Avevamo una pessima opinione del giornalismo italiano. Ora trovano conferma i peggiori sospetti.
Potere al Popolo ha incontrato Mélenchon a Parigi, si trovano d’accordo su quasi tutto e progettano una rappresentanza politica transnazionale euromediterranea per dire addio all’Unione Europea dei trattati neoliberisti? Non è una notizia, soprattutto per la Rai, che mette nel cassetto il servizio realizzato da Iman Sabbah, entrata insieme alla nostra delegazione all’Assemblee Nationale.
E dire che France Insoumise ha preso il 19,6% alle presidenziali dello scorso anno, sfiorando la possibilità di andare al ballottaggio col pupazzo delle banche, Macron (24%). Non è insomma un “partitino di sinistra”, ma probabilmente il maggior “pericolo” per l’asse franco-tedesco, visto che il suo programma prevede la ricontrattazione integrale di quasi tutti i trattati europei (Plan A) oppure la rottura unilaterale da parte della Francia e degli altri paesi che vorranno seguirne l’esempio (Plan B). Un tema che è al centro del dibattito elettorale, che torna come un incubo per tutti i candidati, soprattutto per quelli che provano a svicolare rifugiandosi in formule fumose.
Niente. Se a parlare è l’unica formazione che sul serio persegue un rovesciamento completo delle politiche neoliberiste imposte dalla Troika, e che trova perciò fiducia e credibilità in pezzi importanti della politica europea, l’ordine che arriva dall’alto, in ogni redazione, è: “silenziare”.
Nonostante la campagna elettorale sia entrata nel vivo; nonostante i media siano ora tenuti per legge a rispettare la par condicio – sia nello spazio notizia che nelle dichiarazioni delle liste in corsa – sembra sia scattato un ordine di censura nei confronti di una sola lista: Potere al Popolo, appunto.
Giornali e televisioni preferiscono dare spazio ai picchiatori di Casapound. Vien da pensare che i media siano così condiscendenti verso i mazzieri fascisti perché molto vicini ai capiclan che li prendono a capocciate in faccia...
La Rai ha raggiunto forse l’apice, in questo singolare sport, ma le altre testate non è che si comportino diversamente. Qualche eccezione c’è (La7 sembra svolgere almeno un minimo di “servizio pubblico”, al posto di chi dovrebbe farlo istituzionalmente), ma anche in questo caso lo spazio concesso è sproporzionatamente piccolo rispetto a tutti gli altri.
La rassegna stampa di ieri era semplicemente agghiacciante. Il giorno prima erano state depositate le firme per presentare le liste. Potere al Popolo!, tra quelle costrette a farlo, è stata l’unica a superare l’ostacolo in tutte le circoscrizioni elettorali del paese, raccogliendo oltre il doppio della cifra obbligatoria (25.000) e smontando i banchetti ben prima dell’ultimo giorno (il rosatellum prescrive di presentare tra 375 e 500 firme per ogni “collegio plurinominale”; quelle in più non vengono neanche accettate...).
Come ampiamente previsto, le grandi testate (Repubblica, Stampa, Corriere della Sera, ecc) hanno seguito la regola del silenzio. Ma anche quelle locali o minori si sono dimostrate della stessa pasta. Il Gazzettino veneto ha nominato controvoglia la nostra lista, inserendola tra “i piccoli”, riuscendo nel miracolo di dare molto spazio ad una lista veneta che aveva addirittura rinunciato a presentarsi!
Il Secolo XIX di Genova ci menziona solo perché è un intervistato di peso – Carlo Freccero – a farlo. Il Giornale si fa scappare il nome, ma solo per parlare delle liste di Rizzo e Ferrando, che non sono riuscite a coprire tutto il paese e dunque si presentano in alcune regioni solo per poter dire di averlo fatto. Stessa soluzione nell’edizione nazionale del fogliaccio romano Il Messaggero, che trova spazio addirittura per mettere le foto di tutti tranne che... Ma questa testata (che tentazione, il gioco di parole...) riesce a fare ancor peggio nell’inserto locale, dove presenta tutti ma proprio tutti i candidati nei vari collegi della Capitale – persino i fedeli di quell’Adinolfi noto soprattutto per esondare dalle inquadrature – ma cancella sistematicamente la presenza della sola Potere al Popolo.
Il Mattino di Napoli se la cava riportando, tra le tante cose, la dichiarazione di benevola attenzione da parte del sindaco, Luigi De Magistris.
Bene. Una simile omogeneità di comportamento tra “capocciate” teoricamente concorrenti in edicola non può essere un caso. Nella prima fase, quando dovevamo scegliere i candidati per poter poi raccogliere le firme, si poteva anche pensare che la “disattenzione” dei giornali fosse dovuta alla scarsa considerazione per i “cento simboli” – spesso inattendibili – che vengono depositati ogni volta. Ma ora la lista c’è. E’ sulle schede che si vanno stampando per la mattina delle elezioni. E’ un fatto, non un tentativo.
Avevamo una pessima opinione del giornalismo italiano. Ora ci confermate i peggiori sospetti. Sappiamo benissimo come funziona il lavoro in redazione e abbiamo visto molte volte, specie nelle manifestazioni di piazza, i cronisti avvicinarsi, fare domande, registrare. E poi nulla.
Sappiamo che sono i direttori e i capiredattori, in primo luogo, a “fare il giornale”. Sono loro a selezionare definitivamente cosa va e cosa nascondere.
Sappiamo che questo personale è stato scelto da “editori impuri”, gente che ha bisogno di un manganello mediatico per facilitare il proprio business che si svolge altrove.
