Presentazione
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31/07/2025
Crolla il prezzo del caffè alla borsa di NY. Le conseguenze sui piccoli produttori
di Laura Buconi
A febbraio 2025, i prezzi del caffè hanno registrato un forte aumento alla borsa di New York, arrivando a un incremento del 140% rispetto all’anno precedente, poiché si prevedevano siccità in Brasile e Vietnam con conseguente calo della produzione. I produttori locali si sono affrettati ad acquistare macchinari più sofisticati e a migliorare i livelli di produzione, a volte indebitandosi, con la speranza di maggiori guadagni.
Alla fine, le perdite previste non si sono verificate e, di conseguenza, a luglio il prezzo del caffè alla borsa di New York è sceso da 4,30 a 2,90 dollari per libbra. Un crollo forte, alimentato dalla speculazione selvaggia, che ha ridotto drasticamente i guadagni dei piccoli produttori.
La varietà robusta, di qualità inferiore e usata per la produzione di caffè solubile, per la prima volta nel marzo 2025 ha raggiunto il prezzo dell’arabica in borsa. In un contesto di grande incertezza, come possono sopravvivere i piccoli produttori locali?
Ho intervistato Fernando Celis Callejas, consigliere generale della Coordinadora Nacional de Organizaciones Cafetaleras, originario del comune di San Rafael, Veracruz in Messico.
Scoppia la bolla speculativa
«Le prime notizie che abbiamo ricevuto parlavano di siccità in Vietnam che avrebbe colpito il raccolto 2024-25. Dopo la fioritura in Brasile, si prevedeva siccità a partire da ottobre. Poiché si aspettava una scarsità di caffè, il prezzo è salito ulteriormente.
Anche dal Vietnam arrivavano previsioni di condizioni climatiche avverse per il raccolto 2025-26, e tutti i prezzi del caffè sono saliti in borsa fino a 4,40 dollari per libbra, per poi chiudere a 4,30», riassume Celis.
In effetti, il prezzo del caffè ha toccato il massimo storico a febbraio di quest’anno, il più alto degli ultimi 50 anni, suscitando preoccupazione tra molti esperti per la sua volatilità e per le condizioni precarie e instabili dei piccoli produttori. La comunità di coltivatori di caffè di Veracruz, in Messico, è abituata alle pratiche speculative che contraddistinguono questo mercato, e temeva un calo. Inoltre, i produttori locali riportano che le grandi aziende acquirenti, con l’aumento del prezzo del caffè, hanno visto salire i costi operativi, finanziari e di stoccaggio, motivo per cui hanno ridotto i pagamenti ai coltivatori da 20,50 pesos messicani al chilo di drupe (frutti della pianta del caffé) a 18 pesos.
«Alla fine, in Brasile è piovuto e in Vietnam si è fatto uso di più irrigazione e fertilizzanti, e la produzione ora è persino superiore al ciclo precedente. Probabilmente le informazioni diffuse da Brasile e Vietnam non erano del tutto veritiere, hanno esagerato riguardo alla siccità, e gli speculatori ne hanno approfittato», spiega Celis.
È noto infatti che nel mercato del caffè vi siano forti pratiche speculative, che aumentano la volatilità dei prezzi, causando picchi ben superiori alle reali dinamiche di domanda e offerta. Le principali organizzazioni acquirenti (Nestlé, Kraft, Procter & Gamble e Sara Lee) controllano circa il 50% della produzione mondiale e hanno una grande influenza sui prezzi. Piccole variazioni nei loro acquisti possono provocare forti oscillazioni.
Nei mercati del caffè, la speculazione ha inizialmente gonfiato artificialmente i prezzi, a causa della paura di perdite per fenomeni climatici, dinamiche geopolitiche e logistiche. Secondo Índice Político e un report di Hedge Point Global Markets, oltre il 30% dei contratti futuri sull’arabica a New York sono in mano a investitori non commerciali. Fondi d’investimento e grandi trader hanno sfruttato l’incertezza e le previsioni di scarsità per speculare. I piccoli produttori, fiduciosi in un mantenimento dei prezzi alti, si sono indebitati per aumentare la produzione, finché la bolla è esplosa e i prezzi sono crollati bruscamente.
«Con un aumento della produzione del 2%, il calo dei prezzi è incredibilmente grande. Alcuni dicono che è dovuto all’aumento della produzione di robusta», afferma Celis. Il robusta è una varietà più resistente e meno costosa, usata soprattutto per il caffè solubile, mentre l’arabica è più pregiata, delicata da coltivare e raccolta a mano.
Il pagamento medio ai produttori nazionali è sceso a 16 pesos messicani per chilo di drupe, quando date le condizioni si sarebbe dovuto pagare almeno 24 pesos. Una differenza di 8 pesos (circa 50 centesimi di euro)», lamenta Celis.
Celis denuncia un “abuso commerciale senza precedenti” da parte delle multinazionali come AMSA, La Laja, Merino, Aresca, California e Tomari, principali acquirenti di Nestlé. Per questo, è stata chiesta al Ministero dell’Economia e alla Segreteria dell’Agricoltura un’indagine approfondita, con sanzioni per i responsabili e misure di risarcimento per i produttori.
Il robusta si avvicina al prezzo dell’arabica
A marzo, il prezzo del robusta (cosí come la domanda) ha raggiunto il livello più alto degli ultimi 30 anni. Le cause, secondo Sahra Nguyen e Ryan Delany, sono:
– minimo storico della produzione a gennaio 2024 (2.996 lotti);
– aumento della domanda di robusta di alta qualità;
– crescita della popolarità delle miscele.
«L’aumento del robusta, molto economico, ha trascinato l’arabica. Ora la discesa del robusta trascina anche quella dell’arabica. Il Brasile ha esportato in Vietnam il 54% in più di caffè da inizio anno a giugno rispetto all’anno scorso, e il prezzo è sceso a 160 dollari al sacco (unità da 60 kg). A novembre, potrebbe scendere sotto i 100 dollari», spiega Celis. Questo porta a un peggioramento della qualità, poiché i prezzi incentivano la produzione di robusta.
Considerando le condizioni climatiche, il Coffee Report dell’USDA prevede che il raccolto combinato di arabica e robusta del Brasile aumenti fino a 65 milioni di sacchi nel ciclo 2025/26.
Si prevede che il raccolto di robusta aumenti di 3,1 milioni di sacchi e raggiunga la cifra record di 24,1 milioni, grazie al buon volume di pioggia che ha contribuito allo sviluppo delle drupe nei principali stati produttori del paese, Espíritu Santo e Bahia.
Si prevede invece che la produzione di arabica diminuisca di 2,8 milioni di sacchi, arrivando a 40,9 milioni, poiché la siccità e le alte temperature negli stati di Minas Gerais e São Paulo, in Brasile, hanno influito negativamente sulla fioritura, sull’attecchimento e sullo sviluppo delle drupe.
Le esportazioni del Brasile dovrebbero diminuire, poiché i prezzi elevati scoraggiano i paesi importatori dal ricostituire le scorte. Di conseguenza, si prevede che le scorte finali aumentino di 1 milione di sacchi, fino a 1,7 milioni, dopo il forte calo registrato l’anno scorso.
In Colombia si stima che la produzione cali di 700 mila sacchi, arrivando a 12,5 milioni, a causa delle piogge eccessive e della nuvolosità, che hanno ostacolato il periodo di fioritura e ridotto i rendimenti. Anche se queste condizioni hanno favorito la proliferazione della ruggine del caffè, un fungo che distrugge le coltivazioni, i tassi generali di rilevamento sono stati relativamente bassi grazie all’ampia presenza di varietà resistenti. Si prevede che le esportazioni di caffè in grani, principalmente verso Stati Uniti e Unione Europea, diminuiscano di 500 mila sacchi, fino a 10,7 milioni, a causa della riduzione della produzione.
Si prevede che la produzione dell’Indonesia aumenti di 550 mila sacchi, fino a 11,3 milioni. La produzione di robusta potrebbe raggiungere i 9,8 milioni di sacchi, grazie alle condizioni favorevoli nelle zone pianeggianti di Sumatra meridionale e Giava, dove si coltiva circa il 75% del caffè del paese. Anche la produzione di arabica dovrebbe aumentare leggermente, fino a 1,5 milioni di sacchi. Si prevede che l’elevata produzione favorisca l’aumento delle esportazioni di chicchi di caffè di 400 mila sacchi, fino a 6,5 milioni.
L’Etiopia potrebbe aumentare la propria produzione di 900 mila sacchi, raggiungendo la cifra record di 11,6 milioni di sacchi. La crescita degli ultimi tre anni è stata sostenuta dalla recente sostituzione di oltre la metà delle superfici coltivate con varietà di caffè ad alto rendimento. Inoltre, i coltivatori sono stati incoraggiati a migliorare i rendimenti attraverso la potatura dopo il raccolto. Si prevede che le esportazioni di caffè in grani aumentino di 800 mila sacchi, fino a 7,8 milioni, grazie all’aumento dell’offerta.
La produzione dell’America Centrale e del Messico aumenterà di 300 mila sacchi, fino a 17,7 milioni. Fatta eccezione per un modesto calo in Costa Rica, si prevedono leggeri aumenti in tutta la regione.
«Globalmente la produzione di robusta è ancora inferiore, ma la domanda è in forte aumento. Tra pochi anni supererà quella dell’arabica», conclude Celis.
L’influenza delle grandi aziende del caffè
«Il robusta è più attraente per la grande industria del solubile. In Messico non c'è un censimento proprio della produzione, ma l’organismo del CIAT fa un censimento ogni anno, secondo il quale si prevede una produzione di 3,9 milioni di sacchi per il prossimo ciclo. Del totale, poco più del 50% è destinato al consumo nazionale, e il 65% del consumo interno è di caffè solubile, cosa che non accade in altri paesi produttori. È un’eredità del controllo che aveva Nestlé, con il suo Nescafé, che è arrivato a rappresentare l’80% del consumo nazionale fino ad allora. Ora Nestlé gestisce il 60% del consumo nazionale di caffè e importa 1,8 milioni di sacchi», spiega Fernando Celis.
«La forza della presunta competitività di Nestlé sono i suoi prezzi molto accessibili. Del caffè solubile che si vende in barattoli da 1 kg, 2 kg o 5 kg, si utilizzano 2 grammi per una tazza. Il prezzo di una tazza è quindi di circa 80 centesimi di peso (circa 0,04 centesimi di euro). In un caffè, invece, una tazza di americano non costa meno di 25 pesos (poco più di un euro). Inoltre, ora Nestlé vende caffè cappuccino in bustine singole che costano 6 pesos (circa 25 centesimi di euro). Guardando gli ingredienti, risulta che contengono dal 5 al 7% di caffè solubile robusta importato, e non hanno latte in polvere, ma una miscela di polvere di farina di mais giallo importato e olio idrogenato di palma di cocco africano», continua l’esperto.
Celis afferma che è quasi impossibile competere con grandi aziende del caffè come Nestlé, a causa dei suoi prezzi molto bassi. La società ha annunciato all’inizio di quest’anno un investimento di 1 miliardo di dollari in Messico in progetti produttivi per il triennio 2025-2027, tra cui prevede di raddoppiare l’estensione della sua sede di produzione di caffè a Veracruz. Secondo l’USDA, durante questo ciclo le esportazioni di caffè solubile verso gli Stati Uniti aumenteranno di più di 400.000 sacchi, causando una possibile riduzione del prezzo e rendendo l’affare ancora più redditizio.
«Nestlé ha molti privilegi in Messico e ha una grande tecnologia: ha i suoi stabilimenti e si occupa di tutto il processo di produzione. In Messico ha il più grande stabilimento industriale a livello mondiale, perché il governo messicano le ha dato molte agevolazioni. Per esempio, una settimana dopo che l’ex presidente López Obrador è entrato in carica, Nestlé stava già offrendo un investimento in un nuovo stabilimento a Veracruz. Tuttavia, l’ex presidente non ha mai voluto incontrarsi con noi della Coordinadora Nacional de Organizaciones Cafetaleras», racconta Celis.
Vale la pena menzionare che negli anni passati Nestlé non ha aumentato la produzione di caffè solubile in Messico, probabilmente a causa del costo più alto della manodopera in Messico rispetto ad altri paesi produttori come Vietnam e Uganda.
«Nestlé ha costruito un potere non solo economico, ma politico, di influenza nel governo. Può persino nominare funzionari, come il responsabile della Segreteria dell’Agricoltura, Santiago Argüello Campos», denuncia Fernando Celis, «che è anche responsabile dei programmi di caffè certificato in Agroindustrias Unidas, o AMSA, una delle più grandi multinazionali acquirenti di caffè a livello mondiale e in Messico, insieme a Nestlé e alla tedesca NKG, Neumann Kaffee Gruppe. Le tre dominano l’80% della commercializzazione del caffè messicano, sia quello che viene esportato sia quello destinato al consumo interno, e quindi pongono le condizioni di acquisto. Non pagano per la qualità, ma per il rendimento».
A questo proposito, il rapporto “Explotación y opacidad: la realidad oculta del café mexicano en las cadenas de suministro de Nestlé y Starbucks” afferma che «La transizione di Argüello da CI (Conservation International, ONG statunitense) a ECOM (ECOM Trading, multinazionale del caffè con sede in Svizzera), e poi a un incarico federale è un caso di “porte girevoli”, che mette in evidenza un possibile conflitto di interesse o influenze indebite nel processo di certificazione di Starbucks e CI, così come nei processi regolatori di ECOM – che tramite AMSA è il maggiore fornitore di Nestlé in Messico».
La lotta dei produttori locali a Veracruz
Il conflitto tra i produttori locali di caffè di Veracruz e le grandi multinazionali del caffè è una disputa che dura da anni.
Nel luglio del 2022, pochi giorni dopo l’inaugurazione dello stabilimento di produzione della Nestlé nella regione, i produttori di caffè di tutto Veracruz emisero un comunicato intitolato: “Stop ai privilegi per la Nestlé e rispetto per le organizzazioni dei produttori”, in cui sottolinearono che Nestlé “compete in modo sleale e manipola il caffè messicano nel consumo nazionale. Nestlé e i suoi acquirenti dominano la commercializzazione del caffè messicano, in uno schema che danneggia i produttori”, poiché diminuiscono notevolmente la qualità durante il processo produttivo e si rifiutano di effettuare un pagamento equo ai produttori per il caffè di qualità superiore, con il risultato che il caffè messicano viene esportato a un prezzo inferiore rispetto ad altri paesi.
Il 24 gennaio dello stesso anno, il presidente del Consiglio Regionale del Caffè di Coatepec, Cirio Ruiz González, guidò una protesta nel centro di Ixhuatlán del Café, insieme a decine di altri colleghi, perché AMSA aveva deciso di ridurre il pagamento per il caffè ai produttori da 16 pesos al chilo a 11 pesos.
Lo stesso giorno si verificò un piccolo incendio nelle strutture di AMSA nella regione e l’azienda denunciò i produttori di caffè come responsabili. Cinque di loro, incluso Cirio, furono arrestati arbitrariamente. Dopo un mese e due giorni di carcere, Minervo Cantor Peña, Cirio Ruiz González e Abraham Cabal Pulido riacquistarono la loro libertà, mentre Crisanto Valiente Miramón e Viridiana Bretón (ex presidente municipale di Ixhuatlán del Café) furono liberati solo il 7 ottobre 2023, quasi due anni dopo.
Solo a fine aprile di quest’anno, dopo un lungo iter di denunce, appelli e ricorsi, si giunse a una risoluzione del conflitto, e AMSA decise di rinunciare a continuare le accuse di danni e altri procedimenti correlati. Fernando Celis commenta che da allora la partecipazione dei piccoli produttori alle manifestazioni è diminuita notevolmente, probabilmente per la paura di repressione e punizione da parte delle grandi aziende.
Il 14 luglio si è registrato un leggero aumento a 3,01 dollari nel prezzo dell’arabica, dovuto all’imposizione di dazi da parte del governo degli Stati Uniti per il Brasile. «Il 50% è alto, un vero abuso», denuncia Celis. Per la Colombia i dazi sono aumentati al 25% e per il Messico al 30%. Per il Vietnam e l’Indonesia sono elevati. «Se già c’era una forte distorsione nei prezzi del caffè a causa del funzionamento eccessivo della Borsa, i dazi, se mantenuti, genereranno un altro grande problema», spiega l’esperto, ma non è ancora stata raggiunta una negoziazione definitiva.
Da parte sua, AMECAFE e il Sistema Producto Café di Veracruz si sono riuniti il 18 luglio a Córdoba, Veracruz, per trattare il tema dell’istituzione della Legge sul Caffè, fortemente sostenuta dai produttori di caffè della zona. La Legge prevede la creazione di una commissione nazionale per lo sviluppo della coltivazione di caffè, ed uno spazio di concertazione tra governo, produttori e grandi acquirenti dove possano essere stabiliti i prezzi di riferimento, tema di fondamentale importanza affinché le comunità di produttori possano ricevere un pagamento giusto.
Tuttavia, la Ley del Café è attualmente bloccata alla Camera dei Deputati, poiché, sebbene la Camera dei Senatori abbia approvato il disegno di legge all’unanimità, la Segreteria dell’Economia richiede che vengano effettuate diverse modifiche alla Legge.
Il deputato Adrián González, uno dei principali sostenitori della Legge, in intervista si dichiara fiducioso che venga rispettato l’impegno preso dalla Camera per proseguire con il disegno di legge, al fine di promulgare la Ley a settembre di quest’anno, durante il prossimo periodo ordinario di sessioni.
Fonte
A febbraio 2025, i prezzi del caffè hanno registrato un forte aumento alla borsa di New York, arrivando a un incremento del 140% rispetto all’anno precedente, poiché si prevedevano siccità in Brasile e Vietnam con conseguente calo della produzione. I produttori locali si sono affrettati ad acquistare macchinari più sofisticati e a migliorare i livelli di produzione, a volte indebitandosi, con la speranza di maggiori guadagni.
Alla fine, le perdite previste non si sono verificate e, di conseguenza, a luglio il prezzo del caffè alla borsa di New York è sceso da 4,30 a 2,90 dollari per libbra. Un crollo forte, alimentato dalla speculazione selvaggia, che ha ridotto drasticamente i guadagni dei piccoli produttori.
La varietà robusta, di qualità inferiore e usata per la produzione di caffè solubile, per la prima volta nel marzo 2025 ha raggiunto il prezzo dell’arabica in borsa. In un contesto di grande incertezza, come possono sopravvivere i piccoli produttori locali?
Ho intervistato Fernando Celis Callejas, consigliere generale della Coordinadora Nacional de Organizaciones Cafetaleras, originario del comune di San Rafael, Veracruz in Messico.
Scoppia la bolla speculativa
«Le prime notizie che abbiamo ricevuto parlavano di siccità in Vietnam che avrebbe colpito il raccolto 2024-25. Dopo la fioritura in Brasile, si prevedeva siccità a partire da ottobre. Poiché si aspettava una scarsità di caffè, il prezzo è salito ulteriormente.
Anche dal Vietnam arrivavano previsioni di condizioni climatiche avverse per il raccolto 2025-26, e tutti i prezzi del caffè sono saliti in borsa fino a 4,40 dollari per libbra, per poi chiudere a 4,30», riassume Celis.
In effetti, il prezzo del caffè ha toccato il massimo storico a febbraio di quest’anno, il più alto degli ultimi 50 anni, suscitando preoccupazione tra molti esperti per la sua volatilità e per le condizioni precarie e instabili dei piccoli produttori. La comunità di coltivatori di caffè di Veracruz, in Messico, è abituata alle pratiche speculative che contraddistinguono questo mercato, e temeva un calo. Inoltre, i produttori locali riportano che le grandi aziende acquirenti, con l’aumento del prezzo del caffè, hanno visto salire i costi operativi, finanziari e di stoccaggio, motivo per cui hanno ridotto i pagamenti ai coltivatori da 20,50 pesos messicani al chilo di drupe (frutti della pianta del caffé) a 18 pesos.
«Alla fine, in Brasile è piovuto e in Vietnam si è fatto uso di più irrigazione e fertilizzanti, e la produzione ora è persino superiore al ciclo precedente. Probabilmente le informazioni diffuse da Brasile e Vietnam non erano del tutto veritiere, hanno esagerato riguardo alla siccità, e gli speculatori ne hanno approfittato», spiega Celis.
È noto infatti che nel mercato del caffè vi siano forti pratiche speculative, che aumentano la volatilità dei prezzi, causando picchi ben superiori alle reali dinamiche di domanda e offerta. Le principali organizzazioni acquirenti (Nestlé, Kraft, Procter & Gamble e Sara Lee) controllano circa il 50% della produzione mondiale e hanno una grande influenza sui prezzi. Piccole variazioni nei loro acquisti possono provocare forti oscillazioni.
Nei mercati del caffè, la speculazione ha inizialmente gonfiato artificialmente i prezzi, a causa della paura di perdite per fenomeni climatici, dinamiche geopolitiche e logistiche. Secondo Índice Político e un report di Hedge Point Global Markets, oltre il 30% dei contratti futuri sull’arabica a New York sono in mano a investitori non commerciali. Fondi d’investimento e grandi trader hanno sfruttato l’incertezza e le previsioni di scarsità per speculare. I piccoli produttori, fiduciosi in un mantenimento dei prezzi alti, si sono indebitati per aumentare la produzione, finché la bolla è esplosa e i prezzi sono crollati bruscamente.
«Con un aumento della produzione del 2%, il calo dei prezzi è incredibilmente grande. Alcuni dicono che è dovuto all’aumento della produzione di robusta», afferma Celis. Il robusta è una varietà più resistente e meno costosa, usata soprattutto per il caffè solubile, mentre l’arabica è più pregiata, delicata da coltivare e raccolta a mano.
