Presentazione
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24/07/2025
Il parlamento israeliano dichiara l’annessione della Cisgiordania
“La terra di Israele appartiene al popolo di Israele”, ha dichiarato il Presidente della Knesset Amir Ohana dopo il voto, aggiungendo che “gli ebrei non possono essere gli occupanti” della loro patria ancestrale.
La proposta, presentata dal parlamentare sionista religioso Simcha Rothman, tra gli altri politici, è stata approvata con 71 voti favorevoli e 13 contrari.
In dettaglio, l’iniziativa descrive la Giudea, la Samaria e la Valle del Giordano come “parte inscindibile della patria storica del popolo ebraico” e chiede l’applicazione della sovranità israeliana a queste aree.
“Questa misura chiarirebbe al mondo che Israele non accetterà soluzioni che implichino pericolose concessioni territoriali e che è impegnato a garantire il suo futuro di Stato ebraico sicuro”, afferma la proposta.
Secondo Middle East Monitor, questo voto è considerato parte di un più ampio sforzo della destra israeliana per promuovere la graduale annessione del territorio palestinese.
Fa seguito a un precedente voto della Knesset che ha respinto a larga maggioranza la creazione di uno Stato palestinese.
Il rifiuto della Palestina
Da parte sua, il Ministero degli Affari Esteri e degli Espatriati palestinese ha respinto tutte le richieste di annessione della Cisgiordania.
In una dichiarazione, il Ministero ha sottolineato che queste misure “coloniali” rafforzano un sistema di apartheid nel territorio palestinese e riflettono un palese “disprezzo” per le risoluzioni delle Nazioni Unite e il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia.
Ha inoltre avvertito che la parte israeliana continua a espandere gli insediamenti coloniali e ad approfondire l’annessione giorno dopo giorno.
Fonte
La diplomazia medica di Iran e Cuba in Africa
Bisogna premettere che ogni volta che si affrontano questioni riguardanti la diplomazia sanitaria, che si delinei in relazioni bilaterali o nella mediazione che avviene dentro le stanze di organismi multilaterali, non bisogna scordarsi che si parla pur sempre di diplomazia: la centralità è da riconoscere a fini di politica estera, perseguiti sul terreno sanitario come potrebbero essere perseguiti su altri terreni.
Consapevoli di questo, non bisogna però guardare con cinismo ad aiuti e sostegni offerti nel campo della salute, ma semmai alla funzione che questo tipo di iniziative assumono nella strategia dei suoi promotori. Se prendiamo USAID, esso era un programma per la proiezione della potenza egemonica statunitense e, di conseguenza, per il rafforzamento delle sue catene imperialistiche.
L’impegno internazionale per il miglioramento delle condizioni sanitarie può essere invece anche usato per emancipare i popoli e renderli più forti contro il neocolonialismo. Nell’articolo che riportiamo qui sotto, viene citata una missione medica cubana in Algeria nel 1963, ma negli stessi anni anche la Cina si sarebbe impegnata in iniziative simili in Africa, per far crescere il cosiddetto ‘Terzo Mondo’.
Il triangolo di diplomazia medica di cui qui si discute, quello tra Iran, Cuba e l’Africa, ha l’evidente scopo di far crescere la ‘resilienza’ – scusate la parola – del ‘Sud Globale’, e allargare così le faglie aperte dall’emergere del mondo multipolare sull’oppressione imperialistica occidentale. Ha insomma un valore strategicamente positivo, al di là di qualsiasi opinione che si possa avere degli attori in campo.
C’è però anche da specificare un nodo di fondo rispetto alle forme dell’impegno internazionale che sono delineate nell’articolo. Infatti, nel testo vengono alla fine sottolineate delle criticità riguardanti, ad esempio, le missioni mediche cubane, che finirebbero per tappare un buco piuttosto che rafforzare “i sistemi sanitari autoctoni”.
Per quanto questo possa risultare come un effetto possibile, il problema di fondo è che tali mancanze non potrebbero in alcun modo essere affrontate senza rimuovere le ragioni del sottosviluppo, cioè ottenendo l’emancipazione dalle pressioni occidentali. Stiamo parlando di un tema che si ripresenta uguale da decenni.
Sin dalle origini dell’OMS, ad esempio, si è sviluppato un dibattito su cosa la cosiddetta “technical assistance” dovrebbe essere. Ha vinto sin da subito la visione statunitense, per cui l’assistenza deve costituirsi come trasferimento del know-how, formazione di specialisti, al massimo qualche fornitura di beni strumentali, senza mai però intaccare le ragioni di fondo del sottosviluppo economico e sociale.
A ciò si è accompagnato un approccio verticale di azione, mirato a intervenire su singole questioni piuttosto che a un miglioramento delle condizioni di salute generali. Il risultato sono stati una serie di interventi verticali di cui l’importanza è epocale (basti pensare al piano di eradicazione del vaiolo, promosso dal virologo sovietico Zhdanov), ma che alle fondamenta ci siano alcune tare non deve essere nascosto.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, questo tipo di approccio venne criticato proprio dall’Unione Sovietica, perché di fronte a paesi distrutti e senza risorse, una tale forma di assistenza non avrebbe permesso nessun miglioramento autonomo, e avrebbe semplicemente aperto un nuovo mercato all’industria statunitense (scopo che Washington non nascose mai).
Per l’idea ambiziosa di assistenza che aveva in mente Mosca, però, servivano risorse ingenti, di cui l’OMS non disponeva e che nemmeno i sovietici in quel momento potevano permettersi di spendere. Un modello rivoluzionario fu quello della Primary Health Care, promossa dal Direttore Generale dell’OMS Halfdan Mahler negli anni Settanta.
Questo nuovo tipo di intervento si fondava proprio sul miglioramento dei servizi sanitari di base, venne sancito in una conferenza tenuta in territorio sovietico e si nutrì di alcune esperienze della Cina comunista, come quella dei barefoot doctors. Ma anche in questo caso esso venne fortemente ridimensionato dall’azione congiunta del governo statunitense e della Fondazione Rockefeller.
Con questa breve disamina storica si voleva mettere in evidenza come i nodi sulle criticità riguardanti l’assistenza sanitaria che emergono nell’articolo non sono una questione nuova a chi si occupa di politiche sanitarie. C’è da decenni una tensione di fondo, che potrebbe essere risolta solo da un tipo di assistenza che richiederebbe ingenti risorse per essere messa in campo. Iran e Cuba questa forza non ce l’hanno.
Allo stesso tempo, non deve essere oscurato il ruolo comunque emancipatorio di altre iniziative, nonostante le tare che si portano dietro. E inoltre, nel testo viene fatto riferimento alla costruzione di ospedali e alla produzione in loco di vaccini: queste sono attività che, invece, svolgono precisamente quella funzione di rafforzamento dei sistemi sanitari autoctoni, che in prospettiva può tradursi anche in maggiori possibilità di emancipazione dalle catene imperialistiche.
Un ultimo appunto va fatto, proprio sui vaccini. Nell’articolo si cita Soberana, e in generale l’industria biotecnologica cubana. Va fatto presente che quando L’Avana decise di produrre i propri vaccini, fece una scelta di fondo sui metodi di produzione, così che non ci fosse alcun bisogno della ormai famosa ‘catena del freddo’ e che la somministrazione fosse più semplice.
Ciò liberava la distribuzione dei vaccini cubani da enormi pesi logistici, permettendo anche a paesi più poveri – privi delle tecnologie e delle competenze necessarie per gestire i vaccini occidentali – di poter programmare una propria campagna vaccinale. Una scelta di questo tipo ha un legame fondamentale con il tema della ‘non neutralità della scienza’.
Forse Cuba non ha le risorse per permettere ad altri paesi del Sud Globale di sviluppare una propria filiera biotecnologica autonoma, e la sua azione si deve quindi ridurre alla fornitura di medici e strumenti. Ma scelte di questo tipo hanno ugualmente quell’impatto liberatorio che spesso le forme dell’assistenza tecnica in campo sanitario oggi non riescono ad avere.
E il motivo di fondo per cui ce l’hanno è perché la dirigenza cubana non si nasconde il fatto che nella scienza non esistono scelte tecniche, come invece succede alle nostre latitudini. Ogni opzione tecnica è legata a un quadro interpretativo, infrastrutturale e di concezione dello sviluppo fortemente segnato dalle forme delle relazioni sociali e politiche in cui si vive.
La scienza non è neutrale, e i comunisti devono riappropriarsene nella battaglia per l’abbattimento dello stato di cose presente.
Negli ultimi anni, si sta rafforzando una forma sempre più visibile di diplomazia sanitaria Sud‑Sud, in cui Paesi emergenti come l’Iran e Cuba stanno sviluppando alleanze dirette con altri Stati del Sud globale. Puntano su formazione, trasferimento tecnologico e produzione locale di vaccini e apparecchiature mediche, bypassando in parte le tradizionali rotte Nord‑Sud.
In particolare, si sta delineando un possibile triangolo di cooperazione Iran-Cuba-Africa: un’alleanza in costruzione, che intreccia il know-how cubano nell’invio di personale medico, l’infrastruttura scientifica iraniana e la crescente domanda africana di cooperazione sanitaria sostenibile e indipendente dai canali occidentali. Tale convergenza non solo mira a colmare lacune strutturali nei sistemi sanitari locali, ma riflette anche una visione alternativa dell’assistenza globale, più orizzontale e meno condizionata da vincoli geopolitici imposti dalle grandi potenze.
Iran: dalla WHA di Ginevra alla rete con Cuba, Armenia e Africa
Nel settembre 2023, l’Iran aveva annunciato la creazione di gruppi di cooperazione sanitaria con Paesi dell’Africa e dell’America Latina, nel contesto del già esistente G5+ (Iran, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Tajikistan e Oms).
Nel maggio‑giugno 2024, nel corso dell’77ᵃ Assemblea Mondiale della Sanità a Ginevra, il Ministro della Salute iraniano Bahram Einollahi ha incontrato i suoi omologhi di Cuba, Armenia e Zimbabwe per discutere di cooperazione in campo medico e tecnologico, anche sulla base del successo della produzione congiunta del vaccino Soberana durante la pandemia Covid‑19.
Ad aprile 2025, secondo media iraniani, durante un vertice a Teheran dedicato all’Africa, un alto funzionario sanitario ha illustrato l’intenzione di rafforzare le collaborazioni in ambiti come produzione farmaceutica, ricerca, infrastrutture sanitarie, formazione e telemedicina. In quell’occasione, l’Iran ha invitato esperti africani a stabilire rapporti con università e imprese sanitarie iraniane.
La relazione con Cuba è definita “strategica” e si fonda su una solida solidarietà politica, alimentata da commissioni congiunte e da cooperazioni settoriali in ambito vaccinale, formativo e tecnologico.