Ma ogni limite ha la sua pazienza, diceva Totò. E quel limite, oltre cui il servilismo diventa osceno, l’avete superato da un pezzo. Fate bene a temere che questa lista riesca a canalizzare seriamente il malcontento popolare verso “la kasta”. Specie ora che i “grillini” vengono ricondotto all’ovile dal manchurian candidate Di Maio. Ma non capite neppure le cose più elementari.
Il nostro successo non lo misureremo con i vostri criteri e le vostre “soglie di sbarramento”. E’ un processo che si è messo in moto per organizzare la resistenza di un blocco sociale popolare che è l’assoluta maggioranza di questo paese. E’ un soggetto che non guarda alle elezioni come l’alfa e l’omega di ogni ambizione politica. E’ un soggetto che guarda al dopo e al di là dei ristretti confini – mentali e fisici – che siete abituati a rispettare obbedendo.
Siamo nelle strade con la nostra gente, saremo il vostro peggiore incubo.
Fonte
31/01/2018
L’Italia manda i soldati in Niger. Ma il Niger non è d’accordo
Il governo del Niger ha fatto sapere di non essere stato informato ufficialmente dall’Italia riguardo la prossima missione militare nel paese africano. Il governo nigerino avrebbe appreso la notizia del dispiegamento del contingente italiano da un lancio dell’agenzia di stampa Afp.
Secondo quanto riferisce l’emittente Radio France Internationale, che cita le dichiarazioni di diverse fonti anonime interne al governo di Niamey, le autorità del paese africano hanno già informato il governo italiano di non essere d’accordo con tale missione. “Non siamo stati consultati né informati”, ha detto una fonte del governo nigerino a Radio France Internationale, “siamo rimasti sorpresi”. “Abbiamo detto agli italiani attraverso il nostro ministro degli esteri che non siamo d’accordo”, ha aggiunto un’altra fonte dell’amministrazione di Niamey.
Angelino Alfano, il ministro degli Esteri italiano, ha visitato il Niger dal 3 al 5 gennaio di quest’anno, incontrando il suo omologo nigerino, Ibrahim Yacouba, e il presidente del paese, Mahamadou Issoufou, in occasione dell’inaugurazione della prima ambasciata d’Italia nel paese africano.
Secondo il governo italiano, l’invio di soldati in Niger serve a “rafforzare le misure di sicurezza sul territorio, i confini del paese africano e a sostenere le forze di polizia locale”. E’ possibile che Alfano non si sia fatto capire dalle autorità del Niger, ma è anche possibile che l’Italia abbia pensato di poter saltare qualche passaggio obbligato nella catena di comando nella regione centro-africana, tradotto in soldoni: prendere ordini dalla Francia, “l’azionista di maggioranza” in quel teatro di crisi.
Fonte
Secondo quanto riferisce l’emittente Radio France Internationale, che cita le dichiarazioni di diverse fonti anonime interne al governo di Niamey, le autorità del paese africano hanno già informato il governo italiano di non essere d’accordo con tale missione. “Non siamo stati consultati né informati”, ha detto una fonte del governo nigerino a Radio France Internationale, “siamo rimasti sorpresi”. “Abbiamo detto agli italiani attraverso il nostro ministro degli esteri che non siamo d’accordo”, ha aggiunto un’altra fonte dell’amministrazione di Niamey.
Angelino Alfano, il ministro degli Esteri italiano, ha visitato il Niger dal 3 al 5 gennaio di quest’anno, incontrando il suo omologo nigerino, Ibrahim Yacouba, e il presidente del paese, Mahamadou Issoufou, in occasione dell’inaugurazione della prima ambasciata d’Italia nel paese africano.
Secondo il governo italiano, l’invio di soldati in Niger serve a “rafforzare le misure di sicurezza sul territorio, i confini del paese africano e a sostenere le forze di polizia locale”. E’ possibile che Alfano non si sia fatto capire dalle autorità del Niger, ma è anche possibile che l’Italia abbia pensato di poter saltare qualche passaggio obbligato nella catena di comando nella regione centro-africana, tradotto in soldoni: prendere ordini dalla Francia, “l’azionista di maggioranza” in quel teatro di crisi.
Fonte
Fasti e nefasti. Ovvero il giornalismo questurino e la verità negata
«Quando lessi Compagna Luna collaboravo, da circa tre anni, con Il Diario della settimana, diretto da un (ex) compagno
di Lotta Continua, Enrico Deaglio. Gli portai l’intervista a Milano.
“Barbara Balzerani?”. Non la lesse neppure. I fogli volteggiarono un
attimo calando nel cestino. Smisi quella collaborazione. Intanto,
Antonio Tabucchi aveva scritto, e ovviamente pubblicato sul Corriere della Sera
con grande rilievo, un articolo indignato. Il nodo teorico, diciamo
così, era quello della non legittimazione letteraria di chi era stato,
in un modo o nell’altro, protagonista dei cosiddetti anni di piombo. Intellettuali
e scrittori costituivano (costituiscono ancora?) il tribunale
supplementare che aggiunge le sue sentenze (corporative?) a quelle dei
magistrati».
Con queste parole, dense di amarezza e di disillusione, la giornalista e scrittrice Adele Cambria, ci introduce, sin dalla prefazione – intitolata Il giardino degli oleandri – alla lettura di Cronaca di un’attesa, il quarto libro (ma io preferisco definirli viaggi letterario-r/esistenziali al termine della notte) di Barbara Balzerani. Compagna, guerrigliera, ex membro della direzione strategica delle Brigate Rosse, componente del commando che portò a termine il rapimento e l’uccisione del Presidente della Dc, Aldo Moro, e ora scrittrice di struggente e potente asciuttezza, di lavica emotività e dallo stile sincopato, quasi jazzistico.