Il pagamento medio ai produttori nazionali è sceso a 16 pesos messicani per chilo di drupe, quando date le condizioni si sarebbe dovuto pagare almeno 24 pesos. Una differenza di 8 pesos (circa 50 centesimi di euro)», lamenta Celis.
Celis denuncia un “abuso commerciale senza precedenti” da parte delle multinazionali come AMSA, La Laja, Merino, Aresca, California e Tomari, principali acquirenti di Nestlé. Per questo, è stata chiesta al Ministero dell’Economia e alla Segreteria dell’Agricoltura un’indagine approfondita, con sanzioni per i responsabili e misure di risarcimento per i produttori.
Il robusta si avvicina al prezzo dell’arabica
A marzo, il prezzo del robusta (cosí come la domanda) ha raggiunto il livello più alto degli ultimi 30 anni. Le cause, secondo Sahra Nguyen e Ryan Delany, sono:
– minimo storico della produzione a gennaio 2024 (2.996 lotti);
– aumento della domanda di robusta di alta qualità;
– crescita della popolarità delle miscele.
«L’aumento del robusta, molto economico, ha trascinato l’arabica. Ora la discesa del robusta trascina anche quella dell’arabica. Il Brasile ha esportato in Vietnam il 54% in più di caffè da inizio anno a giugno rispetto all’anno scorso, e il prezzo è sceso a 160 dollari al sacco (unità da 60 kg). A novembre, potrebbe scendere sotto i 100 dollari», spiega Celis. Questo porta a un peggioramento della qualità, poiché i prezzi incentivano la produzione di robusta.
Considerando le condizioni climatiche, il Coffee Report dell’USDA prevede che il raccolto combinato di arabica e robusta del Brasile aumenti fino a 65 milioni di sacchi nel ciclo 2025/26.
Si prevede che il raccolto di robusta aumenti di 3,1 milioni di sacchi e raggiunga la cifra record di 24,1 milioni, grazie al buon volume di pioggia che ha contribuito allo sviluppo delle drupe nei principali stati produttori del paese, Espíritu Santo e Bahia.
Si prevede invece che la produzione di arabica diminuisca di 2,8 milioni di sacchi, arrivando a 40,9 milioni, poiché la siccità e le alte temperature negli stati di Minas Gerais e São Paulo, in Brasile, hanno influito negativamente sulla fioritura, sull’attecchimento e sullo sviluppo delle drupe.
Le esportazioni del Brasile dovrebbero diminuire, poiché i prezzi elevati scoraggiano i paesi importatori dal ricostituire le scorte. Di conseguenza, si prevede che le scorte finali aumentino di 1 milione di sacchi, fino a 1,7 milioni, dopo il forte calo registrato l’anno scorso.
In Colombia si stima che la produzione cali di 700 mila sacchi, arrivando a 12,5 milioni, a causa delle piogge eccessive e della nuvolosità, che hanno ostacolato il periodo di fioritura e ridotto i rendimenti. Anche se queste condizioni hanno favorito la proliferazione della ruggine del caffè, un fungo che distrugge le coltivazioni, i tassi generali di rilevamento sono stati relativamente bassi grazie all’ampia presenza di varietà resistenti. Si prevede che le esportazioni di caffè in grani, principalmente verso Stati Uniti e Unione Europea, diminuiscano di 500 mila sacchi, fino a 10,7 milioni, a causa della riduzione della produzione.
Si prevede che la produzione dell’Indonesia aumenti di 550 mila sacchi, fino a 11,3 milioni. La produzione di robusta potrebbe raggiungere i 9,8 milioni di sacchi, grazie alle condizioni favorevoli nelle zone pianeggianti di Sumatra meridionale e Giava, dove si coltiva circa il 75% del caffè del paese. Anche la produzione di arabica dovrebbe aumentare leggermente, fino a 1,5 milioni di sacchi. Si prevede che l’elevata produzione favorisca l’aumento delle esportazioni di chicchi di caffè di 400 mila sacchi, fino a 6,5 milioni.
L’Etiopia potrebbe aumentare la propria produzione di 900 mila sacchi, raggiungendo la cifra record di 11,6 milioni di sacchi. La crescita degli ultimi tre anni è stata sostenuta dalla recente sostituzione di oltre la metà delle superfici coltivate con varietà di caffè ad alto rendimento. Inoltre, i coltivatori sono stati incoraggiati a migliorare i rendimenti attraverso la potatura dopo il raccolto. Si prevede che le esportazioni di caffè in grani aumentino di 800 mila sacchi, fino a 7,8 milioni, grazie all’aumento dell’offerta.
La produzione dell’America Centrale e del Messico aumenterà di 300 mila sacchi, fino a 17,7 milioni. Fatta eccezione per un modesto calo in Costa Rica, si prevedono leggeri aumenti in tutta la regione.
«Globalmente la produzione di robusta è ancora inferiore, ma la domanda è in forte aumento. Tra pochi anni supererà quella dell’arabica», conclude Celis.
L’influenza delle grandi aziende del caffè
«Il robusta è più attraente per la grande industria del solubile. In Messico non c'è un censimento proprio della produzione, ma l’organismo del CIAT fa un censimento ogni anno, secondo il quale si prevede una produzione di 3,9 milioni di sacchi per il prossimo ciclo. Del totale, poco più del 50% è destinato al consumo nazionale, e il 65% del consumo interno è di caffè solubile, cosa che non accade in altri paesi produttori. È un’eredità del controllo che aveva Nestlé, con il suo Nescafé, che è arrivato a rappresentare l’80% del consumo nazionale fino ad allora. Ora Nestlé gestisce il 60% del consumo nazionale di caffè e importa 1,8 milioni di sacchi», spiega Fernando Celis.
«La forza della presunta competitività di Nestlé sono i suoi prezzi molto accessibili. Del caffè solubile che si vende in barattoli da 1 kg, 2 kg o 5 kg, si utilizzano 2 grammi per una tazza. Il prezzo di una tazza è quindi di circa 80 centesimi di peso (circa 0,04 centesimi di euro). In un caffè, invece, una tazza di americano non costa meno di 25 pesos (poco più di un euro). Inoltre, ora Nestlé vende caffè cappuccino in bustine singole che costano 6 pesos (circa 25 centesimi di euro). Guardando gli ingredienti, risulta che contengono dal 5 al 7% di caffè solubile robusta importato, e non hanno latte in polvere, ma una miscela di polvere di farina di mais giallo importato e olio idrogenato di palma di cocco africano», continua l’esperto.
Celis afferma che è quasi impossibile competere con grandi aziende del caffè come Nestlé, a causa dei suoi prezzi molto bassi. La società ha annunciato all’inizio di quest’anno un investimento di 1 miliardo di dollari in Messico in progetti produttivi per il triennio 2025-2027, tra cui prevede di raddoppiare l’estensione della sua sede di produzione di caffè a Veracruz. Secondo l’USDA, durante questo ciclo le esportazioni di caffè solubile verso gli Stati Uniti aumenteranno di più di 400.000 sacchi, causando una possibile riduzione del prezzo e rendendo l’affare ancora più redditizio.
«Nestlé ha molti privilegi in Messico e ha una grande tecnologia: ha i suoi stabilimenti e si occupa di tutto il processo di produzione. In Messico ha il più grande stabilimento industriale a livello mondiale, perché il governo messicano le ha dato molte agevolazioni. Per esempio, una settimana dopo che l’ex presidente López Obrador è entrato in carica, Nestlé stava già offrendo un investimento in un nuovo stabilimento a Veracruz. Tuttavia, l’ex presidente non ha mai voluto incontrarsi con noi della Coordinadora Nacional de Organizaciones Cafetaleras», racconta Celis.
Vale la pena menzionare che negli anni passati Nestlé non ha aumentato la produzione di caffè solubile in Messico, probabilmente a causa del costo più alto della manodopera in Messico rispetto ad altri paesi produttori come Vietnam e Uganda.
«Nestlé ha costruito un potere non solo economico, ma politico, di influenza nel governo. Può persino nominare funzionari, come il responsabile della Segreteria dell’Agricoltura, Santiago Argüello Campos», denuncia Fernando Celis, «che è anche responsabile dei programmi di caffè certificato in Agroindustrias Unidas, o AMSA, una delle più grandi multinazionali acquirenti di caffè a livello mondiale e in Messico, insieme a Nestlé e alla tedesca NKG, Neumann Kaffee Gruppe. Le tre dominano l’80% della commercializzazione del caffè messicano, sia quello che viene esportato sia quello destinato al consumo interno, e quindi pongono le condizioni di acquisto. Non pagano per la qualità, ma per il rendimento».
A questo proposito, il rapporto “Explotación y opacidad: la realidad oculta del café mexicano en las cadenas de suministro de Nestlé y Starbucks” afferma che «La transizione di Argüello da CI (Conservation International, ONG statunitense) a ECOM (ECOM Trading, multinazionale del caffè con sede in Svizzera), e poi a un incarico federale è un caso di “porte girevoli”, che mette in evidenza un possibile conflitto di interesse o influenze indebite nel processo di certificazione di Starbucks e CI, così come nei processi regolatori di ECOM – che tramite AMSA è il maggiore fornitore di Nestlé in Messico».
La lotta dei produttori locali a Veracruz
Il conflitto tra i produttori locali di caffè di Veracruz e le grandi multinazionali del caffè è una disputa che dura da anni.
Nel luglio del 2022, pochi giorni dopo l’inaugurazione dello stabilimento di produzione della Nestlé nella regione, i produttori di caffè di tutto Veracruz emisero un comunicato intitolato: “Stop ai privilegi per la Nestlé e rispetto per le organizzazioni dei produttori”, in cui sottolinearono che Nestlé “compete in modo sleale e manipola il caffè messicano nel consumo nazionale. Nestlé e i suoi acquirenti dominano la commercializzazione del caffè messicano, in uno schema che danneggia i produttori”, poiché diminuiscono notevolmente la qualità durante il processo produttivo e si rifiutano di effettuare un pagamento equo ai produttori per il caffè di qualità superiore, con il risultato che il caffè messicano viene esportato a un prezzo inferiore rispetto ad altri paesi.
Il 24 gennaio dello stesso anno, il presidente del Consiglio Regionale del Caffè di Coatepec, Cirio Ruiz González, guidò una protesta nel centro di Ixhuatlán del Café, insieme a decine di altri colleghi, perché AMSA aveva deciso di ridurre il pagamento per il caffè ai produttori da 16 pesos al chilo a 11 pesos.
Lo stesso giorno si verificò un piccolo incendio nelle strutture di AMSA nella regione e l’azienda denunciò i produttori di caffè come responsabili. Cinque di loro, incluso Cirio, furono arrestati arbitrariamente. Dopo un mese e due giorni di carcere, Minervo Cantor Peña, Cirio Ruiz González e Abraham Cabal Pulido riacquistarono la loro libertà, mentre Crisanto Valiente Miramón e Viridiana Bretón (ex presidente municipale di Ixhuatlán del Café) furono liberati solo il 7 ottobre 2023, quasi due anni dopo.
Solo a fine aprile di quest’anno, dopo un lungo iter di denunce, appelli e ricorsi, si giunse a una risoluzione del conflitto, e AMSA decise di rinunciare a continuare le accuse di danni e altri procedimenti correlati. Fernando Celis commenta che da allora la partecipazione dei piccoli produttori alle manifestazioni è diminuita notevolmente, probabilmente per la paura di repressione e punizione da parte delle grandi aziende.
Il 14 luglio si è registrato un leggero aumento a 3,01 dollari nel prezzo dell’arabica, dovuto all’imposizione di dazi da parte del governo degli Stati Uniti per il Brasile. «Il 50% è alto, un vero abuso», denuncia Celis. Per la Colombia i dazi sono aumentati al 25% e per il Messico al 30%. Per il Vietnam e l’Indonesia sono elevati. «Se già c’era una forte distorsione nei prezzi del caffè a causa del funzionamento eccessivo della Borsa, i dazi, se mantenuti, genereranno un altro grande problema», spiega l’esperto, ma non è ancora stata raggiunta una negoziazione definitiva.
Da parte sua, AMECAFE e il Sistema Producto Café di Veracruz si sono riuniti il 18 luglio a Córdoba, Veracruz, per trattare il tema dell’istituzione della Legge sul Caffè, fortemente sostenuta dai produttori di caffè della zona. La Legge prevede la creazione di una commissione nazionale per lo sviluppo della coltivazione di caffè, ed uno spazio di concertazione tra governo, produttori e grandi acquirenti dove possano essere stabiliti i prezzi di riferimento, tema di fondamentale importanza affinché le comunità di produttori possano ricevere un pagamento giusto.
Tuttavia, la Ley del Café è attualmente bloccata alla Camera dei Deputati, poiché, sebbene la Camera dei Senatori abbia approvato il disegno di legge all’unanimità, la Segreteria dell’Economia richiede che vengano effettuate diverse modifiche alla Legge.
Il deputato Adrián González, uno dei principali sostenitori della Legge, in intervista si dichiara fiducioso che venga rispettato l’impegno preso dalla Camera per proseguire con il disegno di legge, al fine di promulgare la Ley a settembre di quest’anno, durante il prossimo periodo ordinario di sessioni.
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Iveco: nubi nere all'orizzonte
Si moltiplicano i segnali inquietanti sulla cessione della Iveco Idv (Iveco Defence Vehicles) a Leonardo e della divisione veicoli industriali alla Tata Motors, uno dei maggiori gruppi indiani con sede a Mumbai, che già possiede i marchi Jaguar e Land Rover.
Il titolo ha non a caso guadagnato negli ultimi giorni improvvisamente il 5,2% in Piazza Affari, dopo che l’agenzia Bloomberg ha ipotizzato un imminente annuncio sulla cessione, per la quale le trattative sarebbero in fase avanzata.
La vendita di Iveco si inserirebbe nel quadro degli sforzi di Exor, la holding finanziaria olandese della famiglia Agnelli/Elkann che controlla Iveco, di diversificare i propri interessi dal settore automobilistico verso aree come la sanità, i beni di lusso e la tecnologia.
Il gruppo Iveco ha 14 mila dipendenti in Italia e 36 mila in altri Paesi europei. Di questi, circa 2.600 lavorano a Brescia.
Attorno agli stabilimenti Iveco ci sono inoltre decine di aziende che formano la filiera. Avendo avuto già un’esperienza più che sufficiente delle modalità di azione degli “(im)prenditori” indiani nella vicenda dell’ex-llva, è certo che come prima cosa gli stabilimenti diventeranno luoghi di assemblaggio di pezzi fabbricati altrove. Il trattamento riservato ai lavoratori sarà poi senz’altro simile a quello già sperimentato ampiamente a Taranto.
Del resto, la stessa Iveco ha confermato in una nota che «sono in corso discussioni in stato avanzato per potenziali operazioni riguardanti il settore della difesa, da un lato, e la restante società dall’altro». Ed ha aggiunto: «Il Consiglio di Amministrazione sta analizzando e valutando attentamente tutti gli aspetti di queste potenziali operazioni».
Così dopo anni di soldi pubblici regalati agli Agnelli/Elkann, ora ci ritroviamo con il rischio di vedere un colosso strategico come IVECO finire nelle mani degli indiani di Tata... E dire che gli Agnelli/Elkann avevano annunciato investimenti nell’Iveco per 5,5 miliardi di euro entro il 2028...
La strada è dunque segnata, malgrado le prese di posizione di poco credibili dei deputati bresciani del Partito Democratico e di Azione, che chiedono – proprio loro, alfieri del “libero mercato” – garanzie al Governo Meloni!
Un’altra grande azienda italiana finirà in mani straniere con enormi ricadute in termini di occupazione.
Negli ultimi anni in Italia è avvenuto un vasto processo di perdita di capacità industriale.
La Presidente del Consiglio Meloni, la “sovranista” di cartapesta che in campagna elettorale tanti proclami aveva lanciato in difesa della “sovranità nazionale”, potrebbe rapidamente attivarsi per evitare l’ennesima svendita.
Gli strumenti esistono: Golden Power per bloccare la cessione di un’azienda ritenuta strategica; partecipazione statale alle quote azionarie; nazionalizzazione. Sono parole che destano scandalo per i liberisti dominanti in Italia. Sono in realtà efficaci mezzi di intervento, ovviamente se c’è la volontà politica di intervenire...
Ma tutto questo non succederà. La proposta di vendita di Iveco Defence a Leonardo è in corso anzi proprio perché è l’unica cosa che interessa al governo: mantenere i lucrosi affari legati alle armi e alla guerra. Quelli sì che sono “attività strategiche”! Quanto al resto, strada spianata ad un accordo con Tata per la parte restante del business, che comprende autocarri commerciali, propulsori, autobus e altri veicoli speciali.
Non è possibile accettare che un altro pilastro industriale anche di Brescia venga svenduto, provocando un colpo mortale alla struttura produttiva del territorio.
Ogni giorno si perdono fabbriche, posti di lavoro, capacità economica.
Chi dice che “la mano invisibile del mercato” auto-governerà nel migliore dei modi il “processo di riassestamento” o è in malafede o non capisce niente.
Fonte
Il titolo ha non a caso guadagnato negli ultimi giorni improvvisamente il 5,2% in Piazza Affari, dopo che l’agenzia Bloomberg ha ipotizzato un imminente annuncio sulla cessione, per la quale le trattative sarebbero in fase avanzata.
La vendita di Iveco si inserirebbe nel quadro degli sforzi di Exor, la holding finanziaria olandese della famiglia Agnelli/Elkann che controlla Iveco, di diversificare i propri interessi dal settore automobilistico verso aree come la sanità, i beni di lusso e la tecnologia.
Il gruppo Iveco ha 14 mila dipendenti in Italia e 36 mila in altri Paesi europei. Di questi, circa 2.600 lavorano a Brescia.
Attorno agli stabilimenti Iveco ci sono inoltre decine di aziende che formano la filiera. Avendo avuto già un’esperienza più che sufficiente delle modalità di azione degli “(im)prenditori” indiani nella vicenda dell’ex-llva, è certo che come prima cosa gli stabilimenti diventeranno luoghi di assemblaggio di pezzi fabbricati altrove. Il trattamento riservato ai lavoratori sarà poi senz’altro simile a quello già sperimentato ampiamente a Taranto.
Del resto, la stessa Iveco ha confermato in una nota che «sono in corso discussioni in stato avanzato per potenziali operazioni riguardanti il settore della difesa, da un lato, e la restante società dall’altro». Ed ha aggiunto: «Il Consiglio di Amministrazione sta analizzando e valutando attentamente tutti gli aspetti di queste potenziali operazioni».
Così dopo anni di soldi pubblici regalati agli Agnelli/Elkann, ora ci ritroviamo con il rischio di vedere un colosso strategico come IVECO finire nelle mani degli indiani di Tata... E dire che gli Agnelli/Elkann avevano annunciato investimenti nell’Iveco per 5,5 miliardi di euro entro il 2028...
La strada è dunque segnata, malgrado le prese di posizione di poco credibili dei deputati bresciani del Partito Democratico e di Azione, che chiedono – proprio loro, alfieri del “libero mercato” – garanzie al Governo Meloni!
Un’altra grande azienda italiana finirà in mani straniere con enormi ricadute in termini di occupazione.
Negli ultimi anni in Italia è avvenuto un vasto processo di perdita di capacità industriale.
La Presidente del Consiglio Meloni, la “sovranista” di cartapesta che in campagna elettorale tanti proclami aveva lanciato in difesa della “sovranità nazionale”, potrebbe rapidamente attivarsi per evitare l’ennesima svendita.
Gli strumenti esistono: Golden Power per bloccare la cessione di un’azienda ritenuta strategica; partecipazione statale alle quote azionarie; nazionalizzazione. Sono parole che destano scandalo per i liberisti dominanti in Italia. Sono in realtà efficaci mezzi di intervento, ovviamente se c’è la volontà politica di intervenire...
Ma tutto questo non succederà. La proposta di vendita di Iveco Defence a Leonardo è in corso anzi proprio perché è l’unica cosa che interessa al governo: mantenere i lucrosi affari legati alle armi e alla guerra. Quelli sì che sono “attività strategiche”! Quanto al resto, strada spianata ad un accordo con Tata per la parte restante del business, che comprende autocarri commerciali, propulsori, autobus e altri veicoli speciali.
Non è possibile accettare che un altro pilastro industriale anche di Brescia venga svenduto, provocando un colpo mortale alla struttura produttiva del territorio.
Ogni giorno si perdono fabbriche, posti di lavoro, capacità economica.
Chi dice che “la mano invisibile del mercato” auto-governerà nel migliore dei modi il “processo di riassestamento” o è in malafede o non capisce niente.
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Meloni nel Corno d’Africa: un occhio al Piano Mattei, un occhio al Mediterraneo allargato
Giorgia Meloni ha appena concluso il proprio viaggio nel vecchio impero dell’Africa Orientale Italiana. La sua ‘campagna d’Africa’ non aveva come scopo la conquista diretta, ma sicuramente tra le prime preoccupazioni c’era quella di assicurarsi un posto di rilievo nel Corno d’Africa, sia per dare ancora un qualche senso al Piano Mattei, sia per tenere un occhio sul Mediterraneo allargato.
Ad Addis Abeba, tra il 27 e il 29 luglio si è svolto il secondo vertice ONU sui sistemi alimentari (il cosiddetto UN Food Systems Summit +4). L’evento è co-presieduto dall’Etiopia insieme all’Italia, e poiché il suo obiettivo è quello di sconfiggere la fame, come previsto nella sezione 2 dell’Agenda 2030 dell’ONU, risulta di grande interesse per il governo Meloni.
