militari hanno dovuto affrontare il “pensionamento” forzato nell’ambito delle riforme della sicurezza guidate da al-Sheikh.
La natura simbolica dell’ascesa di al-Sheikh è stata chiaramente dimostrata durante le recenti celebrazioni dell’Eid al-Fitr, quando ha guidato una delegazione di alto profilo, con un’elevata dose di sicurezza, alla tomba di Yasser Arafat – una pubblica affermazione del suo nuovo status politico e della legittimità della successione.
In modo critico, questa transizione di leadership orchestrata dall’esterno presenta implicazioni politiche più profonde, che vanno oltre un mero rimpasto amministrativo. Mette in luce la continua influenza araba e occidentale sugli affari interni palestinesi, sottolineando in particolare il mantenimento del controverso coordinamento per la sicurezza con “Israele”.
Fonte
Come ampiamente previsto, Hussein al-Sheikh è stato nominato a questo ruolo di nuova creazione, un evento celebrato apertamente da alcuni stati arabi, ricevendo in particolare le congratulazioni del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed.
L’ascesa di al-Sheikh non è un semplice rimpasto di posizioni, ma una mossa calcolata da parte di alcune forze esterne arabe e occidentali per progettare un processo di successione su misura per i propri interessi, inclusa la riduzione dei poteri del Presidente Mahmoud Abbas a un ruolo più simbolico.
Hussein al-Sheikh, che vanta ampi rapporti con “Israele” e gli Stati Uniti grazie al fatto che guida l’Autorità per gli Affari Civili dell’ANP – responsabile del coordinamento con “Israele” – è quindi diventato il successore designato di Abbas.
La sua influenza è cresciuta significativamente dopo il suo ingresso nel Comitato Centrale di Fatah nel 2009 e nel Comitato Esecutivo dell’OLP nel 2022, succedendo infine a Saeb Erekat come segretario.
Il consolidamento del potere di al-Sheikh ha coinciso con la sistematica emarginazione dei suoi rivali nell’arena politica palestinese, in particolare all’interno del movimento di Fatah. La sua ascesa è stata rafforzata dal forte sostegno arabo e dal sostegno diretto di Abbas, ulteriormente consolidato da una serie di cambiamenti nella leadership e nella sicurezza.
Il licenziamento del Primo Ministro Mohammad Shtayyeh e la sostituzione di importanti leader della sicurezza palestinese con fedelissimi della guardia personale di Abbas rientravano in questa più ampia ristrutturazione. Inoltre, migliaia di alti ufficiali militari hanno dovuto affrontare il “pensionamento” forzato nell’ambito delle riforme della sicurezza guidate da al-Sheikh.
La natura simbolica dell’ascesa di al-Sheikh è stata chiaramente dimostrata durante le recenti celebrazioni dell’Eid al-Fitr, quando ha guidato una delegazione di alto profilo, con un’elevata dose di sicurezza, alla tomba di Yasser Arafat – una pubblica affermazione del suo nuovo status politico e della legittimità della successione.
In modo critico, questa transizione di leadership orchestrata dall’esterno presenta implicazioni politiche più profonde, che vanno oltre un mero rimpasto amministrativo. Mette in luce la continua influenza araba e occidentale sugli affari interni palestinesi, sottolineando in particolare il mantenimento del controverso coordinamento per la sicurezza con “Israele”.
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BRICS+ a Rio de Janeiro, per discutere di pace e dazi USA
Si è concluso ieri a Rio de Janeiro l’incontro dei ministri degli Esteri dei BRICS+, tra gli eventi che precedono e preparano il 17esimo vertice dei capi di stato e di governo dell’organizzazione che si terrà, sempre a Rio, il 6 e 7 luglio. È il primo incontro a cui ha partecipato anche l’Indonesia, la quale è diventata ufficialmente il decimo membro del gruppo quest’anno.
Il summit è stato dedicato al ruolo dei BRICS+ nel promuovere la pace e la stabilità a livello globale, e allo sviluppo di una risposta cooperativa alle politiche commerciali statunitensi. Il discorso di apertura dell’incontro è spettato ovviamente al padrone di casa, il ministro degli esteri brasiliano Mauro Vieira, che ha ribadito il peso sempre maggiore dell’organizzazione.
Vieira ha infatti sottolineato che “rappresentando quasi la metà dell’umanità e un’ampia diversità geografica e culturale, i BRICS+ sono in una posizione unica per promuovere la pace e la stabilità”. Ha poi rimarcato la necessità di un rinnovato impegno per il multilateralismo e l’importanza di procedere alla riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, poco rappresentativo dei paesi emergenti.
Anche Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ne ha approfittato per ricordare che quest’anno ricorre l’80esimo anniversario della nascita delle Nazioni Unite, e che oggi lo scenario internazionale è però profondamente cambiato. In questa cornice, a suo avviso i BRICS+ possono assumere una posizione di traino verso la pace e lo sviluppo.
Il politico cinese ha affermato quattro punti: il sostegno della sicurezza universale, la promozione attiva della pace e del dialogo, il rafforzamento delle basi dello sviluppo e il rafforzamento della cooperazione pratica. Gli altri rappresentati dei BRICS+ hanno detto di sostenere le iniziative globali cinesi che vanno in questa direzione.
I BRICS+ hanno poi affermato che devono continuare a opporsi all’utilizzo di doppi standard e favorire la risoluzione pacifica dei conflitti. Non sono mancate parole di critica sul massacro continuo dei palestinesi portato avanti da Israele, e sull’ostacolo posto dai sionisti all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Anche le varie crisi africane, dell’Ucraina e di Haiti sono state discusse durante il summit.
Dal punto di vista economico, l’obiettivo doveva essere quello di discutere una risposta coordinata ai dazi imposti da Trump e di difendere “la centralità dei negoziati commerciali multilaterali come asse principale di azione nel commercio”, aveva detto il diplomatico brasiliano Mauricio Lyrio. Tema che è stato accolto da tutti.
Tuttavia, alla fine del vertice non è stato prodotto alcun comunicato congiunto. C’è stata comunque una dichiarazione brasiliana con la quale è stato ribadito che tutti i ministri degli Esteri presenti a Rio esprimono “seria preoccupazione per la prospettiva di un’economia globale frammentata e per l’indebolimento del multilateralismo”.
Interessanti sono state poi le parole spese sul lato delle questioni monetarie. Il russo Serghei Lavrov, in un’intervista a margine dei lavori, ha detto che “con l’accelerazione della frammentazione dell’economia globale è naturale che i paesi del Sud e dell’Est del mondo stiano riducendo l’uso delle valute occidentali”. I BRICS+ vogliono dunque favorire l’uso delle valute nazionali negli scambi reciproci.
Per quanto riguarda lo sviluppo di una moneta unica del gruppo, Lavrov ha detto invece che è prematuro parlarne, e torneranno sul tema “quando si presenteranno le necessarie condizioni finanziarie ed economiche”. Ad ora, dice il politico russo, gli sforzi sono diretti a creare “un’infrastruttura di pagamento per le transazioni transfrontaliere tra i paesi del blocco”.
Il progetto cinese mBridge per espandere l’uso del renminbi digitale e bypassare il sistema di pagamenti SWIFT va in questa direzione, e rappresenta uno strumento nel processo di dedollarizzazione del mondo. Non a caso, Trump ha promesso ritorsioni tariffarie nei confronti dei BRICS+ qualora si dotassero di una propria valuta per contrastare il dominio del ‘biglietto verde’.
Fonte
Il summit è stato dedicato al ruolo dei BRICS+ nel promuovere la pace e la stabilità a livello globale, e allo sviluppo di una risposta cooperativa alle politiche commerciali statunitensi. Il discorso di apertura dell’incontro è spettato ovviamente al padrone di casa, il ministro degli esteri brasiliano Mauro Vieira, che ha ribadito il peso sempre maggiore dell’organizzazione.
Vieira ha infatti sottolineato che “rappresentando quasi la metà dell’umanità e un’ampia diversità geografica e culturale, i BRICS+ sono in una posizione unica per promuovere la pace e la stabilità”. Ha poi rimarcato la necessità di un rinnovato impegno per il multilateralismo e l’importanza di procedere alla riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, poco rappresentativo dei paesi emergenti.
Anche Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ne ha approfittato per ricordare che quest’anno ricorre l’80esimo anniversario della nascita delle Nazioni Unite, e che oggi lo scenario internazionale è però profondamente cambiato. In questa cornice, a suo avviso i BRICS+ possono assumere una posizione di traino verso la pace e lo sviluppo.
Il politico cinese ha affermato quattro punti: il sostegno della sicurezza universale, la promozione attiva della pace e del dialogo, il rafforzamento delle basi dello sviluppo e il rafforzamento della cooperazione pratica. Gli altri rappresentati dei BRICS+ hanno detto di sostenere le iniziative globali cinesi che vanno in questa direzione.
I BRICS+ hanno poi affermato che devono continuare a opporsi all’utilizzo di doppi standard e favorire la risoluzione pacifica dei conflitti. Non sono mancate parole di critica sul massacro continuo dei palestinesi portato avanti da Israele, e sull’ostacolo posto dai sionisti all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Anche le varie crisi africane, dell’Ucraina e di Haiti sono state discusse durante il summit.
Dal punto di vista economico, l’obiettivo doveva essere quello di discutere una risposta coordinata ai dazi imposti da Trump e di difendere “la centralità dei negoziati commerciali multilaterali come asse principale di azione nel commercio”, aveva detto il diplomatico brasiliano Mauricio Lyrio. Tema che è stato accolto da tutti.
Tuttavia, alla fine del vertice non è stato prodotto alcun comunicato congiunto. C’è stata comunque una dichiarazione brasiliana con la quale è stato ribadito che tutti i ministri degli Esteri presenti a Rio esprimono “seria preoccupazione per la prospettiva di un’economia globale frammentata e per l’indebolimento del multilateralismo”.
Interessanti sono state poi le parole spese sul lato delle questioni monetarie. Il russo Serghei Lavrov, in un’intervista a margine dei lavori, ha detto che “con l’accelerazione della frammentazione dell’economia globale è naturale che i paesi del Sud e dell’Est del mondo stiano riducendo l’uso delle valute occidentali”. I BRICS+ vogliono dunque favorire l’uso delle valute nazionali negli scambi reciproci.
Per quanto riguarda lo sviluppo di una moneta unica del gruppo, Lavrov ha detto invece che è prematuro parlarne, e torneranno sul tema “quando si presenteranno le necessarie condizioni finanziarie ed economiche”. Ad ora, dice il politico russo, gli sforzi sono diretti a creare “un’infrastruttura di pagamento per le transazioni transfrontaliere tra i paesi del blocco”.
Il progetto cinese mBridge per espandere l’uso del renminbi digitale e bypassare il sistema di pagamenti SWIFT va in questa direzione, e rappresenta uno strumento nel processo di dedollarizzazione del mondo. Non a caso, Trump ha promesso ritorsioni tariffarie nei confronti dei BRICS+ qualora si dotassero di una propria valuta per contrastare il dominio del ‘biglietto verde’.
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L’affare portuale a Panama sta per saltare, Li Ka-shing ha sbattuto contro un muro
Un esempio pratico di come la Cina sviluppa una politica economica non subordinata alle imprese private, ma che al contrario le subordina agli obiettivi. Usando le “regole del mercato”, addirittura. Ed anche qualche “esibizione muscolare”...
*****
Questa volta, l’affare portuale di Li Ka-shing rischia davvero di fallire.
L’Autorità cinese per la Regolazione del Mercato ha chiaramente richiesto che le parti coinvolte nella transazione non adottino alcun metodo per eludere la revisione. Senza l’approvazione, non possono procedere con l’operazione, altrimenti dovranno affrontare conseguenze legali.
Cosa significa? È un messaggio chiaro. Che sia Li Ka-shing, BlackRock o il nuovo entrante MSC Group, nessuno può monopolizzare il controllo globale del trasporto marittimo. Il tentativo di Li Ka-shing di vendere in blocco 43 porti esteri per liquidare e fuggire è ormai impossibile.
Perché l’Autorità cinese per la Regolazione del Mercato ha lanciato questo segnale? Principalmente perché Li Ka-shing non si rassegna e vuole ancora vendere. Inoltre, il gruppo CK Hutchison sta cercando di contrastare la revisione antitrust, giocando la carta della “strategia della cicala dorata che si libera del suo bozzolo” strategia astuta per sfuggire a una situazione difficile). Dopo l’avvio dell’indagine antitrust da parte delle autorità, il gruppo ha annunciato la scissione di parte delle sue attività. Come? Separando le attività di PCCW, controllate dal figlio maggiore Victor Li, per quotarle a Londra.
Perché questa scissione? Primo, per eludere l’indagine antitrust. Se lo accusi di monopolio, lui divide tutto in piccole società. Una parte del patrimonio familiare rimane sotto Li Ka-shing, l’altra viene trasferita al figlio Victor Li, che non è cittadino cinese e gestisce attività estere, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni in Europa. Ad esempio, la più grande compagnia telefonica britannica è stata acquisita da Li Ka-shing. In questo modo, può nascondere gran parte del patrimonio e contrastare l’indagine.
Secondo, per trasferire attività. Il patrimonio di Li Ka-shing si divide in tre macro aree: immobiliare (principalmente in Cina e Hong Kong), energia (in Canada e Regno Unito, dove controlla la terza più grande compagnia petrolifera canadese, Husky Energy, e il 30% della rete elettrica britannica) e porti. È il primo operatore portuale al mondo, con oltre 50 terminal, tra cui il porto di Yantian in Cina, Rotterdam, i porti del Canale di Panama e del Canale di Suez, e altri in Medio Oriente, Europa e Australia.
Se BlackRock o MSC acquisissero questi 43 porti, diventerebbero colossi globali del trasporto marittimo. BlackRock, in particolare, è considerato un “braccio” del governo USA. Trump vorrebbe usarlo per controllare Panama e Suez, e sta già spingendo per il passaggio gratuito di navi militari e commerciali americane. Inoltre, con le basi a Singapore e possibili accordi con la Russia per le rotte artiche, gli USA potrebbero riprendere il controllo globale delle vie marittime, minacciando la Cina.
Per questo la Cina ha condotto esercitazioni militari con l’Egitto (“Falco della Civiltà-2025”): per contrastare i piani di Trump su Suez e sostenere l’Egitto contro le pressioni USA. Li Ka-shing, in questo scenario, non può essere lasciato libero di agire contro gli interessi nazionali. Il suo affare portuale è ormai insostenibile.
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Il collegamento suicida tra Kiev e la UE
Per fare la pace, come per fare la guerra, occorre essere almeno in due. E al momento – nel complesso rapporto multilaterale tra Russia, Ucraina, Stati Uniti, Unione Europea (con la Nato che non si sa più bene a chi obbedisca) – non sembra che siano in molti a volerla davvero.
Strepiti trumpiani a parte, con il segretario di Stato Rubio che un giorno garantisce che “questa è la settimana decisiva” e subito dopo minaccia il ritiro degli Usa da ogni contrattazione, fin qui si sono visti solo “segnali” lanciati per verificare la disponibilità altrui.
E ad essere onesti bisogna ammettere che questi segnali sono fin qui arrivati solo da Mosca. Prima con una tregua unilaterale di 30 ore in occasione della Pasqua (quest’anno coincidevano quella di rito cattolico e quella ortodossa), ora con la proposta di tre giorni di cessate il fuoco intorno al 9 maggio, ottantesimo anniversario della conquista sovietica del Reichstag a Berlino, la morte di Hitler e la fine della guerra in Europa.
La risposta ucraina è stata un “niet” mascherato da rilancio: “almeno trenta giorni o niente”, “questa serve solo a garantire le parate di Putin”.
A livello mediatico occidentale, il tema di un “cessate il fuoco” ha di fatto sostituito quello di una trattativa, venendo posto addirittura come ostacolo/precondizione di eventuali trattative tra le parti. Non è inutile ricordare che nella Storia delle guerre moderne non c’è praticamente alcun precedente di sospensione dei combattimenti nel mentre si negozia. Anzi, in genere si è smesso di sparare quando è stato raggiunto almeno un qualche grado di accordo.
In concreto, però la situazione sembra piuttosto lontana dall’addivenire a un pur minimo compromesso (lo ammette placidamente anche l’ex ministro degli esteri ucraino, Kuleba, ormai allocato in sedi più confortevoli). I diversi “piani” presentati sono quanto mai distanti.
La Reuters ha pubblicato i termini dell’attuale proposta Usa, presentata da Witkoff agli europei nei giorni scorsi:
Anche il portavoce di Putin, Peskov, ha osservato che “se l’Ucraina si ritirasse dalle quattro regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson”, la Russia interromperebbe immediatamente la guerra. Ma questo richiederebbe che l’Ucraina si ritiri spontaneamente dalle città di Kherson e Zaporozhye, il che è praticamente da escludere.
Ne frattempo si moltiplicano i segnali contrari provenienti dagli alti livelli della junta ucraina. Il Segretario del Comitato per la Sicurezza Nazionale della Verkhovna Rada, Roman Kostenko, ha dichiarato in una recente intervista: “In caso di congelamento delle ostilità, l’Ucraina deve intensificare le attività in Russia e compiere una serie di omicidi politici”.
Uno strano modo di intendere il “cessate il fuoco” che lo limita alla linea del fronte mentre si sviluppa un’offensiva esplicitamente terroristica... il che, paradossalmente, rafforza l’intento russo di “denazificare” l’Ucraina fino a spegnere certe “tentazioni”.
Oppure, come spiega un ufficiale russo a un gruppo di analisti del suo paese:
Un nuovo rapporto polacco sostiene inoltre che Varsavia sta proponendo di chiudere il Mar Baltico al traffico russo.
La Polonia ha proposto di chiudere il Mar Baltico alla Russia con il pretesto di proteggere le turbine eoliche offshore, riporta Polish Defense 24.
Tra le opzioni ci sono:
– installazione di attrezzature speciali sulle turbine eoliche per il “controllo di sicurezza”, ma in realtà per guidare i missili antinave NSM;
– l’impiego di “organizzazioni di sicurezza private” ben armate con il supporto della Marina polacca.
Ciò richiederà la creazione di più di una dozzina di centri di monitoraggio speciali che, secondo gli autori, dovrebbero essere operativi giorno e notte per tutto l’anno.
Persino gli autori del piano non sanno se riusciranno a distinguere i turisti, i diportisti e i pescatori che potrebbero finire nei pressi dei parchi eolici, dai “possibili sabotatori russi”.
Solo pochi giorni fa l’Estonia – il micro-Stato da cui proviene la neo “ministra degli esteri europea”, Kaja Kallas – ha suggerito di affondare le navi russe accusate di “violare” le regole stabilite arbitrariamente dagli stessi paesi baltici.
Non pare proprio che da questo lato del “fronte”, insomma, ci sia gente che arde dal desiderio di evitare l’escalation verso la guerra totale...
Al punto da far apparire persino Trump come quasi ragionevole quando si è trovato ad ammettere che la più grande concessione che la Russia possa fare all’Ucraina è quella di non prendersi l’intero Paese.
Un riconoscimento indiretto del fatto che senza un coinvolgimento di tutto l’Occidente la guerra in Ucraina è segnata. Ma un coinvolgimento diretto sarebbe anche la fine di tutti...
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Strepiti trumpiani a parte, con il segretario di Stato Rubio che un giorno garantisce che “questa è la settimana decisiva” e subito dopo minaccia il ritiro degli Usa da ogni contrattazione, fin qui si sono visti solo “segnali” lanciati per verificare la disponibilità altrui.
E ad essere onesti bisogna ammettere che questi segnali sono fin qui arrivati solo da Mosca. Prima con una tregua unilaterale di 30 ore in occasione della Pasqua (quest’anno coincidevano quella di rito cattolico e quella ortodossa), ora con la proposta di tre giorni di cessate il fuoco intorno al 9 maggio, ottantesimo anniversario della conquista sovietica del Reichstag a Berlino, la morte di Hitler e la fine della guerra in Europa.
La risposta ucraina è stata un “niet” mascherato da rilancio: “almeno trenta giorni o niente”, “questa serve solo a garantire le parate di Putin”.
A livello mediatico occidentale, il tema di un “cessate il fuoco” ha di fatto sostituito quello di una trattativa, venendo posto addirittura come ostacolo/precondizione di eventuali trattative tra le parti. Non è inutile ricordare che nella Storia delle guerre moderne non c’è praticamente alcun precedente di sospensione dei combattimenti nel mentre si negozia. Anzi, in genere si è smesso di sparare quando è stato raggiunto almeno un qualche grado di accordo.