Troppo,
evidentemente. Troppo, soprattutto per una donna comunista. Una donna
comunista, che si è sempre dichiarata indipendente e libera, anche dai
vincoli della stessa ortodossia ideologica o dalle logiche
compatibiliste e stataliste dettate dal Partito Comunista: capziosamente
imposta e strategicamente incarnata, la prima, dallo “stalinismo” de facto (e senza scopo) vigente nel Pci togliattiano, autonominatosi rappresentante unico della classe operaia; interpretate, le seconde, dal compromissorio corso berlingueriano.
Vincoli e logiche contro cui le stesse Br, e altre frange della lotta armata comunista, si sollevarono, negli anni ’70/’80,
senza alcun timore reverenziale per quei padri ingombranti e dispotici
al punto di non riconoscerli come figli. Una donna comunista che, per
quella Libertà, per quell’Indipendenza, e per l’uguaglianza sociale che
ne dovrebbe costituire il logico presupposto, ha anche preteso di
imbracciare le armi. Una donna comunista, libera e indipendente, che non
ha mai voluto svendere, con un pentimento di comodo, all’indulgenza di quello Stato contro cui aveva combattuto, la sua dignità e la sua Storia.
Dunque troppo. E troppo, in particolar modo, per una società come quella italiana,
reazionaria, sciovinista, ancestralmente patriarcale e maschilista –
tara culturale, quasi antropologica, quest’ultima, da cui non sono
esenti, spesso, anche i compagni più avveduti – la cui cosiddetta Intellighenzia è stata sovente, e a maggior ragione oggi, riflesso fedele della doppia morale che l’attraversa: statale e vaticana.
Troppo, diciamo la verità, per una brigatista che, una volta scontata la pena, non si è
rassegnata al silenzio. Quel silenzio che le sarebbe stato consentito
rompere, forse, solo per implorare il perdono di coloro che, al riparo
dello stato “democratico”, furono due volte carnefici.
La
prima, con le stragi: da quelle di operai e braccianti dei secondi anni
’50, su cui la celere sparava durante le manifestazioni, a quelle più
organizzate, che insanguinarono, con apposte in calce le firme congiunte
dello Stato, del neofascismo e della mafia, il paese, sul finire degli
anni ’60 fino alla seconda metà degli anni ’80; stragi che impressero la
definitiva accelerazione, nel movimento rivoluzionario, alla scelta
della lotta armata.
La seconda, attraverso l’adozione incostituzionale delle leggi speciali, l’instaurazione del carcere duro (art 90 e, successivamente, 41bis) e la pratica della tortura, mai riconosciuta.
Non
si può spiegare altrimenti, se non attraverso queste categorie
pre-concettuali, il loro uso strumentalmente politico e storiografico,
ed il moralismo giustizialista che trasuda dalla società italiana e
dalla cultura che la permea, in questo difficilissimo passaggio epocale,
l’odiosa ridda di polemiche, scatenatasi sui social e alimentata dalla
stampa di regime, intorno ad un banalissimo post, apparso su Facebook e
pubblicato, alcuni giorni fa, dalla stessa Balzerani: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?».
Così
scriveva, sulla sua bacheca. Un post tra l’ironico, il rassegnato e, a
volerlo interpretare con intelligenza e obiettività – scevre da malafede
ma non disgiunte da un briciolo di profondità – anche con un malcelato
accento di lacerazione personale. I
“fasti del quarantennale” fanno chiaramente riferimento a quella sicura
liturgia celebrativo/commemorativa che, in occasione dei quarant’anni
trascorsi dal sequestro Moro (il 16 Marzo 1978 avveniva il rapimento, il
9 Maggio dello stesso anno veniva eseguita la sentenza di morte emessa
dalle Br) il circense clero mediatico del Belpaese non mancherà di
officiare.
Non
alludono certo a cinici ed ebbri rituali dionisiaci. Nessuna voglia,
insomma, da parte della signora Balzerani, di ballare sul cadavere
dell'onorevole Aldo Moro. Nessuna provocazione malevola. Nessun insulto
alla memoria. Nessuna voglia di festeggiare all’estero –
sull’interpretazione semantica della parola fasti mi soffermerò poi –
com’è stato detto. Soltanto il legittimo desiderio di sottrarsi ad un
ricordo che riapre ferite intime: umane e politiche.
Perché, a differenza dello stragismo e del cosiddetto
“spontaneismo armato neofascista”, chi prese il fucile in quegli anni
per l’ideale comunista non tolse la vita a cuor leggero, con
superficiale disprezzo della stessa.
Ed
è per questo che la sconfitta che ne seguì, brucia ancor di più: nella
testa affollata di ricordi, sul cuore stanco per le emozioni, nelle mani
che afferrarono, per un attimo, la Storia, rimanendone vuote ed in
catene.
Dunque,
dicevamo, per tornare al fatto, soltanto il legittimo desiderio –
espresso con una normalissima frase su Facebook, da parte della libera
cittadina Balzerani, di una donna che fu protagonista di eventi tanto
drammatici da segnare, nel profondo, la vita della nostra Repubblica –
di sottrarsi a quella che, considerando i prodromi, si preannuncia come una
vera e propria “messa cantata”. Una messa celebrata dai Santi
Inquisitori della religiosa Ragion di Stato e dai loro scriba, sul
cadavere di Aldo Moro – la cui riprovazione morale, ricordiamolo, cadde
come una scomunica eterna, sui suoi stessi sodali democristiani e su
tutto il fronte della fermezza, PCI incluso – e a imperitura condanna
degli eretici rossi, che, come Giordano Bruno, si vorrebbe bruciassero
sul rogo.