Non perché a Palazzo Chigi sia emersa di sana pianta una profonda coscienza umanitaria, e neanche tanto perché tale traguardo si associa bene alla propaganda sul raggiungimento della ‘sovranità alimentare’. Anche se tale fine è tra le responsabilità di Francesco Lollobrigida, al ministro dell’Agricoltura interessano affari molto concreti.
I momenti fondamentali del viaggio di Meloni sono gli incontri con Abiy Ahmed, primo ministro etiope, con William Ruto, presidente del Kenya, e con quello dell’Unione Africana Mahamoud Ali Youssouf. Da quest’ultimo doveva incassare il rinnovato sostegno agli impegni del Piano Mattei, che nella regione riguardano molti settori.
Il Kenya ha visto il riemergere di profonde contraddizioni interne al paese, ma la sua economia continua a crescere, e potrebbe superare quella etiope, prima nella regione. Il presidente Ruto ha appena annunciato che intende quotare in borsa la Kenya Pipeline Company, in una più ampia strategia di privatizzazione di imprese statali... chissà che non ci siano prenditori italiani che guardino a questa possibilità.
Ad ogni modo, è certamente l’Etiopia il centro delle attenzioni del governo, anche se in entrambi i paesi sono diversi gli investimenti italiani nel comparto agricolo e anche in quello delle infrastrutture e dell’energia. Con Ahmed, Meloni si è recata a Jimma, dove si trova uno dei progetti pilota del Piano Mattei.
Si tratta della riqualificazione del lago Boye, bacino artificiale creato dagli allora coloni italiani, poi lasciato in stato di abbandono. Ora diventa un polo turistico importante, oltre che funzionale alla locale filiera del caffè. Rappresenta un’area che sta attirando importanti investimenti privati, accanto a quelli pubblici.
In generale, la presidente del Consiglio è venuta a ‘vendere’ il modello di partenariato che ha appena fatto passi avanti in Algeria. Lì, dopo il recente Forum imprenditoriale svoltosi a margine di un vertice intergovernativo, ha posto gli occhi il gruppo Bonifiche Ferraresi (BF), col sostegno di SACE, gruppo assicurativo partecipato dal ministero dell’Economia.
BF è diventato un perno fondamentale della strategia italiana – ed anche unioneuropea – in Africa, con diversi progetti per una produzione agricola che spesso è finalizzata alla produzione di biocombustibili. Ma per quanto riguarda il settore energetico, sono tanti gli interessi in gioco anche per Webuild.
Il colosso italiano è coinvolto nella costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam, una diga sul Nilo Azzurro di cui sono appena stati dichiarati finiti i lavori. Ma che ha portato a varie tensioni tra l’Etiopia, il Sudan e l’Egitto, per il tema della gestione delle acque in un’area già fortemente segnata dalla siccità.
Se non si raggiungerà un accordo tra questi paesi, l’attività della diga sarà sostanzialmente illegale, e di recente Trump ha criticato l’opera, per assicurarsi l’amicizia dell’Egitto, coinvolto a sua volta nel difficile dossier palestinese. Non è l’unica diga su cui sta lavorando Webuild, ma in generale la volontà è quella di rafforzare la presenza nella regione, e il legame della sua classe dirigente con i terminali europei.
Infatti, c’è un nodo che ha reso molto chiaro il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, prima di accompagnare Meloni in Africa: “la stabilità dell’Etiopia rappresenta un asset essenziale per la sicurezza dell’intero Corno d’Africa. Parliamo di un’area di rilevo geopolitico assoluto, incastonata com’è tra Mar Rosso e Oceano Indiano”.
Con un’Eritrea ancora in disordine, una Somalia debole, l’ultima base militare francese in Africa, in Gibuti, proteste in Kenya e una guerra civile in Sudan, per tenere un presidio solido proiettato verso i confini del Mediterraneo allargato, Roma ha bisogno che l’Etiopia rimanga un saldo alleato italiano e dell’Unione Europea.
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Ad Addis Abeba, tra il 27 e il 29 luglio si è svolto il secondo vertice ONU sui sistemi alimentari (il cosiddetto UN Food Systems Summit +4). L’evento è co-presieduto dall’Etiopia insieme all’Italia, e poiché il suo obiettivo è quello di sconfiggere la fame, come previsto nella sezione 2 dell’Agenda 2030 dell’ONU, risulta di grande interesse per il governo Meloni.
Non perché a Palazzo Chigi sia emersa di sana pianta una profonda coscienza umanitaria, e neanche tanto perché tale traguardo si associa bene alla propaganda sul raggiungimento della ‘sovranità alimentare’. Anche se tale fine è tra le responsabilità di Francesco Lollobrigida, al ministro dell’Agricoltura interessano affari molto concreti.
I momenti fondamentali del viaggio di Meloni sono gli incontri con Abiy Ahmed, primo ministro etiope, con William Ruto, presidente del Kenya, e con quello dell’Unione Africana Mahamoud Ali Youssouf. Da quest’ultimo doveva incassare il rinnovato sostegno agli impegni del Piano Mattei, che nella regione riguardano molti settori.
Il Kenya ha visto il riemergere di profonde contraddizioni interne al paese, ma la sua economia continua a crescere, e potrebbe superare quella etiope, prima nella regione. Il presidente Ruto ha appena annunciato che intende quotare in borsa la Kenya Pipeline Company, in una più ampia strategia di privatizzazione di imprese statali... chissà che non ci siano prenditori italiani che guardino a questa possibilità.
Ad ogni modo, è certamente l’Etiopia il centro delle attenzioni del governo, anche se in entrambi i paesi sono diversi gli investimenti italiani nel comparto agricolo e anche in quello delle infrastrutture e dell’energia. Con Ahmed, Meloni si è recata a Jimma, dove si trova uno dei progetti pilota del Piano Mattei.
Si tratta della riqualificazione del lago Boye, bacino artificiale creato dagli allora coloni italiani, poi lasciato in stato di abbandono. Ora diventa un polo turistico importante, oltre che funzionale alla locale filiera del caffè. Rappresenta un’area che sta attirando importanti investimenti privati, accanto a quelli pubblici.
In generale, la presidente del Consiglio è venuta a ‘vendere’ il modello di partenariato che ha appena fatto passi avanti in Algeria. Lì, dopo il recente Forum imprenditoriale svoltosi a margine di un vertice intergovernativo, ha posto gli occhi il gruppo Bonifiche Ferraresi (BF), col sostegno di SACE, gruppo assicurativo partecipato dal ministero dell’Economia.
BF è diventato un perno fondamentale della strategia italiana – ed anche unioneuropea – in Africa, con diversi progetti per una produzione agricola che spesso è finalizzata alla produzione di biocombustibili. Ma per quanto riguarda il settore energetico, sono tanti gli interessi in gioco anche per Webuild.
Il colosso italiano è coinvolto nella costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam, una diga sul Nilo Azzurro di cui sono appena stati dichiarati finiti i lavori. Ma che ha portato a varie tensioni tra l’Etiopia, il Sudan e l’Egitto, per il tema della gestione delle acque in un’area già fortemente segnata dalla siccità.
Se non si raggiungerà un accordo tra questi paesi, l’attività della diga sarà sostanzialmente illegale, e di recente Trump ha criticato l’opera, per assicurarsi l’amicizia dell’Egitto, coinvolto a sua volta nel difficile dossier palestinese. Non è l’unica diga su cui sta lavorando Webuild, ma in generale la volontà è quella di rafforzare la presenza nella regione, e il legame della sua classe dirigente con i terminali europei.
Infatti, c’è un nodo che ha reso molto chiaro il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, prima di accompagnare Meloni in Africa: “la stabilità dell’Etiopia rappresenta un asset essenziale per la sicurezza dell’intero Corno d’Africa. Parliamo di un’area di rilevo geopolitico assoluto, incastonata com’è tra Mar Rosso e Oceano Indiano”.
Con un’Eritrea ancora in disordine, una Somalia debole, l’ultima base militare francese in Africa, in Gibuti, proteste in Kenya e una guerra civile in Sudan, per tenere un presidio solido proiettato verso i confini del Mediterraneo allargato, Roma ha bisogno che l’Etiopia rimanga un saldo alleato italiano e dell’Unione Europea.
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Le “liste di proscrizione” di Mattarella, Tajani, Crosetto, tra realtà e propaganda di guerra
La prima domanda che il lettore si pone è: l’avranno letto cosa ci sia scritto, oppure le parole de La Repubblica sono acqua santa e vanno prese come il Verbo: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Giovanni, 1-1).
Dunque, La Repubblica del 30 luglio titola: “Attacchi a Mattarella, Meloni: ‘Inaccettabile provocazione‘” e aggiunge che il ministero degli esteri sta per convocare l’ambasciatore russo in Italia Aleksej Paramonov per contestargli l’inserimento di alte cariche della repubblica italiana in un presunto elenco di soggetti “russofobi”.
Anche Guido Crosetto, “il cui nome a sua volta appare nella lista diffusa dal ministero degli Esteri russo, parla di ‘liste di proscrizione’, mentre Antonio Tajani (anche lui citato nella cosiddetta ‘lista’), afferma di considerare ‘l’inserimento della persona del Capo dello Stato in questo elenco una provocazione alla Repubblica e al popolo italiano'”. Nientepopodimeno.
Come di dovere, levata di scudi ex omnia partes: Elly Schlein parla dell’inserimento “del presidente Mattarella in una lista di presunti russofobi da parte della Russia di Putin è inaccettabile, grave e inqualificabile”; petto in fuori, Giuseppe Conte respinge “vili intimidazioni”.
Poi, tutti d’un fiato: Enrico Borghi, Stefania Craxi, Lucio Malan, Massimiliano Romeo, Michaela Biancofiore, Bruno Marton, Tito Magni, Luigi Spagnoli. Ne seguiranno di sicuro altri.
In effetti, sul sito del ministero degli esteri russo, alla voce “Pubblicazioni, smentite, esempi di manifestazioni di russofobia”, compaiono due “elenchi”, entrambi datati 24 luglio 2025, ma riferiti al 2024 e al 2025, definiti come “Esempi di dichiarazioni di esponenti ufficiali e rappresentanti delle élite di paesi occidentali a proposito della Russia, con l’utilizzo del “linguaggio dell’odio”.
Nel cosiddetto “elenco” relativo al 2024, vengono riportate dichiarazioni di Antonio Tajani, Guido Crosetto e Sergio Mattarella; in quello relativo al 2025, si cita il solo Mattarella.
In entrambi i casi, le dichiarazioni degli esponenti italiani sono precedute da quelle, di simile tenore, di esponenti di altri paesi. Ad esempio, per il 2024, prima di arrivare all’Italia, si citano discorsi di esponenti di USA, Bulgaria, Belgio, Germania, Grecia, Cechia, Cipro, UE, NATO, Olanda, Lussemburgo; dopo l’Italia, seguono Polonia, Francia, Croazia e Canada. Per il 2025, il numero di paesi e organizzazioni citati cambia di poco.
Ora, quali sono le dichiarazioni di Tajani, Mattarella e Crosetto citate per il 2024? Tajani: «Vorrei vedere bandiere blu e gialle al corteo (in onore del giorno della liberazione dell’Italia dal fascismo). I combattenti ucraini, come i partigiani e i soldati dell’esercito di liberazione del 1945, combattono per la libertà». (Intervista a Il Messaggero del 24.02.2024).
Mattarella: «La tragedia del popolo ucraino impone di ricordare le distruzioni che avevano colpito i paesi europei e ci esorta a rinnovare il nostro impegno per la difesa dai regimi dittatoriali, la pace, la libertà e lo stato di diritto, valori per i quali dettero la vita coloro che sono morti qui». (Discorso pronunciato in occasione del 80° anniversario della battaglia di Montecassino presso il cimitero militare polacco, 18.05.2024).
Crosetto: «Temo che Putin voglia tutta l’Ucraina, inoltre nessuno garantisce che si fermerà all’Ucraina. È ovvio che ha in mente un ordine internazionale in cui chi è più forte prende altri Paesi se e quando vuole». (Intervista a Il Messaggero del 06.05.2024).
Mattarella: «Il risultato fu un rafforzamento dello spirito di conflitto, invece che di cooperazione, nonostante la consapevolezza della necessità di affrontare e risolvere i problemi su scala più ampia. Ma prevalse il principio di dominio, non quello di cooperazione. E furono guerre di conquista. Questo era il piano del Terzo Reich in Europa. L’attuale aggressione russa contro l’Ucraina è di questa natura». (Discorso all’Università di Marsiglia, in occasione del conferimento della laurea honoris causa – 5 febbraio 2025).
Per farla breve: lasciamo simili oscenità alla coscienza di chi ha pronunciato frasi quali l’accostamento dei terroristi neonazisti di Kiev ai partigiani, soprattutto comunisti, azionisti e socialisti, che liberarono l’Italia dal nazifascismo, o l’avvicinamento di Russia e Terzo Reich, oppure l’attribuzione a Mosca e a Putin di “progetti” che, a dire il vero, costituiscono proprio i piani d’attacco di USA-NATO-UE verso la Russia.
L’ultimo esempio è dato dai disegni per l’adattamento delle reti viarie, ferroviarie e altro ai mezzi militari pesanti della NATO, di cui in realtà si parla da anni, almeno dal 2018, ma che sembrano entrati ora nella fase attuativa, a dimostrazione delle intenzioni belliciste dei suoi attori.
Non aveva ancora di recente, il Presidente Mattarella, parlato di «grave, inaccettabile aggressione russa all’Ucraina», quale ulteriore «esempio di una minaccia sempre più insistente al sistema di principi che l’Alleanza e l’Unione europea difendono»?
“Sistema di principi” ovviamente estraneo, tanto da attaccarlo, a quelle latitudini iperboree in cui predominano i «regimi dittatoriali». Là c’è il cosiddetto “asse del male”; di qua, c’è solo il bene: meno, in effetti per operai e pensionati. Ma tant’è.
E allora: i signori Crosetto, Tajani e Mattarella, sono forse ora imbarazzati dalle proprie stesse dichiarazioni, tanto da ricorrere alla vecchia tattica dell’attacco preventivo? Le parole da essi pronunciate in quelle diverse occasioni, non sono state forse dettate proprio da uno spirito di inimicizia e finanche di odio nei confronti di Mosca?
Di quale «pubblicazione di “liste di proscrizione” da parte di Mosca e del suo regime autocratico», parla l’egregio signor ministro della guerra, al governo con esponenti fascisti che non hanno mai ricusato i propri “convincimenti” dittatoriali e anzi li attuano ogni giorno con le loro leggi liberticide e di affamamento dei lavoratori?
Cosa hanno in mente Mattarella, Tajani o Crosetto, quando sproloquiano di “libertà”, «difesa dai regimi dittatoriali»: quale è la loro “idea” di “libertà” e “dittatura” e quali sarebbero, a loro dire, le manifestazioni concrete di tali categorie?
Nessuna “lista di proscrizione”, per quanto sbraitino nei palazzi italici: semplice constatazione di dove possano arrivare le indecenze pronunciate a partire da visioni fasciste, liberal-europeiste o, nel “migliore” dei casi, guerrafondaie, di determinate categorie storico-politiche, su cui i comunisti hanno ben altre idee, più tangibilmente basate sui reali rapporti di classe e sul loro concreto realizzarsi nelle varie e diverse realtà.
Tutto qui. La russofobia, in effetti, vive e prospera, anche senza tirare di nuovo il ballo “caso Gergiev”. La realtà è che, ossequiosi ai comandamenti USA-UE-NATO, stanno preparando la guerra e tutto, azioni e parole, va in quella direzione.
«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». (Luca, 21-6)
Fonte
Dunque, La Repubblica del 30 luglio titola: “Attacchi a Mattarella, Meloni: ‘Inaccettabile provocazione‘” e aggiunge che il ministero degli esteri sta per convocare l’ambasciatore russo in Italia Aleksej Paramonov per contestargli l’inserimento di alte cariche della repubblica italiana in un presunto elenco di soggetti “russofobi”.
Anche Guido Crosetto, “il cui nome a sua volta appare nella lista diffusa dal ministero degli Esteri russo, parla di ‘liste di proscrizione’, mentre Antonio Tajani (anche lui citato nella cosiddetta ‘lista’), afferma di considerare ‘l’inserimento della persona del Capo dello Stato in questo elenco una provocazione alla Repubblica e al popolo italiano'”. Nientepopodimeno.
Come di dovere, levata di scudi ex omnia partes: Elly Schlein parla dell’inserimento “del presidente Mattarella in una lista di presunti russofobi da parte della Russia di Putin è inaccettabile, grave e inqualificabile”; petto in fuori, Giuseppe Conte respinge “vili intimidazioni”.
Poi, tutti d’un fiato: Enrico Borghi, Stefania Craxi, Lucio Malan, Massimiliano Romeo, Michaela Biancofiore, Bruno Marton, Tito Magni, Luigi Spagnoli. Ne seguiranno di sicuro altri.
In effetti, sul sito del ministero degli esteri russo, alla voce “Pubblicazioni, smentite, esempi di manifestazioni di russofobia”, compaiono due “elenchi”, entrambi datati 24 luglio 2025, ma riferiti al 2024 e al 2025, definiti come “Esempi di dichiarazioni di esponenti ufficiali e rappresentanti delle élite di paesi occidentali a proposito della Russia, con l’utilizzo del “linguaggio dell’odio”.
Nel cosiddetto “elenco” relativo al 2024, vengono riportate dichiarazioni di Antonio Tajani, Guido Crosetto e Sergio Mattarella; in quello relativo al 2025, si cita il solo Mattarella.
In entrambi i casi, le dichiarazioni degli esponenti italiani sono precedute da quelle, di simile tenore, di esponenti di altri paesi. Ad esempio, per il 2024, prima di arrivare all’Italia, si citano discorsi di esponenti di USA, Bulgaria, Belgio, Germania, Grecia, Cechia, Cipro, UE, NATO, Olanda, Lussemburgo; dopo l’Italia, seguono Polonia, Francia, Croazia e Canada. Per il 2025, il numero di paesi e organizzazioni citati cambia di poco.
Ora, quali sono le dichiarazioni di Tajani, Mattarella e Crosetto citate per il 2024? Tajani: «Vorrei vedere bandiere blu e gialle al corteo (in onore del giorno della liberazione dell’Italia dal fascismo). I combattenti ucraini, come i partigiani e i soldati dell’esercito di liberazione del 1945, combattono per la libertà». (Intervista a Il Messaggero del 24.02.2024).
Mattarella: «La tragedia del popolo ucraino impone di ricordare le distruzioni che avevano colpito i paesi europei e ci esorta a rinnovare il nostro impegno per la difesa dai regimi dittatoriali, la pace, la libertà e lo stato di diritto, valori per i quali dettero la vita coloro che sono morti qui». (Discorso pronunciato in occasione del 80° anniversario della battaglia di Montecassino presso il cimitero militare polacco, 18.05.2024).
Crosetto: «Temo che Putin voglia tutta l’Ucraina, inoltre nessuno garantisce che si fermerà all’Ucraina. È ovvio che ha in mente un ordine internazionale in cui chi è più forte prende altri Paesi se e quando vuole». (Intervista a Il Messaggero del 06.05.2024).
Mattarella: «Il risultato fu un rafforzamento dello spirito di conflitto, invece che di cooperazione, nonostante la consapevolezza della necessità di affrontare e risolvere i problemi su scala più ampia. Ma prevalse il principio di dominio, non quello di cooperazione. E furono guerre di conquista. Questo era il piano del Terzo Reich in Europa. L’attuale aggressione russa contro l’Ucraina è di questa natura». (Discorso all’Università di Marsiglia, in occasione del conferimento della laurea honoris causa – 5 febbraio 2025).
Per farla breve: lasciamo simili oscenità alla coscienza di chi ha pronunciato frasi quali l’accostamento dei terroristi neonazisti di Kiev ai partigiani, soprattutto comunisti, azionisti e socialisti, che liberarono l’Italia dal nazifascismo, o l’avvicinamento di Russia e Terzo Reich, oppure l’attribuzione a Mosca e a Putin di “progetti” che, a dire il vero, costituiscono proprio i piani d’attacco di USA-NATO-UE verso la Russia.
L’ultimo esempio è dato dai disegni per l’adattamento delle reti viarie, ferroviarie e altro ai mezzi militari pesanti della NATO, di cui in realtà si parla da anni, almeno dal 2018, ma che sembrano entrati ora nella fase attuativa, a dimostrazione delle intenzioni belliciste dei suoi attori.
Non aveva ancora di recente, il Presidente Mattarella, parlato di «grave, inaccettabile aggressione russa all’Ucraina», quale ulteriore «esempio di una minaccia sempre più insistente al sistema di principi che l’Alleanza e l’Unione europea difendono»?
“Sistema di principi” ovviamente estraneo, tanto da attaccarlo, a quelle latitudini iperboree in cui predominano i «regimi dittatoriali». Là c’è il cosiddetto “asse del male”; di qua, c’è solo il bene: meno, in effetti per operai e pensionati. Ma tant’è.
E allora: i signori Crosetto, Tajani e Mattarella, sono forse ora imbarazzati dalle proprie stesse dichiarazioni, tanto da ricorrere alla vecchia tattica dell’attacco preventivo? Le parole da essi pronunciate in quelle diverse occasioni, non sono state forse dettate proprio da uno spirito di inimicizia e finanche di odio nei confronti di Mosca?
Di quale «pubblicazione di “liste di proscrizione” da parte di Mosca e del suo regime autocratico», parla l’egregio signor ministro della guerra, al governo con esponenti fascisti che non hanno mai ricusato i propri “convincimenti” dittatoriali e anzi li attuano ogni giorno con le loro leggi liberticide e di affamamento dei lavoratori?