In concreto, però la situazione sembra piuttosto lontana dall’addivenire a un pur minimo compromesso (lo ammette placidamente anche l’ex ministro degli esteri ucraino, Kuleba, ormai allocato in sedi più confortevoli). I diversi “piani” presentati sono quanto mai distanti.
La Reuters ha pubblicato i termini dell’attuale proposta Usa, presentata da Witkoff agli europei nei giorni scorsi:
▪️ Entrambe le parti avvieranno immediatamente i negoziati sull’attuazione tecnica di un cessate il fuoco permanente.In un’intervista rilasciata a Face the Nation, il ministro degli esteri russo Lavrov ha categoricamente respinto l’idea del trasferimento dell’impianto nucleare di Zaporižžja agli Stati Uniti, ribadendo le principali richieste della Russia:
▪️ L’Ucraina rinuncia ad aderire alla NATO, ma può diventare membro dell’Unione Europea.
▪️ Le garanzie di sicurezza per l’Ucraina saranno fornite da un contingente militare di Stati europei, al quale possono aderire volontariamente anche i Paesi non europei.
▪️ Gli Stati Uniti riconoscono de jure la Crimea come territorio russo e de facto riconoscono il controllo della Russia sulla regione di Luhansk e sulle parti “occupate” delle regioni di Donbass, Zaporozhye e Kherson.
▪️ L’Ucraina riprende il controllo sulle aree “occupate” della regione di Kharkiv.
▪️ L’Ucraina riprende il controllo della diga di Kakhovka e della centrale nucleare di Zaporižžja. La centrale sarà gestita dagli americani e l’elettricità sarà distribuita “a entrambe le parti”.
▪️ L’Ucraina otterrà il passaggio senza ostacoli lungo il Dnepr e il controllo sulla penisola di Kinburn
▪️ Gli Stati Uniti e l’Ucraina stanno raggiungendo un accordo sulla cooperazione economica e sullo sviluppo delle risorse minerarie.
▪️ L’Ucraina riceverà il pieno ripristino e un indennizzo finanziario.
▪️ Le sanzioni contro la Russia, imposte dal 2014, saranno revocate.
▪️ Gli Stati Uniti coopereranno con la Russia nei settori energetico e industriale.
▪️ L’Ucraina deve rinunciare ad aderire alla NATO e rimanere neutrale.Sia l’Ucraina che gli Stati Uniti continuano a sostenere che Kiev dovrebbe essere in grado di mantenere una rilevante forza militare, il che è inammissibile per la Russia.
▪️ Kiev è obbligata a smettere di distruggere legislativamente e fisicamente tutto ciò che è russo in Ucraina: lingua, media, cultura, tradizioni e chiesa ortodossa.
▪️ Le regioni di Crimea, Sebastopoli, DPR, LPR, Kherson e Zaporizhia devono essere riconosciute a livello internazionale come territorio russo.
▪️ Tutte le sanzioni contro la Russia devono essere revocate, le cause legali e i mandati di arresto annullati, i beni congelati restituiti.
▪️ Mosca deve ricevere affidabili garanzie di sicurezza contro le minacce create dalle attività ostili della NATO, dell’Unione Europea e dei loro singoli Stati membri ai suoi confini occidentali.
▪️ Il compito della smilitarizzazione e della denazificazione dell’Ucraina non viene rimosso dall’agenda.
▪️ Tutti gli obblighi di Kiev derivanti dall’accordo di pace devono essere sanciti dalla legge, disporre di meccanismi di attuazione ed essere permanenti (il che implica nuove elezioni a Kiev e la cancellazione dei “divieti” a trattare con Mosca).
Anche il portavoce di Putin, Peskov, ha osservato che “se l’Ucraina si ritirasse dalle quattro regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson”, la Russia interromperebbe immediatamente la guerra. Ma questo richiederebbe che l’Ucraina si ritiri spontaneamente dalle città di Kherson e Zaporozhye, il che è praticamente da escludere.
Ne frattempo si moltiplicano i segnali contrari provenienti dagli alti livelli della junta ucraina. Il Segretario del Comitato per la Sicurezza Nazionale della Verkhovna Rada, Roman Kostenko, ha dichiarato in una recente intervista: “In caso di congelamento delle ostilità, l’Ucraina deve intensificare le attività in Russia e compiere una serie di omicidi politici”.
Uno strano modo di intendere il “cessate il fuoco” che lo limita alla linea del fronte mentre si sviluppa un’offensiva esplicitamente terroristica... il che, paradossalmente, rafforza l’intento russo di “denazificare” l’Ucraina fino a spegnere certe “tentazioni”.
Oppure, come spiega un ufficiale russo a un gruppo di analisti del suo paese:
“Negoziati, negoziati, negoziati... Trump questo, Zeleboba quello. Tutto questo circo non serve a nulla. Non abbiamo raggiunto i nostri obiettivi. Gli Ukrops non si considerano ancora sconfitti. Né loro né noi siamo pronti a “scambiare” i loro territori.Brutalmente esplicito, ma in fondo è un militare... il problema è che dal lato europeo si sta facendo esattamente quel che si prevede per il prossimo futuro, anche se “l’Europa è impreparata”.
Inoltre, se non portiamo la questione alla sua logica conclusione, l’Ukrops si modernizzerà, aumenterà il personale (compresi i giovani. O meglio, prima di tutto) e continuerà la guerra. Solo che le nostre perdite in quella fase saranno molto più elevate, sia tra il personale militare che tra i civili, e ci saranno ordini di grandezza maggiori di distruzione di aree popolate e di strutture industriali/infrastrutturali. Non fatevi illusioni.
Oltre a tutto il resto, molto probabilmente gli europei, che a quel punto avranno ricostruito le loro economie su “rotaie militari” [il piano ReArm Europe, ndr], verranno ad attaccarci. E dubito che gli americani resteranno in disparte.
Quindi non abbiamo altra scelta se non quella di farlo ora e fino alla fine.
Ora siamo in guerra direttamente con gli Ukrops. Gli altri, sebbene abbiano messo le loro zampe puzzolenti, lo fanno per lo più indirettamente. Con il nuovo assetto sarà diverso.
Pronti o non pronti... siamo già in guerra. E l’iniziativa è dalla nostra parte. Anche la mobilitazione. Anche loro non sono pronti quanto potrebbero esserlo tra un paio d’anni, quando avranno fatto scorte, introdurranno la coscrizione obbligatoria, ecc..
Gli Uke hanno carenza di personale in questo momento. Dobbiamo andare a fondo della questione. Toglietevi gli occhiali rosa! Anche noi siamo stanchi, ma loro lo sono ancora di più. Un motivo in più per spremere le meningi.
Altrimenti, i morti non ci perdoneranno. Né lo perdoneranno coloro che si sono battuti per il Paese tra il 1941 e il 1945. Anche allora non eravamo pronti, ed eravamo anche stanchi morti, ma abbiamo resistito fino alla fine. E abbiamo camminato fino alla fine. Se non ce l’avessimo fatta allora, cosa sarebbe successo dopo? Qualcosa come “l’impensabile”, inclusa la Wehrmacht, che aveva riacquistato la sua capacità combattiva? E quali sarebbero state le nostre perdite allora?
Un nuovo rapporto polacco sostiene inoltre che Varsavia sta proponendo di chiudere il Mar Baltico al traffico russo.
La Polonia ha proposto di chiudere il Mar Baltico alla Russia con il pretesto di proteggere le turbine eoliche offshore, riporta Polish Defense 24.
Tra le opzioni ci sono:
– installazione di attrezzature speciali sulle turbine eoliche per il “controllo di sicurezza”, ma in realtà per guidare i missili antinave NSM;
– l’impiego di “organizzazioni di sicurezza private” ben armate con il supporto della Marina polacca.
Ciò richiederà la creazione di più di una dozzina di centri di monitoraggio speciali che, secondo gli autori, dovrebbero essere operativi giorno e notte per tutto l’anno.
Persino gli autori del piano non sanno se riusciranno a distinguere i turisti, i diportisti e i pescatori che potrebbero finire nei pressi dei parchi eolici, dai “possibili sabotatori russi”.
Solo pochi giorni fa l’Estonia – il micro-Stato da cui proviene la neo “ministra degli esteri europea”, Kaja Kallas – ha suggerito di affondare le navi russe accusate di “violare” le regole stabilite arbitrariamente dagli stessi paesi baltici.
Non pare proprio che da questo lato del “fronte”, insomma, ci sia gente che arde dal desiderio di evitare l’escalation verso la guerra totale...
Al punto da far apparire persino Trump come quasi ragionevole quando si è trovato ad ammettere che la più grande concessione che la Russia possa fare all’Ucraina è quella di non prendersi l’intero Paese.
Un riconoscimento indiretto del fatto che senza un coinvolgimento di tutto l’Occidente la guerra in Ucraina è segnata. Ma un coinvolgimento diretto sarebbe anche la fine di tutti...
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29/04/2025
Appunti sui libri II e III del Capitale di Marx / 3 parte
di Carlo Formenti
3. Capitale commerciale e capitale finanziario. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
“[Nella misura in cui la produzione capitalistica si impadronisce della produzione sociale] le altre specie di capitale... non gli vengono solo subordinate e modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi... capitale denaro e capitale merce (in quanto esponenti di rami di affari propri) non sono ormai più che modi di esistere... delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste e ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, p. 79).
Inauguro la terza tappa del viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale con questo passaggio, già citato nella tappa precedente, perché ben chiarisce il punto di vista di Marx sulla posizione che capitale merce e capitale denaro occupano nella gerarchia fra le diverse modalità di esistenza del capitale in generale: nel suo modello teorico, queste due forme svolgono la funzione di “ancelle” del capitale industriale. Si tratta di un punto di vista cruciale ai fini della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Al tempo stesso, si tratta di un punto di vista che, nella fase storica caratterizzata dal grande capitale monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato, è al centro di critiche anche in campo marxista ma, prima di analizzare tali critiche, è opportuno approfondire il pensiero di Marx sull’argomento.
L’incapacità del capitalista (e degli economisti volgari) di comprendere il “mistero” del plusvalore, cioè del fatto che esso scaturisce dal tempo di lavoro non retribuito, argomenta Marx, fa sì che costoro attribuiscano alla sfera del commercio la capacità di creare ricchezza: “Al capitalista l’eccedenza del valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante (sottolineatura mia) la vendita di questa, ma scaturisce dalla (idem) vendita stessa” (Libro III, p. 63).
In un certo senso, è come se l’auto-rappresentazione della propria attività da parte del capitalista fosse rimasta in qualche modo “congelata” all’epoca in cui il capitale commerciale mediava lo scambio di prodotti fra comunità non sviluppate, epoca in cui “il profitto commerciale non solo appare come truffa, ma in gran parte ne deriva” (Libro III, p. 418). Non a caso, finché il capitalista si limita a coordinare il lavoro di una serie di piccoli produttori, raccogliendone e venendone i prodotti sul mercato, sulla sua testa pende il sospetto di arricchirsi allo stesso modo dei vecchi mercanti, i quali lucravano maggiorando il prezzo di vendita. Solo con lo sviluppo del capitale industriale nasce la consapevolezza del fatto che il valore della merce nasce nel processo di produzione. E tuttavia il ruolo del lavoro non retribuito nella sua creazione continua a essere ignorato: “Benché nasca nel processo di produzione immediato, l'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo viene realizzata solo nel processo di circolazione, ed è tanto più facile che essa sembri scaturire dal processo di circolazione” (Libro III, p. 69).
Spetta a Marx il merito di avere sottratto la merce alla dimensione trascendente in cui essa sembra aumentare da se stessa il proprio valore e di averla riportata sulla terra: “nel processo di circolazione non si produce nessun valore, quindi anche nessun plusvalore, si modifica soltanto la forma (sottolineatura mia) della stessa massa di valore (…) se nella vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore è solo perché in essa questo valore esiste già” (Libro III p. 356). Ne consegue che “quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio di profitto industriale e viceversa” (Libro III , 365).
Ciò non implica che la circolazione non contribuisca ad accrescere – ancorché indirettamente – il profitto del capitale industriale: per esempio “più il tempo di circolazione scende più il capitale funziona e più la sua produttività e la sua automatizzazione aumentano” (Libro III, P. 158). Dopodiché resta il fatto che “le dimensioni assunte dallo scambio di merci in mano ai capitalisti non possono trasformare questo lavoro, che non crea valore, ma si limita a mediare un cambiamento di forma del valore, in lavoro che generi valore” (Libro II, p. 164). E poco dopo: “se mediante divisione del lavoro, una funzione in sé e per sé improduttiva, ma che costituisce un elemento necessario alla riproduzione, viene trasformata da occupazione sussidiaria di molti in occupazione esclusiva di pochi (...) non per questo il carattere della stessa occupazione muta” (Libro II, p. 165).
È vero che il capitalista commerciale si appropria di una quota di lavoro non retribuito dei suoi salariati, esattamente come fa il capitalista industriale, ma sfruttandoli il commerciante si limita ad assicurarsi una maggior quota di partecipazione al plusvalore creato dallo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale industriale. Ergo: il lavoro dei salariati dei capitalisti commerciali è improduttivo. Dopodiché Marx puntualizza che certi costi di circolazione “possono derivare da processi di produzione che si limitano a prolungarsi nella circolazione, e il cui carattere produttivo è quindi semplicemente nascosto dalla forma circolatoria” (Libro II, p. 172). In merito, cita l’esempio dell’industria dei trasporti, scrivendo che visto “che il valore d’uso delle cose non si realizza che nel loro consumo, e il loro consumo può renderne necessario il cambiamento di luogo” (Libro II, p. 187), ne deriva che l’industria dei trasporti va considerata come un processo di produzione aggiuntivo (per cui i salariati che vi lavorano vanno considerati produttivi).
3. Capitale commerciale e capitale finanziario. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
“[Nella misura in cui la produzione capitalistica si impadronisce della produzione sociale] le altre specie di capitale... non gli vengono solo subordinate e modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi... capitale denaro e capitale merce (in quanto esponenti di rami di affari propri) non sono ormai più che modi di esistere... delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste e ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, p. 79).
Inauguro la terza tappa del viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale con questo passaggio, già citato nella tappa precedente, perché ben chiarisce il punto di vista di Marx sulla posizione che capitale merce e capitale denaro occupano nella gerarchia fra le diverse modalità di esistenza del capitale in generale: nel suo modello teorico, queste due forme svolgono la funzione di “ancelle” del capitale industriale. Si tratta di un punto di vista cruciale ai fini della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Al tempo stesso, si tratta di un punto di vista che, nella fase storica caratterizzata dal grande capitale monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato, è al centro di critiche anche in campo marxista ma, prima di analizzare tali critiche, è opportuno approfondire il pensiero di Marx sull’argomento.
L’incapacità del capitalista (e degli economisti volgari) di comprendere il “mistero” del plusvalore, cioè del fatto che esso scaturisce dal tempo di lavoro non retribuito, argomenta Marx, fa sì che costoro attribuiscano alla sfera del commercio la capacità di creare ricchezza: “Al capitalista l’eccedenza del valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante (sottolineatura mia) la vendita di questa, ma scaturisce dalla (idem) vendita stessa” (Libro III, p. 63).
In un certo senso, è come se l’auto-rappresentazione della propria attività da parte del capitalista fosse rimasta in qualche modo “congelata” all’epoca in cui il capitale commerciale mediava lo scambio di prodotti fra comunità non sviluppate, epoca in cui “il profitto commerciale non solo appare come truffa, ma in gran parte ne deriva” (Libro III, p. 418). Non a caso, finché il capitalista si limita a coordinare il lavoro di una serie di piccoli produttori, raccogliendone e venendone i prodotti sul mercato, sulla sua testa pende il sospetto di arricchirsi allo stesso modo dei vecchi mercanti, i quali lucravano maggiorando il prezzo di vendita. Solo con lo sviluppo del capitale industriale nasce la consapevolezza del fatto che il valore della merce nasce nel processo di produzione. E tuttavia il ruolo del lavoro non retribuito nella sua creazione continua a essere ignorato: “Benché nasca nel processo di produzione immediato, l'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo viene realizzata solo nel processo di circolazione, ed è tanto più facile che essa sembri scaturire dal processo di circolazione” (Libro III, p. 69).
Spetta a Marx il merito di avere sottratto la merce alla dimensione trascendente in cui essa sembra aumentare da se stessa il proprio valore e di averla riportata sulla terra: “nel processo di circolazione non si produce nessun valore, quindi anche nessun plusvalore, si modifica soltanto la forma (sottolineatura mia) della stessa massa di valore (…) se nella vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore è solo perché in essa questo valore esiste già” (Libro III p. 356). Ne consegue che “quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio di profitto industriale e viceversa” (Libro III , 365).
Ciò non implica che la circolazione non contribuisca ad accrescere – ancorché indirettamente – il profitto del capitale industriale: per esempio “più il tempo di circolazione scende più il capitale funziona e più la sua produttività e la sua automatizzazione aumentano” (Libro III, P. 158). Dopodiché resta il fatto che “le dimensioni assunte dallo scambio di merci in mano ai capitalisti non possono trasformare questo lavoro, che non crea valore, ma si limita a mediare un cambiamento di forma del valore, in lavoro che generi valore” (Libro II, p. 164). E poco dopo: “se mediante divisione del lavoro, una funzione in sé e per sé improduttiva, ma che costituisce un elemento necessario alla riproduzione, viene trasformata da occupazione sussidiaria di molti in occupazione esclusiva di pochi (...) non per questo il carattere della stessa occupazione muta” (Libro II, p. 165).
È vero che il capitalista commerciale si appropria di una quota di lavoro non retribuito dei suoi salariati, esattamente come fa il capitalista industriale, ma sfruttandoli il commerciante si limita ad assicurarsi una maggior quota di partecipazione al plusvalore creato dallo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale industriale. Ergo: il lavoro dei salariati dei capitalisti commerciali è improduttivo. Dopodiché Marx puntualizza che certi costi di circolazione “possono derivare da processi di produzione che si limitano a prolungarsi nella circolazione, e il cui carattere produttivo è quindi semplicemente nascosto dalla forma circolatoria” (Libro II, p. 172). In merito, cita l’esempio dell’industria dei trasporti, scrivendo che visto “che il valore d’uso delle cose non si realizza che nel loro consumo, e il loro consumo può renderne necessario il cambiamento di luogo” (Libro II, p. 187), ne deriva che l’industria dei trasporti va considerata come un processo di produzione aggiuntivo (per cui i salariati che vi lavorano vanno considerati produttivi).
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L’autonomizzazione del capitale denaro in sfera d’affari indipendente (banche, capitale finanziario, assicurazioni, ecc.) è conseguenza del fatto che, per consentire al ciclo riproduttivo del capitale sociale di svolgersi senza intoppi, “una data parte del capitale deve sempre essere presente come tesoro, capitale denaro potenziale... capitale inoperoso [aggettivo da intendere qui nel senso di non investito nella produzione diretta] che attende in forma denaro d’essere fatto operare, e una parte del capitale rifluisce continuamente in questa forma” (Libro III p. 400). In tale veste di capitale possibile, cioè di potenziale mezzo per la produzione di profitto “esso diviene merce sui generis, il capitale come capitale diventa merce” (Libro III, p. 428).
La quota del proprio prodotto che il capitale industriale paga al “mercante di denaro” si chiama interesse e “non è se non il nome per una parte di profitto che il capitale in funzione deve cedere a colui che possiede il capitale possibile” (Ibidem). Qui non si tratta tanto di una fase del processo di riproduzione sociale quanto di un atto giuridico: “La transazione che trasferisce il capitale dalla mano del mutuante a quella del mutuatario è una transazione giuridica [che] non ha nulla a che vedere con il vero e proprio processo di riproduzione del capitale; [essa] non fa che introdurlo. Il rimborso (...) è una seconda transazione giuridica, il completamento della prima” (Libro III p. 439). Infine Marx introduce nell’analisi sulla funzione del denaro come capitale due sorprendenti metafore:
1) “è questo il valore d’uso del denaro come capitale (…) che il capitalista monetario aliena al capitalista industriale per il tempo in cui gli cede la facoltà di disporre del capitale prestato”;
2) “in questi limiti il denaro prestato ha una certa analogia con la forza lavoro nella sua posizione di fronte al capitalista industriale”.