Una “messa cantata”, infine – ci si può scommettere sin d‘ora
– con annessa dietrologia storiografica e infarcita di culto
misteriosofico, che andrà ulteriormente ad insabbiare, occultare,
stravolgere e falsificare quella Verità che già inutili commissioni
d’inchiesta, pubblicistica di quart’ordine, saggistica cospirazionista e
giornalismo sensazionalistico non hanno voluto accertare.
Una semplice, troppo semplice verità: dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse!
Una verità che fa paura, meglio terrore, a chi detiene il Potere e lo
gestisce tramite il controllo sociale e la repressione del dissenso, in
ogni sua forma. Perché quella verità potrebbe ingenerare una riflessione
politica alternativa, direi quasi distonica rispetto alla narrazione
proposta dalle istituzioni e da tutti i suoi gangli, e che vorrebbe le
Br al servizio di interessi internazionali e interni – la ridicola
teoria del “doppio Stato” – il cui scopo sarebbe stato quello di destabilizzare la democrazia italiana, per consentire una deriva autoritaria.
Una
narrazione che, per ironia della sorte, facendo convergere le rette
parallele, tornava utile tanto alla Dc quanto al Pci, ieri. Oggi ai loro
eredi. Convergenza di rette che trova il suo astratto punto d’incontro
nell’ossessione della governamentalità liberale, cui si era convertito
anche il Partito Comunista, e sul cui altare venne cinicamente immolato
Aldo Moro. Un sacrificio utilissimo allo Stato liberale e al potere
finanziario suo mandante, proprio per non consentire quella riflessione alternativa al pensiero capitalista e mercatista dominante, alla
rassegnazione imposta dalle élite e oramai ritenuta ineluttabile. La
Rivoluzione è possibile!
Una
verità distorta e seppellita, si diceva, quindi, a scopi ben precisi.
Come distorta e seppellita risulta, inevitabilmente, la Storia, in
questo delirante coacervo di menzogne, al quale hanno contribuito, nel
tempo, anche le dichiarazioni mendaci dei collaboratori di giustizia.
Pentitismi infami e dissociazioni collaborative ad un tanto al chilo, barattati con sconti di pena e decenni di galera in meno, al supermercato della dignità in saldo.
Eppure,
non mancano gli storici e i giornalisti di valore che, mossi dal
semplice rispetto per la verità storica, hanno, in più occasioni,
demolito l’impalcatura di falsità messa su da magistrati, politici,
opinionion leader, editorialisti e pentiti. Parliamo di studiosi e
giornalisti come Marco Clementi,
Vladimiro Satta, Elisa Santalena, Gianremo Armeni, Nicola Lofoco,
Giovanni Bianconi, Sergio Zavoli, che però, evidentemente, non meritano credito, malgrado la loro attestata serietà. Non fanno vendere. Anzi, risultano quasi “pericolosi”.
A questa baraonda – meschina e un po’ ridicola – chiedeva di sottrarsi Barbara Balzerani. Soprattutto, forse, alla damnatio memoriae inflitta
dai vincitori a lei e ai suoi ex compagni. Invece, l’Agorà virtuale dei
nostri giorni, quel non-luogo imprecisato come l’inconscio freudiano,
dove il linguaggio sembra fagocitare sé stesso in un annientamento
semantico della logica del senso, e a cui tutti cediamo, spesso
ingenuamente, ha prodotto il suo mostro, il suo fantasma.
In
parole povere, quel post ironico, sincero e fin troppo spontaneo si è
trasformato nella “voglia di festeggiare” l’omicidio del Presidente Dc,
quarant’anni fa. Una malafede interpretativa che ha portato alcuni
quotidiani accreditati del nostro pur misero panorama informativo, come Corriere della Sera e Tempo, nonché agenzie di stampa, il sito gossipparo Dagospia e finanche il Tg1,
a costruire, a partire da quel post, articoli gonfi di odio e
volutamente falsi, col meschino obiettivo di fare, dell’ex brigatista,
addirittura l’incarnazione del Male.
Uno sciacallaggio giornalistico, a cui si sono aggiunti gli immancabili insulti da parte dei social haters, sempre
pronti a distribuire ingiurie, improperi e rancore a mani basse e a
prescindere dalle ragioni di una controparte, spesso ignara di quanto le
venga scagliato contro, da bacheche che non sono la sua.
È quanto è capitato, ad esempio, sotto i profili dell’on. Gero Grassi – ineffabile componente dell‘ultima Commissione Moro e manipolatore doc – e di Giovanni Ricci (figlio di Domenico, il carabiniere che conduceva la 130 sulla quale viaggiava Aldo Moro, ucciso anch’egli la mattina del 16 marzo 1978).
E non mancano nemmeno le francamente ignobili dichiarazioni di pentiti e
dissociati come Adriana Faranda o Raimondo Etro. Quest’ultimo, oramai
preda di una sorta di mistico furore da Penitenziagite (fate penitenza), in una mail farneticante inviata
al summenzionato Grassi e prontamente rilanciata dai media, non solo
definisce le Brigate Rosse emissari delle forze oscure ma, in
conclusione, saluta la Balzerani dandole appuntamento all’inferno. Si
commenta da solo.
In
quanto giornalista, però, la mia esecrazione deontologica la rivolgo a
quei colleghi, quotidiani e organi di stampa che pur di ottenere
visibilità, di vendere qualche copia e irregimentarsi nel solco
tracciato dal pensiero dominante, invece di fare informazione vanno a
sbirciare, ad ascoltare a rovistare, per amor di “democrazia”, è ovvio,
nella Vita degli altri. Alla faccia della Stasi, dell’ex Ddr e del
“totalitarismo comunista”!