Cuba e la tradizione consolidata di cooperazione sanitaria globale
Cuba rappresenta un esempio emblematico di medical diplomacy. Dal primo contingente inviato in Algeria nel 1963 ad oggi, diverse generazioni di medici e infermieri cubani sono stati schierati in risposta a emergenze sanitarie (terremoti, epidemie, etc...) o nell’ambito di accordi bilaterali con Paesi del Sud che necessitano di personale medico.
Durante la crisi Ebola in Africa occidentale del 2014, Cuba inviò circa 465 operatori sanitari quali medici, epidemiologi e chirurghi in Sierra Leone, Guinea e Liberia, risultando il contributore più consistente rispetto ad altri Stati.
Nel corso degli anni, oltre 50.000 operatori sanitari cubani hanno operato in decine di Paesi come Brasile, Venezuela, Zimbabwe, Kenia, Sudafrica, Timor Est, contribuendo alla capillarità dell’assistenza sanitaria in zone rurali o svantaggiate e potenziando università mediche locali.
Iran e Africa, una cooperazione sanitaria in espansione
Negli ultimi due anni, l’Africa è diventata un asse centrale della strategia sanitaria estera dell’Iran. Durante il Vertice Iran-Africa dell’aprile 2025 a Teheran, il Ministro della Salute iraniano ha evidenziato l’impegno a espandere le collaborazioni nei settori di produzione farmaceutica, costruzione di ospedali, formazione di medici e specialisti, e telemedicina. L’obiettivo dichiarato è duplice. Contribuire al miglioramento della salute pubblica nei paesi partner e promuovere l’industria biomedica iraniana come leva diplomatica e commerciale.
Il governo iraniano ha anche invitato delegazioni africane a visitare centri di eccellenza e università mediche, sottolineando la disponibilità a trasferire tecnologie e offrire borse di studio per la formazione avanzata. In cambio, cerca partenariati stabili che possano aprire nuovi mercati per le sue imprese farmaceutiche pubbliche e private.
Non è un caso che l’Iran stia cercando alleanze sanitarie bilaterali con Paesi come Zimbabwe, Senegal e Nigeria, alcuni dei quali già collaborano con Cuba in programmi di assistenza medica. Questo crea un possibile triangolo di cooperazione Iran-Cuba-Africa, che da una parte vede il know-how cubano in interventi umanitari, dall’altra l’infrastruttura scientifica e produttiva dell’Iran.
Queste alleanze rispondono anche alla crescente esigenza dei Paesi africani di diversificare i propri partner sanitari, dopo le criticità emerse durante la pandemia di Covid-19, quando molti Stati africani furono lasciati ai margini della distribuzione di vaccini da parte dei produttori occidentali.
Sostenibilità e criticità delle modalità di cooperazione Sud‑Sud
Le iniziative di Iran e Cuba condividono un approccio ibrido, che unisce solidarietà e strategia geopolitica. Da un lato, il miglioramento dell’accesso alle cure, la formazione di personale locale e il rafforzamento dei sistemi sanitari. Dall’altro, l’utilizzo della cooperazione sanitaria come leva diplomatica verso Paesi politicamente sensibili o distanti dagli equilibri imposti da Washington e Bruxelles.
Studi recenti indicano che le missioni cubane sono spesso rivolte a Stati con gravi carenze di personale medico, con disuguaglianze territoriali marcate o colpiti da emergenze sanitarie, specialmente nei Paesi a basso reddito che faticano a trattenere i propri operatori.
Tuttavia, emergono anche delle criticità. Ad esempio, le condizioni lavorative dei medici cubani all’estero, le tensioni con gli ordini professionali locali come in Brasile o Sudafrica, e il rischio che queste missioni sostituiscano, piuttosto che rafforzare, i sistemi sanitari autoctoni.
La cooperazione sanitaria Sud‑Sud, pur avendo nell’asse Iran-Cuba-Africa uno dei suoi sviluppi più visibili, non si esaurisce in questi attori. Paesi come India e Cina stanno investendo da anni in progetti sanitari in Africa, Asia e America Latina in forniture di vaccini come Covaxin e Sinopharm, costruzione di ospedali e programmi di formazione specialistica. Questo contribuisce a delineare un ecosistema multilaterale in espansione, dove le collaborazioni tra Paesi del Sud del Mondo cercano di ridefinire le regole del gioco della salute globale.
Questo slancio verso l’Africa avviene inoltre in un contesto delicato per l’Iran. Le recenti tensioni militari con Israele, culminate anche in attacchi a infrastrutture sanitarie e nella parziale militarizzazione del personale medico, sollevano interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine dei progetti di cooperazione e sulla reale capacità di Teheran di coniugare ambizioni internazionali e resilienza interna nel settore sanitario.
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Modello Milano: si chiama "capitalismo"
È ora, davvero, di "semplificare": non l'urbanistica, ma il dibattito politico e culturale. Il cosiddetto "modello Milano", strombazzato da destra e da manca e a destra e a manca da un paio di decenni in qua, è un modello fondato sulla rendita immobiliare e finanziaria, sul mantra assoluto della "attrazione di capitali", sulla deregolamentazione impudente, sulla trasformazione delle città in dispositivi spietati della produzione di ricchezza per pochi (i soliti ricchi, e gli arricchiti sulla base del suddetto modello), sulla espulsione violenta dei ceti popolari e dei ceti medi dai centri storici e dai quartieri vivibili. In breve, sulla distruzione della civiltà urbana – ingrediente non secondario della tanto strombazzata "identità italiana".
Questo modello ha egemonizzato, ben oltre Milano, la visione e l'amministrazione di tutte le principali città italiane, saldandosi con il suo modello gemello, quello basato sulla turisticizzazione forzata delle città d'arte, dei borghi gentrificabili e di tutto il territorio rapinabile. La questione non è morale, è politica ed economico-politica, e si chiama capitalismo (neoliberale), un nome che è scomparso dal lessico della sinistra ufficiale: o ricompare, o la sinistra ufficiale continuerà a essere un niente.
Aggiunta non marginale. C'è stato un tempo, anni '60 e '70, in cui l'urbanistica era una disciplina progressista, e in versione riformista o rivoluzionaria lavorava a fianco della sinistra, riformista e rivoluzionaria. La sparizione dell'urbanistica prima, e poi la sua trasformazione in alleata del sistema della rendita immobiliare e finanziaria, è un pezzo non secondario della storia culturale dell'Italia dell’ultimo secolo. Bisogna ricostruire l'alleanza fra una politica e un'urbanistica riformatrici, se non rivoluzionarie. E oltre Milano, bisogna guardare a New York. Dove lo stesso modello drogato di crescita verticale, produzione di ricchezza stratosferica per pochi ed espulsione di massa degli abitanti sta già arrivando al capolinea. Qualcuno se n'è accorto, si chiama Zohran Mamdani e a 33 anni, invocando il ritorno a una città vivibile e accessibile, ha sbaragliato Cuomo alle primarie dem. Non c'è solo Trump nel nostro futuro.
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23/07/2025
L’attacco dialettico dei giganti
di Luca Cangianti
L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.
Uno spoiler titanico
Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano degli zombie in formato ciclopico. Nei documenti storici non c’è traccia della causa che ha portato alla loro apparizione; divorano solo gli esseri umani, ma non disponendo di un apparato digerente li rigurgitano; non respirano, non soffrono la fame né la sete, non hanno organi sessuali e se privati di un arto lo rigenerano. Hanno bisogno solo di luce e il loro punto debole si trova dietro il collo.
L’incidente scatenante avviene quando due giganti, il Colossale e il Corazzato, aprono una breccia nelle mura: i mostri dilagano causando morte e distruzione. Eren Jaeger, l’eroe, assiste impotente alla morte della madre. Giura vendetta e, insieme ai suoi amici Armin e Mikasa, si unisce al Corpo di Ricerca, il cui scopo è scoprire l’origine e la natura dei giganti. I suoi militi, tenaci e indomiti, sono gli unici a uscire dalle mura. Sono rivoluzionari e sognatori: in una società chiusa e dominata dalla paura, rappresentano la speranza di un mondo migliore, il coraggio di andare oltre i limiti, praticamente e metaforicamente. Il loro motto è: «Offriamo i nostri cuori!»
Nel corso degli eventi Eren scopre di avere la capacità di trasformarsi egli stesso in gigante, pur conservando la sua coscienza umana. Inizia così una lunga guerra, non solo per sconfiggere i giganti, ma anche per svelare molti misteri. Si scopre che i giganti sono esseri umani trasformati e che il vero nemico è il mondo esterno alle mura – in particolare la nazione di Marley, che da secoli opprime gli eldiani, gli unici esseri umani capaci di trasformarsi in giganti. L’isola di Paradis altro non è che l’ultimo rifugio di questo popolo dopo la caduta dell’impero di Eldia. Gli abitanti della città fortificata pensavano di combattere contro i mostri e adesso scoprono che i mostri sono loro, o almeno che il mondo li considera tali.
Ereditando i ricordi del padre, Eren scopre l’origine dei nove giganti primordiali, la storia del popolo di Ymir, cioè Eldia, e i conflitti tra questa e Marley. Eren decide allora di distruggere il mondo per garantire la sopravvivenza del suo popolo. Alleatosi temporaneamente con il fratellastro Zeke Jaeger, s’impossessa del potere della Fondatrice Ymir che permette il controllo assoluto su tutti i giganti. Infine scatena il Boato della Terra che consiste nella liberazione di milioni di giganti colossali imprigionati nelle mura di Paradis. Questi si mettono in marcia per sterminare l’umanità fuori dall’isola.
Quando Mikasa e Armin scoprono gli intenti di Eren, si ribellano al suo piano e formano un’alleanza con alcuni ex avversari, uniti da un obiettivo comune: fermare Eren e salvare l’umanità. Quest’ultimo nel frattempo si è trasformato in un mega-mostro osseo. Durante lo scontro finale, Armin colpisce la bestia con il potere del Colossale, mentre Mikasa penetra all’interno della struttura titanica per cercare il corpo umano di Eren. Lo trova in stato semicosciente, con un’espressione di pace sul volto. Mikasa, da sempre legata a Eren da un amore tragico e sconfinato, si trova di fronte alla scelta più difficile: salvare il mondo oppure l’uomo che ama. Gli taglia la testa e lo bacia (esattamente in quest’ordine). In una realtà alternativa mostrata nei capitoli finali, Eren rivela a Mikasa di aver voluto essere fermato da lei. Sapeva di essere oltre ogni redenzione, ma desiderava che fosse Mikasa a chiudere il cerchio. Il potere dei giganti scompare e l’umanità, pur se ridotta a un misero venti per cento, sopravvive. Ciò nonostante la tensione tra Paradis e le altre nazioni rimane.