Si tratta di due analogie che consentono di valutare l’importanza della forma logica (eredità hegeliana!) nel metodo analitico marxiano: la categoria di valore d’uso, che a noi pare strettamente associata alla dimensione “materiale-concreta” della merce, viene qui associata a un fenomeno “immateriale-astratto” come il capitale denaro, nella misura in cui quest’ultimo assume la natura di capitale-merce. Quanto alla paradossale analogia fra forza-lavoro e capitale prestato, si giustifica (sia pure con la precisazione “in questi limiti”) in base al fatto che entrambi – sia la forza-lavoro che il capitale prestato – possono produrre plusvalore solo nella misura in cui vengono impiegati nel processo produttivo immediato. Dopodiché è evidente come, nella realtà contemporanea, caratterizzata dai processi di terziarizzazione e finanziarizzazione del capitale, questa attribuzione logica di centralità assoluta al capitale industriale non può che fare problema (allo stesso modo in cui inizia a fare problema la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo). Prima di vedere come si è cercato di affrontare tali sfide, è però il caso di ricordare la straordinaria capacità profetica con cui Marx, anche se non ha previsto le dimensioni che la finanziarizzazione avrebbe assunto in futuro, ha descritto alla perfezione il “demone” che l’avrebbe alimentata.
Partiamo dalle seguenti affermazioni:
1) “Nel capitale produttivo d’interesse il rapporto di capitale giunge alla sua forma più alienata e feticistica D-D’ ” (Libro III p. 493);
2) “adesso il capitale è cosa, ma in quanto cosa è capitale. Ora il denaro ha l’amore in corpo” (Libro III, p. 496).
Quanto appena citato ci obbliga a ripartire dal feticismo della merce descritto nel Libro I: se già la merce in quanto tale è un fenomeno “sensibilmente sovrasensibile”, è un oggetto concreto che possiede un determinato valore d’uso ma è al contempo animato dal “fantasma” del valore di scambio, il capitale-merce (il capitale cosa) non può che essere depositario di un feticismo all’ennesima potenza. Un feticismo che vieta i tentativi di giustificare la produzione capitalistica attraverso la sua “utilità sociale”, nella misura in cui ne svela la vera essenza: “Appunto perché la forma denaro del valore è la sua forma fenomenica indipendente e tangibile, la forma D-D’(…) esprime nel modo più concreto il vero motivo animatore della produzione capitalistica (…) Il processo di produzione appare solo come inevitabile anello intermedio, male necessario allo scopo di far denaro, perciò tutte le nazioni a modo di produzione capitalistico sono prese periodicamente da una vertigine durante la quale pretendono di far denaro senza la mediazione del processo di produzione” (Libro II, p. 80).
Il rovesciamento dialettico non potrebbe essere più radicale: il processo di produzione, che l’analisi aveva posto al centro del processo di riproduzione sociale in quanto unico depositario della creazione di valore, si ritrova ridotto a “male necessario”, “anello intermedio” rispetto al vero scopo del capitalista: accumulare denaro. Qui non troviamo chiarito esclusivamente il presupposto di ciò che Giovanni Arrighi (1) e altri autori descrivono analizzando storicamente i corsi e i ricorsi delle “migrazioni” del capitale, dalla produzione industriale alla finanza e viceversa, troviamo anche una visionaria anticipazione della cosiddetta “economia del debito”: “nel modo di ragionare del banchiere i debiti possono apparire come merci” (Libro III, p. 589): e ancora: “nel fatto che persino l'accumulazione dei debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta in forma estrema il capovolgimento che ha luogo nel sistema creditizio” (Libro III, p. 692); nonché delle bolle speculative come causa delle crisi finanziarie: “il valore dei titoli diventa speculativo quando esprime il provento atteso e non attuale” (Libro III, p. 592), e se l’attesa del mondo virtuale viene smentita dal mondo reale…
Ma è il momento di riprendere il ragionamento sull’arduo problema di distinguere fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
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Mi tocca iniziare con una autocritica retrospettiva. Esattamente quarantacinque anni fa, nel 1980, usciva per i tipi di Feltrinelli il mio primo lavoro teorico degno di essere definito tale: Fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo. Oggi confesso di considerare quello scritto un evidente esempio di interpretazione errata del problema della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
Anche allora il mio ragionamento aveva preso le mosse dall’approccio marxiano al tema nei Libri II e III del Capitale, approccio che mi era parso insostenibile alla luce delle profonde trasformazioni che il modo di produzione capitalistico aveva subito transitando dal capitalismo libero concorrenziale ottocentesco al capitalismo monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato. Per aggiornare l’analisi alla nuova realtà sistemica, avevo azzardato una triplice operazione. In primo luogo, avevo cercato, per parafrasare il titolo di un libro di Antonio Negri (2), di giocare Marx contro Marx, contrapponendo le tesi che lo stesso Marx aveva formulato in alcuni passaggi del Capitolo VI inedito (3) e dei Grundrisse (4) a quelle del Capitale; inoltre, impressionato dall’esperimento di riorganizzazione produttiva della IBM (5), che a quei tempi dominava il mercato mondiale dell’informatica (di qui il motivo del sottotitolo ), ne avevo dedotto l’esistenza di quelle tendenze che, di lì a qualche anno, ci avrebbero indotto a ragionare di una terza rivoluzione industriale; infine mi ero lasciato suggestionare da Jean Baudrillard (6), autore che in quegli anni andava profetizzando la progressiva marginalizzazione della produzione di oggetti-merce da parte della produzione di servizi e codici immateriali. Ma procediamo con ordine.
Il modo in cui era organizzato il ciclo produttivo della IBM mi era sembrato confermare che il grande capitale monopolistico tendeva a impiegare una quota sempre più esigua di classe operaia tradizionale, a fronte di una massa crescente di forza lavoro impiegatizia. Marxisti come Braverman ne deducevano il seguente scenario: “Ogni progresso nel campo della produttività restringe il campo dei veri lavoratori produttivi, amplia quello di chi può essere utilizzato nelle lotte fra le grandi imprese per la distribuzione delle eccedenze, espande l’impiego del lavoro in occupazioni di spreco (…) e conferisce alla società l’aspetto di una piramide rovesciata che poggia su una base di lavoro utile sempre più ristretta”(7).
Questo scenario – al pari di quello formulato da tutti gli autori che parlano di “fine del lavoro” (8) – rischia di apparire semplificatorio:
1) ove non venga letto da un punto di vista comparativo, tenendo cioè conto del fatto che la categoria di “lavoro utile” assume significati diversi in sistemi sociali diversi (come fanno Baran e Sweezy, dei quali ci occuperemo fra breve);
2) ove non venga inquadrato nell’analisi complessiva del sistema-mondo. In ogni caso, nel mio lavoro liquidavo il concetto di lavoro “veramente produttivo” in quanto suonava rozzamente “materialista”, opponendogli l’interpretazione di Negri – da me allora condivisa –, il quale, sfruttando i sopra evocati passaggi del Capitolo VI inedito e dei Grundrisse, scriveva: “l’appropriazione capitalistica della circolazione (…) determina la circolazione come base della produzione e della riproduzione, fino a un limite di identificazione storica, effettiva (anche se non logica) di produzione e circolazione” (9). Il che, ove applicato alla questione della composizione di classe, implica arruolare d’ufficio nel campo del lavoro produttivo tutto il lavoro terziarizzato (nonché eleggerlo, come di lì a poco avrebbero fatto i teorici post operaisti seguaci di Negri, a nuova avanguardia rivoluzionaria).
Scrivevo inoltre che “indifferente è il contenuto materiale del lavoro rispetto al suo carattere di lavoro produttivo, alla sua funzione di agente valorizzante interno al capitale. Produttivo è dunque il lavoro che si scambia contro capitale, senza relazione ai contenuti concreti dell’attività” (10), e fin qui posso ancora essere d’accordo con il me stesso di allora (salvo precisare che i contenuti concreti non sono sempre e comunque indifferenti), ma purtroppo proseguivo poi affermando che “improduttivo è quel lavoro che non si svolge in forma specificamente capitalistica, che non produce profitto per un capitale”, il che voleva dire definire improduttivi quelle centinaia di milioni di lavoratori che vengono sfruttati nel Sud del mondo perché non lavorano in forma specificamente capitalistica, nel senso che non sono direttamente impiegati dalle grandi imprese metropolitane, dopodiché generano una quota gigantesca di surplus senza il quale queste ultime non durerebbero un giorno!
Oggi posso parzialmente assolvermi evocando i condizionamenti di uno spirito del tempo che, in quegli anni, era caratterizzato:
1) dal fatto che la sinistra radicale post sessantottina - esauriti gli entusiasmi per il Vietnam e la Rivoluzione Culturale cinese – aveva rimosso le lotte antimperialiste del Sud del Mondo per concentrasi esclusivamente sulle metropoli “avanzate” (basta con il terzomondismo, la nostra lotta è qui, era la parola d’ordine);
2) dall’autoincensamento sociologico delle sinistre radicali partorite dalle lotte studentesche, le quali, superati i complessi d’antan per le proprie origini piccolo borghesi, avevano eletto ad avanguardie rivoluzionarie gli strati professionali emergenti – cioè loro stessi! – impegnati nei lavori “creativi” e nella produzione “immateriale” (11).
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Alessandro Visalli considera Paul Baran e Paul Sweezy i due autori che, già negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta (12), hanno inaugurato una linea di interpretazione che considera il capitalismo come un sistema sociale nel quale la valorizzazione deriva da produzione e circolazione su basi internazionali. L’elemento caratterizzante di tale approccio consiste nell’approfondire la critica all’imperialismo, al colonialismo e al neocolonialismo, identificandoli con quel fenomeno – la cosiddetta accumulazione originaria – che Marx considerava tipico di una determinata fase storica, laddove questi autori lo ritengono consustanziale al modo di produzione capitalistico, il quale lo sfrutta come controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Approfondiremo l’argomento più avanti, nella tappa dedicata alla legge della caduta del saggio del profitto e alle crisi. Qui ci limitiamo a introdurre il concetto di surplus e a descrivere come tale concetto influisce sull’argomento che stiamo trattando qui, cioè la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo.
Marx identifica il plusvalore come somma di profitto, interesse e rendita, mentre considera secondari fattori quali le entrate dello stato, i salari dei lavoratori improduttivi, gli sprechi di vario tipo, ecc. Ma ciò non è più giustificato, sostengono Baran e Sweezy, nella fase del capitalismo monopolistico. Rispetto al surplus complessivo – definito come la differenza fra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società – il plusvalore rappresenta una quota proporzionalmente minore – e tendenzialmente in diminuzione – rispetto all’epoca di Marx. E, dal momento che il surplus misurato come sopra tende ad aumentare, esso agisce come controtendenza rispetto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Come anticipato poco sopra, affronteremo le implicazioni di quanto appena detto quando parleremo di crisi, imperialismo ecc. Restando al modo in cui Marx distingue fra lavoro produttivo e improduttivo, cosa cambia introducendo il concetto di surplus?
A prima vista nulla. I capitalisti continuano a ignorare la differenza fra costi di produzione e costi di vendita e fra lavoro produttivo e improduttivo: per costoro essi contribuiscono entrambi a generare i loro profitti. Sappiamo però che il sistema tende a dilatare a dismisura attività quali promozione delle vendite, pubblicità, packaging, marketing, obsolescenza programmata, credito al consumo ecc.; che proliferano i ceti professionali che hanno il compito di promuovere una guerra senza quartiere al risparmio a favore del consumo, inventando continuamente nuovi bisogni ed alimentandone la soddisfazione attraverso il debito. Sullo stesso piano della promozione delle vendite “va posto l’incanalamento di un ampio volume di risorse negli impieghi sotto la voce di attività finanziarie, assicurative e immobiliari” (13). Marx, ricordano Baran e Sweezy, descriveva tutta questa gente come “una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti,di fondatori e direttori che sono tali semplicemente di nome, tutto un sistema di frodi e di imbrogli che hanno per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni” (14).
Anche per Baran e Sweezy, come per Marx, questo processo, che oggi siamo abituati a definire terziarizzazione del lavoro, appare come proliferazione di ceti “divoratori di surplus”, e dunque anche per Baran e Sweezy, le persone che vivono di surplus “son private di una quota dei loro redditi che vanno alle persone che svolgono lavori improduttivi” (15). Come sottrarsi all’obiezione di Negri e altri i quali ribattono che la distinzione si basa su argomenti puramente logico-linguistici, dal momento che le funzioni appena descritte sono ormai talmente integrate nei processi produttivi da fare tutt’uno con essi (più che una merce non compriamo ormai solo l’immagine di questa merce che è stata costruita dal lavoro di pubblicitari, uomini marketing, ecc., non compriamo forse i prodotti Apple per il loro design piuttosto che per la loro presunta superiorità tecnologica?). E come rispondere all’obiezione secondo cui produttivo è il lavoro che si cambia contro capitale, a prescindere dai contenuti concreti dell’attività svolta?
È qui che scatta l’argomento comparativo: per Baran e Sweezy il termine di paragone che consente di sciogliere il dubbio è il socialismo: è improduttivo “tutto quel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (16) cioè in una società socialista. E tuttavia è proprio la massa di surplus di cui si appropriano le schiere sempre più numerose di lavoratori improduttivi che consente, grazie ai loro consumi, di limitare parzialmente gli effetti della cronica tendenza del capitalismo monopolistico alla sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali. Parzialmente perché, se fossero disponibili solo questi sbocchi endogeni, il capitalismo monopolistico sarebbe in uno stato di depressione permanente (17). La vera soluzione restano dunque l’imperialismo e la guerra.
Note
(1) Cfr. G. Arrighi., Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore.
(2) Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979.
(3) Cfr. K. Marx, Il Capitale. Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969.
(4) Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll. La Nuova Italia, Firenze 1969.
(5) Ebbi occasione di analizzare le strategie organizzative della IBM studiando alcuni documenti che mi furono consegnati dai delegati sindacali dell’azienda, con i quali ero in contatto in quanto responsabile provinciale per i tecnici e gli impiegati della Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici. Grazie a quella esperienza, mi feci un’idea molto precisa in merito all’impatto che il diffondersi delle reti informatiche nelle grandi aziende avrebbe avuto sull’organizzazione del lavoro tecnico-impiegatizio, e sulle trasformazioni della composizione di classe, allora già in atto. Le mie previsioni sul processo di terziarizzazione del lavoro nei Paesi industriali avanzati, sbeffeggiate da alcuni recensori “ortodossi”, si rivelarono profetiche ancorché pessimiste per difetto, nel senso che l’impatto delle nuove generazioni di computer e dell’avvento di Internet sarebbe stato ancora più radicale. A mano a mano che gli effetti devastanti della rivoluzione digitale sui rapporti di forza fra lavoro e capitale si facevano evidenti, la mia posizione si allontanò sempre più dall’ottimismo degli apologeti del postfordismo, i quali ritenevano che le nuove tecnologie offrissero inedite opportunità di democrazia, se non addirittura di superamento del capitalismo. Le mie critiche a tale visione super ottimistica esordirono con Incantati dalla Rete (Cortina 2000), in cui mettevo in luce la relazione fra le nuove sinistre “californiane” e i deliri transumanisti dei guru della Silicon Valley; proseguirono con Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi 2002), in cui analizzavo le strategie di dominio e sfruttamento messe in atto dai giganti dell’economia digitale; Felici e sfruttati (Egea 2011), in cui criticavo il mito del “lavoro creativo”; per culminare con Utopie letali (Jaka Book 2013) una sorta di de profundis dedicato al tragico fallimento delle illusioni alimentate dalle sinistre postmoderniste.
(6) Cfr. J. Baudrillard, Critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974.
(7) H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978, p. 206.
(8) Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori.
(9) Marx oltre Marx, cit., p, 122. Quella parentesi (anche se non logica) evidenzia l’influenza althusseriana sul pensiero di Negri, in quanto fa capire che i presunti limiti dell’analisi marxiana vengono attribuiti all’eredità “idealista” della logica hegeliana.
(10) Nel libro Socialist Economic Development in the XXI Century (Routledge) Gabriele e Jabbour affermano qualcosa di simile: “Il processo di terziarizzazione tende a far ritenere che la maggior parte dei lavoratori delle imprese private in Usa e nei Paesi avanzati siano improduttivi. Non condividiamo, consideriamo produttive tutte le attività (...) che generano plusvalore” (p. 63). Questa posizione, analoga a quella che il sottoscritto sosteneva nel 1980, mi sembra in contraddizione con le tesi che questi due autori avanzano in merito alla convivenza conflittuale fra modo di produzione capitalistico e paesi in transizione verso il socialismo (vedi la tappa precedente di questo percorso). Come non tener conto (cfr. le tesi di Baran e Sweezy) del fatto che i concetti di produttivo e improduttivo cambiano a seconda del contesto socioeconomico cui si riferiscono, ma soprattutto come non tener conto del punto di vista socialista, che giudica improduttivo gran parte del lavoro terziarizzato delle imprese private occidentali?
(11) Come ho argomentato in tutti i miei lavori citati in nota 5, considero privo di qualsiasi fondamento il concetto di lavoro “immateriale”, elaborato dalla cultura postmodernista, caro ad autori come André Gorz (Cfr. L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003) e altri. Il concetto è presumibilmente ispirato dalla metafora partorita da certi studiosi dei sistemi complessi (in particolare nel campo delle neuroscienze) che hanno stabilito un’analogia fra le coppie mente-corpo e software-hardware. Posto che nemmeno la produzione di software, algoritmi, codici informatici ecc. può a mio avviso essere considerata immateriale, visto che spreme la fatica di sensi, nervi, cervelli, occhi, mani, ecc. di milioni di lavoratori, la retorica dell’immateriale è palesemente delirante ove riferita all’hardware. Dopo avere giustamente osservato che tale retorica si inscrive in quella “cultura del post”, adottata da una certa sinistra infatuata del presunto ruolo progressivo delle nuove tecnologie, Fabien Lebrun (Barbarie digitale, Ed. L’Échappée) snocciola i seguenti dati: i 34 miliardi di dispositivi digitali che esistono oggi sulla terra pesano 220 milioni di tonnellate, uno smartphone contiene cinquanta metalli diversi e, se si aggiungono le infrastrutture necessarie a far funzionare reti e terminali, è evidente quanto sia paradossale il concetto di “dematerializzazione”. Di più: questa retorica suona come un insulto ai milioni di lavoratori congolesi e di altri Paesi del Sud del mondo, ridotti in condizioni di semi schiavitù per estrarre dalla terra le risorse necessarie ad alimentare la cosiddetta economia “immateriale”. Quanto al presunto ruolo antagonistico dei lavoratori creativi, fa fede la spietata analisi di Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis), i quali dimostrano come, venuta meno la spinta delle lotte operaie, i "reduci" delle lotte studentesche del 68 abbiano abbandonato la critica sociale per dedicarsi alla "critica artistica", vale a dire alle generiche istanze anti autoritarie dei "nuovi movimenti", che non solo sono state facilmente riassorbite dal sistema capitalistico, ma si sono convertite in efficienti strumenti di controllo e gestione degli strati superiori della forza-lavoro
(12) Cfr. P. Baran, Il “surplus” economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli, vedi anche P. Baran e P. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino 1968.
(13) Il capitale monopolistico... cit., p. 119.
(14) Citato in P. Baran, P. Sweezy, op. cit., p.120.
(15) Ivi, p. 107.
(16) La differenza appare più chiara laddove Baran (Il “surplus”, cit.) mette in opposizione surplus economico effettivo (la differenza tra produzione effettiva corrente e il consumo effettivo coerente della società) e surplus potenziale, ovvero il surplus realizzabile ove non fosse limitato da eccesso di consumi, perdita di produzione dovuta a lavori improduttivi (sottolineatura mia), organizzazione irrazionale del sistema, disoccupazione dovuta all’anarchia capitalistica e all'insufficiente domanda effettiva. In poche parole : è improduttivo il lavoro che appare tale al punto di vista di una società razionale, cioè socialista.
(17) Questo è il tema della critica di Rosa Luxemburg agli schemi marxiani della riproduzione allargata. Ma di ciò più avanti.
Fonte
Processo Spiotta, riappare il bossolo dei carabinieri che prova l’esecuzione di Mara Cagol
di Paolo Persichetti
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta antistante la cascina.
L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme
Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con una improvvida iniziativa che terminò in tragedia.
La nuova perlustrazione del 20 giugno
Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975, ovvero 15 giorni dopo la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente. Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali?
I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso
Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via.
L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato. Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli. Parlare di una indagine lacunosa è dire poco.
Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. È in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il bossolo rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché?
Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione
Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa. Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate in aria in segno di resa.
Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol. Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata accanto allo sportello completamente scarica.
Il duello con l’appuntato D’Alfonso
Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza ravvicinata: nell’ordine di pochi metri».
Chi ha ucciso Mara Cagol?
Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis, D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita. Fantasmi come il bossolo scomparso.
Fonte
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta antistante la cascina.
L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme
Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con una improvvida iniziativa che terminò in tragedia.
La nuova perlustrazione del 20 giugno
Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975, ovvero 15 giorni dopo la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente. Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali?
I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso
Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via.
L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato. Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli. Parlare di una indagine lacunosa è dire poco.
Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. È in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il bossolo rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché?
Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione
Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa. Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate in aria in segno di resa.
Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol. Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata accanto allo sportello completamente scarica.
Il duello con l’appuntato D’Alfonso
Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza ravvicinata: nell’ordine di pochi metri».
Chi ha ucciso Mara Cagol?
Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis, D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita. Fantasmi come il bossolo scomparso.
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L’incitamento israeliano al genocidio diventa la normalità
di Gideon Levy
Era prevedibile: il linguaggio ha assunto connotazioni neonaziste. I confini sono caduti e lo spargimento di sangue è stato legittimato.
Il parlamentare del Likud Moshe Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14 di essere “interessato” a far morire di fame un’intera nazione. “Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere”; un cantante relativamente popolare, Kobi Peretz, è convinto che ci sia “ordinato” di annientare l’acerrimo nemico biblico Amalek. “Non provo pietà per nessun civile a Gaza, giovane o vecchio che sia. Non ho un briciolo di pietà”, avrebbe dichiarato sulla copertina del settimanale del quotidiano Yedioth Ahronoth.
I due, Saada e Peretz, sono solo due fra i tanti, ma l’etere e la stampa sono pieni di dichiarazioni del genere, con alcuni interessati a metterle in risalto per assecondare l’opinione delle masse. Un personaggio pubblico in Europa, che fosse un legislatore o un cantante, che pronunciasse tali dichiarazioni verrebbe etichettato come neonazista. La sua carriera si arresterebbe e da quel giorno in poi verrebbe emarginato per sempre. In Israele, dichiarazioni del genere fanno vendere i giornali.
Bisognerebbe chiamare questo fenomeno per nome: Istigazione al Genocidio. A onore di Saada e Peretz, si potrebbe dire che hanno fatto cadere tutte le maschere e rimosso tutti i filtri. Quello che una volta era una provocazione, spesso presente sui social media, è diventato un linguaggio mediatico normale, sollevando interrogativi come chi è a favore e chi è ancora contrario al Genocidio.
Saada e Peretz sono a favore dell’Omicidio di Massa, mentre altri sostengono solo la “privazione degli aiuti umanitari”, che è la stessa cosa, solo in una formulazione più raffinata. È la stessa crudeltà, solo in forma educata; la stessa mostruosità, solo che aderisce a una forma apparentemente più corretta.
È vero che è importante denunciare le tendenze neofasciste che si diffondono nella società e smascherarle, ma questa denuncia conferisce a questo linguaggio palesemente illegittimo la legittimità e la normalità che gli mancavano fino a poco tempo fa. Da qui in poi, si dovrebbe dire: Ucciderai. Saada e Peretz affermano che è persino un comandamento. Non resta che discutere chi debba essere assassinato e chi risparmiato.
Lentamente ma inesorabilmente, il danno a lungo termine causato dall’attacco del 7 ottobre sta venendo alla luce. Al di là delle orribili tragedie personali e nazionali, quell’attacco ha sconvolto completamente la società israeliana. Ha distrutto, forse per sempre, ogni traccia del campo della pace e dell’umanità, legittimando la Barbarie come un nobile comandamento.
Non c’è più “permesso” e “proibito” riguardo alla malvagità di Israele nei confronti dei palestinesi. È permesso uccidere decine di prigionieri e far morire di fame un intero popolo. Un tempo ci vergognavamo di tali azioni; la perdita della vergogna sta ora smantellando ogni barriera rimanente.
Forse la cosa peggiore di tutte è il pensiero che sia utile a un organo di stampa cinico e populista come Yedioth Ahronoth, soprannominato “il giornale del Paese”, sempre attento ai propri lettori, dare risalto a questo linguaggio Genocida. Il Genocidio in prima pagina non solo lo legittima, lo sanno i redattori, ma fa anche piacere ai lettori.
Il cantante Eyal Golan potrebbe essere bandito a causa della sua condotta sessuale inappropriata, ma chi bandirà il Jihadista Kobi Peretz? Dopotutto, ha ragione. “Hanno mutilato i nostri fratelli e i nostri figli”, ha detto. Ora tocca a noi mutilare.
Non si tratta solo di Yedioth Ahronoth e di Canale 14. Il linguaggio sul Genocidio si è diffuso in tutti gli studi televisivi come linguaggio legittimo. Ex colonnelli, ex membri dell’istituto della difesa, siedono nei comitati e invocano il Genocidio senza battere ciglio. Non sono importanti o interessanti, ma plasmano il dibattito.
Quando un giorno gli storici del futuro cercheranno di capire cosa è successo in Israele in questi anni, scopriranno che queste voci sono la voce del popolo. Questo contribuirà alla loro comprensione: ecco com’era Israele allora.
Questa legittimazione finirà in lacrime, le lacrime dei media che ora promuovono questo linguaggio mostruoso. Chiedete a chiunque voglia far morire di fame due milioni di persone, a chiunque pensi che un bambino di quattro anni meriti di morire e che una persona disabile in sedia a rotelle sia un bersaglio lecito per essere lasciata morire di fame, cosa pensa della libertà di stampa e della libertà di espressione, e scoprirete che sono favorevoli alla chiusura della maggior parte delle testate e alla messa al bando dei media.
Il culmine di questa compiacenza verso l’estrema destra sarà che le cose si ritorceranno contro i media che hanno promosso tale condotta. Peretz, Saada e i loro simili non bramano solo il sangue arabo. Vogliono anche che stiamo zitti.
Fonte
Era prevedibile: il linguaggio ha assunto connotazioni neonaziste. I confini sono caduti e lo spargimento di sangue è stato legittimato.
Il parlamentare del Likud Moshe Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14 di essere “interessato” a far morire di fame un’intera nazione. “Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere”; un cantante relativamente popolare, Kobi Peretz, è convinto che ci sia “ordinato” di annientare l’acerrimo nemico biblico Amalek. “Non provo pietà per nessun civile a Gaza, giovane o vecchio che sia. Non ho un briciolo di pietà”, avrebbe dichiarato sulla copertina del settimanale del quotidiano Yedioth Ahronoth.
I due, Saada e Peretz, sono solo due fra i tanti, ma l’etere e la stampa sono pieni di dichiarazioni del genere, con alcuni interessati a metterle in risalto per assecondare l’opinione delle masse. Un personaggio pubblico in Europa, che fosse un legislatore o un cantante, che pronunciasse tali dichiarazioni verrebbe etichettato come neonazista. La sua carriera si arresterebbe e da quel giorno in poi verrebbe emarginato per sempre. In Israele, dichiarazioni del genere fanno vendere i giornali.
Bisognerebbe chiamare questo fenomeno per nome: Istigazione al Genocidio. A onore di Saada e Peretz, si potrebbe dire che hanno fatto cadere tutte le maschere e rimosso tutti i filtri. Quello che una volta era una provocazione, spesso presente sui social media, è diventato un linguaggio mediatico normale, sollevando interrogativi come chi è a favore e chi è ancora contrario al Genocidio.
Saada e Peretz sono a favore dell’Omicidio di Massa, mentre altri sostengono solo la “privazione degli aiuti umanitari”, che è la stessa cosa, solo in una formulazione più raffinata. È la stessa crudeltà, solo in forma educata; la stessa mostruosità, solo che aderisce a una forma apparentemente più corretta.
È vero che è importante denunciare le tendenze neofasciste che si diffondono nella società e smascherarle, ma questa denuncia conferisce a questo linguaggio palesemente illegittimo la legittimità e la normalità che gli mancavano fino a poco tempo fa. Da qui in poi, si dovrebbe dire: Ucciderai. Saada e Peretz affermano che è persino un comandamento. Non resta che discutere chi debba essere assassinato e chi risparmiato.
Lentamente ma inesorabilmente, il danno a lungo termine causato dall’attacco del 7 ottobre sta venendo alla luce. Al di là delle orribili tragedie personali e nazionali, quell’attacco ha sconvolto completamente la società israeliana. Ha distrutto, forse per sempre, ogni traccia del campo della pace e dell’umanità, legittimando la Barbarie come un nobile comandamento.
Non c’è più “permesso” e “proibito” riguardo alla malvagità di Israele nei confronti dei palestinesi. È permesso uccidere decine di prigionieri e far morire di fame un intero popolo. Un tempo ci vergognavamo di tali azioni; la perdita della vergogna sta ora smantellando ogni barriera rimanente.
Forse la cosa peggiore di tutte è il pensiero che sia utile a un organo di stampa cinico e populista come Yedioth Ahronoth, soprannominato “il giornale del Paese”, sempre attento ai propri lettori, dare risalto a questo linguaggio Genocida. Il Genocidio in prima pagina non solo lo legittima, lo sanno i redattori, ma fa anche piacere ai lettori.
Il cantante Eyal Golan potrebbe essere bandito a causa della sua condotta sessuale inappropriata, ma chi bandirà il Jihadista Kobi Peretz? Dopotutto, ha ragione. “Hanno mutilato i nostri fratelli e i nostri figli”, ha detto. Ora tocca a noi mutilare.
Non si tratta solo di Yedioth Ahronoth e di Canale 14. Il linguaggio sul Genocidio si è diffuso in tutti gli studi televisivi come linguaggio legittimo. Ex colonnelli, ex membri dell’istituto della difesa, siedono nei comitati e invocano il Genocidio senza battere ciglio. Non sono importanti o interessanti, ma plasmano il dibattito.
Quando un giorno gli storici del futuro cercheranno di capire cosa è successo in Israele in questi anni, scopriranno che queste voci sono la voce del popolo. Questo contribuirà alla loro comprensione: ecco com’era Israele allora.
Questa legittimazione finirà in lacrime, le lacrime dei media che ora promuovono questo linguaggio mostruoso. Chiedete a chiunque voglia far morire di fame due milioni di persone, a chiunque pensi che un bambino di quattro anni meriti di morire e che una persona disabile in sedia a rotelle sia un bersaglio lecito per essere lasciata morire di fame, cosa pensa della libertà di stampa e della libertà di espressione, e scoprirete che sono favorevoli alla chiusura della maggior parte delle testate e alla messa al bando dei media.
Il culmine di questa compiacenza verso l’estrema destra sarà che le cose si ritorceranno contro i media che hanno promosso tale condotta. Peretz, Saada e i loro simili non bramano solo il sangue arabo. Vogliono anche che stiamo zitti.
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Fabbriche chiuse e scaffali vuoti, così finirà la guerra dei dazi
di Guido Salerno Aletta
Paura e patriottismo scoraggeranno e animeranno i cittadini, tanto i cinesi che gli americani, mentre Pechino risponde con gelidi silenzi e decisioni mirate agli annunci concitati e ai subitanei ripensamenti dei vertici di Washington.
Attorno a questi fattori si sta combattendo la guerra commerciale difensiva nei confronti della Cina che è stata dichiarata personalmente dal presidente americano Donald Trump, su cui si gioca la credibilità delle leadership di entrambi i Paesi: perché è innanzitutto sulla compattezza delle rispettive opinioni pubbliche che si misurerà il consenso popolare e la stabilità politica che sono necessari per vincere questo confronto che punta più sull’orgoglio collettivo che sull’enorme posta economica in gioco, il riequilibrio della produzione tra le due sponde del Pacifico.
Controllare l’opinione pubblica
La misurazione costante delle ricerche effettuate su internet e degli orientamenti prevalenti sui social media sarà essenziale per comprendere le preoccupazioni e gli stati d’animo prevalenti tra i cittadini: controllare l’opinione pubblica sarà fondamentale, come ai tempi dell’emergenza sanitaria per l’epidemia del Covid-19.
Non è casuale, quindi, che Trump abbia dichiarato il 2 aprile, la data dell’annuncio dei dazi compensativi generalizzati che sono imposti sulla base dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa), come il «Giorno della Liberazione» degli Usa dai soprusi dei Paesi con cui commercia perennemente in passivo.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento statunitense: dopo lo shock dell’annuncio in diretta televisiva mondiale dei dazi compensativi, commisurati all’avanzo commerciale di ciascun Paese, è seguita la sospensione per tre mesi della loro applicazione prevedendo solo la tariffa minima del 10%; subito dopo è stato deciso il raddoppio per ritorsione della misura compensativa prevista nei confronti delle merci cinesi, che ha portato i dazi al 145%; e quindi l’esenzione dei prodotti elettronici e di alta tecnologia che sono indispensabili per il funzionamento dell’economia statunitense.
La marcia indietro
Una marcia indietro che ne ha messo a nudo la debolezza, cui sono seguite dichiarazioni sostanzialmente concilianti verso la Cina da parte del segretario al Tesoro Scott Bessent: più che l’inizio di una de-escalation è il timore di aver compiuto un passo falso avendo dichiarato un vero e proprio embargo nei confronti del principale partner commerciale.
Mentre si diffondono allarmanti le notizie sul blocco delle spedizioni in partenza dai porti cinesi, con un 30% di caduta dei traffici, la politica cinese ha deciso di rispondere con una duplice azione: evitare l’accerchiamento politico da parte americana e rispondere ai dazi con misure sistemiche.
Da una parte, mentre il presidente Xi Jinping, che non ha mai risposto personalmente agli annunci di Trump, si è immediatamente recato in visita ufficiale nei Paesi dell’area, per rinsaldare i rapporti politici ed economici con Vietnam, Malesia e Cambogia, la diplomazia ha lanciato appelli contro il bullismo americano minacciando ritorsioni nei confronti dei Paesi che si coalizzeranno con gli Usa contro la Cina.
Il campo di battaglia
In secondo luogo, il 4 aprile è stato aggiornato l’elenco dei minerali di cui è controllata l’esportazione dalla Cina, aggiungendone altri che sono fondamentali per l’industria come la costruzione dei magneti, ed è stata annunciata la rinuncia alla consegna dei Boeing 737 Max che erano già stati ordinati, essendo divenuti eccessivamente onerosi per via del dazio del 125% che grava sulle importazioni di merci dagli Stati Uniti. Finito il tempo degli annunci, il campo di battaglia si sposterà sul terreno dell’economia reale, sulle fabbriche ferme, sugli scaffali vuoti e sui prezzi in aumento.
«Bastarono i frigoriferi vuoti a far collassare l’URSS», affermò un giorno senza alcuna ironia Pino Rauti, rammentando che la penuria di cibo era stata un’arma più devastante degli eserciti dell’Asse. Saranno anche stavolta i cittadini, i protagonisti della guerra commerciale in corso: quelli americani impotenti davanti ai prezzi più che raddoppiati, e quelli cinesi licenziati per il venir meno delle commesse americane. Inorgoglirli di tutto ciò, sarà davvero difficile.
Fonte
Paura e patriottismo scoraggeranno e animeranno i cittadini, tanto i cinesi che gli americani, mentre Pechino risponde con gelidi silenzi e decisioni mirate agli annunci concitati e ai subitanei ripensamenti dei vertici di Washington.
Attorno a questi fattori si sta combattendo la guerra commerciale difensiva nei confronti della Cina che è stata dichiarata personalmente dal presidente americano Donald Trump, su cui si gioca la credibilità delle leadership di entrambi i Paesi: perché è innanzitutto sulla compattezza delle rispettive opinioni pubbliche che si misurerà il consenso popolare e la stabilità politica che sono necessari per vincere questo confronto che punta più sull’orgoglio collettivo che sull’enorme posta economica in gioco, il riequilibrio della produzione tra le due sponde del Pacifico.
Controllare l’opinione pubblica
La misurazione costante delle ricerche effettuate su internet e degli orientamenti prevalenti sui social media sarà essenziale per comprendere le preoccupazioni e gli stati d’animo prevalenti tra i cittadini: controllare l’opinione pubblica sarà fondamentale, come ai tempi dell’emergenza sanitaria per l’epidemia del Covid-19.
Non è casuale, quindi, che Trump abbia dichiarato il 2 aprile, la data dell’annuncio dei dazi compensativi generalizzati che sono imposti sulla base dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa), come il «Giorno della Liberazione» degli Usa dai soprusi dei Paesi con cui commercia perennemente in passivo.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento statunitense: dopo lo shock dell’annuncio in diretta televisiva mondiale dei dazi compensativi, commisurati all’avanzo commerciale di ciascun Paese, è seguita la sospensione per tre mesi della loro applicazione prevedendo solo la tariffa minima del 10%; subito dopo è stato deciso il raddoppio per ritorsione della misura compensativa prevista nei confronti delle merci cinesi, che ha portato i dazi al 145%; e quindi l’esenzione dei prodotti elettronici e di alta tecnologia che sono indispensabili per il funzionamento dell’economia statunitense.
La marcia indietro
Una marcia indietro che ne ha messo a nudo la debolezza, cui sono seguite dichiarazioni sostanzialmente concilianti verso la Cina da parte del segretario al Tesoro Scott Bessent: più che l’inizio di una de-escalation è il timore di aver compiuto un passo falso avendo dichiarato un vero e proprio embargo nei confronti del principale partner commerciale.
Mentre si diffondono allarmanti le notizie sul blocco delle spedizioni in partenza dai porti cinesi, con un 30% di caduta dei traffici, la politica cinese ha deciso di rispondere con una duplice azione: evitare l’accerchiamento politico da parte americana e rispondere ai dazi con misure sistemiche.
Da una parte, mentre il presidente Xi Jinping, che non ha mai risposto personalmente agli annunci di Trump, si è immediatamente recato in visita ufficiale nei Paesi dell’area, per rinsaldare i rapporti politici ed economici con Vietnam, Malesia e Cambogia, la diplomazia ha lanciato appelli contro il bullismo americano minacciando ritorsioni nei confronti dei Paesi che si coalizzeranno con gli Usa contro la Cina.
Il campo di battaglia
In secondo luogo, il 4 aprile è stato aggiornato l’elenco dei minerali di cui è controllata l’esportazione dalla Cina, aggiungendone altri che sono fondamentali per l’industria come la costruzione dei magneti, ed è stata annunciata la rinuncia alla consegna dei Boeing 737 Max che erano già stati ordinati, essendo divenuti eccessivamente onerosi per via del dazio del 125% che grava sulle importazioni di merci dagli Stati Uniti. Finito il tempo degli annunci, il campo di battaglia si sposterà sul terreno dell’economia reale, sulle fabbriche ferme, sugli scaffali vuoti e sui prezzi in aumento.
«Bastarono i frigoriferi vuoti a far collassare l’URSS», affermò un giorno senza alcuna ironia Pino Rauti, rammentando che la penuria di cibo era stata un’arma più devastante degli eserciti dell’Asse. Saranno anche stavolta i cittadini, i protagonisti della guerra commerciale in corso: quelli americani impotenti davanti ai prezzi più che raddoppiati, e quelli cinesi licenziati per il venir meno delle commesse americane. Inorgoglirli di tutto ciò, sarà davvero difficile.
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Eurostat: “a rischio povertà un lavoratore su dieci, anche se impiegato a tempo pieno”
Le ultime tabelle pubblicate dall’Eurostat dipingono l’immagine di un’Italia in cui la povertà diventa sempre più strutturale, innanzitutto perché colpisce in pratica allo stesso modo anche chi ha un lavoro a tempo pieno. Sembra paradossale, ma è così: l’Italia è un paese che si fonda sul lavoro sottopagato.
Il rischio povertà nel 2024 è rimasto stabile rispetto all’anno precedente (18,9%), ai livelli minimi dal 2009 ma solo per qualche decina di migliaia di persone su un totale di oltre 11 milioni. Allo stesso tempo, le persone che effettivamente sono scivolate in povertà assoluta sono aumentate, raggiungendo nel 2023 il numero di 5,7 milioni di residenti, ovvero circa uno ogni dieci.
I dati dell’Eurostat ci dimostrano che ciò è avvenuto perché le retribuzioni dei lavoratori non danno più la minima assicurazione di una vita dignitosa. Gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale (parliamo di appena 12.363 euro), al netto dei trasferimenti sociali, sono passati dal 9,9% al 10,2% nel complesso.