Appare dunque evidente, credo, a questo punto, il motivo per cui ho
deciso di cominciare quest’articolo con le parole di Adele Cambria,
citate all’inizio. Sconfortato e soffocato nella risacca nauseabonda di
quel “dabbenismo” che affligge ormai da tempo immemore i media italici e
gli intellettuali che ne determinano forme, linguaggi e sorti. Quegli
intellettuali, come scrive la Cambria, «che costituiscono (ancora? Certo, ancora, ndr) il tribunale supplementare che aggiunge le sue sentenze (corporative? Certo, corporative, ndr) a quelle dei magistrati».
Abbiamo a che fare con un giornalismo da copia-e-incolla,
da commissariato di paese, spionistico, familistico, pervaso da uno
spirito di corpo quasi settario, grondante moralismo ai limiti del
pretesco ma, allo stesso tempo, viscido e violento nella sua tracotanza
amorale e giudicante, extra e supra legem. E, cosa ancor più grave,
succube – come altrove – del Potere e del Denaro.
Perché
quelle parole di Adele Cambria ci parlano proprio di un giornalismo di
tal fatta, ormai preda esanime tra le fauci di un Mercato che punta al
sensazionalismo e alla spettacolarizzazione
della notizia, divenuta oggetto entropico, svuotato della sua stessa
essenza informativa e del suo statuto di oggettività per diventare
materia malleabile e suscettibile delle più fantasiose o sinistre
distorsioni ermeneutiche: a soli fini utilitaristici – di vendita e dunque di
profitto – sul piano economico; a scopi auto referenziali sul piano più
sottile della visibilità e del compiacimento personale
dell’articolista.
D’altronde, siamo nell’epoca della dittatura del like
ed anche il giornalismo soggiace volentieri a questa sorta di dogma,
ascrivibile ad un orgiastico feticismo collettivo. Ne consegue,
comprensibilmente, che verità, veridicità, autenticità sono divenute chimere relegate tra le siderali nebulose del relativismo, soprattutto
etico. Siamo ben al di là delle teorie della comunicazione elaborate
dalla Scuola di Palo Alto e del secondo enunciato, da essa postulato,
secondo cui ogni comunicazione implica una metacomunicazione: nel caso
di specie, Balzerani/Brigate Rosse/Stato. Ben al di là dell’affermazione
di Paul Watzlawick – filosoficamente condivisibile, ma altrettanto
filosoficamente opinabile nella sua clausura assiomatica – secondo il
quale «La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la
più pericolosa di tutte le illusioni».
La
pesante coltre del postmodernismo, sotto cui il dato di realtà e la
ricerca della verità si piegano a qualunque esigenza di scopo, ricopre
per intero ogni comparto, ogni cellula della comunicazione e
dell’espessione umana, ammorbandone il libero respiro. E questo, ancor
più nella provinciale dimensione italiana, dove la logica della
chiacchiera e della bega impera, a discapito della deontologia, della
verità e, come detto, finanche della Storia. Senza un simile uso
disinvolto dell’interpretazione,
senza l’approssimazione etica, cui vanno ad aggiungersi una profonda
ignoranza, una disonestà intellettuale e un volgare bisogno di
spettacolarità e profitto, sarebbe impossibile spiegare la cagnara
creata, ad arte, intorno alla Balzerani e alle Br a partire da un banale post, in cui compare il termine fasti.
Ed
eccoci giunti al valore semantico di questo vocabolo. Qui la malafede
raggiunge l’apice. Perché, come si faccia a considerare fasti come il
plurale di fasto, onestamente me lo sto ancora chiedendo, a più di una
settimana di distanza. Sarebbe bastato, a chiunque, consultare un
vocabolario. Oppure, trattandosi di intellettuali, il cui compito
sarebbe quello di indirizzare il pensiero dei cives nella polis, non ritengo troppo il chiedere se abbiano mai letto i Fasti del
latino Ovidio. Ivi, i libri composti dal poeta, riguardano i primi sei
mesi dell’anno ed elencano i vari giorni del nuovo calendario giuliano,
con le loro feste religiose e le varie ricorrenze, spiegandone le
origini, l’etimologia, gli usi e i riti corrispondenti. Semplice,
quindi, comprendere, attraverso questa lettura, che la Balzerani facesse
riferimento a quei mesi e a quei giorni del 2018, durante i quali le
autorità italiane ed i loro sacerdoti della stampa, celebreranno, come
detto, il quarantennale del Caso Moro.
Appunto, i Fasti.
Non certo ad una fastosa festa macabra. E, d’altronde sarebbe
sufficiente dare una letta ai libri della scrittrice – ad esempio Perché io, perché non tu –
per capire con quale intimo dolore ed imbarazzo umano abbia affrontato
il confronto, imposto, ad assurdo risarcimento per l’irreparabile, dallo
Stato, con i familiari di qualche vittima: «Vigliacca
intromissione nei territori dell’altrui intimità. Per dire cosa? Per
riparare quale irreparabile? Ma no è forse il silenzio l’unica vera
forma di rispetto e non è fondato sulla reciprocità e riservatezza
l’incontro?». Parole che non possono certo dar luogo ad equivoci.
Ma
la cattiva coscienza, la disonestà, l’ignoranza, la stupidità e la loro
figlia legittima, la perfidia, sembrano essere diventati il
denominatore comune di questo mondo dominato da vittimismo e ferocia, in
egual misura. Quella stessa ferocia vittimistica e accusatoria che si
può leggere nelle parole di Etro. Al quale, per concludere, vogliamo
rivolgere un ultimo pensiero. Non c’è inferno peggiore del rinnegare la
propria Storia!