La negazione determinata
L’attacco dei giganti è una narrazione di scontro, di guerra, di svolte, di rivelazioni e di paradossi, ma i termini che si oppongono e cozzano non sono estrinseci. Essi si strutturano secondo uno schema prossimo alla negazione determinata di Hegel. Come il filosofo spiega nella Scienza della logica «L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico […] è la conoscenza […] che il negativo è insieme anche il positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata. […] Codesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente […] ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto.»1
Facciamo un esempio: nel confliggere frontale di due figure sociali (negazione astratta), una potrebbe esser pronta a sottomettersi all’altra per salvare la propria vita (negazione di sé). Si genera così la relazione tra servo e signore descritta nella Fenomenologia dello spirito.2 Hegel dice che il lato dominato di questo rapporto è costretto a lavorare per quello dominante, ma in questo modo apprende a plasmare gli oggetti e il mondo, dunque acquisisce potere e coscienza di sé (negazione determinata), mentre il signore si limita a fruire immediatamente dei prodotti creati dal servo. Quest’ultimo grazie al lavoro nega sé stesso come pura passività e trasforma tale negazione in un momento positivo: si forma nel lavoro e si riconosce come soggetto più libero e cosciente del signore. La negazione determinata non comporta distruzione, ma trasformazione e conservazione di un contenuto in un nuovo contesto più avanzato.
Le contraddizioni dei giganti
Riassumiamo ora i conflitti principali dell’Attacco dei giganti.
1) I giganti sono nemici degli umani rinchiusi in Paradis, ma poi si
rivela che anche quest’ultimi possono trasformarsi in giganti.
L’alterità nemica è quindi interiorizzata e il conflitto si sposta fuori
le mura.
2) Le mura proteggono l’umanità dai giganti, ma la loro
capacità di resistenza è dovuta al potere d’indurimento dei giganti che
sono intrappolati all’interno delle fortificazioni stesse.
3) Eren e
Armin sognano il mare e la libertà oltre le mura e i giganti, ma
scopriranno che al di là dell’oceano c’è Marley che vuole sterminare gli
abitanti di Paradis considerandoli mostri. È da Marley infatti che
provengono i giganti che assediano Paradis. Essi altro non sono che
parte della popolazione eldiana trasformata forzosamente.
4) Eren è
l’eroe che sogna un mondo migliore, ma si trasforma nel distruttore
della Terra.
5) Sempre lui dichiara: «Io sono uno schiavo della
libertà!». Vuole andare oltre le mura, conoscere il mondo, essere libero
di scegliere, ma quando accede ai ricordi del futuro del Gigante
Fondatore si rende conto che le sue azioni erano già state previste. È
lui che ha mostrato al padre gli eventi a venire per costringerlo a
compiere determinate azioni.
6) Mikasa ama Eren, ma lo uccide: la
ragazza compie l’impresa dell’eroe Eren sconfiggendo l’antagonista Eren e
la sua dialettica priva di sintesi – il Boato della Terra.
L’amore di Mikasa
«Il primo momento nell’amore», sostiene Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, «è che io non voglio essere una persona autonoma per me e che, se lo fossi, mi sentirei manchevole e incompleto. Il secondo momento è che io acquisto me in un’altra persona, che io valgo in lei ciò che a sua volta essa consegue in me. L’amore è pertanto la contraddizione più prodigiosa, che l’intelletto non può sciogliere, giacché non vi è nulla di più arduo di questo carattere puntiforme dell’autocoscienza, che viene negato e che io pur tuttavia devo avere come affermativo.»3 Il primo momento è simbolizzato da Mikasa che non si separa mai dalla sciarpa regalatale da Eren; il secondo dalle caratteristiche di Eren che attraggono Mikasa: lo spirito combattivo, il desiderio di giustizia e di libertà. Il motto ricorrente dell’eroe è infatti: «Combatti, devi combattere!» Nel momento in cui questi stessi elementi rischiano di provocare la distruzione, Mikasa compie il più grande atto di amore. Uccide il suo amato per conservarne le aspirazioni. Gli taglia la testa e, dopo un bacio che toglie il fiato, la trattiene in grembo. In questo modo, prossemicamente, Mikasa nega, ma conserva Eren e ciò che egli simbolizza. Dando la morte, Mikasa è la vita che trionfa sulla morte, la dialettica allo stato puro, lancinante, eroica, struggente. Per questo non si può che amare Mikasa.
L’antagonista come motore della storia
Jean Hyppolite afferma che nella Fenomenologia dello spirito «la dialettica producentesi nell’esteriorità si traspone all’interno dell’autocoscienza stessa». In questo modo «la dualità delle autocoscienze viventi diviene la duplicazione dell’autocoscienza all’interno di sé. L’indipendenza del signore e la severa educazione del servo divengono la padronanza-di-sé dello stoico – sempre libero quali che siano le circostanze o i casi della sorte – o l’esperienza della libertà assoluta dello scettico, il quale dissolve ogni posizione diversa da quella dell’io stesso.»4 E così come Alexandre Kojève ricorda che la negazione dell’Altro in Hegel non è assoluta, ma sempre determinata,5 noi possiamo affermare che il gigante rappresenta la negazione determinata di Eren e che, più in generale in narratologia, l’antagonista nega determinatamente l’eroe. Questo infatti riesce a compiere il proprio viaggio6 grazie alla lotta con l’antagonista così come il servo progredisce spiritualmente in virtù del conflitto con il signore, che funge da catalizzatore. Il nemico, l’antagonista, non è mera opposizione esterna, ma momento interno del processo dialettico che permette all’eroe di confliggere, negarsi e autogenerarsi in una nuova superiore identità. Non si sconfigge il nemico annientandolo, ma passandoci attraverso, interiorizzandolo come negativo.
Marx affermava che «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia». Noi possiamo aggiungere che senza «questo inconveniente della società»7 non ci sarebbe stato né incidente scatenante né conflitto. Saremmo rimasti a casa, non avremmo intrapreso viaggio alcuno e di conseguenza non ci saremmo evoluti. Nessuna storia sarebbe stata scritta o raccontata; non ci saremmo innamorati di Mikasa, non saremmo morti e non continueremmo a vivere in lei.
Note1) G.W.F. Hegel, Scienza della logica, vol. I, Laterza, 1988, p. 36.
2) Cfr. id., Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1988, pp. 159-164.
3) Id. Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Laterza, 1999, pp. 332-333.
4) Jean Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, 1989, p. 191.
5) Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996, p. 65.
6) Cfr. A. Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi, Mimesis 2020.
6) K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1993, pp. 78-79.
Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
di Gioacchino Toni
Antonio Santangelo, Alberto Sissa, Maurizio Borghi, Critica di ChatGPT, Prefazione di Juan Carlos De Martin, Postfazione di Marco Ricolfi, elèuthera, Milano 2025, pp. 160, € 15,00
Il nostro tentativo è di decostruire pezzo per pezzo le narrazioni troppo entusiastiche sul futuro che ci attende grazie a ChatGPT e all’intelligenza artificiale generativa nel suo complesso, mostrando quali sono le questioni più spinose che questi sistemi ci costringono ad affrontare oggi (p. 17).
Questa, in estrema sintesi, l’intenzione che ha mosso Antonio Santangelo, Alberto Sissa e Maurizio Borghi nella stesura del volume Critica di ChatGPT (elèuthera, 2025) «prendendo spunto dalle conversazioni tra una serie di studiosi ed esperti di IA generativa, all’interno della mailing list del Centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino, all’incirca dal febbraio del 2023 a oggi. Si tratta, dunque, di un lavoro che si basa sull’intelligenza collettiva di un gruppo di persone molto eterogeneo e interdisciplinare, che si occupa di intelligenza artificiale e desidera allo stesso tempo comprenderla e contribuire a realizzarla» (p. 12).
Come sintetizza Marco Ricolfi nella Postfazione del volume, questo «si compone di tre blocchi: uno fenomenologico (che cos’è Chatgpt), l’altro antropologico-politico (che impatto ha sulle nostre società), l’ultimo legal-istituzionale (quali sono i punti di crisi giuridici). Questi sono presentati con la tecnica della meta-narrazione e quindi attraverso un’esposizione polifonica delle diverse facce del dibattito in corso» (p. 141).
Una seria ed argomentata critica all’universo dell’intelligenza artificiale generativa non può che contribuire a far acquisire ai lettori una maggiore consapevolezza di come tale tecnologia venga realizzata e diffusa e di come potrebbe/dovrebbe esserlo. Insomma, se in un modo o nell’altro ci si trova a fare i conti con la presenza dell’intelligenza artificiale, che almeno si eserciti su di essa una qualche influenza critica sviluppata dalla reale conoscenza di ciò di cui si sta discutendo.
Le riflessioni proposte dal volume si trovano a confrontarsi con un dibattito che sembra ormai guardare all’intelligenza artificiale generativa in maniera polarizzata: una visione di impianto neoliberista che vede nella IA un portentoso strumento di empowerment individuale utile per accrescere la competitività ed una visione che vi individua un rafforzamento di ciò che già esiste, una sorta di aggiornamento dell’apparato socio-tecnico dominante indirizzato ad acuire ulteriormente disuguaglianze e forme di sfruttamento.
Che la si legga come rivoluzione o come evoluzione di un percorso che ha preso il via diverso tempo prima dell’avvento dell’intelligenza artificiale, secondo gli autori del libro è necessario domandarsi quali riflessi ha ed avrà questo cambiamento sugli esseri umani e sul Pianeta. Gli studiosi di questa trasformazione digitale tendono a tratteggiarla secondo quattro diverse modalità, «a seconda che essa, i suoi strumenti e il nostro modo di utilizzarli ci conducano, a loro modo di vedere, verso un avvenire individualistico, tribale, responsabile o inclusivo» (p. 137).
Nel primo caso si concepisce questa trasformazione tecnologica come inedita possibilità di realizzazione come individui all’interno di una società liberale destinata a farsi più florida e funzionale, «in cui ciascuno è responsabile per sé stesso ma non verso gli altri, dato che ognuno ha i mezzi informatici e le opportunità per mettere a frutto i propri talenti» (p. 137).
Nel secondo caso si guarda alla trasformazione digitale come ad un mezzo utile esclusivamente agli interessi di gruppi ristretti del tutto disinteressati di chi non ne fa parte, mentre, viceversa, nel terzo caso si guarda ad essa responsabilmente, auspicando che essa possa contribuire a risolvere i grandi problemi collettivi dell’umanità.
Nell’ultimo, infine, si concepisce la trasformazione «come un processo che, grazie ai suoi strumenti che ci consentono di superare i nostri bias e le nostre ideologie, ci conduce verso una migliore comprensione del punto di vista degli altri, verso l’incontro e l’armonizzazione con le loro prospettive, nella direzione di una società, per l’appunto, più inclusiva» (p. 138).
A partire da una riflessione circa la possibilità o meno di parlare di tali sistemi ricorrendo al termine intelligenza, anche alla luce delle “differenze di funzionamento” tra l’umano e l’artificiale, nel volume viene approfondito il particolare tipo di relazione che si sviluppa tra l’individuo e la macchina nella convinzione «che il contesto sociale nel quale queste tecnologie e il dibattito su di esse si sviluppano è fondamentale per determinare il loro significato e forse anche il loro futuro» (p. 48).