La cosa peggiore è che se consideriamo gli impiegati a tempo pieno, questa percentuale è passata dall’8,7% al 9%, valori non molto distanti da quelli generali. A essere più in difficoltà sono innanzitutto i lavoratori indipendenti (17,2% a rischio, in netto aumento rispetto al 2023).
La povertà tra gli occupati è più diffusa nella fascia di età tra i 16 e i 29 anni (11,8%), mentre tra i 55 e i 64 anni si ferma al 9,3%. Anche il titolo di istruzione conta: gli occupati poveri sono maggiori tra chi ha completato unicamente la scuola dell’obbligo rispetto a chi ha ottenuto una laurea (18,2% contro il 4,5%, ma entrambe le percentuali sono in aumento).
Un dato abbastanza significativo è quello della deprivazione materiale. Circa 5 milioni di persone, infatti, non possono permettersi almeno 5 di 13 voci di spesa (beni, servizi o attività sociali specifici) considerate essenziali nel determinare una qualità di vita adeguata. Parliamo di una casa adeguatamente riscaldata, di un pasto con proteine almeno ogni due giorni, di avere almeno due paia di scarpe e così via.
Torna quindi ad aumentare anche il divario tra ricchi e poveri. Il primo decile della popolazione calcolato in base ai redditi conta su una quota del reddito nazionale del 2,5%, in calo tra il 2023 e il 2024. L’ultimo decile, quello più ricco, esprime una quota del reddito nazionale del 24,8%, in aumento sul 24,1% del 2023.
Su questi dati ha ovviamente impattato in maniera significativa l’andamento dei prezzi. Il mancato rinnovo di tanti contratti collettivi ha peggiorato ulteriormente la situazione. Risultano però piuttosto intollerabili le accuse che dal centrosinistra sono state mosse al governo: non perché l’esecutivo Meloni non abbia responsabilità per questi dati, ma perché la condivide con l’opposizione.
Arturo Scotto, capogruppo PD in commissione Lavoro alla Camera, ha affermato che “c’è un tabù che il governo Meloni non vuole rompere: si chiama salario minimo”. È lo stesso tabù che ha accompagnato i precedenti governi, con il centrosinistra che ha depotenziato ogni proposta concreta e che ha anzi assecondato la linea della moderazione salariale quando l’inflazione – da profitti – volava.
Oggi la strumentalizzazione delle retribuzioni di milioni di lavoratori mette ancora più in pericolo la loro capacità di garantirsi una vita per lo meno dignitosa, come i dati dell’Eurostat confermano senza appello.
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Il rischio povertà nel 2024 è rimasto stabile rispetto all’anno precedente (18,9%), ai livelli minimi dal 2009 ma solo per qualche decina di migliaia di persone su un totale di oltre 11 milioni. Allo stesso tempo, le persone che effettivamente sono scivolate in povertà assoluta sono aumentate, raggiungendo nel 2023 il numero di 5,7 milioni di residenti, ovvero circa uno ogni dieci.
I dati dell’Eurostat ci dimostrano che ciò è avvenuto perché le retribuzioni dei lavoratori non danno più la minima assicurazione di una vita dignitosa. Gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale (parliamo di appena 12.363 euro), al netto dei trasferimenti sociali, sono passati dal 9,9% al 10,2% nel complesso.
La cosa peggiore è che se consideriamo gli impiegati a tempo pieno, questa percentuale è passata dall’8,7% al 9%, valori non molto distanti da quelli generali. A essere più in difficoltà sono innanzitutto i lavoratori indipendenti (17,2% a rischio, in netto aumento rispetto al 2023).
La povertà tra gli occupati è più diffusa nella fascia di età tra i 16 e i 29 anni (11,8%), mentre tra i 55 e i 64 anni si ferma al 9,3%. Anche il titolo di istruzione conta: gli occupati poveri sono maggiori tra chi ha completato unicamente la scuola dell’obbligo rispetto a chi ha ottenuto una laurea (18,2% contro il 4,5%, ma entrambe le percentuali sono in aumento).
Un dato abbastanza significativo è quello della deprivazione materiale. Circa 5 milioni di persone, infatti, non possono permettersi almeno 5 di 13 voci di spesa (beni, servizi o attività sociali specifici) considerate essenziali nel determinare una qualità di vita adeguata. Parliamo di una casa adeguatamente riscaldata, di un pasto con proteine almeno ogni due giorni, di avere almeno due paia di scarpe e così via.
Torna quindi ad aumentare anche il divario tra ricchi e poveri. Il primo decile della popolazione calcolato in base ai redditi conta su una quota del reddito nazionale del 2,5%, in calo tra il 2023 e il 2024. L’ultimo decile, quello più ricco, esprime una quota del reddito nazionale del 24,8%, in aumento sul 24,1% del 2023.
Su questi dati ha ovviamente impattato in maniera significativa l’andamento dei prezzi. Il mancato rinnovo di tanti contratti collettivi ha peggiorato ulteriormente la situazione. Risultano però piuttosto intollerabili le accuse che dal centrosinistra sono state mosse al governo: non perché l’esecutivo Meloni non abbia responsabilità per questi dati, ma perché la condivide con l’opposizione.
Arturo Scotto, capogruppo PD in commissione Lavoro alla Camera, ha affermato che “c’è un tabù che il governo Meloni non vuole rompere: si chiama salario minimo”. È lo stesso tabù che ha accompagnato i precedenti governi, con il centrosinistra che ha depotenziato ogni proposta concreta e che ha anzi assecondato la linea della moderazione salariale quando l’inflazione – da profitti – volava.
Oggi la strumentalizzazione delle retribuzioni di milioni di lavoratori mette ancora più in pericolo la loro capacità di garantirsi una vita per lo meno dignitosa, come i dati dell’Eurostat confermano senza appello.
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[Contributo al dibattito] - La lunga frattura
In questi mesi la storia corre veloce, in poco tempo alcuni dei capisaldi su cui si è retto l’ordine mondiale definitivamente consolidatosi dopo il crollo del muro di Berlino stanno vivendo profonde tensioni e ristrutturazioni.
Non sono che sintomi di processi più profondi e radicali che ribollono come magma sotto la crosta terrestre tentando di farsi strada, di trovare sbocchi, sfiati ed infine ridefinire il paesaggio.
Obiettivo di questo testo è sì quello di fare uno sforzo di chiarezza poiché leggere quanto accade nel mondo intorno è un primo passo per immaginare dove intervenire in maniera efficace, ma anche uno strumento che vuole spingere a praticare un’ipotesi e a calpestare un terreno che, seppur pregno di limiti e ostacoli, si presta ad essere una finestra di possibilità che si apre e che non va lasciata richiudersi senza nemmeno aver fatto un tentativo.
Proviamo ad orientarci.
Non sono che sintomi di processi più profondi e radicali che ribollono come magma sotto la crosta terrestre tentando di farsi strada, di trovare sbocchi, sfiati ed infine ridefinire il paesaggio.
Obiettivo di questo testo è sì quello di fare uno sforzo di chiarezza poiché leggere quanto accade nel mondo intorno è un primo passo per immaginare dove intervenire in maniera efficace, ma anche uno strumento che vuole spingere a praticare un’ipotesi e a calpestare un terreno che, seppur pregno di limiti e ostacoli, si presta ad essere una finestra di possibilità che si apre e che non va lasciata richiudersi senza nemmeno aver fatto un tentativo.
Proviamo ad orientarci.
I movimenti tellurici
I primi segni superficiali di questi processi si sono avvertiti con la crisi del 2007-2008. La terra ha tremato, le forme che aveva assunto per i quarant’anni precedenti il sistema capitalista sono entrate in fibrillazione.
Non si può comprendere ciò che è venuto dopo senza considerare questo fatto nella sua interezza. Quelle scosse che avevano sconvolto i mercati finanziari sono state il segnale del magma che si stava rimettendo in moto.
In questo articolo non possiamo restituire l’intera complessità di quell’evento, ma ci vogliamo soffermare su quattro aspetti che come vedremo sono stati determinanti per gli sviluppi successivi.
Lotta di classe in Cina
La globalizzazione a guida USA si è retta sulla delocalizzazione della produzione industriale in Cina. Gli Stati Uniti e più in generale le forze capitaliste occidentali hanno ritenuto per lungo tempo che trasformare la Cina ed i suoi vicini asiatici nella “fabbrica del mondo” avrebbe portato diversi vantaggi. Ovviamente si sarebbero abbassati enormemente i costi di produzione: i salari cinesi erano molto più convenienti di quelli degli operai occidentali, le norme di sicurezza sul lavoro più morbide, i ritmi più serrati. Allo stesso tempo l’esternalizzazione della produzione industriale avrebbe definitivamente disarticolato la riottosa classe operaia statunitense ed europea che manteneva un certo grado di potere, che fosse nelle forme peculiari dei sindacati statunitensi o in quelle dei movimenti dei lavoratori in Europa. Infine la delocalizzazione avrebbe posto un freno anche alla crescente sensibilità ecologista che stava sorgendo in quegli anni in Occidente. Spostare le esternalità negative della produzione industriale altrove avrebbe permesso almeno in parte di evitare il proliferare dei conflitti ambientali.
Enormi porzioni della popolazione cinese hanno vissuto in pochi decenni il processo che in Occidente era durato secoli, la proletarizzazione di una classe contadina che era stata riferimento e protagonista della rivoluzione maoista.
Questa nuova ed enorme classe operaia ha iniziato a pretendere di poter godere almeno in parte delle ricchezze che il suo lavoro ha generato. In pochissimi anni i salari sono aumentati esponenzialmente andando ad intaccare il gigantesco surplus che i capitalisti occidentali estraevano dalla “fabbrica del mondo”. Non solo: con la crescita dei salari si è andato a formare un florido mercato interno che per un certo tempo ha fornito un nuovo sbocco per le merci occidentali, ma presto è stato occupato da quelle costruite all’interno della Cina o nei suoi addentellati asiatici. Tornando velocemente al presente, il caso delle auto elettriche è emblematico.
La dinamica dei salari in Cina ha contribuito, assieme ad altri fattori, a “raffreddare” la realizzazione del valore nella produzione industriale. Gli investimenti non consegnavano più i profitti di prima e una parte significativa dei capitalisti preferiva valorizzare le proprie ricchezze sui mercati finanziari.
La crescita dei salari in Cina non è stata però l’unico punto di blocco della valorizzazione.
Punti di blocco della valorizzazione
Quando il capitale non trova sufficiente realizzazione nelle forze produttive si rifugia nei mercati finanziari. Ma questa, come vedremo, è una contraddizione, perché se nell’immediato la valorizzazione finanziaria genera soldi facili, a lungo andare crea le famose “bolle”, come quella dei mutui subprime che scatenò la crisi del 2008, ed inevitabilmente gli esiti sono catastrofici.
Ma la valorizzazione capitalista è un processo perpetuo, non può fermarsi o rallentare: come spiega Marx, nel momento stesso in cui essa dovesse fermarsi smette di essere capitale, diventa solo ricchezza. È la tendenza a farsi totale del capitale, a mercificare ogni ambito della vita umana e della natura, ad aumentare l’intensità e l’estensione dell’estrazione di profitto. Il capitale deve trovare sempre nuovi modi di valorizzarsi, pena la fine stessa del modo di produzione capitalistico.
Questa tendenza del capitalismo si scontra con diversi limiti.
La riproduzione della natura: molte risorse naturali sono finite, non si possono sfruttare all’infinito. Oppure hanno dei tempi propri per riprodursi che non sono interamente scalabili dentro i processi di produzione capitalisti. Questa evidenza confligge inevitabilmente con la tendenza alla valorizzazione continua. L’estrazione di materie prime diventa sempre più costosa e complicata tecnicamente. Le famigerate “guerre per il petrolio” che hanno caratterizzato il primo decennio di questo secolo sono in parte figlie della bulimia di materie prime che caratterizza il capitalismo. Negli stessi anni avviene un altro fatto esemplificativo: il fallimento della Enron Corporation, una delle più grandi multinazionali dell’energia degli Stati Uniti. La Enron crolla perché sposta progressivamente il suo business verso il risk management ed il mercato dei derivati collegato alle commodities. In sostanza verso la finanziarizzazione. Presto viene scoperto che la multinazionale ha centinaia di milioni di dollari di perdite che non vengono calcolate nei bilanci. Per provare a salvarsi dal crollo la Enron aveva inscenato dei blackout in California per far crescere i costi dell’energia. La multinazionale era in rapporti confidenziali con l’amministrazione Bush e si dice che fu a causa delle pressioni della multinazionale che gli USA non firmarono il protocollo di Kyoto. La vicenda di Enron è indicativa di un contesto più generale dove ormai mercati importanti delle materie prime come quelli del petrolio e del gas sono estremamente finanziarizzati. Non va sottovalutato poi l’impatto dei movimenti ecologisti, specialmente nel Sud globale, che hanno imposto alla controparte limitazioni e freni allo sfruttamento incontrollato dei territori ed al modo (sicurezza ambientale e sul lavoro) in cui avviene lo sfruttamento.
Più in generale l’estrazione di risorse incontra limiti spaziali e temporali. I giacimenti di materie prime, come ad esempio le terre rare, possono essere localizzati in territori specifici, possono soffrire di colli di bottiglia importanti e di difficoltà tecniche di estrazione. Tutto ciò ha a che fare con l’imperialismo e con il secondo limite, quello politico “intracapitalista”.
Rigidità intracapitalistiche: per lungo tempo anche in parti della sinistra radicale si è pensato che con la globalizzazione avrebbero smesso di esistere i capitalismi “nazionali” a fronte della nascita di un unico complessivo mercato globale senza barriere. Questa interpretazione semplificata dell’evoluzione del capitalismo si basava su due facce della medaglia, l’internazionalizzazione delle catene del valore e gli scambi generali sul mercato finanziario. Ma questa lettura cancellava, più o meno consapevolmente, le gerarchie che strutturavano entrambi questi processi. Dentro l’internazionalizzazione delle catene del valore vi è stata una vera e propria divisione internazionale del lavoro, come abbiamo accennato sopra, e le leve finanziarie non sono certamente “equamente distribuite” tra gli attori del capitalismo globale. Il comando “politico” è sempre stato in mano al paese guida di questa “nuova” globalizzazione, cioè gli USA. Il mercato globale senza barriere poteva esistere solo alle condizioni del capitalismo statunitense, tutti gli altri paesi si dovevano attenere a svolgere il proprio ruolo nella catena del valore globale ed eventualmente godere dei limitati e momentanei benefici di questa architettura. Ma se per certi paesi, come la Cina, per un certo periodo il ruolo nella catena globale poteva essere un volano di sviluppo, per altri, come ad esempio la Russia, accodarsi senza limitazioni alla globalizzazione a guida USA avrebbe semplicemente voluto dire divenire terreno di predazione per il capitale occidentale. Gli anni ‘90 in Russia erano stati un monito in questo senso: aprire senza condizioni i confini della Federazione al mercato internazionale avrebbe avuto dei costi enormi non solo per la popolazione, ma soprattutto per la nuova classe capitalista russa che sull’appropriazione delle risorse precedentemente statalizzate in epoca sovietica stava costruendo la propria accumulazione primitiva. Ma come abbiamo visto la bulimia del capitalismo non concede sconti e la Federazione doveva mettere a disposizione le proprie risorse senza rigidità. Per qualche anno dunque si è assistito ad un balletto di distanze e riavvicinamenti tra gli USA ed il nuovo corso russo impersonato da Putin, a volte corteggiato, altre minacciato. D’altro canto, anche la Cina per i processi descritti sopra era debordata dal suo ruolo di fabbrica del mondo, diventando un attore economico globale e competitivo nei confronti del capitale occidentale. A sostenere poi la globalizzazione vi era la strutturazione di un rigido sistema neocoloniale, che solo dal nostro punto di vista occidentale abbiamo dimenticato di considerare, che obbligava alcuni paesi nella divisione internazionale del lavoro a rivestire il ruolo di bacini di risorse e manodopera a basso costo, quando non, come in alcuni paesi africani, vere e proprie discariche delle esternalità dannose. A ben vedere il ciclo del “Socialismo del XXI secolo” che ha caratterizzato una serie di movimentazioni spurie e sfaccettate in America Latina tra gli anni ‘90 e 2000 e che continua a trascinarsi in parte ancora oggi è stato per lo più un tentativo di riprendere il controllo almeno in parte sulle risorse drenate dal Nord globale. I conflitti intracapitalistici comunque non si muovono solo sulle frontiere, ma anche all’interno dello stesso capitalismo occidentale, dove diversi “modi di valorizzazione” non sempre riescono a conciliare fini ed obiettivi.
La riproduzione della classe operaia: la classe operaia in Occidente non è sparita insieme alle delocalizzazioni in Cina, Messico od est Europa. Anzi, la nostra tesi è che grandi fette del lavoro salariato fuori dalle fabbriche tradizionali sono andate incontro a processi di operaizzazione. Non stiamo parlando solo delle funzioni lasche del terziario, come ad esempio i call center, che già da tempo hanno vissuto a loro volta una fase di esternalizzazione, ma in generale di mansioni e ruoli più complessi da rendere “scalabili” dentro la classica forma industriale. Su questi processi ci torneremo più avanti, per il momento basta dire che alla globalizzazione dei mercati non è corrisposta, se non per un brevissimo lasso di tempo, la creazione di una società di “classe media” che ha goduto del proprio benessere a discapito del Sud del mondo proletario. La realtà si è mostrata decisamente più complessa. Per quanto riguarda invece i settori tradizionali una parte delle imprese capitalistiche hanno preferito mantenere la fase di assemblaggio della componentistica prodotta altrove in Europa e negli USA, al contempo proprio per il dilatarsi delle catene del valore ha assunto una centralità senza precedenti la fase della circolazione delle merci, fossero esse i semi-lavorati o il prodotto finito; quella che viene chiamata la rivoluzione della logistica. A latere rispetto a questi ambiti si sono sviluppate una miriade di modi del lavoro povero con vere e proprie sacche interne agli stati occidentali dove vigono le più aberranti forme di sfruttamento. In quasi ogni paese occidentale si è assistito allo stesso tempo ad una diminuzione (o stagnazione) del salario reale ed ad una sostanziale diminuzione del salario indiretto (servizi, welfare, formazione). La controrivoluzione neoliberista ha cercato in ogni modo di radere a zero le conquiste operaie del dopoguerra e di valorizzare ambiti della riproduzione che grazie alle lotte erano almeno in parte usciti dalla morsa del mercato. Questo ha generato una vera e propria crisi della riproduzione sociale che spesso si è accompagnata ad un invecchiamento complessivo della società. Negli USA in particolare il paradigma del welfare è stato sostituito completamente da quello dell’indebitamento facile. È venuta a formarsi una classe operaia sempre più anziana, debilitata (senza la possibilità di pagarsi le cure), precaria e priva di prospettive ascendenti. In alcuni paesi come il nostro si è assistito a due tendenze solo apparentemente in contrasto, da un lato la fuga di forza lavoro particolarmente qualificata, dall’altro ad una prolungata scarsità di forza lavoro a cui si è provato a porre rimedio attraverso lo sfruttamento dei flussi migratori prima dall’est e poi dall’Africa. È difficile contabilizzare l’effetto della crisi della riproduzione sociale sulla valorizzazione del capitale, ma se si considera che una delle cause prossime della crisi del 2008 è l’insolvenza di massa rispetto ai mutui che i proletari americani hanno contratto per comprarsi una casa è evidente che questa ha avuto un ruolo tutt’altro che indifferente.
Finanziarizzazione e debito
Lo abbiamo già accennato, quando il capitale non è in grado di realizzarsi con l’intensità necessaria nella produzione reale cerca altre vie per moltiplicarsi. La strada privilegiata è quella dei mercati finanziari in cui dagli anni ‘80 in poi si è assistito ad una moltiplicazione di strumenti per, apparentemente, fare soldi coi soldi. Ma la finanziarizzazione non è solo uno strumento della valorizzazione, è anche uno strumento di comando. Fondi speculativi, banche d’investimento, trust di padroni attraverso i mercati finanziari, attraverso partecipazioni ben piazzate possono orientare l’economia, persino determinare il destino di un dato paese.