Egitto - Verso un voto farsa, le opposizioni boicottano
Alla fine tra due mesi, alle elezioni presidenziali, l’ex generale
Al-Sisi correrà praticamente da solo. Di sfidante, in extremis, se n’è
presentato uno solo ed è un suo sostenitore. La candidatura
ufficiale è stata presentata lunedì, ultimo giorno utile per la
registrazione, a sette minuti dalla chiusura delle liste di fronte alla
National Commission Authority e con l’appoggio di 27 parlamentari
(per legge ne servono almeno 20, oltre a 25mila firme di cittadini da
almeno 15 governatorati diversi; Al-Sisi ha ricevuto 510 firme di
deputati su 596).
A correre contro Al-Sisi sarà Moussa Mustafa Moussa, leader del piccolo partito liberale Al-Ghad. Una figura poco conosciuta che nel 2014 fu protagonista della campagna elettorale dell’attuale presidente e che, riportano i siti egiziani, ha come foto profilo su Facebook l’immagine di al-Sisi con la scritta “Ti sosteniamo come presidente”. Un parlamentare, sentito dall’agenzia indipendente Mada Masr, ha chiaramente spiegato che l’obiettivo era evitare che le elezioni si trasformassero in un referendum che “avrebbe danneggiato l’immagine dell’Egitto all’estero”.
Una farsa, per le opposizioni. Che chiamano già al boicottaggio del voto presidenziale del 26-28 marzo prossimo: ieri in una conferenza stampa il Movimento Civile Democratico, federazione di sette partiti di opposizione nata lo scorso dicembre, ha invitato gli egiziani a non presentarsi alle urne. L’incontro, svolto nella sede del partito Karama a Dokki, quartiere del Cairo, ha visto la partecipazione dei partiti Social-Democratico, Karama e Dustour: “Questo non è solo un processo elettorale senza garanzie – ha detto Yehia Hussein, portavoce del Movimento – Si è trasformato nella totale deprivazione del diritto del popolo egiziano a scegliere un presidente, una scena assurda a cui rifiutiamo di prendere parte. Chiediamo a tutti gli egiziani di unirsi a noi”.
All’incontro non era presente Khaled Ali, avvocato e rappresentante della sinistra, che ha tentato di candidarsi nelle settimane passate senza riuscirci, a causa del silenzio della stampa sul suo programma – un destino condiviso con un altro candidato, Mohammed Anwar Sadat – e della difficoltà a raccogliere le 20 firme di deputati necessarie alla regitrazione. Ali, rappresentante del partito Pane e Libertà, non ha partecipato in polemica per l’assenza di altre importanti fazioni di opposizione, tra cui i Socialisti Rivoluzionari e il Movimento 6 aprile, non invitati perché non sono membri del Movimento.
Il giorno prima, lunedì, un nutrito gruppo di personalità politiche e pubbliche aveva firmato un comunicato nel quale chiedono la fine del processo elettorale e lo smantellamento della National Elections Authority. Tra i 48 firmatari – il cui appello può essere firmato a questo link – ci sono il presidente di Dustour, Hala Shukrallah, l’ex ministro degli Esteri Maasoum Marzouq, lo scrittore Alaa al-Aswani, il cofondatore del Movimento 6 aprile Ahmed Maher e il giornalista Gamila Ismail, oltre al “tentato” candidato Sadat e ai vice presidenti della campagna elettorale di un altro quasi-candidato, il generale Sami Anan, arrestato poche ore prima della deadline per la registrazione.
Intanto ieri, in un’intervista con il quotidiano statale Al-Akhbar, il vice ministro degli Esteri per gli affari africani, Hamdi Sanad Loza, ha fatto sapere che gli egiziani residenti in cinque paesi non potranno votare dall’estero per non meglio specificate “ragioni di sicurezza”. Si tratta degli espatriati in Libia, Siria, Yemen, Somalia e Repubblican Centrafricana.
Fonte
A correre contro Al-Sisi sarà Moussa Mustafa Moussa, leader del piccolo partito liberale Al-Ghad. Una figura poco conosciuta che nel 2014 fu protagonista della campagna elettorale dell’attuale presidente e che, riportano i siti egiziani, ha come foto profilo su Facebook l’immagine di al-Sisi con la scritta “Ti sosteniamo come presidente”. Un parlamentare, sentito dall’agenzia indipendente Mada Masr, ha chiaramente spiegato che l’obiettivo era evitare che le elezioni si trasformassero in un referendum che “avrebbe danneggiato l’immagine dell’Egitto all’estero”.
Una farsa, per le opposizioni. Che chiamano già al boicottaggio del voto presidenziale del 26-28 marzo prossimo: ieri in una conferenza stampa il Movimento Civile Democratico, federazione di sette partiti di opposizione nata lo scorso dicembre, ha invitato gli egiziani a non presentarsi alle urne. L’incontro, svolto nella sede del partito Karama a Dokki, quartiere del Cairo, ha visto la partecipazione dei partiti Social-Democratico, Karama e Dustour: “Questo non è solo un processo elettorale senza garanzie – ha detto Yehia Hussein, portavoce del Movimento – Si è trasformato nella totale deprivazione del diritto del popolo egiziano a scegliere un presidente, una scena assurda a cui rifiutiamo di prendere parte. Chiediamo a tutti gli egiziani di unirsi a noi”.
All’incontro non era presente Khaled Ali, avvocato e rappresentante della sinistra, che ha tentato di candidarsi nelle settimane passate senza riuscirci, a causa del silenzio della stampa sul suo programma – un destino condiviso con un altro candidato, Mohammed Anwar Sadat – e della difficoltà a raccogliere le 20 firme di deputati necessarie alla regitrazione. Ali, rappresentante del partito Pane e Libertà, non ha partecipato in polemica per l’assenza di altre importanti fazioni di opposizione, tra cui i Socialisti Rivoluzionari e il Movimento 6 aprile, non invitati perché non sono membri del Movimento.