I sistemi di intelligenza artificiale così come si stanno evolvendo non possono essere disgiunti dal contesto culturale, socio-economico e politico in cui sono sorti e che li sta sviluppando, un contesto che si è riflesso e si riflette sui criteri di programmazione e di allenamento delle macchine che, da parte loro, tendono e tenderanno ad avvalorare. «Certi interessi si imprimono nella tecnologia, che deve essere valutata per come influenza la vita delle persone» (p. 87).
Nel libro vengono dunque affrontate le narrazioni relative all’intelligenza artificiale diffuse dai media e dalla pubblicistica scientifica al fine di evidenziarne le strutture retoriche e gli effetti di senso che ne derivano. Per quanto non si possa che guardare con sospetto a chi si prodiga con entusiasmo ad immaginare come queste tecnologie potrebbero migliorare la vita degli umani, non di meno, si sostiene nel libro, ci si può accontentare delle posizioni di chi, concentrandosi sul presente, si limita a mettere in luce le ingiustizie e gli errori che si stanno commettendo in nome di un progresso che resta ancorato all’interno di una logica di stampo capitalista. «In ogni caso, nessuno può eludere il problema politico sollevato dall’intelligenza artificiale, che in fondo è lo stesso che ogni società deve affrontare quando sviluppa una tecnologia che promette di radicarsi al suo interno, producendo effetti che devono essere governati» (p. 87).
Una volta affrontata l’intelligenza artificiale generativa per quello che è e per come impatta sulla società, gli autori del volume prendono in considerazione gli aspetti giuridici che la riguardano notando come all’insistenza con cui si denuncia il ritardo del diritto rispetto alle innovazioni tecnologiche, a maggior ragione se riguardano l’universo digitale, sembra accompagnarsi la tendenza a non voler prendere troppo in considerazione gli aspetti legislativi al fine di non intralciare “l’inevitabile sviluppo tecnologico” e ciò induce, di fatto, alla derubricazione dei reati confidando in una sorta di autoregolamentazione del settore.
L’intelligenza artificiale generativa e Chatgpt sono l’ultimo prodotto di un capitalismo estrattivo che, per operare a pieno regime, deve reclamare l’esperienza umana depositata in dati personali e opere creative come una “terra di nessuno” da occupare e sfruttare prima degli altri e il più in fretta possibile. Vale a dire: anticipando i tempi di reazione del diritto. Ma è anche [...] un prodotto che esaspera il conflitto tra i molti che forniscono la necessaria materia prima di questo processo estrattivo e i pochissimi che ne controllano i mezzi di estrazione del valore e beneficiano di tale rendita di posizione. Dal modo in cui le corti e le autorità garanti risolveranno questo conflitto si comprenderà, forse, se il diritto può ancora avere un ruolo nella costruzione del mondo in cui vogliamo vivere o se è definitivamente ridotto a un discorso obsoleto al traino della tecnologia e degli interessi dominanti (p. 125).
Se non si vuol lasciare che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, alla luce di quanto questa impatti sulle vite degli esseri umani, proceda in una sorta di far west in cui le aziende tecnologiche in competizione procedono senza scrupoli alla ricerca di profitto è urgente confrontarsi con quale tipo di regolazione possa/debba essere data alla IA.
Una regolamentazione dell’intelligenza artificiale non può prescindere dal confrontarsi con il problema della velocità con cui muta la tecnologia, con l’individuazione del soggetto deputato a normala e con il fatto che si ha a che fare con una pluralità di interessi. A proposito di questi ultimi, basti pensare agli interessi dei lavoratori che con il diffondersi della IA perdono salario e potere, quando non direttamente il lavoro oppure agli interessi chi, per ragioni di razza, di sesso ecc., si vede discriminato dall’operare di algoritmi pianificati con cinismo o con approssimazione. Come scrive Marco Ricolfi nella Postfazione del volume:
Si tratta di lavorare sull’omogeneità e sulla frammentazione di questi portatori di interessi. Quanto all’omogeneità, il digital slave eritreo ha moltissimo in comune con quello francese o italiano; l’agricoltore francese con quello sudafricano. Quanto alla frammentazione, si tratta di prendere atto del fatto che oggi manca una classe sociale generale, come era il proletariato nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, prima della fine della fabbrica fordista. Gli agricoltori non sono lavoratori dei servizi, la discriminazione algoritmica colpisce gruppi di soggetti anche molto diversi fra di loro (p. 145).
Per quanto sia fondamentale rilevare l’omogeneità degli interessi, come scrive Ricolfi, resta il problema politico di come trasformare la frammentazione in azione comune in assenza di un soggetto egemone che possa fungere da traino tenendo inoltre presente che, insieme alle forme con cui il capitale esercita il suo dominio sulla società, per usare le parole di Bifo, «sono cambiati in maniera radicale i modi di formazione della soggettività: per la generazione che ha imparato più parole da una macchina che da una voce umana l’accesso alla dimensione collettiva è divenuto impervio, disagevole. E per coloro che lavorano in condizioni di precarietà e distanziamento virtuale è sempre più difficile costruire solidarietà» (Franco Berardi “Bifo”, L’epoca in cui siamo entrati, «Il disertore», 7 maggio 2025) .
Trump ritira (di nuovo) gli USA dall’UNESCO
La prima volta era stata con Reagan, nel 1984, rimanendone fuori per vent’anni. La seconda volta è stata sempre col tycoon, durante il suo primo mandato, nel 2017. La decisione era poi entrata in vigore effettivamente alla fine del 2018. Biden aveva successivamente deciso di chiedere di nuovo l’ammissione, e gli Stati Uniti erano rientrati nell’UNESCO a malapena due anni fa.
A febbraio, Trump aveva ordinato una revisione della durata di 90 giorni per quanto riguardava la partecipazione di Washington alla rete dell’agenzia. La revisione si è conclusa e l’annuncio di lunedì è il risultato. E ci sono vari motivi che spingono Trump a ripetere quel che aveva già fatto qualche anno fa.
La prima causa riguarda il solido legame con Israele. Alla fine del 2018, insieme a Washington, anche Tel Aviv aveva lasciato l’UNESCO. L’organizzazione, anche di recente, ha lanciato dei moniti contro l’entità sionista che ha già provocato molti danni a patrimoni storici e culturali dell’umanità davvero inestimabili.
Ma soprattutto, assai problematica è stata la decisione – che l’UNESCO ha preso da tempo – di ammettere lo Stato di Palestina come membro a tutti gli effetti dell’agenzia (mentre all’ONU è semplicemente un osservatore permanente). Tammy Bruce ha detto esplicitamente che l’UNESCO ha “contribuito alla proliferazione della retorica anti israeliana”, cosa inaccettabile per gli USA.
Non a caso, il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha dichiarato: “accogliamo con soddisfazione la decisione dell’amministrazione Usa di ritirarsi dall’Unesco, questo è un passo necessario per promuovere la giustizia e il diritto di Israele ad avere un trattamento equo in seno al sistema ONU”.
Anna Kelly, una portavoce della Casa Bianca, ha invece sottolineato come l’organizzazione con sede a Parigi porti avanti “cause culturali e sociali woke divisive” che sono in contrasto con la politica estera ‘America First‘ dell’amministrazione Trump. Ha insomma tirato fuori tutto l’armamentario ideologico che sostiene l’unilateralismo totale del secondo mandato di Donald Trump.
Trump ha mostrato di seguire una linea dura (spesso aleatoria e contraddittoria) in cui saltano tutte le camere di compensazione, anche con gli alleati. In un orizzonte del genere, il multilateralismo incarnato nell’ONU è un’opzione inutile, costosa, e persino controproducente a volte.
Ovviamente, non è dal Consiglio di Sicurezza che Washington si ritira, ma da alcuni rami delle Nazioni Unite, o perché considerati più inutili o per testare il terreno e vedere fino a che punto tali agenzie possono essere piegate al volere stelle-e-strisce. Così è stato, a inizio anno, per l’OMS, e così è ora per l’UNESCO.
La sua direttrice generale, Audrey Azoulay, ha dichiarato: “per quanto deplorevole possa essere, questo annuncio era previsto e l’UNESCO si stava preparando”. Il riferimento, è evidente, è alla storia recente dei rapporti con Washington, ma anche alle fonti di finanziamento, altro nodo che sta a cuore a Trump.
Gli Stati Uniti, infatti, avevano già sospeso i trasferimenti all’ingresso della Palestina nell’UNESCO, nel 2011. L’altalena delle vicende successive ha fatto poi accumulare alla Casa Bianca una serie di debiti verso l’agenzia ONU, che di certo il presidente statunitense non vede alcuna utilità nel saldare ora.
Parliamo comunque di cifre irrisorie per il faraonico bilancio USA. Basti considerare che sui conti dell’organizzazione parigina la fetta di fondi provenienti da Washington si era già più che dimezzata rispetto al 2017, dal 20% all’8%. Ad oggi, gli Stati Uniti sono ancora il maggior finanziatore, ma spendono poco più di 150 milioni di dollari.
Sicuramente per l’UNESCO il venir meno di queste risorse sarà un duro colpo. Ma è evidente che il tema economico è assolutamente accessorio in una decisione politica che è da ascrivere totalmente al campo delle scelte strategiche. Infatti, un’altra accusa rivolta all’agenzia è anche quella di essere troppo anti-americane e filo-cinese (il Dragone è il secondo finanziatore).
Ai tempi di Reagan, l’UNESCO era troppo vicina a Mosca. Oggi è troppo vicina a Pechino. La propaganda da Guerra Fredda torna uguale anche nello scontro a tutto campo con l’emergere di un mondo multipolare.
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È caccia ai criminali di guerra israeliani. Due fermati in Belgio
I due militari sono stati bloccati al festival Tomorrowland, nella provincia di Anversa, e rilasciati dopo l’interrogatorio. La procura belga ha confermato l’avvio di un’indagine penale, precisando che i due uomini appartengono con ogni probabilità alla Brigata Givati dell’esercito israeliano e al festival avrebbero esibito la bandiera della loro unità.
Le accuse mosse nei loro confronti riguardano crimini di guerra, genocidio, attacchi contro civili, torture e sfollamenti forzati nella Striscia di Gaza.
La Hind Rajab Foundation ha dichiarato: “Questo sviluppo rappresenta un significativo passo avanti. Dimostra che il Belgio ha riconosciuto la propria giurisdizione ai sensi del diritto internazionale e sta trattando le accuse con la serietà che meritano”.
In un momento in cui troppi governi rimangono in silenzio, questa azione invia un messaggio chiaro: le prove credibili di crimini internazionali devono essere affrontate con una risposta legale, non con l’indifferenza politica.