Cosa hanno in mente Mattarella, Tajani o Crosetto, quando sproloquiano di “libertà”, «difesa dai regimi dittatoriali»: quale è la loro “idea” di “libertà” e “dittatura” e quali sarebbero, a loro dire, le manifestazioni concrete di tali categorie?
Nessuna “lista di proscrizione”, per quanto sbraitino nei palazzi italici: semplice constatazione di dove possano arrivare le indecenze pronunciate a partire da visioni fasciste, liberal-europeiste o, nel “migliore” dei casi, guerrafondaie, di determinate categorie storico-politiche, su cui i comunisti hanno ben altre idee, più tangibilmente basate sui reali rapporti di classe e sul loro concreto realizzarsi nelle varie e diverse realtà.
Tutto qui. La russofobia, in effetti, vive e prospera, anche senza tirare di nuovo il ballo “caso Gergiev”. La realtà è che, ossequiosi ai comandamenti USA-UE-NATO, stanno preparando la guerra e tutto, azioni e parole, va in quella direzione.
«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». (Luca, 21-6)
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Venezuela, il voto municipale premia il blocco bolivariano
di Geraldina Colotti
La folla colorata e festosa avanza verso il Palazzo di Miraflores cantando “Chávez corazón del pueblo”. Uno stormo di uccelli guacamayas si staglia nel tramonto caraibico, vince le ombre del recente temporale che ancora ristagnano sul palazzo presidenziale. A 12 anni dalla morte, l’ex presidente del Venezuela, scomparso il 5 marzo del 2013, rimane nel “cuore del popolo”, che ha festeggiato il suo compleanno n. 71 il giorno dopo del voto per le comunali.
Quella del 27 luglio è stata l’elezione n. 33, relativa ai 335 municipi e ai consiglieri, più il voto della Consulta Popular, che ha riguardato la scelta dei progetti comunitari, soprattutto proposti dai giovani, a cui dare priorità. L’80% dei progetti già approvato nelle tre precedenti consultazioni, è già in fase di attuazione. Da queste elezioni, a cui hanno partecipato oltre il 44 per cento degli aventi diritto, e che ha fatto registrare quasi 300.000 voti in più rispetto a quelle dei governatori, che si sono svolte il mese scorso, emerge come la gioventù, che ha abbondantemente alimentato quell’oltre 44 per cento dei partecipanti, sia uno dei motori principali della rivoluzione bolivariana, che scommette sul “potere popolare”. L’identificazione di una grossa fetta di giovani con la proposta di trasformazione sociale del chavismo, che si è andata rideterminando per contrasto a quanto accade in altri paesi capitalisti della regione e d’Europa, dove la disaffezione giovanile alla politica si radica nella mancanza di opportunità concrete, qui è visibile in tutti i settori popolari e in buona parte della piccola borghesia.
Negli anni più duri dell’aggressione multiforme al “laboratorio bolivariano”, gli analisti politici del governo hanno visto aumentare il pericolo della disaffezione e la presa del fascismo sui giovani: soprattutto dovuti alla “emigrazione indotta” di giovani altamente formati, spinti a lasciare il paese in cerca del “sogno americano”. E hanno intensificato le politiche giovanili, in un paese che offre loro una presenza decisionale ai massimi livelli nelle strutture politiche, che si rinnovano costantemente.
Lo si è visto in queste elezioni, dove sindaci e sindache giovanissimi sono stati super votati. La campagna per il ritorno in patria dei migranti deportati da Trump nei lager di Bukele in Salvador che atterrano quotidianamente in Venezuela con aerei del governo, insieme a un nugolo di bambini separati dai genitori, sta smascherando il vero volto del “sogno americano”, e ha avuto un effetto su questo voto popolare.
Ha certamente avuto un grosso effetto lo scambio di alcuni detenuti statunitensi, accusati di essere mercenari infiltrati o già condannati per gravi delitti, con i bambini tolti alle famiglie di migranti negli Stati Uniti, che hanno potuto riabbracciare i loro cari in Venezuela. In questo modo, il governo bolivariano ha tolto un altro argomento di propaganda all’opposizione estremista che, dopo aver cavalcato abbondantemente questo tema, ha rilasciato varie dichiarazioni di appoggio alle politiche trumpiste definendo tutti criminali del “Tren de Aragua” i migranti venezuelani deportati.
Ora, come spesso accade nel “laboratorio bolivariano”, le madri di questi giovani migranti e i giovani stessi, sono stati inglobati in un movimento, coordinato dalla viceministra degli Esteri, Camilla Fabri, che ha organizzato un emotivo incontro con le Madri della Plaza de Mayo argentine, la figlia del Che, Aleida Guevara, donne palestinesi, africane ed europee, nell’ambito del Congresso per la pace e contro la guerra che si è svolto in questi giorni.
In questo ambito, gli invitati internazionali che hanno accompagnato le elezioni (provenienti da tutti i continenti), hanno respinto con ironia le recenti dichiarazioni del segretario di Stato, Marco Rubio, che ha definito Maduro non come presidente del Venezuela, ma come il capo del “Cartello dei Soli”, e ne ha aumentato la taglia, nel consueto stile Far West del tycoon nordamericano. Una decisione che ha ricevuto il plauso della destra golpista, capitanata da Maria Corina Machado, molto presente sui media occidentali, ma sempre più assente dalla realtà del paese.
Il quadro elettorale fotografa, infatti, anche il mutamento avvenuto nelle fila dell’opposizione (“quella che ha i voti, perché gli altri hanno solo fantasmi”, dicono i dirigenti chavisti). Partiti di destra neoliberista, come Primero Justicia e Voluntad Popular sono praticamente scomparsi, mentre l’Alleanza Democratica, Fuerza Vecinal e il partito Vamos Cojedes sono risultati le prime forze politiche di opposizione, raggiungendo la maggioranza nelle comunali che hanno permesso di conquistare 50 municipi. In questo contesto, emerge la figura del governatore dello stato Cojedes, Alberto Galíndez, che si è staccato dal partito Primero Justicia per fondare un partito regionale, Vamos Cojedes, che ora ha vinto in tutti i municipi dello Stato e ha assunto una visibilità nazionale.
Questa nuova opposizione ha ovviamente obiettivi opposti a quelli del socialismo bolivariano e i rappresentanti del Psuv promettono di darle battaglia nei territori, chiamandola a misurarsi sui progetti votati dalle comunità, però il governo plaude al fatto che abbia accettato la dialettica democratica. Per questo, Maduro ha invitato tutti gli eletti a un incontro seminariale di due giorni per “il bene del paese”.
“In futuro, vedremo una forma di democrazia più viva, vigorosa, attiva e basata sulla consultazione diretta, e non sul: vota per me che io farò questo e quello”, ha affermato Jorge Rodríguez, capo del Comando di campagna “Aristobulo Histuriz”, facendo il bilancio del voto.
La consegna di Hugo Chávez – “Comuna o nada!” – continua a essere l’orizzonte strategico che orienta la costruzione dal basso di un nuovo tipo di Stato basato sull’autogoverno, in cui le comunità organizzate devono assumere un ruolo centrale nella direzione della società. In questa prospettiva, avere il controllo politico del territorio risulta fondamentale, considerando che il peso del settore privato può farsi sentire.
E in questo orizzonte vanno inquadrate queste elezioni, che hanno tinto ancora di più di rosso la geografia territoriale del paese. Le candidate e i candidati del Gran Polo Patriótico Simón Bolívar (Gppsb), l’alleanza che comprende il partito di governo (Psuv) più un arco di altre formazioni, come il Partito comunista (quello maggioritario) e altri partiti progressisti, ha ottenuto 285 municipi, ossia l’85% del totale, l’opposizione, 50. Il chavismo ha vinto in 23 capitali dei 24 stati del paese, più il Distretto Capitale, dove è stata rieletta la sindaca Carmen Meléndez, con la più alta percentuale mai ottenuta in un’elezione: l’86,4%.
Il successo di iniziative come “la carovana delle soluzioni”, messa in atto dalla sindaca per portare la gestione governativa direttamente alle comunità, evidenzia un modello di governance che basa la sua legittimità sulla risoluzione concreta delle necessità popolari, una politica essenziale per mantenere l’egemonia fra le classi subalterne, zoccolo duro del voto socialista.
La gente, oggi, “dalla politica si aspetta risposte a problemi concreti, vuole governanti che risolvano i problemi, che mantengano la pace e che recuperino un buon tenore di vita e l’economia”, ha affermato Jorge Rodríguez. I dati degli organismi internazionali indicano che l’economia venezuelana continua a essere in crescita, che sta affrontando il bloqueo degli Stati Uniti facendo sempre più conto sulla produzione locale, che già copre quasi il 90% del fabbisogno alimentare.
Inoltre, dopo un’altalena di stop and go, Trump sembra aver concesso alla Chevron la licenza di continuare a estrarre petrolio in Venezuela: un sollievo non di poco conto perché consente di vendere il petrolio a prezzo di mercato e non essere obbligati a svenderlo per convincere gli acquirenti a rischiare le ritorsioni dei “sanzionatori”. E già dopo poche settimane, nel paese che possiede le prime riserve di petrolio al Mondo, ma che non può accedere a nessun tipo di credito o aiuto internazionale, le entrate dello Stato hanno ricevuto un incremento sostanziale.
La capacità del PSUV di mobilitare le masse popolari e ottenere un appoggio decisivo nelle urne indica che, nonostante le pressioni esterne, il governo è riuscito a superare le principali difficoltà economiche, e il blocco storico bolivariano mantiene una base sociale solida, radicata nelle classi lavoratrici e nei settori più vulnerabili della società.
Si è completato un ciclo, si deve passare a una tappa di costruzione di un governo eminentemente popolare, ha detto Maduro dal balcone presidenziale: “meno scrittorio più territorio dev’essere la consegna”. Il presidente si è rivolto in particolare alle donne e ai movimenti femministi, ai giovani, che sono la colonna portante di questa rivoluzione. Gli ha risposto un concerto di clacson proveniente dai collettivi di motociclisti presenti che, come di consueto, si sono fatti sentire.
Fonte
La folla colorata e festosa avanza verso il Palazzo di Miraflores cantando “Chávez corazón del pueblo”. Uno stormo di uccelli guacamayas si staglia nel tramonto caraibico, vince le ombre del recente temporale che ancora ristagnano sul palazzo presidenziale. A 12 anni dalla morte, l’ex presidente del Venezuela, scomparso il 5 marzo del 2013, rimane nel “cuore del popolo”, che ha festeggiato il suo compleanno n. 71 il giorno dopo del voto per le comunali.
Quella del 27 luglio è stata l’elezione n. 33, relativa ai 335 municipi e ai consiglieri, più il voto della Consulta Popular, che ha riguardato la scelta dei progetti comunitari, soprattutto proposti dai giovani, a cui dare priorità. L’80% dei progetti già approvato nelle tre precedenti consultazioni, è già in fase di attuazione. Da queste elezioni, a cui hanno partecipato oltre il 44 per cento degli aventi diritto, e che ha fatto registrare quasi 300.000 voti in più rispetto a quelle dei governatori, che si sono svolte il mese scorso, emerge come la gioventù, che ha abbondantemente alimentato quell’oltre 44 per cento dei partecipanti, sia uno dei motori principali della rivoluzione bolivariana, che scommette sul “potere popolare”. L’identificazione di una grossa fetta di giovani con la proposta di trasformazione sociale del chavismo, che si è andata rideterminando per contrasto a quanto accade in altri paesi capitalisti della regione e d’Europa, dove la disaffezione giovanile alla politica si radica nella mancanza di opportunità concrete, qui è visibile in tutti i settori popolari e in buona parte della piccola borghesia.
Negli anni più duri dell’aggressione multiforme al “laboratorio bolivariano”, gli analisti politici del governo hanno visto aumentare il pericolo della disaffezione e la presa del fascismo sui giovani: soprattutto dovuti alla “emigrazione indotta” di giovani altamente formati, spinti a lasciare il paese in cerca del “sogno americano”. E hanno intensificato le politiche giovanili, in un paese che offre loro una presenza decisionale ai massimi livelli nelle strutture politiche, che si rinnovano costantemente.
Lo si è visto in queste elezioni, dove sindaci e sindache giovanissimi sono stati super votati. La campagna per il ritorno in patria dei migranti deportati da Trump nei lager di Bukele in Salvador che atterrano quotidianamente in Venezuela con aerei del governo, insieme a un nugolo di bambini separati dai genitori, sta smascherando il vero volto del “sogno americano”, e ha avuto un effetto su questo voto popolare.
Ha certamente avuto un grosso effetto lo scambio di alcuni detenuti statunitensi, accusati di essere mercenari infiltrati o già condannati per gravi delitti, con i bambini tolti alle famiglie di migranti negli Stati Uniti, che hanno potuto riabbracciare i loro cari in Venezuela. In questo modo, il governo bolivariano ha tolto un altro argomento di propaganda all’opposizione estremista che, dopo aver cavalcato abbondantemente questo tema, ha rilasciato varie dichiarazioni di appoggio alle politiche trumpiste definendo tutti criminali del “Tren de Aragua” i migranti venezuelani deportati.
Ora, come spesso accade nel “laboratorio bolivariano”, le madri di questi giovani migranti e i giovani stessi, sono stati inglobati in un movimento, coordinato dalla viceministra degli Esteri, Camilla Fabri, che ha organizzato un emotivo incontro con le Madri della Plaza de Mayo argentine, la figlia del Che, Aleida Guevara, donne palestinesi, africane ed europee, nell’ambito del Congresso per la pace e contro la guerra che si è svolto in questi giorni.
In questo ambito, gli invitati internazionali che hanno accompagnato le elezioni (provenienti da tutti i continenti), hanno respinto con ironia le recenti dichiarazioni del segretario di Stato, Marco Rubio, che ha definito Maduro non come presidente del Venezuela, ma come il capo del “Cartello dei Soli”, e ne ha aumentato la taglia, nel consueto stile Far West del tycoon nordamericano. Una decisione che ha ricevuto il plauso della destra golpista, capitanata da Maria Corina Machado, molto presente sui media occidentali, ma sempre più assente dalla realtà del paese.
Il quadro elettorale fotografa, infatti, anche il mutamento avvenuto nelle fila dell’opposizione (“quella che ha i voti, perché gli altri hanno solo fantasmi”, dicono i dirigenti chavisti). Partiti di destra neoliberista, come Primero Justicia e Voluntad Popular sono praticamente scomparsi, mentre l’Alleanza Democratica, Fuerza Vecinal e il partito Vamos Cojedes sono risultati le prime forze politiche di opposizione, raggiungendo la maggioranza nelle comunali che hanno permesso di conquistare 50 municipi. In questo contesto, emerge la figura del governatore dello stato Cojedes, Alberto Galíndez, che si è staccato dal partito Primero Justicia per fondare un partito regionale, Vamos Cojedes, che ora ha vinto in tutti i municipi dello Stato e ha assunto una visibilità nazionale.
Questa nuova opposizione ha ovviamente obiettivi opposti a quelli del socialismo bolivariano e i rappresentanti del Psuv promettono di darle battaglia nei territori, chiamandola a misurarsi sui progetti votati dalle comunità, però il governo plaude al fatto che abbia accettato la dialettica democratica. Per questo, Maduro ha invitato tutti gli eletti a un incontro seminariale di due giorni per “il bene del paese”.
“In futuro, vedremo una forma di democrazia più viva, vigorosa, attiva e basata sulla consultazione diretta, e non sul: vota per me che io farò questo e quello”, ha affermato Jorge Rodríguez, capo del Comando di campagna “Aristobulo Histuriz”, facendo il bilancio del voto.
La consegna di Hugo Chávez – “Comuna o nada!” – continua a essere l’orizzonte strategico che orienta la costruzione dal basso di un nuovo tipo di Stato basato sull’autogoverno, in cui le comunità organizzate devono assumere un ruolo centrale nella direzione della società. In questa prospettiva, avere il controllo politico del territorio risulta fondamentale, considerando che il peso del settore privato può farsi sentire.
E in questo orizzonte vanno inquadrate queste elezioni, che hanno tinto ancora di più di rosso la geografia territoriale del paese. Le candidate e i candidati del Gran Polo Patriótico Simón Bolívar (Gppsb), l’alleanza che comprende il partito di governo (Psuv) più un arco di altre formazioni, come il Partito comunista (quello maggioritario) e altri partiti progressisti, ha ottenuto 285 municipi, ossia l’85% del totale, l’opposizione, 50. Il chavismo ha vinto in 23 capitali dei 24 stati del paese, più il Distretto Capitale, dove è stata rieletta la sindaca Carmen Meléndez, con la più alta percentuale mai ottenuta in un’elezione: l’86,4%.
Il successo di iniziative come “la carovana delle soluzioni”, messa in atto dalla sindaca per portare la gestione governativa direttamente alle comunità, evidenzia un modello di governance che basa la sua legittimità sulla risoluzione concreta delle necessità popolari, una politica essenziale per mantenere l’egemonia fra le classi subalterne, zoccolo duro del voto socialista.
La gente, oggi, “dalla politica si aspetta risposte a problemi concreti, vuole governanti che risolvano i problemi, che mantengano la pace e che recuperino un buon tenore di vita e l’economia”, ha affermato Jorge Rodríguez. I dati degli organismi internazionali indicano che l’economia venezuelana continua a essere in crescita, che sta affrontando il bloqueo degli Stati Uniti facendo sempre più conto sulla produzione locale, che già copre quasi il 90% del fabbisogno alimentare.
Inoltre, dopo un’altalena di stop and go, Trump sembra aver concesso alla Chevron la licenza di continuare a estrarre petrolio in Venezuela: un sollievo non di poco conto perché consente di vendere il petrolio a prezzo di mercato e non essere obbligati a svenderlo per convincere gli acquirenti a rischiare le ritorsioni dei “sanzionatori”. E già dopo poche settimane, nel paese che possiede le prime riserve di petrolio al Mondo, ma che non può accedere a nessun tipo di credito o aiuto internazionale, le entrate dello Stato hanno ricevuto un incremento sostanziale.
La capacità del PSUV di mobilitare le masse popolari e ottenere un appoggio decisivo nelle urne indica che, nonostante le pressioni esterne, il governo è riuscito a superare le principali difficoltà economiche, e il blocco storico bolivariano mantiene una base sociale solida, radicata nelle classi lavoratrici e nei settori più vulnerabili della società.
Si è completato un ciclo, si deve passare a una tappa di costruzione di un governo eminentemente popolare, ha detto Maduro dal balcone presidenziale: “meno scrittorio più territorio dev’essere la consegna”. Il presidente si è rivolto in particolare alle donne e ai movimenti femministi, ai giovani, che sono la colonna portante di questa rivoluzione. Gli ha risposto un concerto di clacson proveniente dai collettivi di motociclisti presenti che, come di consueto, si sono fatti sentire.
Fonte
Solidarietà... ma de chè?
di Giorgio Cremaschi
Tutto il palazzo della politica italiana, da Meloni a Schlein, da Taiani a Renzi a Conte, ha espresso “vibrante solidarietà” al Presidente Sergio Mattarella. Sono tutti indignati perché le autorità della Russia hanno stilato un elenco di governanti occidentali particolarmente ostili nei confronti del loro paese, tra i quali hanno inserito anche il nostro Capo dello Stato.
Non è vero? Mah.
Il Presidente Mattarella ha sempre sostenuto con il massimo vigore l’invio di armi contro la Russia, anzi ha fatto proprio il gigantesco piano di riarmo europeo e della NATO, giustificandolo proprio con la necessità di fronteggiare le minacce che vengono da quel paese.
Che ha paragonato al Terzo Reich.
Si, il Presidente Mattarella poco tempo fa a Marsiglia, nella sede solenne del conferimento di una laurea honoris causa, ha accusato il governo della Russia di comportarsi come il regime criminale di Hitler.
Vi sembra strano che, in un paese nel quale il nazismo ha fatto ventotto milioni di vittime, si siano offesi? Anche perché il Presidente Mattarella non ha certo avuto lo stesso atteggiamento verso altri governi accusati di crimini.
Poco tempo fa il Presidente ha ricevuto e abbracciato il collega israeliano Herzog, che si è fatto fotografare mentre firmava le bombe destinate a Gaza e ha visitato le truppe di occupazione proclamandone tutti i meriti, mentre ha persino negato che i palestinesi soffrano la carestia.
Ora, se Mattarella porge tutti gli onori al capo di uno stato incriminato per genocidio, mentre accusa di nazismo la Russia, beh non è normale sospettare che egli sia un poco prevenuto contro quest’ultimo paese?
Anche perché – contro la Russia – l’Italia, la UE e la NATO non solo inviano armi, ma producono sanzioni a raffica, non solo economiche e politiche, ma anche sportive e culturali. Compreso proibire il concerto di un direttore di orchestra e di un pianista famosi. Il tutto con la silente o addirittura esplicita benedizione di Sergio Mattarella.
Insomma, dove sarebbe lo scandalo se la Russia considera ostile un Presidente della Repubblica che la paragona alla Germania nazista?
Cosa c’è da condannare, Mattarella non voleva davvero dire ciò che ha detto e i russi non hanno capito le sue intenzioni pacifiste? Beh nel mio piccolo non le ho capite neanche io.
A me questo scandalo del nostro palazzo della politica mi sembra il vittimismo di chi tira il sasso, poi nasconde la mano e infine si offende se viene scoperto. Sono proprio degli sfacciati, come direbbero a Roma: Solidarietà... ma de che?