Il giorno prima, lunedì, un nutrito gruppo di personalità politiche e pubbliche aveva firmato un comunicato nel quale chiedono la fine del processo elettorale e lo smantellamento della National Elections Authority. Tra i 48 firmatari – il cui appello può essere firmato a questo link – ci sono il presidente di Dustour, Hala Shukrallah, l’ex ministro degli Esteri Maasoum Marzouq, lo scrittore Alaa al-Aswani, il cofondatore del Movimento 6 aprile Ahmed Maher e il giornalista Gamila Ismail, oltre al “tentato” candidato Sadat e ai vice presidenti della campagna elettorale di un altro quasi-candidato, il generale Sami Anan, arrestato poche ore prima della deadline per la registrazione.
Intanto ieri, in un’intervista con il quotidiano statale Al-Akhbar, il vice ministro degli Esteri per gli affari africani, Hamdi Sanad Loza, ha fatto sapere che gli egiziani residenti in cinque paesi non potranno votare dall’estero per non meglio specificate “ragioni di sicurezza”. Si tratta degli espatriati in Libia, Siria, Yemen, Somalia e Repubblican Centrafricana.
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Afghani: rimpatri forzati fra le bombe
Tornano. Sono costretti a tornare nel Paese da cui erano fuggiti per cercare un’esistenza futura. Sono migliaia di afghani che, come altri migranti e rifugiati, si vedono respinti dall’aria che tira in Europa, un’aria xenofoba fomentata o subìta dai tanti governi Ue. Che in troppe circostanze, e nelle più diverse latitudini, non hanno attuato un’adeguata politica dell’accoglienza e dell’inserimento delle emergenze migratorie, così da ritrovarsi decine di migliaia di vite in sospeso. E nelle condizioni più varie: dalle para-detenzioni di taluni centri di accoglienza, alla ghettizzazione e all’autoemarginazione in città e campagne di chi cerca di arrangiare un’agra realtà pur di non tornare negli inferni conosciuti. Di chi si fa fantasma sociale pur rientrando nella catena dell’uso e dello sfruttamento di mano d’opera. Un fenomeno discusso dalla gente per strada, prima che dai politici nelle sedi istituzionali e nei salotti televisivi. Discusso spesso in assenza d’informazioni, lamentando le proprie contraddizioni crescenti, col sangue agli occhi per la contrapposizione dei diritti e lo scontro razziale e razzista che ne consegue. E l’Italia non è fra le piazze peggiori, visti i muri e le minacce sollevati in questi anni dal pensiero neonazista riagitato nell’Europa della tradizione e della conservazione. Indifferenti all’orgiastica competizione dell’assassinio di civili per accaparrarsi la leadership del terrore che è in atto da due anni fra talebani e Isis del Khorasan, i governi del nostro continente aumentano i rimpatri forzati di richiedenti asilo afghani.
Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.
L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.
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Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.
L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.
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Ancora colpi bassi dei nazionalisti polacchi contro i golpisti di Kiev
Sono accomunate dalla nevrastenica avversione a tutto quanto venga da est della Vistola o del Dnepr. Per il resto, Varsavia e Kiev non fanno altro che mostrare i denti l’una contro l’altra, molto spesso a suon di sprangate (non sono mancati nemmeno i colpi di bazooka); ancora più di frequente tirando in ballo gli antecedenti storici del nazionalismo di entrambi i fronti.
Da un lato, infatti, sono risuonate anche nei giorni scorsi le grida di sgomento del nuovo premier polacco Mateusz Morawiecki, secondo cui Mosca, che si starebbe “preparando ad attaccare l’Ucraina”, costituisce oggi il principale pericolo per la Polonia e anche il gasdotto “North stream-2”, checché “ne dica la Germania, non è un progetto economico”, ma uno strumento di “attacco politico”, come sottolineato anche dal Segretario di stato USA, Rex Tillerson.
Dall’altro lato, però, l’ultimo ceffone, in ordine di tempo, appioppato da Varsavia ai vicini sudorientali è di ieri e porta la firma del direttore dell’Istituto per la memoria nazionale polacca Jaroslav Sharek. L’Istituto, sulla base di fonti tedesche, polacche, austriache e statunitensi, ha messo in rete un primo elenco di 9.686 nomi di addetti ai campi di sterminio nazisti in Polonia. Secondo Sharek, l’Istituto dispone attualmente di un elenco di oltre 25.000 nomi, da cui risulta come la maggior parte dei criminali aguzzini di quei lager fossero tedeschi, ma un’altra parte non meno rilevante fosse composta da ucraini, lettoni e lituani.
Il portale GermanDeathCamps.info prende in esame l’intero sistema di lager nazisti in territorio polacco, partendo dal più tristemente famoso, Auschwitz-Birkenau e testimonia del ruolo anche qui svolto dalla polizei ucraina e baltica.
E se lo dicono i nazionalisti dell’Istituto polacco, che, al pari dei loro colleghi ucraini, hanno fatto della “decomunistizzazione” la propria bandiera – poco dopo l’insediamento, nell’estate del 2016, Jaroslav Sharek aveva già stilato l’elenco di oltre 1.500 vie e piazze polacche che dovevano essere rinominate, insieme all’elenco dei monumenti, a ricordo dei soldati sovietici, da abbattere; aveva poi esortato alla creazione di una “nuova élite, non legata all’eredità postsovietica – ecco che vanno a farsi benedire le assicurazioni del direttore del corrispondente Istituto ucraino, Vladimir Vjatrovich, secondo cui le SS della divisione “Galizia” e le bande di OUN-UPA non avevano fatto altro che liberare l’Ucraina dai nazisti e difendere gli ebrei dagli hitleriani.