Per la prima volta in Europa, sospettati israeliani legati a crimini commessi a Gaza sono stati formalmente arrestati e interrogati. Questo non sarebbe stato possibile senza la forza del diritto e la volontà di applicarlo.
La Hind Rajab Foundation è un gruppo pro-Palestina con sede in Belgio che guida una campagna legale contro i crimini di guerra commessi dai soldati israeliani a Gaza.
La procura belga ha spiegato di poter procedere grazie a una nuova norma, l’articolo 14/10 del codice di procedura penale in vigore dall’aprile 2024, che consente alla giustizia belga di indagare su crimini internazionali commessi all’estero in base alle Convenzioni di Ginevra e alla Convenzione Onu contro la tortura.
A dicembre, l’esercito israeliano aveva diffidato decine di soldati dal viaggiare all’estero dopo che circa 30 militari coinvolti nel genocidio di Gaza erano stati denunciati per crimini di guerra.
I loro nomi sono stati identificati grazie a video e immagini pubblicati online durante il servizio.
A gennaio, la televisione Channel 12 ha riportato che il ministero degli Esteri israeliano è a conoscenza di almeno 12 denunce presentate all’estero contro soldati israeliani per presunti crimini di guerra a Gaza.
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Italia - Utili da record per le banche, hanno guadagnato sugli alti tassi di interesse
Infatti, le banche italiane hanno raggiunto un nuovo record nell’anno passato: 46,5 miliardi di profitti, in aumento del 14% rispetto al 2023 per un totale di 5,7 miliardi di euro. Ancor più significativo è il dato aggregato per il triennio 2022-2024, in cui il guadagno ha superato la cifra straordinaria di 112 miliardi di euro.
Dal punto di vista dei ricavi totali, anche in questo caso si è raggiunta cifra da record: 110,1 miliardi di euro, in aumento del 7,2% rispetto all’anno precedente e del 33,8% rispetto al 2018. Viste le voci di entrata, a pesare più di tutto è il credito (58,5%), che è tornato a superare il valore delle commissioni (41,5%).
Queste percentuali sono l’indicatore più chiaro di come, a partire dal 2022, con le opportunità apertesi con gli alti tassi di interesse BCE, i vertici bancari hanno riorientato nettamente le attività dei propri istituti dai servizi ai prestiti. Ciò non significa che la parte commissionale sia in crisi: 45,7 miliardi di ricavi, in crescita del 12,4% rispetto al 2023, superando il picco del 2021.
In totale, un bel fiume di denaro per le banche, che tra il 2018 e il 2021 avevano avuto utili tra i 15 e i 16 miliardi, con l’affossamento nel 2020, anno della pandemia, a guadagni per soli 2 miliardi. Oggi, invece, migliora anche il rapporto tra costi operativi e ricavi, in continua diminuzione negli ultimi anni.
La Federazione Autonoma Bancari Italiani (FABI), che ha raccolto questi dati in un report, esprime soddisfazione per i risultati delle banche, ma sottolinea anche ora si apre una fase di normalizzazione di quanto possano crescere le entrate dal credito, con l’abbassamento dei tassi deciso negli ultimi mesi da parte di Francoforte.
L’obiettivo che ci si pone nel settore è dunque quello di rafforzare ulteriormente il guadagno dai servizi. Intanto, in tre anni gli alti tassi hanno strozzato una quota importante dei settori popolari, senza che ci sia parte politica che si prenda la responsabilità di scelte che hanno fatto arricchire sempre più gli istituti bancari.
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Nato e Ue spingono la Moldavia in guerra contro la Russia
Secondo quanto si apprende dal Rapporto, la Nato sta trasformando il piccolo Paese stretto tra Ucraina e Romania in un avamposto strategico sul fianco orientale, modernizzando gli aeroporti, creando hub logistici e adattando le ferrovie all’eventuale rapido dispiegamento delle forze atlantiche ai confini con la Russia.
Il rapporto del Servizio di intelligence estero russo
“La Nato si sta preparando attivamente a utilizzare la Moldavia in un possibile conflitto armato con la Russia. A Bruxelles è stata presa la decisione di accelerare la trasformazione di questo Paese in una testa di ponte avanzata dell’alleanza sul fianco orientale”, si legge nel Rapporto.
“Le forze Nato stanno trasformando la repubblica agraria, un tempo pacifica, in un banco di prova militare, attuando progetti per il passaggio allo scartamento ferroviario europeo e per l’aumento della capacità di transito dei ponti. Si stanno costruendo hub logistici, grandi magazzini e siti per la concentrazione di equipaggiamento militare”, continua l’Svr.
A oggi, la Moldavia non fa parte né dell’Unione Europea, né della Nato. Ma dalla salita al potere nel dicembre del 2020 della presidente Maia Sandu, il Paese sta scivolando verso l’Occidente, cavalcando d’altra parte la retorica antirussa e reprimendo duramente chiunque si opponga al percorso euroatlantico dell’ex Repubblica sovietica.
La presidente Sandu schiera la Moldavia con l’Occidente
I governi occidentali “stanno costringendo Chisinau ad adottare i concetti di guerra della Nato. L’esercito moldavo viene inondato di istruttori militari provenienti dagli stati dell’alleanza”, continua il Rapporto.
“Il regime di Maia Sandu è pronto a soddisfare tutte le richieste dell’Occidente. Chisinau conta molto sul sostegno materiale e organizzativo degli stati membri della Nato per il partito della presidente Azione e solidarietà (Pas) alle prossime elezioni parlamentari del 28 settembre”, afferma l’Svr.
Al di là della propaganda contenuta nel rapporto, è da registrare che la presidente Sandu ha promesso ai vertici Nato di revocare lo status di Stato neutrale per la Moldavia in caso di vittoria parlamentare da parte del Pas.
Guerra e repressione nell’agenda politica moldava
Ad aumentare la tensione non solo le parole, ma i fatti. Solo pochi giorni fa, il 19 luglio il Comitato elettorale centrale della Moldavia ha vietato all’opposizione di Victoria-Pobeda la partecipazione alle prossime elezioni parlamentari con l’accusa di essere filorussi.
La dinamica è simile a quanto è avvenuto negli ultimi anni in Ucraina, dove dal 2022 il regime di Zelensky – il cui mandato ricordiamo è scaduto nella primavera del 2024 – ha messo fuorilegge ben 11 partiti con la stessa accusa.
A fine novembre 2024 invece la Moldavia e il Regno Unito, alla presenza interessata della ministra degli Esteri della Romania, hanno firmato un accordo di collaborazione nel campo della difesa e della sicurezza con l’obiettivo di contrastare le “minacce provenienti dalla Russia”.
A scuotere il Paese ci aveva già pensato a fine ottobre il contestato esito referendario per l’inserimento in Costituzione dell’adesione della Moldavia all’Ue. In quell’occasione, il Sì aveva vinto per un pugno di voti dopo che i sondaggi attribuivano un solido vantaggio al No e dopo che l’opzione contraria era stata in vantaggio per tutto il conteggio notturno. A differenza di quanto avvenuto in Romania, i vertici occidentali riconobbero immediatamente il voto.
Non sorprende che l’avvicinamento al referendum e alle elezioni presidenziali, vinte dal Pas al ballottaggio, sia stato caratterizzato da forti proteste antigovernative e da un clima repressivo cresciuto durante la presidenza Sandu.
La guerra a oltranza di Nato e Ue contro la Russia
Il rapporto dell’Svr si inserisce nel più generale “piano B” di continuazione della guerra a oltranza contro la Russia in caso di sconfitta occidentale sul campo ucraino.
Come dichiarato alla Tass da Ralph Bosshard, ufficiale svizzero ed ex consigliere militare del segretario generale dell’Osce, l’utilizzo della Moldavia come ariete contro Mosca significa che Bruxelles considera compromessa la difesa ucraina delle regioni meridionali, in particolare le aree costiere come Odessa, le quali secondo l’analista “prima o poi passeranno alla Russia”.
Ma è tutta l’Europa orientale ad accentuare la retorica bellicista e filoatlantica del ritorno dell’“orso russo”. Dalla Scandinavia al Mar Nero, passando per i Paesi baltici, Polonia, Romania e Bulgaria (con le sole eccezioni di Ungheria e Slovacchia, a guida di conservatori o socialdemocratici), è tutto un pericoloso richiamo alle armi per la difesa del suprematismo europeo, mascherato ovviamente da libertà occidentale.
Lo spostamento a est dell’asse europeo rispetto al duo Parigi-Berlino non fa che ridurre all’opzione guerrafondaia la strategia dell’Unione europea per rispondere alla crisi sistemica in cui sono finiti gli imperialismi occidentali.
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Morto Ozzy Osbourne, leggenda dell'hard & heavy
È morto a 76 anni Ozzy Osbourne, leggenda dell'heavy metal e voce della band britannica dei Black Sabbath. Lo riporta la Bbc. Osborne, malato da tempo, aveva partecipato a un concerto-evento di addio alle scene dei Black Sabbath un paio di settimane fa a Birmingham, città d'origine della celebre rock band.
All’anagrafe John Michael Osbourne, Ozzy nasce il 3 dicembre 1948 in un sobborgo operaio dell’Inghilterra postbellica. Cresce tra ristrettezze economiche e noia esistenziale. Quarto di sei figli (due fratelli, Paul e Tony, e tre sorelle: Jean, Iris e Gillian), vive un’infanzia difficile, segnata da condizioni familiari precarie e da disturbi del linguaggio: è dislessico e balbuziente. Ma proprio da questo disagio germoglia il seme di una rivoluzione.
A quindici anni lascia la scuola e comincia a collezionare mestieri: muratore, idraulico, attrezzista, operaio in una fabbrica d’auto, macellaio in un mattatoio. Nessuno di questi lavori fa per lui. Finché, insieme a Tony Iommi – uno dei compagni di scuola che più detestava – Geezer Butler e Bill Ward, dà vita ai Polka Tulk Blues Band. Dopo qualche cambio di nome e formazione, il gruppo assume definitivamente il nome di Black Sabbath, ispirato al titolo americano del film di Mario Bava I tre volti della paura.
Con i Sabbath, Ozzy scrive alcune delle pagine fondamentali dell’heavy metal. Brani come “Paranoid”, “War Pigs” e “Iron Man” diventano inni generazionali: suoni cupi, riff minacciosi, testi che parlano di guerra, alienazione, incubi e stregoneria. Il 13 febbraio 1970, con l’uscita dell’album d’esordio “Black Sabbath”, nasce ufficialmente il metal. E Ozzy ne diventa la voce più iconica.