Fonte
Tutto il palazzo della politica italiana, da Meloni a Schlein, da Taiani a Renzi a Conte, ha espresso “vibrante solidarietà” al Presidente Sergio Mattarella. Sono tutti indignati perché le autorità della Russia hanno stilato un elenco di governanti occidentali particolarmente ostili nei confronti del loro paese, tra i quali hanno inserito anche il nostro Capo dello Stato.
Non è vero? Mah.
Il Presidente Mattarella ha sempre sostenuto con il massimo vigore l’invio di armi contro la Russia, anzi ha fatto proprio il gigantesco piano di riarmo europeo e della NATO, giustificandolo proprio con la necessità di fronteggiare le minacce che vengono da quel paese.
Che ha paragonato al Terzo Reich.
Si, il Presidente Mattarella poco tempo fa a Marsiglia, nella sede solenne del conferimento di una laurea honoris causa, ha accusato il governo della Russia di comportarsi come il regime criminale di Hitler.
Vi sembra strano che, in un paese nel quale il nazismo ha fatto ventotto milioni di vittime, si siano offesi? Anche perché il Presidente Mattarella non ha certo avuto lo stesso atteggiamento verso altri governi accusati di crimini.
Poco tempo fa il Presidente ha ricevuto e abbracciato il collega israeliano Herzog, che si è fatto fotografare mentre firmava le bombe destinate a Gaza e ha visitato le truppe di occupazione proclamandone tutti i meriti, mentre ha persino negato che i palestinesi soffrano la carestia.
Ora, se Mattarella porge tutti gli onori al capo di uno stato incriminato per genocidio, mentre accusa di nazismo la Russia, beh non è normale sospettare che egli sia un poco prevenuto contro quest’ultimo paese?
Anche perché – contro la Russia – l’Italia, la UE e la NATO non solo inviano armi, ma producono sanzioni a raffica, non solo economiche e politiche, ma anche sportive e culturali. Compreso proibire il concerto di un direttore di orchestra e di un pianista famosi. Il tutto con la silente o addirittura esplicita benedizione di Sergio Mattarella.
Insomma, dove sarebbe lo scandalo se la Russia considera ostile un Presidente della Repubblica che la paragona alla Germania nazista?
Cosa c’è da condannare, Mattarella non voleva davvero dire ciò che ha detto e i russi non hanno capito le sue intenzioni pacifiste? Beh nel mio piccolo non le ho capite neanche io.
A me questo scandalo del nostro palazzo della politica mi sembra il vittimismo di chi tira il sasso, poi nasconde la mano e infine si offende se viene scoperto. Sono proprio degli sfacciati, come direbbero a Roma: Solidarietà... ma de che?
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Ucciso da un colono israeliano uno degli attivisti di “No Other Land”
Dopo essere stato trasportato d’urgenza in ospedale per ferite da arma da fuoco, è morto Awdah Hathaleen, famoso attivista e giornalista palestinese presente anche nel documentario premio Oscar “No Other Land”. L’assassino è un colono israeliano, anche lui famoso, ma per essere un esempio di cosa significa il sionismo in Cisgiordania.
L’omicidio è avvenuto a Umm al‑Khair, villaggio vicino a Hebron protagonista del film acclamato a livello internazionale. In un video si vede il colono Yinon Levi urlare contro Awdah Hathaleen, sventolando una pistola in mano, caricandola, e infine sparando, certo dell’impunità che continuerà a godere.
Su di lui erano state poste delle sanzioni proprio per le violenze perpetrate sui palestinesi, sia da parte degli USA sia da parte di UE e Regno Unito, ma quelle di Washington sono state revocate appena Trump è arrivato alla Casa Bianca. Anche le altre del resto dell’Occidente, comunque, si sono rivelate evidentemente inutili a fermare la mano di Levi.
A diffondere il video dell’omicidio è stato Yuval Abraham, uno dei registi israeliani di “No Other Land”. Un altro co-regista, Basel Adra, ha commentato: “il mio caro amico Awdah è stato massacrato questa sera. Era in piedi davanti al centro comunitario del suo villaggio quando un colono ha sparato un proiettile che gli ha trapassato il petto e gli ha tolto la vita. È così che Israele ci cancella – una vita alla volta”.
Adra mette in chiaro il fatto che è Israele che sta portando avanti questo stillicidio di vite, anche in Cisgiordania, come parte del genocidio del popolo palestinese. Infatti, Levi non era da solo, ma era solo uno dei coloni che hanno attaccato il villaggio di Umm al‑Khair. Tutto è partito da un bulldozer guidato da un colono contro terreni e proprietà dei palestinesi.
Quando il giovane ha chiesto al colono di fermarsi, è stato travolto dal bulldozer. A quel punto, i palestinesi hanno cominciato a lanciare pietre, a cui Levi ha risposto con la pistola. Questa non è una scena inusuale, ma è quello che succede da decenni in Cisgiordania, dove da ottobre 2023 sono stati uccisi oltre mille palestinesi.
Le forze armate israeliane hanno arrestato quattro palestinesi, oltre a due turisti stranieri che si trovavano sul luogo. Secondo le autorità sioniste, a seguito dell’accaduto è stata confermata la morte di un palestinese, mentre l’agenzia di stampa palestinese Wafa ha riferito di un secondo palestinese trasportato in ospedale in ambulanza.
Levi sarebbe stato preso in custodia dalla polizia per essere interrogato, ma senza alcuna accusa formale a suo carico. Repubblica riporta che è stato poi posto ai domiciliari e iscritto tra gli indagati per omicidio colposo, ma si difende affermando di aver agito per legittima difesa. La polizia ha però chiesto al tribunale di sospendere la sua decisione.
Come se non bastasse, Wafa riporta che l’esercito sionista ha fatto irruzione al corteo funebre per Hathaleen, dichiarando l’area zona militare, aggredendo i partecipanti e costringendoli a disperdersi. Questa è la vita quotidiana nella Cisgiordania occupata dai coloni israeliani, mentre la Knesset ha da poco votato la definitiva annessione di tutta la regione, contro ogni disposizione del diritto internazionale.
“I coloni stanno lavorando dietro le nostre case e hanno cercato di tagliare la conduttura principale dell’acqua per la comunità”, ha detto Hathaleen nel suo ultimo messaggio. È evidente che il problema non può essere risolto da sanzioni individuali poiché è in un sistema di apartheid e impunità che continua a nutrirsi del sostegno diplomatico, economico e militare a Tel Aviv.
Anche il tardivo riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di Francia e Regno Unito (che non avverrà prima di settembre) elude il problema politico della politica suprematista e coloniale di Israele, e il fatto che presto non ci sarà più alcun popolo per lo Stato di Palestina.
Fonte
L’omicidio è avvenuto a Umm al‑Khair, villaggio vicino a Hebron protagonista del film acclamato a livello internazionale. In un video si vede il colono Yinon Levi urlare contro Awdah Hathaleen, sventolando una pistola in mano, caricandola, e infine sparando, certo dell’impunità che continuerà a godere.
Su di lui erano state poste delle sanzioni proprio per le violenze perpetrate sui palestinesi, sia da parte degli USA sia da parte di UE e Regno Unito, ma quelle di Washington sono state revocate appena Trump è arrivato alla Casa Bianca. Anche le altre del resto dell’Occidente, comunque, si sono rivelate evidentemente inutili a fermare la mano di Levi.
A diffondere il video dell’omicidio è stato Yuval Abraham, uno dei registi israeliani di “No Other Land”. Un altro co-regista, Basel Adra, ha commentato: “il mio caro amico Awdah è stato massacrato questa sera. Era in piedi davanti al centro comunitario del suo villaggio quando un colono ha sparato un proiettile che gli ha trapassato il petto e gli ha tolto la vita. È così che Israele ci cancella – una vita alla volta”.
Adra mette in chiaro il fatto che è Israele che sta portando avanti questo stillicidio di vite, anche in Cisgiordania, come parte del genocidio del popolo palestinese. Infatti, Levi non era da solo, ma era solo uno dei coloni che hanno attaccato il villaggio di Umm al‑Khair. Tutto è partito da un bulldozer guidato da un colono contro terreni e proprietà dei palestinesi.
Quando il giovane ha chiesto al colono di fermarsi, è stato travolto dal bulldozer. A quel punto, i palestinesi hanno cominciato a lanciare pietre, a cui Levi ha risposto con la pistola. Questa non è una scena inusuale, ma è quello che succede da decenni in Cisgiordania, dove da ottobre 2023 sono stati uccisi oltre mille palestinesi.
Le forze armate israeliane hanno arrestato quattro palestinesi, oltre a due turisti stranieri che si trovavano sul luogo. Secondo le autorità sioniste, a seguito dell’accaduto è stata confermata la morte di un palestinese, mentre l’agenzia di stampa palestinese Wafa ha riferito di un secondo palestinese trasportato in ospedale in ambulanza.
Levi sarebbe stato preso in custodia dalla polizia per essere interrogato, ma senza alcuna accusa formale a suo carico. Repubblica riporta che è stato poi posto ai domiciliari e iscritto tra gli indagati per omicidio colposo, ma si difende affermando di aver agito per legittima difesa. La polizia ha però chiesto al tribunale di sospendere la sua decisione.
Come se non bastasse, Wafa riporta che l’esercito sionista ha fatto irruzione al corteo funebre per Hathaleen, dichiarando l’area zona militare, aggredendo i partecipanti e costringendoli a disperdersi. Questa è la vita quotidiana nella Cisgiordania occupata dai coloni israeliani, mentre la Knesset ha da poco votato la definitiva annessione di tutta la regione, contro ogni disposizione del diritto internazionale.
“I coloni stanno lavorando dietro le nostre case e hanno cercato di tagliare la conduttura principale dell’acqua per la comunità”, ha detto Hathaleen nel suo ultimo messaggio. È evidente che il problema non può essere risolto da sanzioni individuali poiché è in un sistema di apartheid e impunità che continua a nutrirsi del sostegno diplomatico, economico e militare a Tel Aviv.
Anche il tardivo riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di Francia e Regno Unito (che non avverrà prima di settembre) elude il problema politico della politica suprematista e coloniale di Israele, e il fatto che presto non ci sarà più alcun popolo per lo Stato di Palestina.
Fonte
30/07/2025
Panama in rivolta: repressione, disuguaglianze e proteste popolari scuotono il paese
Da mesi Panama è teatro di proteste sociali senza precedenti, che coinvolgono lavoratori e lavoratrici, comunità indigene, studenti e studentesse, movimenti popolari. La crescente insoddisfazione nasce da una sommatoria di fattori: l’imposizione di riforme controverse, la riapertura di progetti estrattivisti ambientalmente distruttivi, l’aumento della disuguaglianza sociale e una repressione sempre più violenta da parte dello Stato. Nel silenzio delle istituzioni internazionali, le forze di sicurezza hanno arrestato centinaia di manifestanti e la militarizzazione degli spazi pubblici è diventata la regola. A questo si sommano le minacce di licenziamenti di massa da parte di multinazionali come Chiquita e le denunce di violazioni dei diritti sindacali.
In questo contesto, abbiamo intervistato in esclusiva per Pagine Esteri Olmedo Carrasquilla II, attivista e voce di Radio Temblor, uno dei principali media indipendenti che coprono le lotte sociali panamensi. Olmedo ci racconta lo stato attuale della protesta, le sue radici, i risultati raggiunti finora e le prospettive future del movimento popolare in un Paese in bilico tra repressione e resistenza.
Come è oggi la situazione a Panama?
“Il governo attuale, guidato dal presidente José Raúl Mulino Quintero, funge da copertura e schermo per le azioni repressive che stiamo vivendo. Per esempio, la ministra del Lavoro ha presentato una domanda per sciogliere il sindacato più grande del paese, il Sindacato Unico dei Lavoratori e Simili (SUMTRAK), i cui dirigenti sono stati costretti all’esilio o condannati senza rispettare un giusto processo e le procedure legali. C’è una persecuzione in corso e il sistema giudiziario è in continuità con il governo, ovvero la giustizia è parziale e utilizzata per reprimere i settori popolari.
Questo è un punto chiave per comprendere la situazione attuale: prevalgono militarizzazione, repressione e violazione dei diritti umani. Il movimento sociale deve riconoscere che con questo governo bisogna cambiare strategia, perché è in atto una politica autoritaria e pro-aziendale che vuole soffocare ogni protesta o resistenza.”
Perché è iniziata la protesta?
“La protesta è iniziata circa un anno fa, con l’inizio della presidenza di José Raúl Mulino e il rinnovo del parlamento. Il movimento popolare ha presentato una richiesta per modificare la Legge 462 che riforma la Legge Organica della Sicurezza Sociale tramite la Caja de Seguro Social. Questa lotta è durata tre mesi e nasce principalmente per rispondere alle modalità autoritarie con cui è stata imposta la legge 462. Il governo ha totalmente ignorato i cabildos (consultazioni popolari) tenuti in diverse zone del paese. La presidenza, appartenente al partito ufficialista Plancho, ha escluso ogni processo consultivo e ha imposto la sua proposta in favore degli interessi aziendali.
Inoltre, la protesta ha contrastato la riapertura della miniera di rame Panamá. Miniera che si è cercato di riaprire nonostante due sentenze della Corte Suprema avevano dichiarato incostituzionali alcune disposizioni riguardanti la stessa. Ci si è anche opposti alla costruzione di una diga sul fiume Indio, che avrebbe allagato migliaia di contadini e compromesso comunità rurali. Un altro tema rilevante è stata la cessione di sovranità territoriale e la garanzia agli USA di stare in territorio panamense, con tanto di minacce di intervento militare, e così commissariare l’operatività panamense del Canale di Panama.
Tutte queste problematiche, unite a corruzione e aumento della disuguaglianza sociale, hanno fatto scendere il popolo panamense in strada con proteste, marce e blocchi.”
Cosa si è ottenuto fino a oggi?
“Lo sciopero è terminato in modo accidentale, perché oltre alla lotta stessa, si doveva pensare a sostenibilità e risorse per mantenere le mobilitazioni. La repressione, la criminalizzazione della protesta e la censura mediatica hanno minato la continuità del movimento. Tuttavia, questo processo ha lasciato un insegnamento politico importante: il movimento sociale e il popolo panamense devono ripensare la strategia, poiché il governo ha imposto una politica di militarizzazione e sistematica violazione dei diritti umani.
Nonostante le difficoltà, il movimento è riuscito a dare visibilità alla lotta e a mantenere vivo lo spirito di resistenza. Il presidente dell’Assemblea dei Deputati ha aperto alla verifica e alla modifica degli articoli più controversi della legge, anche se molto resta da fare.”
Questa lotta ha un legame storico con il passato?
“Sì, la storia recente ha segnato questo momento. Durante il governo dell’ex presidente Ricardo Martinelli (2010-2014), José Raúl Mulino è stato ministro della Sicurezza ed è stato direttamente coinvolto nell’esecuzione di ordini per reprimere i popoli indigeni nella regione Ngäbe-Buglé, oltre che nelle province di Veraguas, Bocas del Toro e Colón. Quel governo ha avuto uno dei più alti numeri di morti durante proteste popolari. Già allora si poteva prevedere che l’azione dell’attuale governo sarebbe stata dura e repressiva.
Per maggiori informazioni e aggiornamenti, consiglio di seguire la pagina e i canali social di Radio Temblor, che coprono in modo indipendente e costante la lotta del popolo panamense.”
Cosa pensi possa accadere domani?
“Il movimento sociale si sta riorganizzando verso una nuova fase di lotta. Nonostante la situazione difficile, la missione che il movimento si sta dando è di prepararsi a continuare la battaglia. Questo significa ripensare le strategie e rafforzare l’organizzazione popolare, perché la militarizzazione e la repressione continueranno a essere la risposta del governo.
C’è speranza che la resistenza cresca e si fortifichi, e sarà fondamentale che media come Radio Temblor continuino a dare visibilità a questa lotta. Non si tratta solo della nostra organizzazione, ma dell’intero popolo panamense, che non è disposto a arrendersi.”
Quella che è iniziata come una protesta sindacale contro una riforma imposta dall’alto si è rapidamente trasformata in un movimento sociale di portata molto più ampia. Da rivendicazioni legate ai diritti del lavoro, la lotta ha abbracciato temi ambientali, di sovranità territoriale e di giustizia sociale, coinvolgendo comunità indigene, contadini, studenti e lavoratori di diversi settori. La repressione brutale e la militarizzazione non hanno fermato la mobilitazione, ma hanno reso evidente quanto profonda e diffusa sia la crisi strutturale che attraversa Panama. In questo scenario, la protesta non è solo una risposta a singole leggi o provvedimenti, ma un segnale di un popolo che reclama dignità, diritti e un futuro più giusto e sovrano.
Fonte
In questo contesto, abbiamo intervistato in esclusiva per Pagine Esteri Olmedo Carrasquilla II, attivista e voce di Radio Temblor, uno dei principali media indipendenti che coprono le lotte sociali panamensi. Olmedo ci racconta lo stato attuale della protesta, le sue radici, i risultati raggiunti finora e le prospettive future del movimento popolare in un Paese in bilico tra repressione e resistenza.
Come è oggi la situazione a Panama?
“Il governo attuale, guidato dal presidente José Raúl Mulino Quintero, funge da copertura e schermo per le azioni repressive che stiamo vivendo. Per esempio, la ministra del Lavoro ha presentato una domanda per sciogliere il sindacato più grande del paese, il Sindacato Unico dei Lavoratori e Simili (SUMTRAK), i cui dirigenti sono stati costretti all’esilio o condannati senza rispettare un giusto processo e le procedure legali. C’è una persecuzione in corso e il sistema giudiziario è in continuità con il governo, ovvero la giustizia è parziale e utilizzata per reprimere i settori popolari.
Questo è un punto chiave per comprendere la situazione attuale: prevalgono militarizzazione, repressione e violazione dei diritti umani. Il movimento sociale deve riconoscere che con questo governo bisogna cambiare strategia, perché è in atto una politica autoritaria e pro-aziendale che vuole soffocare ogni protesta o resistenza.”
Perché è iniziata la protesta?
“La protesta è iniziata circa un anno fa, con l’inizio della presidenza di José Raúl Mulino e il rinnovo del parlamento. Il movimento popolare ha presentato una richiesta per modificare la Legge 462 che riforma la Legge Organica della Sicurezza Sociale tramite la Caja de Seguro Social. Questa lotta è durata tre mesi e nasce principalmente per rispondere alle modalità autoritarie con cui è stata imposta la legge 462. Il governo ha totalmente ignorato i cabildos (consultazioni popolari) tenuti in diverse zone del paese. La presidenza, appartenente al partito ufficialista Plancho, ha escluso ogni processo consultivo e ha imposto la sua proposta in favore degli interessi aziendali.
Inoltre, la protesta ha contrastato la riapertura della miniera di rame Panamá. Miniera che si è cercato di riaprire nonostante due sentenze della Corte Suprema avevano dichiarato incostituzionali alcune disposizioni riguardanti la stessa. Ci si è anche opposti alla costruzione di una diga sul fiume Indio, che avrebbe allagato migliaia di contadini e compromesso comunità rurali. Un altro tema rilevante è stata la cessione di sovranità territoriale e la garanzia agli USA di stare in territorio panamense, con tanto di minacce di intervento militare, e così commissariare l’operatività panamense del Canale di Panama.
Tutte queste problematiche, unite a corruzione e aumento della disuguaglianza sociale, hanno fatto scendere il popolo panamense in strada con proteste, marce e blocchi.”
Cosa si è ottenuto fino a oggi?
“Lo sciopero è terminato in modo accidentale, perché oltre alla lotta stessa, si doveva pensare a sostenibilità e risorse per mantenere le mobilitazioni. La repressione, la criminalizzazione della protesta e la censura mediatica hanno minato la continuità del movimento. Tuttavia, questo processo ha lasciato un insegnamento politico importante: il movimento sociale e il popolo panamense devono ripensare la strategia, poiché il governo ha imposto una politica di militarizzazione e sistematica violazione dei diritti umani.
Nonostante le difficoltà, il movimento è riuscito a dare visibilità alla lotta e a mantenere vivo lo spirito di resistenza. Il presidente dell’Assemblea dei Deputati ha aperto alla verifica e alla modifica degli articoli più controversi della legge, anche se molto resta da fare.”
Questa lotta ha un legame storico con il passato?
“Sì, la storia recente ha segnato questo momento. Durante il governo dell’ex presidente Ricardo Martinelli (2010-2014), José Raúl Mulino è stato ministro della Sicurezza ed è stato direttamente coinvolto nell’esecuzione di ordini per reprimere i popoli indigeni nella regione Ngäbe-Buglé, oltre che nelle province di Veraguas, Bocas del Toro e Colón. Quel governo ha avuto uno dei più alti numeri di morti durante proteste popolari. Già allora si poteva prevedere che l’azione dell’attuale governo sarebbe stata dura e repressiva.
Per maggiori informazioni e aggiornamenti, consiglio di seguire la pagina e i canali social di Radio Temblor, che coprono in modo indipendente e costante la lotta del popolo panamense.”
Cosa pensi possa accadere domani?
“Il movimento sociale si sta riorganizzando verso una nuova fase di lotta. Nonostante la situazione difficile, la missione che il movimento si sta dando è di prepararsi a continuare la battaglia. Questo significa ripensare le strategie e rafforzare l’organizzazione popolare, perché la militarizzazione e la repressione continueranno a essere la risposta del governo.
C’è speranza che la resistenza cresca e si fortifichi, e sarà fondamentale che media come Radio Temblor continuino a dare visibilità a questa lotta. Non si tratta solo della nostra organizzazione, ma dell’intero popolo panamense, che non è disposto a arrendersi.”