In questo ambito dalla fine degli anni ‘90 fino ad oggi abbiamo assistito ad un lungo e continuativo formarsi di bolle sui mercati finanziari: la bolla dell’IT di inizio 2000, quella già citata dei mutui subprime, quella della green economy, mai veramente decollata, quella delle industrie hi-tech e adesso, come ci spiega Maurizio Lazzarato in questo articolo, quella del riarmo. Progressivamente il numero di attori in grado di esercitare una leva sul mercato finanziario si è ristretto, fondi speculativi sempre più pesanti sui mercati finanziari hanno fatto e stanno facendo shopping in giro per il mondo, raschiando partecipazioni su partecipazioni (qui abbiamo parlato del caso italiano) che di fatto non permettono solo di conservare e moltiplicare valore, ma diventano strumenti di comando e controllo sulla filiera finanziaria, ma anche sulla produzione reale.
Esiste una relazione tra la concentrazione del capitale e le difficoltà di realizzazione. Infatti meno il capitale investito è produttivo di valore e meno i soggetti economici di piccole e medie dimensioni sono competitivi sul mercato, meno riescono a nuotare nella piscina degli squali. Allo stesso tempo una minore intensità di valorizzazione del capitale significa che solo chi possiede una grande concentrazione di ricchezza può permettersi degli investimenti redditizi. Non bisogna farsi illusioni sulla favoletta delle start up che partendo da un garage conquistano il mercato globale: queste aziende nascono all’interno di incubatori che fin dall’inizio vedono una grande intensità d’investimento di capitale privato (o più raramente pubblico) dei soliti grandi soggetti economici. Ma, tornando a quanto detto prima, questi capitali investiti quasi sempre non si realizzano nella produzione reale di merci, ma si valorizzano nelle fulminee ascese finanziarie delle aziende, che presto o tardi andranno incontro ad altrettanto violenti crolli, il recente andamento di Tesla ne è un esempio.
Se consideriamo anche gli stati nella loro natura finanziarizzata riusciamo a cogliere un altro aspetto significativo della lunga frattura. La globalizzazione a guida USA si è fondata su una peculiare forma di scambio che ne è stata garante dell’egemonia, ma oggi rappresenta un problema non secondario. Il modello era questo: chiunque avesse acquistato debito estero statunitense avrebbe ricevuto in cambio un flusso di valuta pregiata, il dollaro, che è presto diventata la moneta di scambio del commercio globale. Tra i principali acquirenti del debito estero americano c’era naturalmente la Cina. Attraverso questo meccanismo, paradossalmente, gli Stati Uniti riuscivano ad esercitare il proprio controllo sul mercato globale attraverso il debito (per quanto peculiare questo non è un meccanismo nuovo, anche l’impero britannico verso la fine della sua egemonia sul mercato globale viveva un dilemma del genere). Con il debito contratto gli USA hanno tenuto in piedi la propria proiezione imperiale, la potenza militare, la sicurezza interna e la possibilità di intervenire in caso di eventi catastrofici per il mercato finanziario come la crisi del 2008. D’altro canto però questo enorme quantitativo di debito contratto non ha in alcun modo giovato alla vita dell’americano medio che ha visto ridursi ogni tipo di accesso al welfare, dei servizi, delle infrastrutture, persino della prontezza di risposta alle catastrofi climatiche come ad esempio gli incendi. Dal 2008 in poi la Cina ha progressivamente smesso di acquistare il debito pubblico statunitense. L’effetto contagio in occasione del crollo dei mercati finanziari che aveva provocato la dipendenza della Cina dall’economia statunitense ha fatto da monito. Come vedremo più avanti questo è oggi uno dei grandi temi sul tavolo dell’amministrazione Trump.
Esternalizzazione della crisi
Ogni crisi rappresenta un’opportunità. Alla crisi del 2008 è seguita a ruota la crisi dei debiti sovrani nei paesi più esposti dell’Unione Europea come Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo ed Italia. Quest’ultima non è stata semplicemente un contagio, ma è stata una vera e propria occasione per la finanza a stelle e strisce di lanciare un attacco speculativo al continente. Attacco che è stato contenuto al costo di anni ed anni di austerity e tagli alla spesa sociale.
Questo evento ha rappresentato un monito che solo in pochi hanno voluto ascoltare, evidenziando almeno tre aspetti. In primo luogo quando si tratta di drenare valore non esistono “paesi amici” nella dinamica capitalista. Gli alleati non sono veramente alleati, ma soggetti con cui si instaura un paradigma di dipendenza e subordinazione. La natura espansiva del capitalismo prevede che in tempi di crisi, lì dove ci sono poli economici competitivi e subordinati questi vivano un drenaggio delle risorse verso il centro.
In secondo luogo, e di conseguenza, l’attacco speculativo verso i paesi europei ha certificato che il capitalismo occidentale non era uno spazio omogeneo, o almeno non è considerato tale dagli Stati Uniti. Guardandola a posteriori la Brexit non è stata solo un afflato di nazionalismo, ma una volontà della Gran Bretagna di svincolarsi dall’abbraccio europeo per avvicinarsi ancora di più al cugino d’oltremare.
Infine la crisi del debito sovrano era un’avvisaglia, più che evidente, che l’Europa, come spazio economico-politico, non era semplicemente un alleato-concorrente, ma una vittima sacrificale. In diverse versioni tanto i democratici, quanto i repubblicani hanno portato prima la guerra economica e poi la guerra guerreggiata all’Europa, e non in Europa come siamo abituati a pensare. Come spiega Raffaele Sciortino:
“[...] la distruzione è la conditio sine qua non di una ripresa dell’accumulazione globale. Solo che nel frattempo questo avviene con crisi, guerre, e dove ogni attore a partire dagli Stati Uniti vorrebbe e cercherà di scaricare i costi di questa svalorizzazione sugli altri.”
Eruzioni
Ucraina: guerra dell’Europa, guerra all’Europa?
Prendiamo la guerra in Ucraina, provando a comprenderne la portata e i significati all’interno dei meccanismi che abbiamo tratteggiato fino ad ora.
La retorica europea e statunitense degli ultimi anni ci ha abituato a una spiegazione del conflitto tutta centrata sugli attributi politici del personaggio Putin e del regime che incarna. I media nostrani si affannano a dipingere il presidente russo come uno zar paranoico, animato da un’ostilità viscerale verso l’Occidente, mossa da una supposta indole autoritaria intrinsecamente russa. A noi sembra invece più utile – e, crediamo, necessario per chi tenta di orientarsi nel terreno complesso della guerra che viene – inquadrare il ritorno del conflitto su larga scala in Europa dentro le faglie che si aprono nell’ordine globale.
Se ci affidiamo a una genealogia storica degli eventi che hanno portato all’escalation del 2022, bisogna risalire almeno al golpe di EuroMaidan del 2014: evento che si colloca, pur semplificando, all’interno di quella dinamica di pressione crescente esercitata da Stati Uniti e Unione Europea sulla Russia, che ha comportato la destabilizzazione del regime ucraino legato agli interessi russi e la progressiva costruzione dell’Ucraina come avamposto strategico della proiezione politico-militare occidentale in Europa orientale.
Una pressione che ha operato su due piani. Da un lato, il consolidamento del rapporto di forza militare nei confronti di una Russia considerata inaffidabile: rapporto di forza che, come abbiamo visto, rappresenta uno dei cardini – insieme alla tirannia del debito – del dominio egemonico statunitense, fondato sulla capacità di garantire, anche con la forza, la propria posizione al vertice delle catene globali del valore. Una dottrina costruita negli ultimi trent’anni sui pilastri della “deterrenza” e della “pronta risposta”, ma che oggi comincia a dimostrare alcuni segnali di instabilità soprattutto a partire dalla crisi della superiorità tecnologica che l’ha resa possibile.
Dall’altro lato, la posta in gioco riguardava la ridefinizione degli equilibri all’interno delle catene del valore legate ai combustibili fossili: risorse essenziali per l’alimentazione energetica e per la sopravvivenza di segmenti strategici del capitale europeo e statunitense, ma finite – e dunque non valorizzabili indefinitamente – e contese anche da altri attori globali, in primis la Cina. Il controllo dell’infrastruttura di trasporto e raffinazione era stato fino al 2022 il terreno di un serrato scontro tra capitale russo e capitale europeo, in particolare tedesco.
Su questo terreno, e non a caso, è avvenuto il primo tentativo da parte degli Stati Uniti di scaricare sull’Europa la pressione derivante dalla crisi ucraina. In questa direzione si collocano sia il sabotaggio delle relazioni energetiche tra Russia e Unione Europea, sia la distruzione fisica dell’infrastruttura Nord Stream. Scelte che miravano a riaffermare con forza la subordinazione dell’Europa rispetto agli interessi strategici statunitensi e a costringere le economie dell’“alleato” europeo ad accollarsi il peso maggiore della guerra. Già dopo sei mesi di conflitto, infatti, è apparso chiaro che l’esercito ucraino, seppur pesantemente armato da Stati Uniti ed Europa e composto almeno in parte da elementi fortemente ideologizzati a destra, non sarebbe stato in grado di ottenere quella “vittoria totale” su cui – tra eccesso di ottimismo e clamorosi errori di calcolo – si era basato il massiccio invio di armamenti e fondi da parte dell’Occidente.
L’America, dal canto suo, sconta da anni una riluttanza sociale sempre più marcata nei confronti di interventi militari con presenza diretta delle proprie truppe (“boots on the ground”), dopo mezzo secolo di operazioni belliche spesso fallimentari o quantomeno costose, sia in termini di vite umane sia per le conseguenze sulle condizioni materiali del proletariato statunitense, penalizzato da continui tagli al salario indiretto per coprire i costi di lunghe guerre fondate anche sulla costruzione artificiale di regimi fantoccio. Nel tentativo di uscire da questo vicolo cieco, il progetto imperialista statunitense ha sviluppato negli ultimi anni forme di subappalto della propria potenza militare, delegando il ruolo di prima linea del conflitto a potenze “sub-imperiali” che, pur agendo in buona parte secondo interessi propri, sono spinte – se le cose si mettono male – a sobbarcarsi da sole i costi politici ed economici dei fallimenti militari.
E infatti, in Ucraina abbiamo visto chiaramente l’atteggiamento degli Stati Uniti: retorica sulla prosecuzione della guerra e insistenza sulla necessità della vittoria ucraina, con i danni – in primo luogo l’aumento del costo dell’energia e l’inasprirsi della crisi economica – scaricati interamente sugli alleati. L’Europa è risultata sin da subito l’area più colpita dalla crisi ucraina, ed è tecnicamente già in recessione. La durissima crisi del settore industriale tedesco, centrato sull’automotive, ne è la prova evidente: i licenziamenti in Volkswagen hanno scatenato un vero e proprio cataclisma sociale, mentre lo spettro di un’insicurezza economica diffusa ha segnato la recente campagna elettorale, con risultati che esprimono chiaramente l’inquietudine di ampie fasce dell’elettorato di fronte a una politica di cieca prosecuzione della guerra.
L’intervento di Mario Draghi davanti al Parlamento europeo, lo scorso febbraio, ha sintetizzato quella che appare l’unica via d’uscita che il capitale europeo è in grado di immaginare: per l’ex presidente della BCE, occorre istituire un debito europeo per finanziare riarmo, innovazione tecnologica e intelligenza artificiale. Un debito da sottoscrivere con il risparmio privato dei cittadini europei, e non con l’intervento della Banca centrale. A stretto giro è seguita la sua traduzione pratica, con la presentazione del piano “ReArm EU” da parte di Ursula von der Leyen, accompagnata dalla necessaria campagna ideologico-mediatica volta a legittimare questa nuova postura europea. Campagna a cui hanno aderito con entusiasmo i principali organi di stampa liberali, e persino qualche guerrafondaio nostrano sceso in piazza il 15 marzo.
Ciò che sembra emergere con maggiore chiarezza è l’esaurirsi della capacità statunitense di finanziare, e ancor più di legittimare “internamente”, la propria tradizionale politica di intervento militare come garanzia del mantenimento dell’egemonia globale. Una conseguenza quasi naturale di questo logoramento è il ricorso a una delega – mai completamente consensuale – di tale funzione a spazi economico-politici “alleati”, costretti oggi a sacrificarsi senza reali contropartite, e senza alcuna garanzia sulla possibilità di reggere il peso di questa nuova fase.
Segno, quest’ultimo, di una crisi che si struttura e si dispiega dunque su molteplici piani – militare, economico, geopolitico – e che coinvolge l’intero scenario globale, tanto sul versante materiale quanto su quello immateriale. In gioco ci sono nodi cruciali come il ruolo dominante del dollaro e quello che, forse con un certo eccesso retorico ma non senza ragioni, si può definire il “declino dell’Occidente”. Negli ultimi decenni si è andato sgretolando il telaio di certezze che aveva sorretto la riproduzione ideologica e materiale dell’ordine mondiale emerso nella seconda metà del Novecento. Quello che appariva come un equilibrio stabile – un continuum in cui le forme della dominazione potevano rinnovarsi senza scosse, persino nei loro centri – si è progressivamente trasformato in un campo disseminato di faglie, dove le stesse coordinate interpretative fornite da istituzioni e media iniziano a vacillare sotto il peso delle contraddizioni che esse stesse hanno contribuito a generare.
Palestina: la crisi del comando e la resistenza
Ciò che per lungo tempo è stato rappresentato come “normalità” – la continuità produttiva, la governabilità garantita, la distanza protettiva dai teatri del disastro – si rivela oggi per quello che è sempre stato: un’eccezione costruita sulla stabilizzazione violenta di tutto ciò che si trovava al di fuori. Oggi la crisi si manifesta anche nel cuore delle metropoli globali, sotto forma di instabilità politica, polarizzazione sociale, impoverimento di massa e smottamento delle forme stesse della soggettivazione. Non è dunque sorprendente che una parte crescente della popolazione si ritrovi preda di un sentimento diffuso di spaesamento e impotenza: non più semplicemente per l’incertezza del futuro, ma per l’assenza stessa di un linguaggio condiviso per pensarlo. Quando non si trasforma in un’adesione difensiva allo status quo, questo spaesamento si esprime nella nostalgia per un passato idealizzato o nella ricerca di ancore identitarie rassicuranti, mentre la realtà si frammenta sotto i colpi della ristrutturazione globale.
Ma è proprio da questa condizione, segnata dalla disarticolazione del comando imperiale e dalla frattura del suo immaginario, che possono emergere nuove possibilità di lettura e di azione. Ci sembra che alcuni segnali inizino a delineare uno spazio possibile per ripensare il conflitto, la solidarietà, la trasformazione. Uno di questi segnali, forse il più evidente e radicale, è ciò che sta accadendo in Palestina.
Lo Stato d’Israele è da lunghi anni la sintesi di molte delle contraddizioni del sistema di dominio in cui viviamo ed è in parte la prefigurazione dei dispositivi politici e tecnici che il capitale potrebbe mettere in opera (o ha già messo in opera) anche da noi. Ma anche lo Stato di Israele soffre la crisi del sistema di dominio in cui viviamo, sistema di cui è l’emanazione in Medio Oriente: una crisi che, pur assumendo forme diverse nei vari segmenti della geografia imperiale, rimanda sempre allo stesso nodo, cioè la crescente difficoltà del capitale globale a mantenere il proprio comando sulla riproduzione sociale su scala planetaria.
Prima del 7 ottobre 2023, il regime israeliano in Palestina operava come una sofisticata macchina di comando in cui apartheid, assedio e sorveglianza formavano un dispositivo integrato di governo coloniale. Gaza era ridotta ad uno spazio di confinamento assoluto e veniva gestita come laboratorio necropolitico, mentre in Cisgiordania la frammentazione territoriale e il controllo capillare governavano l’accesso della popolazione palestinese alla vita e al suo inserimento all’interno delle catene produttive israeliane secondo una logica di disciplinamento e contenimento. Questo regime non era solo puro esercizio di forza, ma una forma di dominio che si presentava come amministrazione tecnica della normalità e di fronte alla cui inamovibilità e progressione la testimonianza di solidarietà alla Palestina a cui eravamo abituati alle nostre latitudini si dimostrava sempre più incapace di incidere.
Ad altre latitudini, invece, qualcosa si muoveva eccome. A partire dalla resistenza palestinese, che ha dimostrato una capacità di costruzione organizzativa e militare passata clamorosamente sotto il radar delle forze d’intelligence israeliane – dimostrazione concreta di un vecchio assioma di ogni insorgenza anticoloniale, intriso anche di un certo portato simbolico: quello che vede un esercito straccione, eppure altamente determinato, colpire il cuore delle forze occupanti, nonostante la loro schiacciante superiorità tecnologica e militare. Ma anche altri attori della regione – a cominciare da quelle forze nazionali e confessionali, di segno conservatore e teocratico, storicamente impegnate nella costruzione di un rapporto di forza da opporre all’egemonia indiscussa israelo-statunitense in Medio Oriente – hanno saputo intercettare il momento e cogliere l’occasione. Il 7 ottobre è arrivato in un momento in cui gli Stati Uniti apparivano visibilmente impantanati nel teatro ucraino, mentre lo Stato d’Israele era attraversato da profonde convulsioni generate dalla competizione interna tra diverse forme e gerarchie del comando: da un lato Netanyahu che cercava di vincolare l’esercito e lo Shin Bet al progetto apertamente suprematista rappresentato da Ben Gvir e Smotrich, dall’altro un progressismo israeliano ancora legato ai suoi feticci democratici e all’insediamento produttivo dei kibbutz che tentava di contenerne la «deriva».
A partire dal 7 ottobre 2023, questa crescente difficoltà di Israele e, tramite esso, del capitale globale a mantenere il proprio comando sulla Palestina e sul Medio Oriente si è, dunque, manifestata nella sua forma più nuda e brutale. Ciò che abbiamo visto è una crisi del comando non solo in senso militare, ma soprattutto sul piano della sua funzione ordinatrice: della capacità del capitale di stabilire una narrazione egemonica e di modulare il conflitto sociale entro forme gestibili o neutralizzabili. E quando questa capacità si frattura, il capitale non esita a mostrare il volto più feroce del suo dispositivo disciplinare: le bombe, le recinzioni, l’assedio, i droni, i media asserviti, l’accusa sistematica di antisemitismo come perimetrazione e costruzione del nemico, la delegittimiazione completa di qualsiasi meccanismo di giurisprudenza e diritto internazionale, che ancora una volta sono costretti a mostrare umiliantemente la loro subordinazione al comando capitalista.
Ma è proprio nel cuore di questa crisi del comando che si aprono delle fessure, delle possibilità. In mezzo al terrore sistemico e alla ristrutturazione permanente dei dispositivi di controllo, emergono variabili impreviste. La resistenza del popolo palestinese rappresenta una di queste fessure. Non è, oggi, un progetto politico compiuto, e forse non è vincente. Ma è un inizio. In questo senso, la Palestina – oggi come ieri – non è soltanto una tragedia umanitaria, ma una lente per leggere l’intero campo delle contraddizioni contemporanee: dal collasso ambientale alla guerra per bande tra potenze sub-imperiali, dalla crisi delle forme statali alla decomposizione del legame sociale nei centri metropolitani. Un punto di fuga che mostra, in modo quasi brutale, il nesso tra accumulazione e violenza, tra governance globale e apartheid. E dunque anche il luogo dove, paradossalmente, può prendere forma un nuovo internazionalismo – non ancora pienamente definito, non ancora codificato, ma già in cammino.
Transizione egemonica? Taiwan, Cina e le catene del valore globali
Bisogna, però, fare attenzione a non farsi affascinare e a non prendere per vere prospettive che, per quanto interessanti, si situano ancora molto più nel campo delle possibilità che in quello della certezza.
Proprio l’idea che ci troviamo all’interno di una fase di piena ed irreversibile crisi dell’egemonia statunitense ci sembra, se presa in toto, come un’assunzione che rischia di confinare il nostro pensiero alla proiezione su nuovi scenari futuri e non ci permette di misurarci e fare i conti con le necessità del presente. È infatti il naturale corollario di questa idea che andrebbe preso con cautela, cioè che le conseguenze di questa crisi corrispondano ad una ridefinizione degli equilibri economici e militari globali che porterebbero o all’idea di un «mondo multipolare» oppure ad una sostanziale ridefinizione degli equilibri egemonici con il “sorpasso” della Cina sugli Stati Uniti.