Il successo, però, arriva insieme ai demoni. E Ozzy non si tira indietro: li abbraccia con tutta l’intensità possibile. Diventa il simbolo stesso dell’eccesso: alcol, LSD, cocaina — la sua è una vita in continuo trip. La mitologia rock si nutre dei suoi episodi leggendari: sniffa formiche sul marciapiede durante un tour con i Mötley Crüe (in una delle più assurde sfide tossiche della storia del rock, insieme a Nikki Sixx), morde la testa di un pipistrello lanciato sul palco scambiandolo per un pupazzo (non lo era). Episodi grotteschi, a metà tra l’horror e il surreale, che lo trasformano in una figura pop ancor prima che Mtv lo consacri con “The Osbournes”, il primo reality rock della televisione.
Nel 1979 viene cacciato dai Black Sabbath per abuso di sostanze. Colto da una psicosi maniaco-depressiva, si chiude in una stanza d’albergo a Los Angeles e ci resta per quasi un anno, immerso nell’alcol e nelle droghe, devastato dalla fine della sua avventura con la band. È l’inizio del tracollo. Ma poi, grazie all’aiuto di Sharon Arden – figlia del manager dei Sabbath e futura moglie – Ozzy si rimette in piedi e dà vita a un nuovo progetto solista. Al suo fianco, un giovane chitarrista destinato a diventare leggenda: Randy Rhoads.
Con “Blizzard Of Ozz” e “Diary Of A Madman” torna prepotentemente sulla scena. La voce graffiante, i testi gotici e allucinati, lo stile immediatamente riconoscibile: Ozzy si conferma uno dei più grandi frontman della storia del rock. Anche dopo la tragica morte di Rhoads — scomparso a 25 anni in un incidente aereo — Ozzy prosegue la sua corsa, firmando dischi fondamentali come “No More Tears” e “Ozzmosis”, e accanto a lui un altro chitarrista destinato al culto, Zakk Wylde.
Nel 2011, dopo anni di voci e smentite, viene ufficializzata la tanto attesa reunion dei Black Sabbath nella formazione originale. L’annuncio arriva l’11 novembre alle 11:11 al Whisky a Go Go di Los Angeles: nuovo album in arrivo e tour mondiale previsto per il 2012. Ma a gennaio, la diagnosi di un linfoma a Tony Iommi costringe la band a ridimensionare i piani. Le date europee vengono cancellate e sostituite dai concerti di “Ozzy & Friends”, supergruppo che include, tra gli altri, Zakk Wylde, Geezer Butler e Slash.
Nel 2013 esce finalmente “13”, primo disco dei Sabbath con Ozzy alla voce dai tempi di “Never Say Die”. Intanto, la sua vita privata continua a oscillare tra caos e leggenda: il matrimonio con Sharon, tre figli e l’esposizione mediatica grazie a MTV, che ne fa una delle famiglie più famose (e disfunzionali) del rock. Ma dietro la maschera, tornano le cadute, le cliniche, i fantasmi. Nel 2020 arriva la diagnosi del morbo di Parkinson, e con essa il lento ritiro dalle scene.
Nonostante tutto, Ozzy pubblica due lavori, “Ordinary Man” e “Patient Number 9”, che suonano come struggenti addii. Poi, tra pandemia e convalescenze, si fa largo il sogno di un ultimo ritorno. Il 5 luglio 2025, quel sogno prende forma: “Back to the Beginning”, concerto d’addio a Birmingham, chiude il cerchio di una carriera irripetibile. Ozzy, fragile ma ancora potente, canta seduto su un trono le ultime “Iron Man” e “Paranoid”. Sul palco, insieme a lui, i Sabbath e ospiti d’eccezione come Metallica, Tool e Gojira.
"Non mi sento davvero il padre del metal o del rock. Al massimo, un fratello maggiore", dirà più volte. Ma in quanto a carisma, follia e impatto sulla sua scena, nessuno è mai stato come lui.
22/07/2025
La guerra a Gaza “deve finire ora”, lo chiedono 25 paesi
I paesi firmatari sono Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Australia, Belgio, Austria, Estonia, Irlanda, Finlandia, Islanda, Lituania, Norvegia, Lettonia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Nuova Zelanda, Polonia, Slovenia, Svizzera e Svezia.
La richiesta non è stata però sottoscritta da Stati Uniti e Germania a conferma del loro livello di complicità con il genocidio israeliano dei palestinesi.
“Esortiamo le parti e la comunità internazionale a unirsi in uno sforzo comune per porre fine a questo terribile conflitto, attraverso un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente”, hanno detto i paesi in una dichiarazione congiunta lunedì. “Un ulteriore spargimento di sangue non serve a nulla. Riaffermiamo il nostro pieno sostegno agli sforzi degli Stati Uniti, del Qatar e dell’Egitto per raggiungere questo obiettivo”.
I firmatari, che includevano diversi paesi dell’UE ad eccezione, come detto, della Germania, hanno aggiunto di essere “pronti a intraprendere ulteriori azioni per sostenere un cessate il fuoco immediato”.
La dichiarazione ha anche bollato la controversa Gaza Humanitarian Foundation (GHF) sostenuta da Israele come “pericolosa” e ha affermato che priva i palestinesi della “dignità umana”.
“Condanniamo l’alimentazione a goccia di aiuti e l’uccisione disumana di civili, compresi i bambini, che cercano di soddisfare i loro bisogni più elementari di acqua e cibo”, si legge nella dichiarazione.
“Il rifiuto del governo israeliano di fornire assistenza umanitaria essenziale alla popolazione civile è inaccettabile”, aggiunge la dichiarazione, esortando Israele a “rispettare i suoi obblighi ai sensi del diritto umanitario internazionale”.
Le Nazioni Unite hanno definito il modello di aiuto del GHF “intrinsecamente insicuro” e in violazione dei principi umanitari imparziali.
La fondazione, che ha iniziato le operazioni alla fine di maggio dopo un blocco israeliano di 11 settimane, utilizza mercenari privati statunitensi per le consegne delle derrate alimentari.
Aggira il sistema di aiuti guidato dalle Nazioni Unite, che Israele sostiene sia stato infiltrato da Hamas – un’accusa che non è supportata da prove verificate in modo indipendente.
L’appello dei 25 paesi a Israele di porre fine alla sua guerra è arrivato lo stesso giorno in cui Tel Aviv ha bombardato uno degli ultimi vivai rimasti nel centro di Gaza.
I video visionati da Middle East Eye mostrano bambini, molti dei quali indossavano i loro zaini, intrisi di sangue e urlavano aiuto ad insegnanti e passanti.
La situazione a Gaza ha continuato a deteriorarsi negli ultimi giorni e domenica il Programma alimentare mondiale (WFP) ha dichiarato che “la crisi alimentare di Gaza ha raggiunto nuovi livelli di disperazione”.
“Le persone stanno morendo per mancanza di assistenza umanitaria”, ha detto il WFP in una dichiarazione. “La malnutrizione è in aumento, con 90.000 donne e bambini che hanno urgente bisogno di cure. Quasi una persona su tre non mangia per giorni”.
Il Ministero della Salute di Gaza ha fatto eco a questo avvertimento, dicendo che almeno 19 palestinesi sono morti di fame domenica e altre centinaia soffrono di malnutrizione e potrebbero morire presto.
“Avvertiamo che centinaia di persone i cui corpi sono deperiti sono a rischio di morte imminente a causa della fame”, ha detto un portavoce del ministero.
Il ministero ha aggiunto che almeno 71 bambini sono morti di malnutrizione dall’inizio della guerra nel 2023, mentre altri 60.000 mostrano segni di grave denutrizione.
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Perquisita la casa e gli strumenti informatici di Gabriele Rubini
Dopo di che lo hanno portato nel commissariato di Frascati e trattenuto fino alle 19:50.
L’obiettivo dell’operazione era di acquisire informazioni sulle sue attività telematiche, contestandogli due post sul proprio profilo X, nonché cercare all’interno delle sue chat private di Telegram e Signal.
Al momento Gabriele è privo di strumenti elettronici e fino al dissequestro non ha accesso ai propri profili, chat e cloud (non sono stati chiusi). Per questo motivo ha chiesto a me, Alberto Fazolo, di riportare ciò.
Gabriele è libero, ci tiene a garantire che sta bene, ma per un po’ non avrà modo di comunicare attraverso i suoi canali o recapiti. Pertanto, inutile cercarlo.
Gabriele da anni è perseguitato e bersagliato per la sua attività di denuncia della pulizia etnica della Palestina. Il provvedimento di perquisizione e il successivo sequestro è stato determinato dai due post qui sotto riportati, ognuno può liberamente farsi una propria idea sul fatto che possano rappresentare, o meno, un pericolo per qualcuno e qualcosa. Tuttavia, in questa operazione, sono stati impegnati i migliori apparati dello Stato a cui sarebbe demandata la sicurezza nazionale.
L’attività di indagine in questo caso ha avuto, in ragione della immediata individuazione di Gabriele e della sua piena disponibilità, un immediato effetto, cosa che purtroppo non possiamo registrare nella ricerca dei mandanti e degli esecutori dell’attentato del 15 maggio scorso, in cui lui è stato massacrato di botte da una squadraccia. Come minimo, si registra una forte asimmetria.
Gabriele non si fa condizionare, va avanti nella lotta con sempre maggiore determinazione e consapevolezza. Ci tiene appunto a ricordare che ad altre persone va pure peggio.
Solidarietà a Gabriele e a tutte le altre vittime.
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Perché le bombe russe ammazzano meno civili di quelle israeliane?
Invece, l’offensiva di terra a Deir al Balah, nella Striscia di Gaza da parte dell’IDF – secondo il ministero della Salute – ha fatto 134 morti nelle ultime 24 ore.
Che hanno le bombe russe, perché ammazzano meno di quelle israeliane?
Ce lo dice senza reticenze un comunicato dell’IDF che si permette di rispondere direttamente all’appello di 25 paesi europei, compresi l’Italia e il Vaticano. “Hamas è l’unico responsabile della continuazione della guerra e delle sofferenze”.
Ergo: le vittime civili non sono “danni collaterali” come potrebbero essere quelli in Ucraina. Niente affatto: finché Hamas non cede sugli ostaggi, noi facciamo tanti “incidenti tecnici”, come quelli contro la parrocchia cattolica bombardata a Gaza.
E allora, basta sceneggiate a mezzo stampa per prendere in giro le opinioni pubbliche europee, i governi della UE sanno bene come fermare Israele: basta bloccare tutti gli accordi commerciali e militari fin tanto che non si ferma la carneficina.
Ogni giorno, la complicità nel massacro a Gaza urla vergogna, disonore, vigliaccheria.
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Avvocati e giuristi contro Maurizio Molinari, “giornalista”, per le parole spese contro Francesca Albanese
Siamo con ogni evidenza di fronte a un tentativo, sia pure maldestro, di vera e propria “moral assassination” che si accompagna alle misure coercitive unilaterali recentemente decretate nei confronti di Francesca Albanese da parte del governo statunitense.