Quella che è iniziata come una protesta sindacale contro una riforma imposta dall’alto si è rapidamente trasformata in un movimento sociale di portata molto più ampia. Da rivendicazioni legate ai diritti del lavoro, la lotta ha abbracciato temi ambientali, di sovranità territoriale e di giustizia sociale, coinvolgendo comunità indigene, contadini, studenti e lavoratori di diversi settori. La repressione brutale e la militarizzazione non hanno fermato la mobilitazione, ma hanno reso evidente quanto profonda e diffusa sia la crisi strutturale che attraversa Panama. In questo scenario, la protesta non è solo una risposta a singole leggi o provvedimenti, ma un segnale di un popolo che reclama dignità, diritti e un futuro più giusto e sovrano.
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L’impossibile simmetria tra Gaza e l’autogrill di Lainate
La vicenda del turista ebreo francese insultato in un autogrill nel milanese è difficile da collocare tra un episodio casuale ma emblematico o una opportunità attesa da tempo. Di sicuro tutto il circo sionista ne stra traendo vantaggio cercando di uscire dall’angolo morale e politico in cui è stato cacciato a causa della sua complicità con Netanyahu e la politica genocidiaria di Israele.
Guardando la vicenda da questo punto di vista sembra decisamente una opportunità attesa da tempo dai circoli e dai media sionisti in Italia, e se non è una vicenda anche costruita allo scopo è stata sicuramente gestita come tale. Il clamore e l’enfasi ricevuta superano abbondantemente i fatti. Per dirne una, il Corriere della Sera gli dedica oggi una intera pagina.
Ma se anche fosse la casualità e l’emblematicità di un episodio isolato, questo ci restituirebbe praticamente i risultati di una situazione a Gaza che ha trascinato la soglia dell’orrore oltre ogni linea rossa. Il silenzio, la mancata presa di distanza e in moltissimi casi l'aperta complicità delle comunità ebraiche in Europa con la politica del governo Netanyahu non favoriscono certo le buone relazioni con il resto della società dove cresce l’indignazione per il genocidio dei palestinesi da parte di Israele.
Strillare in ogni momento all’antisemitismo, alimentandolo però quotidianamente con dichiarazioni di “vittimismo aggressivo”, non è certo la cura migliore per tenere a bada o sconfiggere il pregiudizio antisemita mai sopito nelle società “cattoliche” europee.
Ed anche andarsene orgogliosamente in giro ostentando la kippah non è proprio la migliore delle idee in momenti come questi. Per certi aspetti è una manifestazione di arroganza, come si evince dalle dichiarazioni del turista francese ad una agenzia stampa italiana.
Egli si definisce infatti “Un guerriero, che non si farà intimorire dall’aggressione subita, continuerà a indossare con orgoglio la kippah fino alla morte” e tornerà in Italia, per dimostrare a suo figlio che qui “non tutti sono antisemiti”. Un “combattente” che però lotterà “per avere giustizia” e per “difendere la comunità ebraica italiana dall’odio antisemita”, che si sta diffondendo nella Penisola “come in tutta Europa”. Così si descrive all’Adn Kronos Elie Sultan, il 52enne insultato da un gruppo di persone domenica in un’area di sosta di Lainate (Milano).
Il fatto poi che tutti gli “aggrediti” in vari contesti (ristoranti, alberghi etc.) abbiano sempre il telefonino acceso in mano per fare le riprese sembra più una regola d’ingaggio che un comportamento protettivo.
Infine, e non per importanza, l’avvio di procedimenti giudiziari per la vicenda, stride fortemente con l’insabbiamento sistematico dei procedimenti giudiziari nei casi in cui gli “aggrediti” sono stati invece “aggressori”. Ma su questo occorrerà aspettare i fatti prima di poter dare un giudizio di merito.
La conclusione momentanea di questa vicenda va affidata ai fatti. Un episodio marginale ingigantito e strumentalizzato fino a poterlo portare ad un livello di simmetria mediatica con quanto accade a Gaza, introduce un punto di distorsione fino a pochi giorni fa impossibile da gestire, con tutti i commentatori oggi costretti a pronunciarsi simmetricamente su quanto avvenuto al Grill di Lainate oltre che su quanto avviene a Gaza, quasi come se avessero lo stesso peso.
Non ci provate e che nessuno accetti questa impossibile e indecente simmetria.
Fonte
Guardando la vicenda da questo punto di vista sembra decisamente una opportunità attesa da tempo dai circoli e dai media sionisti in Italia, e se non è una vicenda anche costruita allo scopo è stata sicuramente gestita come tale. Il clamore e l’enfasi ricevuta superano abbondantemente i fatti. Per dirne una, il Corriere della Sera gli dedica oggi una intera pagina.
Ma se anche fosse la casualità e l’emblematicità di un episodio isolato, questo ci restituirebbe praticamente i risultati di una situazione a Gaza che ha trascinato la soglia dell’orrore oltre ogni linea rossa. Il silenzio, la mancata presa di distanza e in moltissimi casi l'aperta complicità delle comunità ebraiche in Europa con la politica del governo Netanyahu non favoriscono certo le buone relazioni con il resto della società dove cresce l’indignazione per il genocidio dei palestinesi da parte di Israele.
Strillare in ogni momento all’antisemitismo, alimentandolo però quotidianamente con dichiarazioni di “vittimismo aggressivo”, non è certo la cura migliore per tenere a bada o sconfiggere il pregiudizio antisemita mai sopito nelle società “cattoliche” europee.
Ed anche andarsene orgogliosamente in giro ostentando la kippah non è proprio la migliore delle idee in momenti come questi. Per certi aspetti è una manifestazione di arroganza, come si evince dalle dichiarazioni del turista francese ad una agenzia stampa italiana.
Egli si definisce infatti “Un guerriero, che non si farà intimorire dall’aggressione subita, continuerà a indossare con orgoglio la kippah fino alla morte” e tornerà in Italia, per dimostrare a suo figlio che qui “non tutti sono antisemiti”. Un “combattente” che però lotterà “per avere giustizia” e per “difendere la comunità ebraica italiana dall’odio antisemita”, che si sta diffondendo nella Penisola “come in tutta Europa”. Così si descrive all’Adn Kronos Elie Sultan, il 52enne insultato da un gruppo di persone domenica in un’area di sosta di Lainate (Milano).
Il fatto poi che tutti gli “aggrediti” in vari contesti (ristoranti, alberghi etc.) abbiano sempre il telefonino acceso in mano per fare le riprese sembra più una regola d’ingaggio che un comportamento protettivo.
Infine, e non per importanza, l’avvio di procedimenti giudiziari per la vicenda, stride fortemente con l’insabbiamento sistematico dei procedimenti giudiziari nei casi in cui gli “aggrediti” sono stati invece “aggressori”. Ma su questo occorrerà aspettare i fatti prima di poter dare un giudizio di merito.
La conclusione momentanea di questa vicenda va affidata ai fatti. Un episodio marginale ingigantito e strumentalizzato fino a poterlo portare ad un livello di simmetria mediatica con quanto accade a Gaza, introduce un punto di distorsione fino a pochi giorni fa impossibile da gestire, con tutti i commentatori oggi costretti a pronunciarsi simmetricamente su quanto avvenuto al Grill di Lainate oltre che su quanto avviene a Gaza, quasi come se avessero lo stesso peso.
Non ci provate e che nessuno accetti questa impossibile e indecente simmetria.
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L’impegno dei giornali USA nel sostenere la causa sionista
Traduciamo e riportiamo un articolo apparso su Mondoweiss con la firma collettiva di Writers against the war on Gaza, una sigla sotto la quale si riunisce una lunga lista di scrittori, accademici, artisti, giornalisti e anche associazioni. In esso, vengono esposti i legami di 20 tra dirigenti e giornalisti del New York Times con il mondo sionista.
Si tratta di una denuncia degli interessi materiali che si trovano dietro il silenzio o persino il sostegno al genocidio e all’escalation bellica mediorientale promossi da Israele. Un comportamento che abbiamo visto un po’ ovunque: per l’Italia basta pensare agli scomposti attacchi di Molinari a Francesca Albanese.
Ma oltre Atlantico il livello di connivenza raggiunge vette preoccupanti. Un recente articolo pubblicato da The Cradle fa presente che il Wall Street Journal ha pubblicato l’auto-candidatura di un mercenario al soldo di Tel Aviv, coinvolto in traffici di droga e armi con l’ISIS, a governare Gaza una volta completata la pulizia etnica.
Jeffrey Goldberg, caporedattore di The Atlantic, ha servito nelle IDF, come guardia carceraria durante la prima Intifada. Giusto per citare un altro caso. Poi parlano di informazione libera...
Buona lettura.
*****
Stiamo mettendo in guardia il New York Times. Da quando il genocidio sionista a Gaza è iniziato oltre 20 mesi fa, il “paper of record” (formula per indicare un giornale autorevole, ndr) ha coperto i crimini di guerra israeliani. Abbiamo visto l’entità sionista sganciare bombe da 2.000 libbre sui palestinesi sfollati costretti a sopravvivere nelle tende, massacrare palestinesi affamati nei siti di soccorso, arrestare e torturare palestinesi accusati di aver reagito o di aver somministrato cure, distruggere l’intero sistema sanitario di Gaza, distruggere quasi tutte le sue scuole e università, danneggiare oltre il 90% degli edifici residenziali e impedire l’ingresso di cibo e rifornimenti nella Striscia assediata. Ma i giornalisti del New York Times hanno scelto di ignorare, insabbiare, distorcere o giustificare ciascuno di questi crimini. Come qualsiasi produttore di armi, il New York Times è parte della macchina bellica, producendo, nell’opinione pubblica, l’impunità che consente e sostiene il genocidio in corso da parte di Israele.
Quando occupammo per la prima volta la hall del New York Times nel novembre 2023, denunciammo il rifiuto del giornale di storicizzare l‘Alluvione di Al Aqsa’ (nome dell’operazione di Hamas nell’ottobre 2023, ndr) nel contesto dell’occupazione israeliana della Palestina, durata oltre sette decenni, e la sua scelta di inquadrare il bombardamento militare israeliano di Gaza come una guerra mirata contro Hamas. Chiedemmo al Times di dire la verità. Pubblicammo un nostro giornale, The New York War Crimes, che conteneva i nomi dei martiri palestinesi registrati all’epoca. Ci volle più di un’ora solo per leggere i nomi dei martiri di età inferiore a un anno. Invitammo il nostro pubblico a boicottare il Times; a privarlo del proprio tempo, della propria fiducia e della propria attenzione; e a disdire l’abbonamento alle sue notizie, ai suoi giochi e alle sue ricette.
Non siamo i primi a sottolineare l’impegno del Times nei confronti del sionismo. Il dossier che abbiamo pubblicato questo mese si basa sul lavoro investigativo di testate e organizzazioni, tra cui The Electronic Intifada, Mondoweiss, The Intercept, Fairness and Accuracy in Reporting e di scrittori palestinesi che hanno denunciato per decenni le frodi del “paper of record”. Dal 7 ottobre, tali critiche hanno acquisito un nuovo pubblico e una nuova urgenza. I dati che tracciano le scelte linguistiche in redazione, così come le fughe di notizie sulle direttive editoriali del Times, evidenziano un pregiudizio anti-palestinese. Le correzioni dei titoli del Times sono diventate uno degli strumenti preferiti nei discorsi del movimento di solidarietà con la Palestina – per rivelare il revisionismo, per mettere le cose in chiaro, per dire la verità. Il nostro dossier arricchisce questo corpus di conoscenze: smaschera 20 redattori, dirigenti e giornalisti di alto rango che si occupano della guerra a Gaza e hanno legami con lo Stato sionista, minando ulteriormente il prestigio immeritato del Times.
Natan Odenheimer ha prestato servizio nell’unità commando Maglan delle forze speciali di occupazione israeliane. Ora che è corrispondente da Gerusalemme per il Times, scrive dei suoi ex compagni d’armi e si relaziona con loro. Come possiamo aspettarci che qualcuno scriva correttamente sull’occupazione quando ha indossato l’uniforme dell’occupante per quattro anni? Isabel Kershner è madre di due ex soldati delle IOF e moglie di un altro. Dopo il suo incarico, il marito di Kershner ha diretto il Programma di Strategia dell’Informazione di un think tank israeliano, un dipartimento incaricato di plasmare un’immagine positiva di Israele nei media. Non c’è bisogno di chiedersi come questo rapporto influenzi la sua copertura mediatica: Kershner ha citato il think tank del marito oltre 100 volte da quando ha iniziato a scrivere per il Times nel 2007. Il nostro dossier, che mette a nudo i legami materiali e le alleanze storiche di redattori, dirigenti e scrittori influenti con il sionismo, dimostra chiaramente che il Times è compromesso. L’intera istituzione è sistematicamente organizzata per proteggere Israele dalle responsabilità internazionali.
Il sostegno del Times al sionismo e alla missione coloniale dello Stato colonizzatore nella regione è profondamente radicato nella storia del giornale. AM Rosenthal, a capo della redazione del Times per quasi vent’anni, è stato elogiato al suo funerale per aver dimostrato che era possibile amare Israele “tanto quanto amare il nostro Paese”. Max Frankel, direttore esecutivo del Times per oltre dieci anni, ha ammesso di aver scritto “da una prospettiva filo-israeliana” e ha affermato che ci si aspettava che difendesse Israele “che avesse ragione o torto”.
Il Times ha condannato la nostra ricerca definendola “una campagna vile” sulla stampa, ma si rifiuta di accettare che l’uccisione di oltre 200 giornalisti palestinesi da parte di Israele sia stata un’operazione mirata. Ci rammarichiamo di aver definito il martire Hossam Shabat “collega” di giornalisti d’élite che scrivono la loro propaganda da case rubate nella Gerusalemme occupata. Coloro che prestano servizio nelle IOF, pagati dalla lobby israeliana per diffondere la sua hasbara (propaganda per un’immagine positiva di Israele, ndr), non sono colleghi dei più coraggiosi palestinesi: sono i loro nemici.
La risposta del giornale al nostro dossier impiega la stessa logica contorta presente nella sua copertura: come possono i contenuti della nostra ricerca essere allo stesso tempo “di dominio pubblico” e “inesatti”? Sappiamo perché il Times è rimasto in silenzio sull’uccisione di operatori dei media: i giornalisti palestinesi rivelano la stessa verità che il giornale cerca di oscurare. Vengono costantemente accusati di essere di parte e incapaci di riferire in modo obiettivo perché palestinesi. La loro identità è l’accusa definitiva. Sul Times, l’equità sfugge per i palestinesi e la loro lotta per vivere liberi è illegale, ingiusta e degna di condanna.
“Il New York Times non riconosce la Palestina”, disse una volta un redattore del Times all’intellettuale palestinese Ibrahim Abu-Lughod. Abu-Lughod rispose: “Beh, nemmeno la Palestina riconosce il New York Times”. Il suo rifiuto di riconoscere il Times 37 anni fa è un invito a minarne il prestigio. Tutti dovrebbero ascoltare il suo appello e boicottare, disinvestire e disiscriversi dal “paper of record”.
Per immaginare una Palestina libera nel corso della nostra vita, è utile immaginare un mondo senza il New York Times.
Fonte
Le crepe nella NATO
La mia analisi sulle prime crepe nella NATO è stata pubblicata con un leggero ritardo, sufficiente per diventare obsoleta. Avevo segnalato i due referendum proposti in Slovenia – uno sulla spesa militare e l’altro sull’adesione all’Alleanza – quando la situazione è improvvisamente cambiata.
Con sorpresa di chi non conosce bene la politica di questo piccolo paese, il parlamento sloveno ha annullato la decisione sul primo referendum, proposto dal partner di coalizione Levica, per motivi procedurali: la domanda referendaria non era stata formulata correttamente!
Questo ha dato al Primo Ministro Robert Golob il pretesto perfetto per ritirare la sua stessa proposta frettolosa ed emotiva di un secondo referendum (che chiedeva ai cittadini se fossero favorevoli a rimanere o uscire dalla NATO).
Sembra che le speranze di un vero dibattito in qualsiasi paese sulla richiesta insensata, o meglio suicida, della NATO di destinare il 5% del PIL a scopi militari si siano dissolte. Come dice il vecchio adagio latino: Parturient montes, nascetur ridiculus mus (Le montagne partoriscono e nasce un ridicolo topolino).
I colleghi sloveni che ho consultato sostengono che la saga del referendum non è finita, poiché i proponenti potrebbero ancora “correggere” la domanda e chiederne uno nuovo. Tuttavia, alcuni osservatori realistici fanno notare che si tratterebbe di un referendum consultivo, cioè non vincolante, il che significa che, anche se generasse un dibattito pubblico, rimarrebbe solo una tempesta in un bicchiere d’acqua – senza alcun effetto legale o politico concreto.
Ricordiamo che, sotto pressione e allarmismi, nel 2003 gli sloveni votarono a favore dell’adesione alla NATO con il 66% dei consensi. Quel referendum era vincolante, e quindi nessun referendum consultivo potrebbe essere abbastanza forte da annullarlo legalmente.
In altre parole, il popolo è già stato interpellato una volta, e la Slovenia ha fatto il check-in all’Hotel California. Le nuove generazioni potranno fare il check-out dall’Hotel NATO? Esiste una massa critica e una consapevolezza sufficiente per lasciare questo club militare, insaziabile come il Leviatano, che chiede sempre più soldi e truppe? Perché oggi l’Europa si prepara alla guerra, non alla pace.
Vedremo cosa accadrà in questo piccolo paese, i cui abitanti non sono notoriamente entusiasti di indossare stivali militari – o di pagarli.
Nonostante questa svolta in Slovenia, le fratture interne alla NATO sono ben lungi dall’essersi risolte. Formalmente, esiste una clausola di uscita regolata dall’articolo 13 dello Statuto NATO: basta inviare una notifica ufficiale al Dipartimento di Stato americano per annunciare l’intenzione di ritirarsi. Il “divorzio” avviene in 12 mesi.
Sembra ingannevolmente facile, ma la vera domanda è se un governo democraticamente eletto, anche con un mandato per farlo, oserebbe o sarebbe autorizzato ad agire secondo le richiese dei suoi elettori.
Gli Stati membri della NATO, soprattutto i più piccoli, sono davvero sovrani? Basta guardare come questo piccolo episodio sloveno abbia scosso Bruxelles, Washington e i media occidentali. Uscire dalla NATO, o semplicemente dissentire dalle richieste di Donald Trump, viene trattato come un atto di blasfemia e dramma.
In pochi lo dicono apertamente, ma la ministra degli Esteri Tanja Fajon è stata sottoposta a immense pressioni nelle ultime settimane ed è stata costretta a giurare fedeltà alla NATO. Purtroppo, in Slovenia, le forze anti-nato o pacifiste sono poche in parlamento o esistono soprattutto nella società civile.
Eppure, le crepe nella NATO esistono. Alcune sono visibili, altre meno. La Spagna ha ottenuto silenziosamente una clausola di esenzione, ma è solo questione di tempo prima che altri Stati membri vogliano “diventare Spagna”.
L’attenzione ora è sulla Slovacchia e sul suo coraggioso Primo Ministro Fico (a differenza del Golob sloveno, che ha solo spaventato il pubblico senza alcuna seria intenzione di sostenere l’uscita dalla NATO). Quasi la metà della popolazione slovacca preferisce la neutralità (49,8%) alla permanenza nella NATO (40%).
Nella vicina Repubblica Ceca, il leader dell’opposizione ed ex premier Andrej Babiš ha dichiarato che il suo partito ANO rifiuterebbe il nuovo obiettivo di spesa militare della NATO se vincesse le elezioni di ottobre: “Se Trump mi dice di saltare dalla finestra, non lo farò”.
L’Italia si rifiuta fermamente di pagare nuovi acquisti di armi per l’Ucraina o di inviare truppe al fronte. Il presidente croato ammette che il suo paese non può soddisfare l’appetito insaziabile della NATO. Molti paesi esitano a impegnarsi ulteriormente in azioni militari contro la Russia (che, ovviamente, viene dipinta come la principale minaccia senza prove). In Italia, i sondaggi mostrano che solo il 16% dei giovani è disposto ad andare in guerra per difendere il proprio paese.
La situazione è simile in Gran Bretagna, dove oltre il 70% dei giovani non sa nemmeno come cambiare una lampadina in salotto. Forse le generazioni di oggi non hanno consapevolezza degli orrori delle due guerre mondiali europee. Eppure, molti hanno goduto di decenni di pace e prosperità grazie ai legami economici con la Russia e all’energia a basso costo. In loro c’è il potenziale inespresso per dire NO al militarismo e alle uniformi militari che i loro governi stanno preparando per loro.
Ecco un altro dato importante per evitare disperazione e passività: ogni nuovo centesimo speso per il complesso militare-industriale approfondisce la crisi sociale. Alcune menti confuse credono che la spesa militare sia la salvezza dalla crisi auto-cannibalistica del capitalismo, ma i soldi non cadono dal cielo.
Ucraina, Germania e altri non hanno fondi infiniti per armi ed esercitazioni militari. La guerra è un affare costoso e non ha mai portato progresso. L’Europa si sta dissanguando a morte ripetendo errori che in passato ha pagato a caro prezzo. E i cittadini statunitensi non staranno meglio con la strategia sconsiderata di Trump di creare vassalli e nemici senza soddisfare le aspettative del suo elettorato.
Nonostante l’espansione globale, la NATO rimane una tigre di carta dal punto di vista militare. Non può prepararsi a così tanti conflitti simultanei, né troverà entusiasmo tra i suoi cittadini. La politica di estorsione e ricatto di Trump ha i suoi limiti, così come la sua follia tariffaria.