L’idea, infatti, che siamo in una sorta di «interregno» tra l’egemonia statunitense e quella cinese è, di per sé, un’immagine ideologica creata dall’operazione del potere imperiale statunitense stesso. L’egemonia statunitense, infatti, non si è mai presentata come un semplice dominio di forza, ma come un progetto ideologico raffinato, costruito attraverso una costante narrazione che ne legittima l’esistenza e ne anticipa – quasi strategicamente – la possibile fine. Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno elaborato una complessa infrastruttura teorica per giustificare il proprio ruolo globale: dal contenimento del comunismo (Kennan) fino alla teorizzazione di un ordine mondiale liberale e capitalistico «naturalmente» destinato a trionfare (Fukuyama). Questa narrazione, tuttavia, è sempre stata accompagnata dalla previsione ciclica del proprio tramonto e dalla definizione e costruzione di un attore responsabile di questo declino, un «nuovo sfidante» a livello economico e militare pronto a minacciare l’economia statunitense. Durante la Guerra Fredda, questo ruolo veniva attribuito all’URSS, mentre oggi ricade sulla Cina. In questo senso, l’idea dell’attuale «interregno» tra l’egemonia americana e quella cinese è una forma di proiezione di questa possibilità sul presente, parte integrante del dispositivo ideologico che consente agli Stati Uniti di ridefinire continuamente la propria centralità attraverso la gestione del declino annunciato. È proprio questa dialettica tra crisi e rigenerazione che alimenta l’egemonia americana, trasformando ogni minaccia in un’occasione per riaffermare il proprio ruolo nel mondo.
Questa retorica è stata storicamente impiegata durante la Guerra Fredda per legittimare enormi spese per armamenti, incluse le armi nucleari, e il finanziamento di proxy wars in tutto il mondo. Negli anni ’80, la stessa logica è stata rivolta contro il Giappone, con l’imposizione di dazi punitivi e il Plaza Accord, un accordo monetario imposto con la forza che contribuì a far precipitare l’economia giapponese in una stagnazione prolungata. Oggi, quello stesso copione viene riproposto nei confronti della Cina: i fautori dello scontro a Washington mirano a sabotarne i progressi economici, provocare instabilità interna e, nel caso più estremo, trascinare la regione del Pacifico – e in particolare lo Stretto di Taiwan – in un conflitto distruttivo e sanguinoso.
Nuove faglie
È evidente, però, che un cambiamento è in atto. Eppure, questo mutamento resta ancora ambiguo: sembra indicare la fine dell’egemonia statunitense, ma allo stesso tempo ne conferma la persistenza; scarica sull’Europa il peso della «ritirata strategica» di un alleato americano che si scopre improvvisamente essere egoista e autoritario, ma allo stesso tempo vede gli Stati Uniti rispondere in grande stile alla «minaccia cinese» con un cambiamento repentino nella politica economica e con l’aumento generalizzato dei dazi per tornare, così dice Trump, a controllare i flussi di produzione di valore.
Nuove geografie della produzione globale
Per capire queste apparenti contraddizioni, ci sembra utile guardare ai cambiamenti nella geografia della produzione globale, laddove alcune utili indicazioni sono state fornite da Phil Neel in questa intervista ed in altri suoi recenti interventi. Come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti, sin dal secondo dopoguerra, sotto la guida statunitense, il sistema produttivo mondiale si è riorganizzato sulle basi di una divisione internazionale del lavoro strutturata attorno a una logica di efficientamento dei costi. In questo senso, è avvenuto lo spostamento graduale dell’industria manifatturiera nell’asse Pacifico, con la Cina come «fabbrica del mondo»: in questo processo, si sono sviluppati nuovi poli industriali in Asia orientale, si sono consolidate infrastrutture energetiche nei paesi del Golfo, si è ristrutturata selettivamente l’Europa, ed è stato costruito il complesso militare-industriale israeliano – tutti elementi funzionali al progetto imperiale americano.
Questo modello ha prodotto una struttura gerarchica dove poche imprese dominanti, situate nei centri del capitalismo avanzato (America, Europa ed in minor misura Israele e Giappone), detengono il potere decisionale, mentre quote crescenti di produzione vengono delegate a subappaltatori nei paesi più periferici. Le imprese leader mantengono un potere quasi monopolistico, sfruttando la concorrenza tra fornitori per comprimere i costi lungo tutta la catena del valore. Tuttavia, proprio questo processo di esternalizzazione ha permesso ad alcune aziende subalterne di crescere, acquisire tecnologie, organizzarsi su scala globale e, in certi casi, diventare nuovi attori dominanti all’interno delle catene del valore. Emergono così nuove frazioni di capitale, sia nazionali che settoriali, che competono per una quota maggiore del valore prodotto globalmente. Ma questa competizione è sempre intrecciata a forme di cooperazione forzata e dipendenza asimmetrica che, naturalmente, ricalcano la distribuzione geografica del grande Capitale: le imprese più deboli restano legate ai grandi committenti, che esercitano un controllo diretto sui ritmi, i costi e le innovazioni della produzione. In questo contesto, la cosiddetta «guerra commerciale» tra Stati Uniti e Cina si rivela in larga parte una finzione mediatica, mentre la vera battaglia si gioca più in basso nella catena del valore – tra imprese cinesi, taiwanesi, sudcoreane, e un tempo tra quelle del sud-est asiatico, molte delle quali sono state schiacciate dalla concorrenza cinese post-crisi asiatica.
Fondamentalmente, si tratta di una lotta competitiva intensa tra diverse frazioni di capitale per appropriarsi di una quota maggiore del valore complessivo. Questo processo genera inevitabilmente sovra-capacità nei settori coinvolti, il che alimenta ulteriormente la competizione. Da qui derivano i cambiamenti tecnici, i processi di consolidamento organizzativo e delocalizzazioni industriali, tutte dinamiche che trasformano continuamente la vita produttiva e riproduttiva di decine di milioni di persone. Alla base del sistema produttivo, infatti, migliaia di piccole imprese operano con margini minimi, spesso destinate a fallire. Le poche che sopravvivono lo fanno ristrutturandosi rapidamente: investono in tecnologia, meccanizzano l’assemblaggio, tagliano personale, delocalizzano e puntano a innovazioni organizzative per restare competitive. Alcune riescono a scalare la gerarchia globale fino a diventare conglomerati con un potere monopolistico proprio.
Marx descriveva questo tipo di conflitto inter-capitalista come una lotta tra “fratelli ostili” che si dividono il bottino. È una definizione estremamente efficace, perché coglie sia la realtà del conflitto, sia il fatto che si tratta comunque di una contesa interna alla stessa classe. In ultima analisi, questi capitali condividono un interesse di classe comune: sono loro ad appropriarsi del valore, non coloro che sono costretti a produrlo. Ci auguriamo, chiaramente, che questi segmenti di capitale dovranno un giorno pagare un prezzo estremamente alto di fronte alle spinte di classe che si articolano nelle tensioni interne al rapporto tra la classe operaia della «fabbrica mondo» e la gerarchia del comando nazionale e internazionale: è, questa, una partita fondamentale che si gioca tutta all’interno delle «fabbriche globali» (confronta «Lotta di classe in Cina»).
Quello che osserviamo lungo le catene globali del valore è quindi una lotta simultaneamente competitiva e cooperativa, in cui ogni impresa, così come ogni blocco di capitale (settoriale, regionale, nazionale, ecc.), è al tempo stesso dipendente dagli altri e in competizione con essi. Tuttavia, tutti condividono un interesse fraterno di classe, soprattutto quando si tratta di disciplinare la forza lavoro e garantire che le infrastrutture fondamentali del mercato continuino a funzionare senza intoppi.
A livello globale questo processo, lungi dal risolvere i problemi del sistema, li aggrava: aumenta la sovrapproduzione, riduce i tassi di profitto di ogni settore e intensifica la pressione a ridurre i costi, generando una spirale di competizione permanente. Il risultato è un’economia globale strutturalmente in tensione, dove l’emergere di nuovi centri produttivi non smantella l’egemonia americana, ma la riorganizza su nuove basi, attraverso nuove forme di delega, controllo e dipendenza. Nonostante alcuni segmenti di capitale asiatico abbiano acquisito un peso crescente nella catena globale del valore, rimangono infatti strutturalmente subordinati alle grandi imprese transnazionali con sede nei centri imperiali del capitalismo avanzato. Sebbene la crescita dimensionale consenta una maggiore capacità di negoziazione, il rapporto resta quindi fondamentalmente asimmetrico: la forza contrattuale è sempre mediata dal controllo che il capitale centrale statunitense esercita sull’accesso al mercato, alla tecnologia, al credito e alle infrastrutture logistiche. Questa dinamica produce un’apparente contraddizione: la progressiva decentralizzazione del potere produttivo verso nuovi nuclei regionali di capitale – soprattutto in Asia orientale – si accompagna al mantenimento dell’egemonia da parte del capitale monopolistico transnazionale radicato negli Stati Uniti e nei suoi alleati.
È per questo che, forse, prima di parlare di fine dell’egemonia statunitense o di transizione egemonica verso la Cina bisognerebbe provare a porsi il problema nei termini di una riarticolazione del progetto egemonico: una nuova fase della governance imperialista in cui le funzioni del comando vengono sempre più delegate, ma senza cedere realmente il controllo dell’accumulazione. L’egemonia si esprime come governance transnazionale della produzione, sostenuta da un’infrastruttura finanziaria e militare ancora relativamente controllata in modo saldo dall’imperialismo statunitense.
Crisi e ristrutturazione del progetto imperialista
Come nei cicli storici precedenti, anche questa configurazione instabile genera frizioni e lascia intravedere la possibilità di futuri slittamenti egemonici. Al di là della retorica del declino e delle fantasie multipolari, non si intravede però (ancora?) all’orizzonte una trasformazione strutturale di questo ordine. Il dollaro resta il pilastro delle transazioni globali, le istituzioni finanziarie statunitensi hanno ampliato la loro sfera d’influenza, e l’apparato militare americano mantiene un certo vantaggio strategico.
Tuttavia, come dimostra la guerra in Ucraina, l’esercito USA non è più la macchina imbattibile capace di imporre «deterrenza» e, nel caso, provvedere ad una sicuramente vittoriosa «pronta risposta». Basti pensare al fatto che il Corpo dei Marines, la fanteria d’assalto dell’esercito statunitense, ha introdotto il suo primo programma di addestramento e combattimento tramite droni solo pochi giorni fa, con una reazione che appare essere esageratamente lenta e tardiva rispetto alla proliferazione di questa forma di guerra meccanizzata e impersonale e all’utilizzo di droni da combattimento su ormai tutti i fronti di guerra globali, dall’Ucraina a Gaza fino al Kurdistan. In questo senso, una certa (paventata o reale) debolezza militare si esprime, come abbiamo visto con lo sganciamento statunitense dal pantano ucraino, con una forma delegata di dominio, in cui il potere imperiale agisce per interposta persona e tende a ridurre al minimo la sua esposizione diretta in termini economici e di vite umane, mobilitando al suo posto quei soggetti regionali subordinati come Europa ed Israele per gestire crisi e conflitti. Così, l’ordine imperialista globale si riorganizza decentrando le operazioni ma mantenendo il controllo strategico sulle leve fondamentali dell’accumulazione, della moneta e della forza.
La politica dei dazi introdotta sotto la prima amministrazione Trump – in buona parte mantenuta e ristrutturata sotto Biden e adesso duramente riconfermata dal governo Trump II – deve essere letta non tanto come un ritorno al protezionismo in senso classico, ma come una risposta reattiva e contraddittoria a queste trasformazioni interne alla stessa architettura imperiale globale. In un momento in cui il capitale transnazionale è ormai largamente de-territorializzato e interdipendente, l’imposizione di barriere commerciali rappresenta una forma di disciplinamento interno a questa catena della produzione planetaria che gli Stati Uniti non controllano e comandano più interamente, ma da cui continuano a trarre profitti fondamentali. I dazi non mirano tanto a difendere l’industria statunitense, quanto a rallentare l’avanzamento tecnologico e la scalata di segmenti di capitale asiatico – in particolare cinese – che stanno minacciando la rendita monopolistica delle imprese occidentali nei settori strategici come semiconduttori, batterie, telecomunicazioni e green tech: basta pensare al ruolo decisivo che hanno ricoperto i segmenti di capitale legati alla Silicon Valley e all’industria dei semiconduttori all’interno della campagna elettorale di Trump e delle operazioni di lobbying che hanno convinto il neo-presidente a imporre con tanta durezza i dazi di marzo, scavalcando in termini di importanza il ruolo che invece avevano avuto le lobby del petrolio nella campagna elettorale trumpiana del 2016.
In questo senso, si tratta di una politica di contenimento economico, ma agita nel contesto frammentato di un mercato mondiale dove il capitale statunitense dipende esso stesso dalle reti che intende ostacolare. La logica dei dazi riflette questa crisi e necessità di ristrutturazione del comando imperiale statunitense sul ciclo globale del valore: invece di rafforzare un modello produttivo interno, finisce spesso per incentivare ulteriori processi di delocalizzazione verso regioni meno visibili del sistema, come il Vietnam, il Messico o l’Europa orientale, generando nuovi poli semi-periferici di accumulazione subordinata.
Allo stesso tempo, i dazi servono a ricomporre il consenso interno all’egemonia statunitense, non attraverso una reale redistribuzione della ricchezza e un aumento dei salari diretti ed indiretti, ma tramite quella tattica consustanziale al progetto imperialista di costruzione simbolica di un “nemico esterno” di cui abbiamo già parlato, e della necessità di una politica di unità nazionale tesa a fermarne l’espansione, espansione che, si dice, avrebbe come conseguenze l’impoverimento massiccio della società statunitense in termini materiali e la fine del «modo di vita americano» in termini culturali.
Così, l’offensiva commerciale trumpiana si inserisce in questa dialettica marxiana tra cooperazione forzata e competizione distruttiva tra capitali. Le aziende americane continuano a trarre valore dalla cooperazione con fornitori e subappaltatori asiatici, ma al contempo sostengono – o sono costrette a sostenere – una guerra commerciale che ha effetti devastanti sui margini della filiera, soprattutto nei suoi anelli più deboli. Il protezionismo odierno è quindi una ristrutturazione coercitiva attraverso cui il centro imperiale tenta di riaffermare una supremazia che ormai non è più garantita dalla sola fluidità dei mercati. Come già avvenuto in altre epoche di crisi egemonica, la guerra commerciale rappresenta un tentativo di rinegoziare le gerarchie del sistema mondiale, senza però risolvere le contraddizioni strutturali dell’accumulazione globale: finisce anzi spesso per esasperarle, aprendo nuove faglie tra i blocchi di capitale e moltiplicando le tensioni inter-imperiali.
Cosa bolle in pentola
In questo enorme intreccio di contraddizioni e complessità sembra mancare all’appello, almeno in occidente, una variabile importante: i movimenti sociali e popolari. Si ha questa forte impressione che qualcosa ribolla dentro i settori proletari, ma questo qualcosa non assume (per il momento?) delle forme sociali e politiche esplicite, spesso si disperde in rivoli di confusione, delega e rimozione.
Esiste uno “strano paradosso” all’interno della soggettività che si è prodotta nella “fase neoliberale”. Nel tentativo di socializzare ogni cosa al mercato il neoliberismo ha generato una condotta ultraindividualistica in cui l’eventuale rapporto con ogni tipo di comunità viene visto solo come un rapporto opportunistico da cui trarre beneficio. In particolare in Europa, ma in un certo senso anche negli Stati Uniti questo processo ha rotto l’identificazione con ogni tipo di idea comunitaria, che essa sia la patria, la nazione, una religione, la famiglia, la classe. In poche parole il neoliberismo ha posto l’individuo davanti ad ognuna di queste istituzioni sociali. Adesso il paradosso è che l’occidente si trova sprovvisto di idee-forza per mobilitare le masse verso la guerra. Se la gente non scende in piazza perché non crede nell’azione collettiva, tanto meno è disposta ad andare alla guerra per dei concetti astratti e delegittimati. Può fare il tifo, può persino essere d’accordo con la guerra, ma purché non debba andare sul fronte in prima persona. Persino sulla linea del fronte in Ucraina osserviamo questo paradosso all’opera: se si guarda al piano della narrazione al netto di un consistente manipolo di nazionalisti di ultradestra fortemente ideologizzati la propaganda non è riuscita a trovare altri appigli per disegnare una “guerra di popolo” contro l’invasore. Recenti sondaggi mostrano una situazione apparentemente schizofrenica: mentre una parte consistente della popolazione rimasta sul territorio ucraino ha più fiducia nell’esercito che nell’establishment politico, questa stessa popolazione è ostile all’arruolamento di massa e pensa che la guerra non dovrebbe riguardarla in prima persona. Queste considerazioni possono apparire sconfortanti: come pensiamo di mobilitare le masse contro la guerra se queste sono chiuse nel loro privato? Ma l’ipotesi che facciamo è proporre un nuovo paradosso: per difendere la propria individualità dalla minaccia della guerra, i proletari, qui in un senso molto largo, saranno costretti a ragionare di nuovo nei termini dell’azione collettiva, ed è dentro questo processo che potrà svilupparsi una contro-soggettività che progressivamente sia in grado di maturare in nuove identità collettive.
L’effervescenza giovanile dei tempi recenti scavalca i confini del nostro Paese e si manifesta in maniera piuttosto inedita, anche in contesti e territori di non scontata attivazione. Pensiamo alla mobilitazione partita nel cuore dell’impero mossa proprio dalla necessità di esprimere la propria solidarietà alla Palestina. Gli scorsi mesi hanno definito una nuova fase in cui l’idealismo più puro si è scontrato con le contraddizioni del reale spingendo centinaia di migliaia di giovani nel mondo a mobilitarsi. Non soltanto in Occidente, o tra chi si riconosce socializzato come tale, anzi, guardando a territori molto meno mediatizzati o raccontati come l’Africa possiamo attestare una nuova generale ripresa dell’attivazione giovanile che, superati i temi del panafricanismo degli anni post indipendenze, ritrova la necessità di incontro e di riaggiornare griglie di lettura marxiste. Seppur non ve ne sia traccia nel dibattito occidentale sono anni di ebollizione in Africa, di convegni antimperialisti e internazionalisti, di nuove identità che ricompongono istanze materialiste e islam. Vediamo anche come la questione coloniale si imponga e venga scomposta a livello effettivo: seppur con grandi e profonde contraddizioni al loro interno i movimenti anti-francesi verificatisi in Africa sub sahariana degli ultimi tempi indicano una misura colma. Possiamo chiederci se siamo di fronte alla possibilità di un nuovo internazionalismo che, a partire dalle attivazioni territoriali giovanili, travalichi i confini nazionali e che faccia dell’opposizione alla guerra e al colonialismo una bandiera di resistenza? I movimenti per la Palestina hanno sottolineato in maniera precisa che la resistenza dei popoli oppressi è in grado di indicare itinerari di emancipazione anche alle nostre latitudini.
Un’altra linea di possibilità è data dall’unica mobilitazione tendente alla massa della nostra epoca, ossia quella delle donne contro la violenza di genere. All’acuirsi della crisi sociale, e in tempi di guerra il dato certo è il peggioramento delle condizioni di vita oltre all’insensatezza del vivere, corrisponde un aumento esponenziale della violenza degli uomini sulle donne. Assistiamo dunque al definirsi di un campo preciso in cui collocarsi, in cui leggere possibilità e spazi in cui una soggettività che mette in campo delle rigidità si sta strutturando in una vera e propria lotta per la vita, maturando una coscienza non scontata che va maneggiata con cura per non farla incontrare con i limiti del purismo.
La guerra apre all’aggressione sui territori e alla ridefinizione di questi in base al loro grado di utilità nell’estrazione di valore per la messa a profitto. Negli ultimi decenni abbiamo visto come la lotta per la difesa di un territorio contro una grande opera abbia portato alla crescita e allo sviluppo di un movimento tra i più longevi della nostra penisola. Oggi assistiamo alla ristrutturazione dei territori, in particolare al di fuori delle metropoli, nell’ottica di sancirne la disponibilità infinita per garantire la crescita e la produzione di energia, fondamentale per il riarmo e per l’innovazione tecnologica, utile anch’essa al riarmo. Queste faglie hanno aperto un terreno di iniziativa e rigidità soggettiva importante che non scende a patti con le pallide compensazioni ma anzi, riporta una forte anti-istituzionalità nelle situazioni in cui si trova ad agire. Ceto medio impoverito che si trova sacrificato in nome della difesa di una patria alla quale non si sente di dovere niente. Questo sentimento è coincidente con il rifiuto di una guerra, o più guerre, con il rifiuto di privilegiare la produzione e il “progresso” in nome dello sviluppo a scapito della conservazione e della tutela dei territori in cui si abita. La delusione della sinistra considerata lontana anni luce dalle reali esigenze, lo svuotamento tangibile della proposta democratica, la fine della credibilità delle destre populiste che non si discostano nemmeno di facciata dalle indicazioni dei signori della guerra e dai partiti che impongono lacrime e sangue dall’alto dello scranno europeo, completamente disconosciuti e additati come responsabili, sono l’hummus sul quale si possono innestare processi di attivazione.