La Relatrice Speciale viene attaccata per aver rivelato, in modo coraggioso e scientificamente inappuntabile, le molteplici responsabilità, sia di governi, a partire ovviamente da quello israeliano, che di imprese multinazionali, che sono dietro all’attuale massacro del popolo palestinese a Gaza, che va più propriamente definito “genocidio” ai sensi della Convenzione del 1948 delle Nazioni Unite in materia. Francesca Albanese ha diritto ad affermare la sua onorabilità di fronte a tali intollerabili attacchi e ha diritto a continuare e completare il suo lavoro, nell’interesse della comunità internazionale a contrastare le violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani che da molto tempo avvengono in Palestina.
Per tali motivi dichiariamo la nostra piena disponibilità ad appoggiare Francesca Albanese in tutte le azioni di ordine politico, informativo e giudiziario che riterrà opportuno intraprendere, approfondendo in particolare i modi e le forme attraverso cui un alto funzionario delle Nazioni Unite possa tutelare giudizialmente in Italia la propria onorabilità e quella della Sua istituzione contro questo attacco da parte di quanti nell’informazione operano nell’interesse di poteri economici e politici coinvolti negli scandali che il Suo rapporto denuncia.
La divulgazione di affermazioni false e prive di ogni riscontro con il chiaro intento di diffamare una persona e far partire la macchina del fango al fine di negare la veridicità delle sue affermazioni, peraltro ormai universalmente evidenti è un atto grave e chiediamo espressamente all’ordine dei giornalisti di intervenire.
Aderiscono:
avv. Ileana Alesso, avv. Cesare Antetomaso, avv. Michela Arricale, copresidente del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia ( CRED), avv. Martina Bianchi, avv. Angela Maria Bitonti, avv. Nadia Buso, avv. Vincenzo Caponera, avv. Carlo Cappellari, avv. Matteo Carbonelli, già docente di diritto internazionale, avv. Annalisa Carli, avv. Marco Cavallone, avv. Lorenza Cescatti, avv. Kiran Chaudhuri , avv. Elisa Costanzo, avv. Simonetta Crisci, avv. Aurora D’Agostino, copresidente Associazione nazionale giuristi democratici ( GD), avv. Maurizio de Stefano, già Segretario della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo, avv. Matilde Di Giovanni, avv. Roberto Di Giovanni, avv. Veronica Dini, avv. Attilio Doria, avv. Francesca Doria, avv. Giuliana Doria, avv. Maria Esposito, avv. Giorgio Fontana, professore ordinario di diritto del lavoro , avv. Andrea Matteo Forte, avv. Fausto Gianelli, avv. Claudio Giangiacomo, avv. Ugo Giannangeli, avv. Nicola Giudice, avv. Marzia Guadagni, avv. Luca Guerra, avv. Alessandro Iannelli, avv. Roberto Lamacchia, copresidente Associazione nazionale giuristi democratici ( GD), avv. Enrico Lattanzi , avv. Aaron Lau, avv. Joachim Lau, avv. Valerio Maione, avv. Fabio Marcelli, ricercatore senior presso l’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR e copresidente del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED), avv. Marco Melano, avv. Paolo Mauriello, avv. Carlo Augusto Melis-Costa, avv. Ezio Menzione, avv. Alberta Milone, avv. Liana Nesta, avv. Gilberto Pagani, avv. Valentina Pieri, avv. Roberta Pierobon, avv. Barbara Porta, avv. Paola Regina, avv. Emanuele Ricchetti, avv. Silvia Ricci, avv. Francesco Romito, avv. Dario Rossi, avv. Flavio Rossi Albertini, avv. Elisabetta Rubini, Libertà e Giustizia, avv. Arturo Salerni, avv. Luca Saltalamacchia, avv. Paolo Solimeno, avv. Sonia Sommacal, avv. Armando Sorrentino, avv. Barbara Spinelli, copresidente dell’Associazione europea dei giuristi e delle giuriste per la democrazia e i diritti umani nel mondo, avv. Salvatore Tesoriero, avv. Enrico Tonolo, avv. Francesca Trasatti, avv. Agnese Usai, avv. Maria Teresa Vallefuoco, avv. Francesca Venditti, avv. Gianluca Vitale, avv. Luca Vuolo, avv. Nazzarena Zorzella, Alessandra Algostino, professoressa ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università di Torino, Paola Altrui, giurista, Margherita Cantelli, giurista, Riccardo Cardilli, professore ordinario di diritto romano all’Università di Roma Due, Fabrizio Clementi, già dirigente ANCI, Luigi Daniele, professore associato di diritto internazionale Università del Molise, Micaela Frulli, Professoressa ordinaria di diritto Internazionale all’Università di Firenze, Domenico Gallo, già senatore e già magistrato, Teresa Lapis, giurista, Samuele Marcucci, giurista, Triestino Mariniello, professoree ordinario di diritto penale internazionale presso la Liverpool John Moores University, Ugo Mattei, professore di diritto civile all’Università di Torino e di diritto internazionale e comparato all’Università della California, Chantal Meloni, professoressa associata di diritto penale all’Università di Milano, Gianluca Schiavon, giurista, Eugenio Zaniboni, professore associato di diritto internazionale presso l’Università di Foggia, Maurizio Acerbo, già deputato,, Stefania Ascari, deputata, Michela Becchis, professoressa associata di Storia dell’arte medievale all’Università di Chieti, Sandra Bonsanti, Presidente emerita di Libertà e Giustizia Giuseppe De Cristofaro,senatore, Roberta De Monticelli, già professoressa ordinaria di Filosofia della persona presso l’Universita’ San Raffaele di Milano, Emilio De’ Capitàni, già segretario Commissione Libertà Civili (LIBE) del Parlamento Europeo, Francesca Ghirra, deputata, Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo, Daniela Padoan, scrittrice e presidente di Libertà e Giustizia, Silvia Petrucci, architetto, Widad Timimi, scrittrice, Presidente dell’Associazione Ioien “che io possa andare oltre”.
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La Commissione UE è un disco rotto: “dietro la mozione di sfiducia c’è la Russia”
Già così, la notizia risulta alquanto strana. La mozione, che è stata bocciata lo scorso 10 luglio, era stata presentata dall’europarlamentare rumeno Gheorghe Piperea, vicepresidente del gruppo European Conservatives and Reformists (ERC), lo stesso di cui fa parte Fratelli d’Italia (i cui deputati non hanno partecipato al voto).
Altri 77 esponenti, sostanzialmente tutti provenienti dall’estrema destra europea, avevano sottoscritto il testo. Gente con cui, parole dell’ex presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, è possibile collaborare, purché mantengano due punti fermi: il sostegno all’Ucraina e l’impegno a rendere la UE più forte nella competizione globale.
I fascisti, o comunque partiti con linee politiche retrive e reazionarie, vanno bene – anzi, sono pure utili – fintanto che non mettono in dubbio la politica estera di Bruxelles. Non che non ci sia unità d’intenti sulla politica di potenza europea, ma effettivamente alcune di queste realtà non trovano utile dirigere tutte queste forze contro Mosca, per motivi molto spesso prettamente contingenti.
Per von der Leyen, tali organizzazioni “vogliono polarizzare le nostre società, inondandole di disinformazione”. Si capisce allora perché la junker tedesca, tre giorni prima del voto, fosse intervenuta in Aula dicendo che quella mozione era “firmata dagli amici di Putin”. La presidente della Commissione risponde polarizzando a sua volta ogni atto contro di lei.
Perché poi, alla fine, era una mozione derivata dal malcontento che von der Leyen ha fatto accumulare intorno a sé in un mandato e un po’ di scelte poco apprezzate e scandali ancora in corso – altro che Russia! Appare chiaro, se andiamo a vedere i temi su cui si sarebbe innestata la ‘disinformazione’ russa.
È stata la ONG finlandese Check First a redigere un dossier nel quale viene delineata una campagna russa per screditare von der Leyen, partita a marzo e conclusa nei giorni antecedenti al voto a Strasburgo. Ci sarebbero stati oltre 20 mila post a sostenerla, pubblicati dal gruppo russo Pravda news sui canali di molti paesi (Romania, Polonia, Germania, Francia, Stati Uniti e paesi baltici).
Cosa dice, riassumendo, il loro contenuto? Che von der Leyen sarebbe una figura problematica, legata a fenomeni di corruzione e origine di un malcontento crescente in varie capitali europee. Il caso più volte ricordato è quello delle relazioni con Pfizer per la campagna vaccinale contro il Covid-19.
In sostanza, il contenuto problematico è quello che ricorda la realtà. Per ripercorrere gli ultimi sviluppi della vicenda Pfizer rimandiamo a questo articolo. In sintesi: la presidente della Commissione non è passata per canali pubblici e trasparenti per accordarsi sulle forniture, ma attraverso messaggi privati che ha poi dichiarato irreperibili.
Per quanto riguarda il malcontento suscitato in vari paesi, basta vedere lo scontro aperto con il Parlamento Europeo sul SAFE o ancora le reazioni all’ultimo bilancio europeo, licenziato pochi giorni fa. Che organi di informazione legati alla Russia presentino la mozione di sfiducia come una salvezza non c’è da stupirsi: sarebbe una bella battuta d’arresto per la guerra che la UE muove alla Federazione Russa.
Ma per il resto, Mosca non c’entra nulla. Alla Russia viene affibbiata ogni colpa, le è stata data persino la corresponsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Fra poco sarà colpa del Cremlino anche il riscaldamento globale, quando invece a Bruxelles dovrebbero accettare che il secondo mandato von der Leyen si sviluppa su un filo molto sottile.
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Sul mattone il campo in Italia è larghissimo
Ora che sono partiti arresti ed avvisi di garanzia all’indirizzo dei propri compagni (si fa per dire) di partito, improvvisamente, si svegliano e si ricordano – e ci ricordano – che il vero problema di Milano è “l’emergenza abitativa”. Ma va???
Eppure l’unica risposta all’emergenza abitativa, a Milano, fino ad ora, è stata soltanto l’indifferenza mentre ogni giorno si consumavano sgomberi e si distribuivano manganellate ai senza casa e mentre si tengono sfitte almeno 100 mila case, spesso abbandonate, che rimangono inutilmente vuote.
Peraltro, secondo l’ultimo rapporto ISPRA(marzo 2025), Milano è la terza città italiana per suolo consumato, con quasi il 60% del territorio comunale edificato. L’analisi dei dati tra il 2015 e il 2023, le immagini satellitari e l’uso di programmi GIS open source mostrano che più di un terzo di questa superfice è stata “divorata” dai famigerati “progetti di rigenerazione urbana”.
Pur con qualche diversa sfumatura, tutto il PD fa quadrato attorno a Sala. La Schlein lo ha subito chiamato al telefono per esprimergli la sua “solidarietà e vicinanza”. E il sindaco di Milano ha incassato pure la solidarietà di Giorgia Meloni mentre i partiti della maggioranza che sostiene il suo governo hanno costruito gran parte dei propri granitici sistemi di potere locali e nazionali proprio sulla cementificazione selvaggia, sulle così dette “grandi opere”, sulla gestione opaca degli appalti e sui favori ai palazzinari amici.