Il nostro compito è rivelare le crepe nel guscio incrinato di questo militarismo emergente e resistere alla paura che nasconda un mostro come Alien – come nella serie di film. Se un nuovo nazismo dovesse sorgere – i cui contorni sono già visibili – noi, abitanti della NATOlandia, saremo le prime vittime, seguite dai nemici che abbiamo fabbricato.
Fonte
Con sorpresa di chi non conosce bene la politica di questo piccolo paese, il parlamento sloveno ha annullato la decisione sul primo referendum, proposto dal partner di coalizione Levica, per motivi procedurali: la domanda referendaria non era stata formulata correttamente!
Questo ha dato al Primo Ministro Robert Golob il pretesto perfetto per ritirare la sua stessa proposta frettolosa ed emotiva di un secondo referendum (che chiedeva ai cittadini se fossero favorevoli a rimanere o uscire dalla NATO).
Sembra che le speranze di un vero dibattito in qualsiasi paese sulla richiesta insensata, o meglio suicida, della NATO di destinare il 5% del PIL a scopi militari si siano dissolte. Come dice il vecchio adagio latino: Parturient montes, nascetur ridiculus mus (Le montagne partoriscono e nasce un ridicolo topolino).
I colleghi sloveni che ho consultato sostengono che la saga del referendum non è finita, poiché i proponenti potrebbero ancora “correggere” la domanda e chiederne uno nuovo. Tuttavia, alcuni osservatori realistici fanno notare che si tratterebbe di un referendum consultivo, cioè non vincolante, il che significa che, anche se generasse un dibattito pubblico, rimarrebbe solo una tempesta in un bicchiere d’acqua – senza alcun effetto legale o politico concreto.
Ricordiamo che, sotto pressione e allarmismi, nel 2003 gli sloveni votarono a favore dell’adesione alla NATO con il 66% dei consensi. Quel referendum era vincolante, e quindi nessun referendum consultivo potrebbe essere abbastanza forte da annullarlo legalmente.
In altre parole, il popolo è già stato interpellato una volta, e la Slovenia ha fatto il check-in all’Hotel California. Le nuove generazioni potranno fare il check-out dall’Hotel NATO? Esiste una massa critica e una consapevolezza sufficiente per lasciare questo club militare, insaziabile come il Leviatano, che chiede sempre più soldi e truppe? Perché oggi l’Europa si prepara alla guerra, non alla pace.
Vedremo cosa accadrà in questo piccolo paese, i cui abitanti non sono notoriamente entusiasti di indossare stivali militari – o di pagarli.
Nonostante questa svolta in Slovenia, le fratture interne alla NATO sono ben lungi dall’essersi risolte. Formalmente, esiste una clausola di uscita regolata dall’articolo 13 dello Statuto NATO: basta inviare una notifica ufficiale al Dipartimento di Stato americano per annunciare l’intenzione di ritirarsi. Il “divorzio” avviene in 12 mesi.
Sembra ingannevolmente facile, ma la vera domanda è se un governo democraticamente eletto, anche con un mandato per farlo, oserebbe o sarebbe autorizzato ad agire secondo le richiese dei suoi elettori.
Gli Stati membri della NATO, soprattutto i più piccoli, sono davvero sovrani? Basta guardare come questo piccolo episodio sloveno abbia scosso Bruxelles, Washington e i media occidentali. Uscire dalla NATO, o semplicemente dissentire dalle richieste di Donald Trump, viene trattato come un atto di blasfemia e dramma.
In pochi lo dicono apertamente, ma la ministra degli Esteri Tanja Fajon è stata sottoposta a immense pressioni nelle ultime settimane ed è stata costretta a giurare fedeltà alla NATO. Purtroppo, in Slovenia, le forze anti-nato o pacifiste sono poche in parlamento o esistono soprattutto nella società civile.
Eppure, le crepe nella NATO esistono. Alcune sono visibili, altre meno. La Spagna ha ottenuto silenziosamente una clausola di esenzione, ma è solo questione di tempo prima che altri Stati membri vogliano “diventare Spagna”.
L’attenzione ora è sulla Slovacchia e sul suo coraggioso Primo Ministro Fico (a differenza del Golob sloveno, che ha solo spaventato il pubblico senza alcuna seria intenzione di sostenere l’uscita dalla NATO). Quasi la metà della popolazione slovacca preferisce la neutralità (49,8%) alla permanenza nella NATO (40%).
Nella vicina Repubblica Ceca, il leader dell’opposizione ed ex premier Andrej Babiš ha dichiarato che il suo partito ANO rifiuterebbe il nuovo obiettivo di spesa militare della NATO se vincesse le elezioni di ottobre: “Se Trump mi dice di saltare dalla finestra, non lo farò”.
L’Italia si rifiuta fermamente di pagare nuovi acquisti di armi per l’Ucraina o di inviare truppe al fronte. Il presidente croato ammette che il suo paese non può soddisfare l’appetito insaziabile della NATO. Molti paesi esitano a impegnarsi ulteriormente in azioni militari contro la Russia (che, ovviamente, viene dipinta come la principale minaccia senza prove). In Italia, i sondaggi mostrano che solo il 16% dei giovani è disposto ad andare in guerra per difendere il proprio paese.
La situazione è simile in Gran Bretagna, dove oltre il 70% dei giovani non sa nemmeno come cambiare una lampadina in salotto. Forse le generazioni di oggi non hanno consapevolezza degli orrori delle due guerre mondiali europee. Eppure, molti hanno goduto di decenni di pace e prosperità grazie ai legami economici con la Russia e all’energia a basso costo. In loro c’è il potenziale inespresso per dire NO al militarismo e alle uniformi militari che i loro governi stanno preparando per loro.
Ecco un altro dato importante per evitare disperazione e passività: ogni nuovo centesimo speso per il complesso militare-industriale approfondisce la crisi sociale. Alcune menti confuse credono che la spesa militare sia la salvezza dalla crisi auto-cannibalistica del capitalismo, ma i soldi non cadono dal cielo.
Ucraina, Germania e altri non hanno fondi infiniti per armi ed esercitazioni militari. La guerra è un affare costoso e non ha mai portato progresso. L’Europa si sta dissanguando a morte ripetendo errori che in passato ha pagato a caro prezzo. E i cittadini statunitensi non staranno meglio con la strategia sconsiderata di Trump di creare vassalli e nemici senza soddisfare le aspettative del suo elettorato.
Nonostante l’espansione globale, la NATO rimane una tigre di carta dal punto di vista militare. Non può prepararsi a così tanti conflitti simultanei, né troverà entusiasmo tra i suoi cittadini. La politica di estorsione e ricatto di Trump ha i suoi limiti, così come la sua follia tariffaria.
Il nostro compito è rivelare le crepe nel guscio incrinato di questo militarismo emergente e resistere alla paura che nasconda un mostro come Alien – come nella serie di film. Se un nuovo nazismo dovesse sorgere – i cui contorni sono già visibili – noi, abitanti della NATOlandia, saremo le prime vittime, seguite dai nemici che abbiamo fabbricato.
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Se n’è andato Raffaele Fiore
Raffaele Fiore, un Compagno con la C maiuscola è stato un ragazzo generoso che ha messo in gioco la propria libertà per la Libertà di tutte e tutti.
La sua grande mole (è eloquente la foto in cui accompagna la bara di Prospero assieme ad altri compagni tra cui due di una certa mole come Francone e Nicola), le sue forti e grandi mani da “faticatore” potevano ingannare ma bastava guardare il taglio particolare del suo sorriso, tipico di queste nostre zone del sud di chi sin da piccolo ha dovuto aggrapparsi alle gioie perché ha conosciuto troppo presto l’amaro, e gli occhi e la voce per rendersi conto della enorme disponibilità umana e bontà del suo cuore.
Un militante dell’Organizzazione, un Comunista, un prigioniero.
Un proletario.
Il ricordo di Raffaele Fiore così come di tanti altri compagni e compagne non può disperdersi nel silenzio del quotidiano, poiché più alto del prezzo pagato per il loro tentativo di rovesciare il cielo c’è solo il loro grande coraggio e l’esemplare coerenza con cui hanno affrontato il rischio prima e la sconfitta poi. Una sconfitta militare, ma non umana poiché di siffatta forma Uomini e Donne oggi non ne nascono in gran numero, tutt’altro.
Riprendo un articolo di P. Persichetti in cui Raffaele Fiore intervistato ha potuto smentire un articolaccio in malafede che infarcito di banalità e dietrologia aveva tentato di intorbidire le acque sul sequestro Moro.
Fiore da buon barese verace, da operaio abituato alla fatica e a parlare con poche e importanti parole ha inchiodato la realtà ai fatti.
“In via Fani quella mattina del 16 marzo 1978 c’eravamo solo noi delle Brigate rosse e il convoglio di Moro. Punto”. Raffaele Fiore al telefono è perentorio. Operaio, dirigente della colonna torinese, era tra i nove che quella mattina neutralizzarono la scorta e rapirono il presidente della Democrazia cristiana, il “partito regime” per una buona parte dell’opinione pubblica di allora. Condannato all’ergastolo, dopo 30 anni di carcere ha ottenuto la liberazione condizionale. Ora lavora in una cooperativa.
Quando gli telefoniamo sta scaricando un furgone: «sentiamoci tra una mezz’oretta – mi dice – che mi siedo in ufficio e parliamo con più calma».
Il pezzo (Paolo Persichetti si riferisce qui all’articolaccio di cui vi ho scritto sopra) riprende un vecchio leit motiv della dietrologia, ossia che le Br in via Fani non erano da sole: «C’erano persone che non conoscevo», avrebbe detto Fiore, «che non dipendevano da noi [...] Che erano altri a gestire».
Clamoroso. Se fosse vero andrebbe riscritta almeno la verità giudiziaria [la storia, si sa, è un work in progress]. Ma il problema è che Fiore quelle parole non le ha mai dette.
L’intervista è stata “confezionata” in modo da far dire all’ex brigatista proprio quelle parole, che invece si riferivano ad altro, senza retropensieri e sottintesi. Per questo motivo abbiamo chiamato Fiore.
«Raffaele, insomma, ci spieghi cosa è successo con la giornalista? Che cosa vogliono dire quelle frasi?».
Sentiamo che Fiore non è nemmeno arrabbiato, eppure avrebbe tutte le ragioni al mondo per esserlo.
«In via Fani quella mattina eravamo in nove [Fiore non prende in considerazione la staffetta indicata nelle sentenze processuali nella persona di Rita Algranati, condannata all’ergastolo e attualmente in carcere]. Di questi ne conoscevo sei, i regolari: Mario, Barbara, Valerio, Baffino, Prospero e Bruno. Gli altri, due irregolari romani, non li conoscevo ed ancora oggi farei fatica ad identificarli.
La giornalista mi ha chiesto se i due situati nella parte superiore di via Fani fossero Lojacono e Casimirri. Ho risposto che non li conoscevo. Che i due che stavano sulla parte alta della via erano della colonna romana e dunque erano altri a gestirli».
Se la domanda sul cancelletto superiore manca nel testo, la risposta può assumere qualsiasi senso. Ed è questo il sotterfugio impiegato dalla giornalista che ha fatto l’intervista, l’origine della “rivelazione”, quell’impasto di livore e odio contro chi ha condotto una lotta in armi in questo paese, cotto da sempre nel forno della dietrologia.
Raffaele Fiore ha semplicemente riposto la propria fiducia nella persona sbagliata. Gli ha parlato a viso aperto, tentando di spiegare ragioni e motivazioni del proprio passato e delle proprie azioni, in generale, non solo su via Fani. Conversando, ha anche provato a ragionare su quella complessa vicenda che è stato il rapimento di Moro. Forse pensava di essere a un convegno di storici ma in realtà non era neanche giornalismo.”
Questo piccolo stralcio spero possa servire ai tanti giovani e giovanissimi tra i miei contatti che sfuggiti al microprofiling dei social possano imbattersi in questo mio post e confrontarsi con una figura importante della storia proletaria, con la sua coerenza e con la sua bella e schietta umanità.
Ciao Raffaele.
Fonte
La sua grande mole (è eloquente la foto in cui accompagna la bara di Prospero assieme ad altri compagni tra cui due di una certa mole come Francone e Nicola), le sue forti e grandi mani da “faticatore” potevano ingannare ma bastava guardare il taglio particolare del suo sorriso, tipico di queste nostre zone del sud di chi sin da piccolo ha dovuto aggrapparsi alle gioie perché ha conosciuto troppo presto l’amaro, e gli occhi e la voce per rendersi conto della enorme disponibilità umana e bontà del suo cuore.
Un militante dell’Organizzazione, un Comunista, un prigioniero.
Un proletario.
Il ricordo di Raffaele Fiore così come di tanti altri compagni e compagne non può disperdersi nel silenzio del quotidiano, poiché più alto del prezzo pagato per il loro tentativo di rovesciare il cielo c’è solo il loro grande coraggio e l’esemplare coerenza con cui hanno affrontato il rischio prima e la sconfitta poi. Una sconfitta militare, ma non umana poiché di siffatta forma Uomini e Donne oggi non ne nascono in gran numero, tutt’altro.
Riprendo un articolo di P. Persichetti in cui Raffaele Fiore intervistato ha potuto smentire un articolaccio in malafede che infarcito di banalità e dietrologia aveva tentato di intorbidire le acque sul sequestro Moro.
Fiore da buon barese verace, da operaio abituato alla fatica e a parlare con poche e importanti parole ha inchiodato la realtà ai fatti.
“In via Fani quella mattina del 16 marzo 1978 c’eravamo solo noi delle Brigate rosse e il convoglio di Moro. Punto”. Raffaele Fiore al telefono è perentorio. Operaio, dirigente della colonna torinese, era tra i nove che quella mattina neutralizzarono la scorta e rapirono il presidente della Democrazia cristiana, il “partito regime” per una buona parte dell’opinione pubblica di allora. Condannato all’ergastolo, dopo 30 anni di carcere ha ottenuto la liberazione condizionale. Ora lavora in una cooperativa.
Quando gli telefoniamo sta scaricando un furgone: «sentiamoci tra una mezz’oretta – mi dice – che mi siedo in ufficio e parliamo con più calma».
Il pezzo (Paolo Persichetti si riferisce qui all’articolaccio di cui vi ho scritto sopra) riprende un vecchio leit motiv della dietrologia, ossia che le Br in via Fani non erano da sole: «C’erano persone che non conoscevo», avrebbe detto Fiore, «che non dipendevano da noi [...] Che erano altri a gestire».
Clamoroso. Se fosse vero andrebbe riscritta almeno la verità giudiziaria [la storia, si sa, è un work in progress]. Ma il problema è che Fiore quelle parole non le ha mai dette.
L’intervista è stata “confezionata” in modo da far dire all’ex brigatista proprio quelle parole, che invece si riferivano ad altro, senza retropensieri e sottintesi. Per questo motivo abbiamo chiamato Fiore.
«Raffaele, insomma, ci spieghi cosa è successo con la giornalista? Che cosa vogliono dire quelle frasi?».
Sentiamo che Fiore non è nemmeno arrabbiato, eppure avrebbe tutte le ragioni al mondo per esserlo.
«In via Fani quella mattina eravamo in nove [Fiore non prende in considerazione la staffetta indicata nelle sentenze processuali nella persona di Rita Algranati, condannata all’ergastolo e attualmente in carcere]. Di questi ne conoscevo sei, i regolari: Mario, Barbara, Valerio, Baffino, Prospero e Bruno. Gli altri, due irregolari romani, non li conoscevo ed ancora oggi farei fatica ad identificarli.
La giornalista mi ha chiesto se i due situati nella parte superiore di via Fani fossero Lojacono e Casimirri. Ho risposto che non li conoscevo. Che i due che stavano sulla parte alta della via erano della colonna romana e dunque erano altri a gestirli».
Se la domanda sul cancelletto superiore manca nel testo, la risposta può assumere qualsiasi senso. Ed è questo il sotterfugio impiegato dalla giornalista che ha fatto l’intervista, l’origine della “rivelazione”, quell’impasto di livore e odio contro chi ha condotto una lotta in armi in questo paese, cotto da sempre nel forno della dietrologia.
Raffaele Fiore ha semplicemente riposto la propria fiducia nella persona sbagliata. Gli ha parlato a viso aperto, tentando di spiegare ragioni e motivazioni del proprio passato e delle proprie azioni, in generale, non solo su via Fani. Conversando, ha anche provato a ragionare su quella complessa vicenda che è stato il rapimento di Moro. Forse pensava di essere a un convegno di storici ma in realtà non era neanche giornalismo.”
Questo piccolo stralcio spero possa servire ai tanti giovani e giovanissimi tra i miei contatti che sfuggiti al microprofiling dei social possano imbattersi in questo mio post e confrontarsi con una figura importante della storia proletaria, con la sua coerenza e con la sua bella e schietta umanità.
Ciao Raffaele.
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Gaza - Dichiarazione delle forze della resistenza palestinese
Dichiarazione delle forze della resistenza palestinese, ossia di tutte le componenti della resistenza, il falso racconto che a Gaza ci sono solo i combattenti di Hamas, la resistenza all’aggressione sionista e’ l’insieme di forze che combattono da decine di anni l’occupazione.
*****
“I fronti palestinesi osservano con profonda preoccupazione e totale mobilitazione popolare il crimine sistematico di genocidio che sta subendo il nostro popolo nella Striscia di Gaza, che fa parte della guerra della fame, dei bombardamenti su vasta scala e dell’assedio totale, condotti dal criminale governo sionista occupante di Netanyahu, con l’immediato e scandaloso sostegno dell’amministrazione statunitense, e la vergognosa partecipazione internazionale e il sospetto silenzio dell’Unione Europea e degli organi istituzionali della comunità internazionale.
Il nostro popolo sta entrando nel suo ventiduesimo mese di guerra aperta e totale, che ha superato i bombardamenti, gli omicidi e la distruzione, per includere l’uso della fame e dell’assedio medico e umanitario attraverso il deliberato blocco di cibo e aiuti medici preventivi, nel disperato tentativo di sottometterlo e spezzarne la volontà.
Ciò a cui è sottoposta la Striscia è considerato un crimine di guerra secondo le leggi e i regolamenti internazionali, e un crimine contro l’umanità secondo tutti gli standard, superando in violenza, criminalità e sadismo i crimini del nazismo e del fascismo.
Di fronte a questi crimini continui, confermiamo quanto segue:
1. Riteniamo il criminale di guerra Netanyahu e il suo governo fascista pienamente responsabili delle politiche genocidiarie e di guerra della fame che stanno conducendo contro oltre due milioni di palestinesi, in un crimine organizzato che costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario e delle Convenzioni di Ginevra.
2. Riteniamo il governo statunitense, in quanto principale partner e sostenitore del governo criminale di Netanyahu, pienamente responsabile del protrarsi di questa brutale aggressione e del fallimento del processo negoziale a causa della mancanza di una seria pressione sul governo occupante affinché ponga fine ai suoi crimini.
3. Denunciamo il sospetto silenzio internazionale, in particolare dell’Unione Europea, e riteniamo che la debolezza delle Nazioni Unite e l’inerzia della comunità internazionale incoraggino l’occupazione a continuare i suoi crimini contro il nostro popolo assediato nella Striscia di Gaza.
4. Affermiamo che questi crimini rivelano chiaramente le intenzioni del governo occupante, che non cerca la pace né un accordo, ma mira a svuotare la terra e imporre un piano di sterminio e sfollamento forzato.
5. Avvertiamo che continuare con questo approccio potrebbe influire negativamente sul processo negoziale e aprire la porta a possibilità di escalation, rendendo il governo “israeliano” e i paesi che lo sostengono responsabili.
6. Facciamo appello alle masse del nostro popolo palestinese ovunque si trovino, alla nostra nazione araba e islamica e ai popoli liberi del mondo, affinché intensifichino gli sforzi popolari, politici, mediatici e di massa, esercitando pressioni sui movimenti per fermare questo crimine continuo, porre fine all’assedio ingiusto e sventare il piano di sterminio attuato dallo Stato occupante con il sostegno degli Stati Uniti e l’inerzia internazionale.
7. Facciamo appello a tutti gli attivisti in solidarietà con il nostro popolo palestinese in tutto il mondo affinché intensifichino le loro azioni e uniscano gli sforzi per fare pressione sui loro governi affinché cessino il loro sostegno e la loro complicità con il governo fascista di Netanyahu e lavorino per porre fine alle politiche di sterminio e di fame che vengono attuate contro il nostro popolo e per ottenere giustizia e libertà per la Palestina.
8. Alla luce di questa tragica situazione, rinnoviamo il nostro impegno nei confronti delle masse del nostro popolo; pur condividendo il loro dolore e la loro sofferenza, continueremo i nostri sforzi per porvi fine e portare avanti la scelta della resistenza totale fino a quando l’assedio non sarà spezzato, la nostra aggressione per fermare e raggiungere gli obiettivi del nostro popolo per la liberazione, il ritorno e l’indipendenza.
Movimento di Resistenza Islamica Hamas
Movimento Jihad Islamica Palestinese
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina
Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina
Iniziativa Nazionale Palestinese
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale
Fonte
29/07/2025
Israele sequestra la Freedom Flotilla, i portuali italiani bloccano l’accesso di navi destinate a Israele
Venerdì notte le forze armate israeliane hanno sequestrato in acque internazionali l’equipaggio e la nave Handala della Freedom Flotilla diretta con aiuti umanitari a Gaza. Gli attivisti a bordo sono stati fermati in carcere in attesa di essere espulsi. Ma l’arroganza israeliana sta incontrando nel mondo – e anche in Italia – pane per i suoi denti.