Oggi, a fronte dell’accelerazione data dall’approvazione del Piano di Riarmo europeo, dalla politica estera di Trump, dalla guerra commerciale e dal rinnovato fallimento delle ipotesi conservatrici che coincidono con l’ormai esplicita e sfrontata scelta di campo delle politiche europeiste e cosiddette progressiste, si riapre uno spazio politico che sta venendo in prima istanza cavalcato da quelle forze politiche che più fanno lo sforzo di avvicinarsi alle istanze popolari, pensiamo alla compagine che rappresentano le forze cosiddette di “sinistra”, con sicuramente genuina volontà di praticare una possibilità di massa contro il riarmo e contro la guerra ma che scontano il limite insito di rappresentare un’alternativa politica che non ha la forza di essere credibile per la massa. Questo non significa che non siano da considerare significative le 100mila persone in piazza con Conte, coscienti dell’unico problema di quella piazza, ossia la chiamata di un partito che ha già tradito, ma vuol dire che occorre avere la capacità di allargare lo spazio e ricomporre su un piano generale tutte queste opzioni. Gli scioperi generali e la mobilitazione per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici e una, seppur parziale e ancora troppo limitata, disponibilità all’iniziativa dei sindacati come la FIOM e altri pezzi dei confederali, indicano un’altra strada che si apre in assenza di risposte ai lavoratori e lavoratrici che conoscono sin da ora quale sarà il loro destino. Nelle parole vuote della riconversione industriale verso il Green Deal e l’elettrico europeo si nasconde nemmeno troppo velatamente il semplice rimandare una crisi profondissima che non vedrà soluzioni intermedie né alcuna mediazione possibile.
Crepacci
Se sul piano sociale assistiamo ai primi promettenti, per quanto ristretti, cenni di mobilitazione, sul piano della politica istituzionale sono in corso di ridefinizione assetti e paradigmi. Si vanno strutturando nuovi campi che ridefiniscono quelli precedenti. In termini generali la fase precedente era rappresentata dai commentatori mainstream come uno scontro tra democrazie ed autoritarismi. Questa mistificazione ideologica è andata incontro ad una mutazione con il sorgere del trumpismo, oggi è ridefinita in una competizione tra liberali e la cosiddetta internazionale sovranista. Ma anche questa visione soffre di idealismo come possiamo ben vedere in questi giorni.
Sia il quadro liberale che quello sovranista sono molto meno solidi di quanto vengano rappresentati. I sovranisti finché hanno rappresentato una forza d’opposizione a livello globale hanno goduto dei benefici di presentarsi come qualcosa di nuovo e hanno potuto mostrare unità d’intenti su temi di “cultural war” come le migrazioni, la lotta contro il woke, i diritti LGBTQ+, la sicurezza percepita ecc.. Ma ora che governano in diversi paesi occidentali collocati differentemente all’interno delle catene del valore capitalistico questa unità non è più così scontata. L’equilibrismo e l’imbarazzo del governo Meloni rispetto a Trump ne è un’evidenza. Dall’altro lato il campo liberale, sconfitto quasi ovunque, ma ancora in grado di pesare nei processi politici, è in uno stato di confusione. Si possono intravedere almeno tre movimenti diversi: chi si copre a destra scimmiottando i programmi sovranisti nella speranza di evitare il sorpasso, chi vuole continuare il business as usual convinto che presto o tardi le trappole piazzate qui e là riusciranno a scardinare il trumpismo e chi momentaneamente cerca un timido rinnovamento appropriandosi opportunisticamente di battaglie e visioni dei movimenti sociali.
Se ci si attiene all’Europa più prosaicamente il punto di frattura politico del quadro istituzionale borghese oggi ci pare sia tra chi pensa che sia ancora fruttuoso, e che si debba ulteriormente ampliare, il rapporto di dipendenza con gli USA accettando la “cura da cavallo” trumpiana con qualche concessione e chi pensa che sia ora di guardare altrove, ad un ruolo dell’Europa un po’ più indipendente sul piano economico e politico con un riavvicinamento alla Cina ed una de-escalation con la Russia. I primi si immaginano una dinamica in cui l’Europa diventa una sorta di “Impero d’Oriente” (immaginiamo che il parallelo con l’antica Roma ecciti i think tank conservatori, ma in realtà ci offre anche una utile assonanza con la tendenza al declino egemonico imperiale rispetto all’idea di una transizione egemonica tra USA e Cina che è più che altro propaganda) subordinato agli interessi ed al mercato statunitense, ma con una sorta di “delega” nella difesa militare dei “confini”. I secondi invece ragionano sulla possibilità che sorga un nuovo ordine multipolare in cui la ridefinizione degli assetti internazionali apre nuove possibilità economiche e politiche. In mezzo vi è una strada lastricata di illusioni tra chi pensa che in questo contesto possa sorgere un qualche tipo di Europa politica e chi vorrebbe farne un vero e proprio polo imperialista autonomo. Pura propaganda.
Queste fratture hanno delle ricadute concrete anche sul teatrino politico italiano. Le manovre di avvicinamento tra Calenda e Meloni, il riposizionamento di Renzi, la collocazione del M5S, l’ennesima crisi d’identità dentro il PD: la versione all’italiana dei rimescolamenti dovuti al cambio di paradigma.
I posizionamenti di cui sopra sono in parte il riflesso di una borghesia, quella italiana, che si trova stretta tra la nuova politica economica statunitense e la forte integrazione nella catena del valore tedesca. Germania, Stati Uniti e Francia sono i principali paesi per esportazioni con circa un valore di 50 miliardi a testa. È evidente che in un clima di guerra economica i diversi interessi delle differenti filiere si inaspriscono.
Nessuna di queste visioni porta con sé un qualche tipo di ridefinizione dei rapporti sociali interni allo spazio europeo, ma mentre la prima ci conduce ad essere inevitabilmente un’appendice bellicista degli Stati Uniti con costi sociali, economici e politici enormi, la seconda può generare proficue e profonde contraddizioni che aprono spazi di possibilità per l’emersione di agende diverse da quella dominante. Non è la nostra tazza di tè, ma può darsi che dovremo dividere un pezzo di strada con chi si immagina uno sbocco multipolare alla crisi. Dovremo farlo senza la puzza sotto il naso, perché in questo brodo di coltura naviga anche un pezzo della “nostra parte” con cui se ci muoviamo bene, se riusciamo ad essere credibili e pragmatici possiamo condividere un orizzonte immaginativo differente.
Un’ennesima frattura nel campo storico neo-conservatore si dà con le élite del Big tech. Questi moderni baroni del comando capitalista si trovano ad appoggiare opportunisticamente alcune posizioni politiche sovraniste, costretti nel collo di bottiglia del dover scegliere fra la globalizzazione e le sue dinamiche e i suoi immaginari, e il doversi appoggiare alle dimensioni statali, in primis lo stato USA, per poter beneficiare del monopolio della forza, impossibilitati, per le dinamiche interne al loro sviluppo come corporation, a poter esprimere un livello di autonomia sul campo militare.
Le accelerazioni e le fratture geopolitiche nello scontro inter-capitalista aprono la strada ad una nuova corsa all’oro per il monopolio sull’uso e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Questo campo apre un orizzonte di riflessione nuovo per le soggettività militanti sulla tecnoscienza e il suo uso controinsurrezionale preventivo, che viene sviluppato dalle compagini statali per disinnescare le possibili fratture che muoverebbero ipoteticamente verso uno scontro di classe e la guerra civile come alternativa alla guerra intercapitalista. Il genocidio in corso a Gaza e la Resistenza Palestinese sono un monito terribile per il futuro delle forme di contrapposizione al sentiero verso la barbarie intrapreso dalla storia del capitalismo odierno. Un nuovo paradigma del potere si afferma reggendosi sull’uso tecnoscientifico reazionario, capace di piegare e trasformare la guerra al cosiddetto “terrorismo”, trasformandola in ancora di salvezza per il mantenimento delle “democrazie occidentali”. Cittadelle ultra tecnologiche in cui far vivere le élite capitaliste capaci di militarizzare l’intera società e i rapporti sociali per la produzione di merci e la mercificazione dell’umano, in cui la tecnologia e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale diventano l’olio lubrificante della macchina riproduttiva del dominio. Lo sviluppo di un sentiero nuovo, stretto fra un ipotetico neo-luddismo e un altrettanto ipotetico contro uso operaio delle macchine, si presenta sempre più chiaramente come precondizione per un riemergere delle masse iper-proletarie come attori e per la costruzione di una macro classe per sé, capace di esprimere una qualche forma di autonomia effettiva ed intraprendere il sentiero che conduce alla fuoriuscita dal sistema capitalista. Contro-sapere dei produttori, degli operai della fabbrica sociale, come pratica materialista contro la razionalità strumentale-calcolante industriale (Demichelis 2023), si intreccia alla possibilità e al pensiero creativo di parte per la creazione di ipotetiche, ma necessarie, nuove forme organizzative della classe. Più prosaicamente si potrebbe evidenziare quanto la critica globale al dual-use del sapere universitario, mossa dal movimento in solidarietà alla Resistenza Palestinese, sia intrecciata e consustanziale alla possibilità di pensare un nuovo corso organizzativo dell’iperproletariato. Di nuovo, come nella Comune, dal rifiuto dell’organizzazione del tempo e dei modi della produzione capitalista, sorgono le precondizioni per una proposta di contro-soggettivazione. Il programma di classe-parte trova spazio partendo dal rifiuto profondo dell’uso mercificante della capacità umana, dandosi come unica precondizione per l’affermarsi del contropotere.
Dorsali e depressioni
Risalire la corrente e stare nelle contraddizioni è la regola aurea, le dimensioni tratteggiate prima sono alcune di quelle più estese ed esplicite ma ne mancano sicuramente alcune che ritagliano i loro spazi di possibilità nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. A uno sguardo attento non possono mancare però i limiti di fronte ai quali non è opportuno chiudere un occhio facendo finta che non esistano ma nemmeno pensare che siano ostacoli insormontabili. Ci troviamo innanzitutto davanti a spinte che restringono il campo di agibilità, e non parliamo dei dispositivi statali che impongono nuove leggi e nuove misure di sanzionamento e disciplinamento, quanto più della tendenza all’autorappresentazione e alla automarginalizzazione delle dinamiche di movimento. La residualità di cui ci dobbiamo fare carico a livello generico e generale ha da un lato favorito la strada a movimenti per il “nuovismo”, tendenti alla purezza ideologica poco comprensibili per la massa proletaria e dall’altro, stigmatizzato ciò che ancora di buono c’è delle esperienze di autorganizzazione dal basso al di fuori delle sfere istituzionali. Non per buttare via il bambino con l’acqua sporca, ma occorre trovare le giuste rigidità per non rimanere inermi a fronte del dilagare di perdite di tempo. Il tema è quale sia il significato che diamo al conflitto e all’ambizione di incidere nella realtà. Sul piano oggettivo, i tentativi di accanimento da parte della controparte e il solco tracciato per esempio dal decreto sicurezza, impongono una seria riflessione che non lascia più spazio a chi avrebbe cercato una sponda di dialogo o di compromissione con le forze dell’ordine, questa fase ridefinisce e colloca ognuno al proprio posto. Ne possiamo quindi leggere un’opportunità per immaginare nuove possibilità laddove ci siano delle istanze reali che si fanno promotrici di esperienze di lotta, sgombrando il campo dall’autorappresentazione fine a se stessa. La barbarie capitalista si traduce in violenza orizzontale nella parte bassa della classe e questo pone gravi ostacoli alla ricomposizione sociale e di classe, imponendo divisioni e fratture, paura e odio. Su questo piano soltanto un lavoro di radicamento e internità può portare a risultati concreti senza mai dimenticare quando operare delle forzature e delle messe a verifica, per evitare di sonnecchiare nelle zone di comfort che ci autoproponiamo e risvegliarci assediati da una società nichilista e individualista in cui solo passaggi di rottura forti possono determinare un cambio di passo. La rottura avviene di per sé ma anche con un costante lavorio di fino che va messo in campo nelle militanze quotidiane all’interno dei contesti sociali. L’arma a doppio taglio messa in opera dal capitalismo si può disarticolare costruendo fiducia laddove la sfiducia dilaga, costruendo legami sociali autentici laddove dilaga l’opportunismo e la strumentalità, costruendo contesti di aggregazione genuini laddove dilaga il consumismo e la socialità mediata dalle sostanze. L’ultima dimensione che rappresenta un ostacolo alla ricomposizione e alla possibilità di contrapposizione è la dimensione dell’informazione e della comunicazione. Da un lato, l’informazione mercificata e servile alle dinamiche di potere apre le porte a nuove forme di informazione che strutturano una vera e propria realtà parallela nella quale è molto più semplice rifugiarsi in quanto elimina di partenza lo sforzo soggettivo che occorrerebbe fare per porsi nell’ottica di trasformazione e non di delega. Questo implica che sia sempre più difficile porsi come punto di riferimento nel magma comunicativo e che si scontino limiti di carattere materiale, di immaginario e di linguaggio; dall’altro lato, i rapporti sociali mediati dai social network e dalle strutture virtuali hanno effetti quasi immediati nella costruzione delle soggettività rendendo sempre più tortuoso il cammino per una possibilità di controsoggettivazione. Le relazioni sociali mediate da questi strumenti vengono completamente falsate da un mondo con nuovi codici, nuovi riferimenti, nuovi paradigmi che assumono un vero e proprio grado di realtà con conseguenze non indifferenti. La propaganda di guerra è un terreno esemplificativo: la normalizzazione sui quotidiani nazionali dell’emergenza e dell’allarmismo della guerra avviene a colpi di articoli su quanto gli italiani siano affascinati dai bunker antiatomici di ultima generazione, dai reel su instagram che spiegano come sopravvivere 72 ore con il kit dell’Unione Europea, sulla plasticità di un volantino che dà disposizioni su come agire in caso di attacco, di guerra o di cataclisma climatico. Ma ancora peggio è la retorica dell’unico nemico che l’Europa dovrebbe fronteggiare e che in tre anni di guerra in Ucraina ha portato a strutturare una narrazione completamente falsa atta soltanto a garantire l’egemonia statunitense che ora si ritorce contro tutti quelli che hanno pensato di valere ancora qualcosa nel gioco globale. E questo ha portato alla domanda sociale di altri riferimenti e alla ricerca di nuovi canali che, al momento, ci ha trovato completamente impreparati.
L’uso massiccio di reti di informazione sempre più chiuse e disciplinanti è trasversale nella società e ne fortifica e cementa i rapporti di produzione. Pratiche di rifiuto delle forme classiche del mass media sono subito ricondotte in nuovi circuiti di mercificazione e ulteriore chiusura a possibili contro-usi in senso operaio: la macchina informatizzandosi sempre di più diventa magica e incomprensibile, nonostante i meccanismi di incorporazione del lavoro vivo che la determinano siano, nel profondo, gli stessi del passato. Informazione del governo e del dominio dei rapporti di produzione, gli accadimenti e i fatti dello scorrere della società umana sono intrecciati in un meccanismo mercificante digitale delle personalità, fondendosi insieme. La spinta delle individualità all’autovalorizzazione viene indirizzata verso forme di rappresentazione mediate dal digitale (nella sua forma più estesa) mercificando, instupidendo, plasmando le soggettività. Per questo praticare oggi questo terreno in maniera antagonista ci sembra sempre più essenziale, perché è capace di incidere nel profondo. Fuori da qualsiasi dimensione velleitaria ci sembra importante incominciare contro-percorsi nuovi su questo piano, partendo anche dalle militanze, dalle nostre contraddizioni ed esplorando possibili forme di rifiuto tramutabili, anche in nuovi mezzi. Si aprono domande essenziali: è possibile un contro uso collettivo se questo non è anche la somma di forme di rifiuto e sottrazioni individuali dalle reti? Quanto del dibattito e della formazione delle soggettività militanti è plasmato e disciplinato dagli stessi meccanismi che costruiscono nella sfera dell’informazione le catene per il resto degli individui? Quali sono le funzioni di questo tipo di infosfera nel segno del controllo sociale? Nell’epoca dei dissing di movimento consumati su instagram, ci sembrano questioni sostanziali.
Rompere gli indugi
In conclusione, a fronte del complesso panorama all’interno del quale navighiamo, proviamo a chiarificare un orizzonte al quale tendere collettivamente. La prospettiva di iniziativa sul tema della guerra deve avere alcune caratteristiche che sono oggi dirimenti: deve porsi il problema di essere di massa offrendo una proposta nella quale tutti si possano riconoscere, deve porsi il problema delle condizioni oggettive in cui si muove e si ristruttura la controparte e, infine, indicare quest’ultima concretamente assumendo contestualmente l’esigenza di un immaginario/di una proposta/di un “sogno” di parte desiderabile. Come veniva descritto sopra, il partito della guerra è oggi una dimensione che assume confini sempre più larghi ma allo stesso tempo ben precisi, in quanto materialmente in questa fase le istituzioni politiche si trovano costrette a posizionarsi a favore o contro il riarmo della società. Il fantoccio di una comunità di intenti e di ideali di un’Unione Europea che sta insieme soltanto per debolezza insita in un progetto vuoto è lampante. Allo stesso tempo i partiti nostrani sono in grado di dire tutto e il contrario di tutto, di schierarsi come bandiere al vento da un lato e poi dall’altro, finendo di perdere anche quel briciolo di credibilità che l’opzione Meloni ha rappresentato per una parentesi brevissima. Lo spazio politico che si apre oggi è dunque un’occasione che non va sprecata.
La proposta deve tratteggiarsi a partire dalla necessità di ricomporre in una dimensione larga tutti e tutte coloro che oggi non accettano una società in guerra, indipendentemente dal livello di analisi geopolitica o dal grado di purezza ideologica, dobbiamo essere in grado di riconoscerci in un contesto comune, ossia quello che vuole interrompere la dinamica di riarmo e militarizzazione della società perché non ci si vuole sacrificare né per Trump né per Von Der Leyen. La guerra oggi ha molte facce: la guerra quotidiana alle donne, la guerra alle soggettività in formazione, la guerra ai territori che vengono votati al sacrificio energetico, la guerra ai lavoratori e lavoratrici, la guerra a chi sta venendo additato come soggetto “deviante”. L’uso di categorie tipiche di metà ottocento per costruire il nemico interno – il nero stupratore, il maghrebino rapinatore, il giovane criminale (di strada e dei movimenti) – viene sostanziato dalla moltiplicazione e accelerazione delle norme: il decreto sicurezza, il decreto Caivano, i tentativi di associazione a delinquere ai movimenti sociali e ai sindacati di base, le misure come la sorveglianza speciale, l’avviso orale, il foglio di via, il daspo urbano. Ciò dimostra l’oliatura della cinghia di trasmissione tra retorica della sicurezza e preparazione di un terreno disponibile ad entrare in guerra. Perché, nonostante il raffinato sviluppo della tecnologia di guerra, le guerre vanno fatte con gli eserciti. Eserciti di ricercatori precari pronti a produrre l’arma più intelligente, eserciti di giovani atomizzati pronti ad accoltellare il coetaneo per un litigio, eserciti di uomini pronti a uccidere le mogli, le madri, le compagne di classe perché non sufficientemente sottomesse.
Se non si coglie il nesso profondo dell’esigenza del capitale, in crisi, di ristrutturazione della società affinché sia pronta alla guerra e l’occasione che si apre, data dall’adesione a un’ipotesi che non è reazionaria, ma anzi di segno opposto, sempre più trasversale nella società, non saremo in grado di fare una scommessa all’altezza. Al di là degli ideali, occorre rendere immaginario comune il programma implicito della composizione e assistiamo, molto spesso senza la capacità di esserci, a un proliferare di attivazioni dal basso, spurie magari confuse che esprimono rigidità, che possono fare la differenza. Questo perchè a mobilitarsi contro le molteplici sfumature con cui si articola la guerra nelle dimensioni della vita produttiva e riproduttiva a livello generale ci sono persone che sono disponibili ad aderire a un’opzione autonoma, popolare, radicale nel senso più profondo del termine. La radicalità che va colta e amplificata è la capacità di mettere a critica il sistema capitalistico a partire dai livelli bassi e, al contempo, il bisogno di saldare un ragionamento complessivo che abbia la forza di mettere in discussione i livelli alti. La potenza che rappresenta questa opportunità è ciò che può permettere un salto di qualità che tenda alla mobilitazione di massa.
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