Intanto FdI, Lega e M5S hanno chiesto le dimissioni della giunta Sala. Ma come non ricordare, a proposito proprio del Movimento Cinque Stelle, la brutale cacciata dell’urbanista Paolo Berdini dal posto di assessore all’Urbanistica della prima Giunta Raggi del comune di Roma, avvenuta nel febbraio 2017, a causa della sua opposizione al via libera dell’amministrazione pentastellata in merito alla grande speculazione immobiliare che ruotava – e continua a ruotare – attorno alla costruzione del nuovo stadio della Roma, tornato al centro dell’attenzione, proprio in questi giorni, con il nuovo progetto che dovrebbe interessare la zona di Pietralata. Sono cose che non si dimenticano.
La domanda è sempre la stessa: ma se quelli di “sinistra” fanno le stesse cose di quelli della “destra” perché uno dovrebbe votarli? Anzi, perché dovrebbe votare?
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Cancellato Gergiev: quando l’arte si arrende al conformismo
Non per motivi artistici. Non per mancanze organizzative. Ma per un linciaggio politico-mediatico orchestrato dall’europarlamentare del Pd e vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno – vero killer delle élite euroatlantiche – con la complicità della borghesia intellettuale nostrana e della sua servile burocrazia istituzionale.
Il Governatore della Campania Vincenzo De Luca, unica voce rimasta tra i dem a contestare la follia guerrafondaia che attanaglia Unione Europea e Italia (pensate come sta messa la sinistra istituzionale in questo Paese...) ci aveva provato a confermare l’evento e a contrastare il diktat in stile Min.Cul. Pop. della Picierno & co., ma a nulla sono valsi i suoi sforzi.
Dietro la scusa della “protesta ucraina” si nasconde un’operazione di puro allineamento geopolitico, degna dei tempi più oscuri della Guerra Fredda e del maccartismo.
Non importa che Gergiev sia uno dei massimi direttori d’orchestra viventi, con un curriculum che farebbe tremare di invidia qualsiasi battilocchio da conservatorio europeo.
Quel che conta è che è russo. E non russo “oppositivo”. Non dissidente da talk show occidentale. Ma russo “sovranista”, vicino a Putin. Quindi un nemico.
In tempi di guerra, anche l’arte va sottoposta a censura militare. Così funziona nella cosiddetta democrazia liberale.
Tuttavia a destare scalpore non è la condanna in sé – che potrebbe essere anche legittima e coerente con una visione etica dell’arte – ma l’evidente asimmetria con cui questo principio viene sistematicamente applicato.
Lo stesso rigore morale non si riscontra, ad esempio, nel trattamento riservato ad artisti israeliani o a istituzioni culturali che rappresentano lo Stato sionista responsabile della macelleria genocida sulla Striscia di Gaza.
In quanto marxisti non abbiamo una visione idealistica e astratta dell’arte e della cultura. Sappiamo benissimo che il terreno della battaglia delle idee è pietra fondante della lotta per l’egemonia e del conflitto di classe.
Non concepiamo la cultura e l’arte come espressioni asettiche, sganciate dai contesti storici, politici, economici, sociali e persino etnici. Non riteniamo sia giusto parlare di cultura e di arte in senso univoco e assoluto.
Riteniamo la cultura, in tal senso, anche una definizione di identità: sia essa di classe, di ceto, di popolo, nazionale. Coefficiente di un potere egemonico o di un antagonismo alle sovrastrutture dominanti. Riteniamo insomma che si debba parlare di culture e forme d’arte plurali.
Peraltro, sappiamo benissimo che in questo momento il movimento comunista sconta un arretramento gravoso sul piano ideologico, dovuto non solo alla sconfitta seguita alla caduta dell’URSS ma anche ad un vero e proprio smantellamento teorico operato in seno alle stesse sinistre.
Le nostre istanze, la nostra visione, la nostra cultura di classe non hanno voce. Non trovano, se non in rarissimi casi, spazi adeguati. Non riescono a praticare insomma contro-egemonia.
Purtuttavia non possiamo rassegnarci alla resa. Non possiamo non denunciare quella che riteniamo una deplorevole discrasia tra i principi altisonanti da sempre pronunciati dalle democrazie occidentali proprio nel merito delle manifestazioni culturali: ovverosia proclamandone la libertà dai vincoli del potere e della politica; ed una realtà che ha invece, oggi più di prima – la censura e il controllo lo stato borghese li ha sempre sistematicamente messi in atto, non raccontiamoci balle – tradito quegli stessi postulati di libertà.
In poche parole arte e cultura sono oggi, nell’Occidente euroatlantico, sotto occupazione militare.
La vicenda del direttore Gergiev delinea in buona sostanza lo specchio della decadenza ideologica dell’Europa, trasformata in braccio armato dell’imperialismo Nato anche sul terreno della musica e dell’estetica in generale.
Il potere occidentale, incapace di sostenere un vero confronto tra visioni del mondo diverse, cancella il dissenso anziché rispondervi. Anche quando quel dissenso non parla, ma dirige un’orchestra.
A nulla sono servite le ridicole dichiarazioni di circostanza del ministro della Cultura Alessandro Giuli – altra figura grottesca, ex ideologo della destra postfascista – che oggi finge equilibrio tra “libertà d’arte” e “protezione dei valori occidentali”.
La sua conclusione, in perfetto stile orwelliano, è infatti che l’arte può essere libera solo se non contraddice la narrazione dominante.
E così la Reggia di Caserta e la sua direzione divengono pedine di una strumentalizzazione scandalosa, posta in essere per mettere al bando l’artista indesiderato. Roba da Restaurazione. Da Ancien Régime.
Tutto ciò mentre in quella parte di mondo che con una hỳbris da far apparire Prometeo un dilettante, Josep Borrell, l’ex Alto rappresentante UE per la Politica estera, definiva il giardino contrapposto alla giungla – le voci israeliane non solo non vengono silenziate, ma spesso ricevono un’accoglienza protetta, se non celebrativa.
Le stesse istituzioni che si affrettano a cancellare Gergiev o altri artisti russi mantengono una complicità passiva – o attiva – verso lo Stato israeliano, ignorando gli appelli al boicottaggio culturale che da decenni arrivano dalla società civile dell’altra metà del globo.
Ciò che emerge è quindi un evidente doppiopesismo. Un artista russo viene bandito per non aver condannato con forza l’invasione dell’Ucraina, mentre la cultura israeliana continua a godere di legittimità, anche nel mezzo di operazioni militari che hanno provocato decine di migliaia di morti civili. E soprattutto di bambini.
In questo contesto l’arte non appare più come uno spazio di dialogo universale ma come uno strumento di propaganda selettiva, subordinato agli interessi geopolitici dell’Occidente.
Questa dinamica mina la già insussistente credibilità morale delle istituzioni europee che continuano ad ergersi, in un delirio di autoreferenzialità, a giudici etici solo quando conviene loro, facendo emergere tutta l’ipocrisia di una politica culturale che si traveste di valori umanisti rispondendo in realtà a volgari logiche di potere.
Annullare Gergiev viene rivenduto come un “gesto coraggioso”, ma assume toni farseschi se non è accompagnato da una riflessione coerente sulla responsabilità di tutti gli Stati nei crimini contro l’umanità. Indipendentemente dalla loro posizione nello scacchiere internazionale.
Il teatrino della sinistra liberal inscenato dalla Picierno, con l’avallo di Calenda, si è poi ulteriormente “arricchito” delle ancor più invereconde petizioni firmate da alcuni Premi Nobel. Tra essi molti rigorosamente ucraini o bielorussi dissidenti.
A dare il colpo di grazia al concerto sono stati in effetti i panni sporchi dell’intellighenzia occidentale, con i suoi appelli morali.
Premi Nobel che si autoproclamano custodi dell’etica internazionale, petizioni firmate da chi ha imparato a fare opposizione cliccando da uno smartphone, associazioni “di protesta” che comprano i biglietti della prima fila per inscenare contestazioni performative davanti ai fotografi dei giornali di regime.
Tutto regolare, tutto conforme all’estetica del dissenso addomesticato. Un dissenso e una censura esercitati in modo rigidamente selettivo.
Il direttore d’orchestra russo, come l’opera lirica o i romanzi di Dostoevskij, diventa l’oggetto simbolico da sacrificare per dimostrare la propria fedeltà alla nuova religione a trazione NATO.
L’unica voce fuori dal coro – non a caso accusata di “propaganda” – è quella dell’ambasciata russa, che ha giustamente denunciato il danno d’immagine non per Mosca, ma per l’Italia stessa.
E ha ragione. La cultura italiana, già devastata da decenni di tagli, precarizzazione e svilimento mercantile, ora si piega anche a una censura preventiva mascherata da “scelta responsabile”.
L’unico errore dell’ambasciata è pensare che ci sia ancora qualcosa da danneggiare nella dignità culturale di questo paese, quando invece è già tutto compromesso.
Il caso Gergiev è infatti solo l’ultimo tassello di un processo di militarizzazione ideologica della cultura, in cui chi non si inginocchia davanti all’egemonia atlantica viene espulso, silenziato, diffamato. L’ultimo atto di un servilismo culturale atavico.
L’Italia conferma ancora una volta infatti, con questa vicenda, il proprio ruolo subalterno alla Nato e alle logiche di un dominio che non risiedono nei nostri confini.
Non solo nelle basi militari, ma ormai anche nei teatri e nei cortili monumentali si decide chi può suonare, chi può recitare, chi può dipingere. E si decide sulla base della fedeltà all’impero.
L’arte, secondo quei valori liberali che si richiamavano più sopra, dovrebbe configurare uno spazio per la verità, la complessità e la dissidenza.
Quando diventa viceversa un campo di battaglia per l’egemonia non culturale ma morale, allora perde la sua funzione più profonda. Quella di mettere in discussione i poteri, non servirli.
Chi oggi accetta silenziosamente la cancellazione di Gergiev ma tace sui crimini israeliani, non difende la pace ma la guerra. Non difende la cultura, ma la censura. Non combatte l’autoritarismo, ma lo impone con altri mezzi.
L’antifascismo sbandierato dagli ambienti liberal sinistrati si dimostra ancora una volta un involucro vuoto, utile solo a mascherare le logiche più reazionarie del potere occidentale.
La lotta contro l’ipocrisia culturale di questo impero in piena decadenza diventa pertanto parte integrante della lotta contro il capitalismo globale.
Perciò l’arte, se vuole essere davvero libera, deve schierarsi. Non con i governi, ma con i popoli. Non con l’ordine imposto, ma con chi lo sovverte.
Intanto, benvenuti nel mondo libero. Quello in cui la libertà è concessa solo a chi obbedisce.
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