L’Unione Sindacale di Base del porto di Genova ha proclamato 24 ore di sciopero per martedì 5 agosto al terminal Psa Genova Pra’ dopo aver ricevuto segnalazioni sul trasporto di materiale bellico all’interno di tre container della compagnia Evergreen e trasportati sulla nave portacontainer Cosco Pisces attualmente in rada di fronte al porto di La Spezia in attesa di poter ormeggiare al La Spezia Container Terminal.
Secondo quanto appreso da Shipping Italy la nave Cosco Pisces dovrebbe approdare appena possibile al porto di La Spezia dove però non verranno sbarcati i tre container di Evergreen nel mirino dei portuali e delle associazioni che protestano contro i traffici di armi.
La compagnia di navigazione di Taiwan pare infatti abbia deciso di far tornare i tre container sotto tiro da dov’erano partiti.
Il sindacato USB in un comunicato spiega come la conferma che il materiale bellico stesse viaggiando a bordo della nave Cosco Pisces sia arrivata “dai portuali del Pireo, in Grecia, nell’ambito di quella rete di solidarietà internazionale che da mesi si oppone al traffico di armi nei porti del Mediterraneo”.
USB chiarisce che “queste operazioni non rientrano tra i servizi essenziali tutelati dalla legge 146/1990, che garantisce solo le funzioni legate ai diritti fondamentali come salute, istruzione e comunicazione. Al contrario, la stessa normativa riconosce la legittimità dello sciopero quando è finalizzato a difendere l’ordine costituzionale e la sicurezza collettiva. Fermare la logistica di guerra non è quindi solo una scelta politica e morale, ma anche un diritto pienamente esercitabile”.
La protesta (che ancora non è chiaro se verrà comunque confermata o meno) è in programma a partire dalle ore 22 del 4 agosto fino alle 21:59 del giorno successivo, con un’astensione di otto ore consecutive per il personale amministrativo e turnista. Saranno comunque garantiti i servizi minimi previsti dal contratto e dalla legge. La proclamazione potrebbe subire variazioni in base alla programmazione della nave, ma il messaggio dei portuali è chiaro: “Non lavoreremo per la guerra”.
Questa non è un’azione isolata. “Negli ultimi mesi USB – si legge ancora nella nota – ha moltiplicato le iniziative per spezzare la catena logistica che alimenta conflitti e massacri. A giugno i lavoratori hanno incrociato le braccia all’aeroporto di Brescia Montichiari per bloccare un carico di armi, e a luglio il presidio davanti al Comune di Genova ha rilanciato la richiesta di dichiarare i porti liguri off limits per le spedizioni belliche. La mobilitazione è parte di un fronte internazionale che unisce i portuali di Francia, Grecia, Germania e Nord Africa”.
Il sindacato dei portuali porta avanti anche una battaglia sul piano legale. “Dopo che la Commissione di Garanzia – scrivono – ha tentato di limitare il diritto di sciopero, USB ha ribadito che considerare le armi un servizio essenziale è un’idea inaccettabile e contraria ai principi costituzionali. Da qui nasce la campagna ‘Il lavoro ripudia la guerra’, che rivendica un principio semplice: i porti italiani non devono diventare basi logistiche per i conflitti, ma restare luoghi al servizio delle comunità”.
Fonte
L’Unione Sindacale di Base del porto di Genova ha proclamato 24 ore di sciopero per martedì 5 agosto al terminal Psa Genova Pra’ dopo aver ricevuto segnalazioni sul trasporto di materiale bellico all’interno di tre container della compagnia Evergreen e trasportati sulla nave portacontainer Cosco Pisces attualmente in rada di fronte al porto di La Spezia in attesa di poter ormeggiare al La Spezia Container Terminal.
Secondo quanto appreso da Shipping Italy la nave Cosco Pisces dovrebbe approdare appena possibile al porto di La Spezia dove però non verranno sbarcati i tre container di Evergreen nel mirino dei portuali e delle associazioni che protestano contro i traffici di armi.
La compagnia di navigazione di Taiwan pare infatti abbia deciso di far tornare i tre container sotto tiro da dov’erano partiti.
Il sindacato USB in un comunicato spiega come la conferma che il materiale bellico stesse viaggiando a bordo della nave Cosco Pisces sia arrivata “dai portuali del Pireo, in Grecia, nell’ambito di quella rete di solidarietà internazionale che da mesi si oppone al traffico di armi nei porti del Mediterraneo”.
USB chiarisce che “queste operazioni non rientrano tra i servizi essenziali tutelati dalla legge 146/1990, che garantisce solo le funzioni legate ai diritti fondamentali come salute, istruzione e comunicazione. Al contrario, la stessa normativa riconosce la legittimità dello sciopero quando è finalizzato a difendere l’ordine costituzionale e la sicurezza collettiva. Fermare la logistica di guerra non è quindi solo una scelta politica e morale, ma anche un diritto pienamente esercitabile”.
La protesta (che ancora non è chiaro se verrà comunque confermata o meno) è in programma a partire dalle ore 22 del 4 agosto fino alle 21:59 del giorno successivo, con un’astensione di otto ore consecutive per il personale amministrativo e turnista. Saranno comunque garantiti i servizi minimi previsti dal contratto e dalla legge. La proclamazione potrebbe subire variazioni in base alla programmazione della nave, ma il messaggio dei portuali è chiaro: “Non lavoreremo per la guerra”.
Questa non è un’azione isolata. “Negli ultimi mesi USB – si legge ancora nella nota – ha moltiplicato le iniziative per spezzare la catena logistica che alimenta conflitti e massacri. A giugno i lavoratori hanno incrociato le braccia all’aeroporto di Brescia Montichiari per bloccare un carico di armi, e a luglio il presidio davanti al Comune di Genova ha rilanciato la richiesta di dichiarare i porti liguri off limits per le spedizioni belliche. La mobilitazione è parte di un fronte internazionale che unisce i portuali di Francia, Grecia, Germania e Nord Africa”.
Il sindacato dei portuali porta avanti anche una battaglia sul piano legale. “Dopo che la Commissione di Garanzia – scrivono – ha tentato di limitare il diritto di sciopero, USB ha ribadito che considerare le armi un servizio essenziale è un’idea inaccettabile e contraria ai principi costituzionali. Da qui nasce la campagna ‘Il lavoro ripudia la guerra’, che rivendica un principio semplice: i porti italiani non devono diventare basi logistiche per i conflitti, ma restare luoghi al servizio delle comunità”.
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Il naufragio di una “accettabile” condotta bellica
Per un secondo mettiamo da parte il diritto internazionale e la sacrosanta necessità di distinguere tra civili e combattenti. Vorrei che ci mettessimo per un secondo nei panni delle comunità bombardate tra Palestina e Libano, comunità che al loro interno hanno visto anche nascere e crescere persone che prima o dopo hanno scelto in modo permanente o saltuario, retribuito o volontario, di combattere tra le fila di N milizie armate, come per esempio Hamas ed Hezbollah.
Una persona così, che magari viaggia a bordo di una moto nel sud del Libano e magari ha una pistola in tasca, costituisce una minaccia reale per Israele? Che genere di minaccia? La minaccia costituita da rampe di missili? Quella costituita da depositi di armi? O quella costituita da un uomo a bordo di una moto? In che modo può mettere a repentaglio la vita di un singolo israeliano che vive oltre il confine?
A forza di dover faticosamente ribadire la necessità di cui sopra, a forza di riaffermare che al 7 ottobre, in ottica israeliana, si sarebbe dovuto rispondere con le forze speciali, e non con bombardamenti aerei nel mucchio (funzionali a quella pulizia etnica che oggi vediamo compiuta), a forza di supplicare che i civili vengano risparmiati, ci siamo placidamente adagiati sull’idea comoda ed accessoria per cui, se i civili vanno lasciati in pace, i combattenti, anzi i terroristi, vanno presi di mira senza pietà, in ogni situazione.
Anche facendo il tiro al bersaglio con gli aerei e i droni su individui solitari – privi o provvisti della “tessera” di appartenenza, dato che come spiegato tante volte quest’ultima può designare un concetto o una nozione dai confini labili – che guidano una moto in aperta campagna. Tuttavia questo non è un videogioco, i combattenti non sono mostri verdi a tre teste ma sono persone che vivono all’interno delle loro comunità.
Non tanto noi, che ormai siamo irrecuperabili ed anestetizzati, ma appunto i membri di quella comunità, cosa penseranno? Cosa pensano quando vedono sta roba, quando vedono la distopia prendere una forma precisa, quando ne riconoscono chiaramente il Padre indiscusso?
Cosa pensano di un Esercito che in Libano via terra ha potuto fare un quinto dei km che aveva fatto durante l’invasione del 2006, nonostante una pervasiva copertura aerea, di un esercito che dopo due anni passati a spianare Gaza con l’aviazione ancora vede miliziani attaccare i propri carri armati (900 morti secondo le idf, che potrebbero essere sensibilmente di più), e che si affida appunto unicamente al tiro al piccione con gli F-35 e i droni, al bombardamento aereo non più di rampe o depositi ma di singole persone, di singoli politici, di singoli professori universitari considerati vicini o funzionali alla causa, di singoli miliziani che dormono o che guidano una moto, di singoli brigadieri o generali in Iran, di singoli affiliati a vario titolo, dopo aver fatto inghiottire al mondo una operazione terroristica come quella dei cerca-persone, salutata dai più come un esempio di sofisticazione e intelligenza?
No, perché io glielo chiedo ogni mese, l’ho fatto decine di volte in questi due anni, spesso il loro parere non è interessato a nessuno, nemmeno ai giornali. Il punto non è però la mia amarezza ma sinceramente, e ripeto sinceramente, l’idea che Israele e quindi anche noi, ahimè, diamo al mondo, l’idea che abbiamo anche di come si possa e debba fare la guerra, e che a sua volta non può che fermentare in risposte delle lotte armate (ed anche azioni terroristiche) sempre più feroci, intransigenti, o magari se vogliamo anche sconsiderate, per tutti.
L’idea, anzi, che sia in “pace” che in “guerra” si possa fare qualunque cosa. Qualunque. E non mi serve parlare degli stupri da parte dei soldati israeliani (e fra soldati israeliani) sui prigionieri o sui detenuti.
Non voglio neanche star qui a ricordarvi come si costruisce un mito, come si innalza un martire al cielo per i decenni a venire, come si impalca la narrazione di Davide contro Golia, come in alcuni luoghi taluni si convincono di combattere effettivamente (e col rinforzo motivazionale della religione o dell’appartenenza settaria, often) il MALE, come altri giungono alla conclusione di dover educare i propri discendenti a perpetuare questa battaglia con un mostro vigliacco, privo di scrupoli e regole, come si celebrano in eterno leader uccisi o paesi attaccati a tradimento, durante delle negoziazioni, o come si gettano i semi di un nuovo o di nuovi capitoli di militanza oltranzista.
Il punto qui è molto più semplice: agli occhi di milioni di persone stiamo diventando dei mostri, qui si, come nei videogames. Non usiamo le tecnologie e le innovazioni in campo militare per condurre operazioni più sofisticate e chirurgiche, per minimizzare i morti non necessari, per neutralizzare minacce reali: usiamo, usano queste tecnologie per costruire una distopia vera e propria, un mondo in cui non ti uccido praticamente MAI sul campo di battaglia ma dal cielo, con l’IA, mentre sei bagno, mentre dormi, mentre sei al mercato con tua figlia, purché tu abbia la targhetta di “terrorista”, di affiliato a qualunque titolo, anche soltanto politico, che poi è il titolo che serve eventualmente a negoziare (parlo soprattutto della leadership politica di Hamas ma in parte anche ai famigliari dei parlamentari di Hezbollah).
In una situazione in cui i civili muoiono ad un ritmo impressionante da ormai due anni, sembra esserci ogni volta come collettivo e interiore sospiro di sollievo, quando si leggono notizie come “ucciso in un raid un miliziano (?) sulla sua moto nei dintorni di Bint jbeil”, oppure “ucciso il generale iraniano nella sua casa al terzo piano”, o “uccisi due uomini a bordo della loro auto a Nabatieh”, “ucciso il comandante X mentre era in una riunione”, e via discorrendo. Siamo sicuri sia una cosa salutare e sostenibile? Siamo sicuri che le persone vicine, a partire dai parenti, a questo individuo, non maturino ancor più facilmente la certezza che le armi e il tentativo di somministrare insicurezza ad Israele siano davvero l’unica via percorribile?
La motivazione di tutto questo è che Israele è riuscita in un duplice intento: il primo è quello di aver trasformato ogni singolo individuo affiliato o vicino come una urgente minaccia esistenziale; il secondo è quello – lo si è visto dalle incredibili spiegazioni israeliane sugli omicidi di centinaia giornalisti a Gaza, dipinti come “membri di Hamas”, quindi come dei combattenti in quel contesto, quando nel migliore dei casi erano dei gazawi che OVVIAMENTE hanno dei rapporti o conoscenze nei principali gruppi armati gazawi, ma che al massimo sono armati di telecamere e non costituiscono una minaccia per nessun essere vivente – di trasformare molto pericolosamente in “membri di” tutti coloro che hanno anche solo a parole espresso vicinanza o sostegno a questi gruppi, o che hanno lavorato in enti e istituzioni civili legate a questi gruppi.
Vi ricordate (non ve lo ricordate, e vi capisco) con quanta nonchalance e furtività è passata di qui la notizia del bombardamento del Qard Al Hassan, di quello che è in sostanza un ente di microcredito e prestiti basati sulle regole della finanza islamica, legata ad Hezbollah, oppure quella del bombardamento di un “deposito di contanti”?
Anche qui, siamo sicuri sia rassicurante per il futuro? Parlo del vostro, di futuro. Siamo sicuri che ciò non abbia l’effetto di aprire ulteriormente le gabbie (magari anche nel fronte opposto), e abituarci all’idea che se hai un braccialetto di Hamas, oppure se realizzi dei video per Hamas o chi per loro, se sei del sud del Libano e agiti delle bandiere gialle, tu possa legittimamente essere polverizzato da missili da una tonnellata?
Che cosa intendiamo lasciare ai posteri, e soprattutto cosa intendiamo comunicare alla maggioranza demografica del mondo, qui sul piano della condotta bellica, oltre che sul piano giuridico, umanitario, etico e politico?
Fonte
Una persona così, che magari viaggia a bordo di una moto nel sud del Libano e magari ha una pistola in tasca, costituisce una minaccia reale per Israele? Che genere di minaccia? La minaccia costituita da rampe di missili? Quella costituita da depositi di armi? O quella costituita da un uomo a bordo di una moto? In che modo può mettere a repentaglio la vita di un singolo israeliano che vive oltre il confine?
A forza di dover faticosamente ribadire la necessità di cui sopra, a forza di riaffermare che al 7 ottobre, in ottica israeliana, si sarebbe dovuto rispondere con le forze speciali, e non con bombardamenti aerei nel mucchio (funzionali a quella pulizia etnica che oggi vediamo compiuta), a forza di supplicare che i civili vengano risparmiati, ci siamo placidamente adagiati sull’idea comoda ed accessoria per cui, se i civili vanno lasciati in pace, i combattenti, anzi i terroristi, vanno presi di mira senza pietà, in ogni situazione.
Anche facendo il tiro al bersaglio con gli aerei e i droni su individui solitari – privi o provvisti della “tessera” di appartenenza, dato che come spiegato tante volte quest’ultima può designare un concetto o una nozione dai confini labili – che guidano una moto in aperta campagna. Tuttavia questo non è un videogioco, i combattenti non sono mostri verdi a tre teste ma sono persone che vivono all’interno delle loro comunità.
Non tanto noi, che ormai siamo irrecuperabili ed anestetizzati, ma appunto i membri di quella comunità, cosa penseranno? Cosa pensano quando vedono sta roba, quando vedono la distopia prendere una forma precisa, quando ne riconoscono chiaramente il Padre indiscusso?
Cosa pensano di un Esercito che in Libano via terra ha potuto fare un quinto dei km che aveva fatto durante l’invasione del 2006, nonostante una pervasiva copertura aerea, di un esercito che dopo due anni passati a spianare Gaza con l’aviazione ancora vede miliziani attaccare i propri carri armati (900 morti secondo le idf, che potrebbero essere sensibilmente di più), e che si affida appunto unicamente al tiro al piccione con gli F-35 e i droni, al bombardamento aereo non più di rampe o depositi ma di singole persone, di singoli politici, di singoli professori universitari considerati vicini o funzionali alla causa, di singoli miliziani che dormono o che guidano una moto, di singoli brigadieri o generali in Iran, di singoli affiliati a vario titolo, dopo aver fatto inghiottire al mondo una operazione terroristica come quella dei cerca-persone, salutata dai più come un esempio di sofisticazione e intelligenza?
No, perché io glielo chiedo ogni mese, l’ho fatto decine di volte in questi due anni, spesso il loro parere non è interessato a nessuno, nemmeno ai giornali. Il punto non è però la mia amarezza ma sinceramente, e ripeto sinceramente, l’idea che Israele e quindi anche noi, ahimè, diamo al mondo, l’idea che abbiamo anche di come si possa e debba fare la guerra, e che a sua volta non può che fermentare in risposte delle lotte armate (ed anche azioni terroristiche) sempre più feroci, intransigenti, o magari se vogliamo anche sconsiderate, per tutti.
L’idea, anzi, che sia in “pace” che in “guerra” si possa fare qualunque cosa. Qualunque. E non mi serve parlare degli stupri da parte dei soldati israeliani (e fra soldati israeliani) sui prigionieri o sui detenuti.
Non voglio neanche star qui a ricordarvi come si costruisce un mito, come si innalza un martire al cielo per i decenni a venire, come si impalca la narrazione di Davide contro Golia, come in alcuni luoghi taluni si convincono di combattere effettivamente (e col rinforzo motivazionale della religione o dell’appartenenza settaria, often) il MALE, come altri giungono alla conclusione di dover educare i propri discendenti a perpetuare questa battaglia con un mostro vigliacco, privo di scrupoli e regole, come si celebrano in eterno leader uccisi o paesi attaccati a tradimento, durante delle negoziazioni, o come si gettano i semi di un nuovo o di nuovi capitoli di militanza oltranzista.
Il punto qui è molto più semplice: agli occhi di milioni di persone stiamo diventando dei mostri, qui si, come nei videogames. Non usiamo le tecnologie e le innovazioni in campo militare per condurre operazioni più sofisticate e chirurgiche, per minimizzare i morti non necessari, per neutralizzare minacce reali: usiamo, usano queste tecnologie per costruire una distopia vera e propria, un mondo in cui non ti uccido praticamente MAI sul campo di battaglia ma dal cielo, con l’IA, mentre sei bagno, mentre dormi, mentre sei al mercato con tua figlia, purché tu abbia la targhetta di “terrorista”, di affiliato a qualunque titolo, anche soltanto politico, che poi è il titolo che serve eventualmente a negoziare (parlo soprattutto della leadership politica di Hamas ma in parte anche ai famigliari dei parlamentari di Hezbollah).
In una situazione in cui i civili muoiono ad un ritmo impressionante da ormai due anni, sembra esserci ogni volta come collettivo e interiore sospiro di sollievo, quando si leggono notizie come “ucciso in un raid un miliziano (?) sulla sua moto nei dintorni di Bint jbeil”, oppure “ucciso il generale iraniano nella sua casa al terzo piano”, o “uccisi due uomini a bordo della loro auto a Nabatieh”, “ucciso il comandante X mentre era in una riunione”, e via discorrendo. Siamo sicuri sia una cosa salutare e sostenibile? Siamo sicuri che le persone vicine, a partire dai parenti, a questo individuo, non maturino ancor più facilmente la certezza che le armi e il tentativo di somministrare insicurezza ad Israele siano davvero l’unica via percorribile?
La motivazione di tutto questo è che Israele è riuscita in un duplice intento: il primo è quello di aver trasformato ogni singolo individuo affiliato o vicino come una urgente minaccia esistenziale; il secondo è quello – lo si è visto dalle incredibili spiegazioni israeliane sugli omicidi di centinaia giornalisti a Gaza, dipinti come “membri di Hamas”, quindi come dei combattenti in quel contesto, quando nel migliore dei casi erano dei gazawi che OVVIAMENTE hanno dei rapporti o conoscenze nei principali gruppi armati gazawi, ma che al massimo sono armati di telecamere e non costituiscono una minaccia per nessun essere vivente – di trasformare molto pericolosamente in “membri di” tutti coloro che hanno anche solo a parole espresso vicinanza o sostegno a questi gruppi, o che hanno lavorato in enti e istituzioni civili legate a questi gruppi.
Vi ricordate (non ve lo ricordate, e vi capisco) con quanta nonchalance e furtività è passata di qui la notizia del bombardamento del Qard Al Hassan, di quello che è in sostanza un ente di microcredito e prestiti basati sulle regole della finanza islamica, legata ad Hezbollah, oppure quella del bombardamento di un “deposito di contanti”?
Anche qui, siamo sicuri sia rassicurante per il futuro? Parlo del vostro, di futuro. Siamo sicuri che ciò non abbia l’effetto di aprire ulteriormente le gabbie (magari anche nel fronte opposto), e abituarci all’idea che se hai un braccialetto di Hamas, oppure se realizzi dei video per Hamas o chi per loro, se sei del sud del Libano e agiti delle bandiere gialle, tu possa legittimamente essere polverizzato da missili da una tonnellata?
Che cosa intendiamo lasciare ai posteri, e soprattutto cosa intendiamo comunicare alla maggioranza demografica del mondo, qui sul piano della condotta bellica, oltre che sul piano giuridico, umanitario, etico e politico?
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