La verità è che, per la maggior parte, i nazisti lasciavano proprio ai loro Komplizen orientali il compito di spingere le vittime verso le camere a gas e incenerire i cadaveri.
A dire il vero, lo stesso Sharek, al momento della sua investitura da parte del Sejm, si era dovuto difendere dall’accusa di negare la partecipazione polacca al pogrom nazista contro gli ebrei di Jedwabne, nella regione di Belostok, allora in Bielorussia. Nonostante ciò, è stato lui che, ancora nel novembre scorso, ha dichiarato ufficialmente che Varsavia non può certo indicare a Kiev quali personaggi innalzare a propri eroi, ma nemmeno può tacere sui crimini dell’UPA contro i polacchi di Volinija e Polesia.
E’ chiaro d’altronde, aveva affermato Sharek, che Polonia e Ucraina possono essere unite dai nomi di altri “eroi”, quali Simon Petljura e Marko Bezruczko (che dal 1918 al 1944 combatté nelle file dei nazionalisti ucraini), “eroi” polacchi contro “l’invasione bolscevica” di Ucraina e Polonia. Possono identificarsi su temi quali il cosiddetto “Golodomor” in Ucraina e l’attività clandestina della chiesa cattolica, fino alle “imprese” degli attivisti anticomunisti degli anni ’70.
Tutti temi, ha detto Sharek, su cui Polonia e Ucraina possono unirsi. Ha forse dimenticato di aggiungere il comune sentimento filohitleriano che, ad esempio, il 26 gennaio del 1938, aveva portato alla stipula del patto Lipski-Neurath, secondo cui Germania e Polonia, già alleate dal 1934, si spartivano la Cecoslovacchia.
A proposito di spartizioni, si attende ora il pronunciamento di Sharek a proposito degli appetiti territoriali di Varsavia, Budapest e Bucarest su quanto resterà dell’Ucraina golpista.
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Da un lato, infatti, sono risuonate anche nei giorni scorsi le grida di sgomento del nuovo premier polacco Mateusz Morawiecki, secondo cui Mosca, che si starebbe “preparando ad attaccare l’Ucraina”, costituisce oggi il principale pericolo per la Polonia e anche il gasdotto “North stream-2”, checché “ne dica la Germania, non è un progetto economico”, ma uno strumento di “attacco politico”, come sottolineato anche dal Segretario di stato USA, Rex Tillerson.
Dall’altro lato, però, l’ultimo ceffone, in ordine di tempo, appioppato da Varsavia ai vicini sudorientali è di ieri e porta la firma del direttore dell’Istituto per la memoria nazionale polacca Jaroslav Sharek. L’Istituto, sulla base di fonti tedesche, polacche, austriache e statunitensi, ha messo in rete un primo elenco di 9.686 nomi di addetti ai campi di sterminio nazisti in Polonia. Secondo Sharek, l’Istituto dispone attualmente di un elenco di oltre 25.000 nomi, da cui risulta come la maggior parte dei criminali aguzzini di quei lager fossero tedeschi, ma un’altra parte non meno rilevante fosse composta da ucraini, lettoni e lituani.
Il portale GermanDeathCamps.info prende in esame l’intero sistema di lager nazisti in territorio polacco, partendo dal più tristemente famoso, Auschwitz-Birkenau e testimonia del ruolo anche qui svolto dalla polizei ucraina e baltica.
E se lo dicono i nazionalisti dell’Istituto polacco, che, al pari dei loro colleghi ucraini, hanno fatto della “decomunistizzazione” la propria bandiera – poco dopo l’insediamento, nell’estate del 2016, Jaroslav Sharek aveva già stilato l’elenco di oltre 1.500 vie e piazze polacche che dovevano essere rinominate, insieme all’elenco dei monumenti, a ricordo dei soldati sovietici, da abbattere; aveva poi esortato alla creazione di una “nuova élite, non legata all’eredità postsovietica – ecco che vanno a farsi benedire le assicurazioni del direttore del corrispondente Istituto ucraino, Vladimir Vjatrovich, secondo cui le SS della divisione “Galizia” e le bande di OUN-UPA non avevano fatto altro che liberare l’Ucraina dai nazisti e difendere gli ebrei dagli hitleriani.
La verità è che, per la maggior parte, i nazisti lasciavano proprio ai loro Komplizen orientali il compito di spingere le vittime verso le camere a gas e incenerire i cadaveri.
A dire il vero, lo stesso Sharek, al momento della sua investitura da parte del Sejm, si era dovuto difendere dall’accusa di negare la partecipazione polacca al pogrom nazista contro gli ebrei di Jedwabne, nella regione di Belostok, allora in Bielorussia. Nonostante ciò, è stato lui che, ancora nel novembre scorso, ha dichiarato ufficialmente che Varsavia non può certo indicare a Kiev quali personaggi innalzare a propri eroi, ma nemmeno può tacere sui crimini dell’UPA contro i polacchi di Volinija e Polesia.
E’ chiaro d’altronde, aveva affermato Sharek, che Polonia e Ucraina possono essere unite dai nomi di altri “eroi”, quali Simon Petljura e Marko Bezruczko (che dal 1918 al 1944 combatté nelle file dei nazionalisti ucraini), “eroi” polacchi contro “l’invasione bolscevica” di Ucraina e Polonia. Possono identificarsi su temi quali il cosiddetto “Golodomor” in Ucraina e l’attività clandestina della chiesa cattolica, fino alle “imprese” degli attivisti anticomunisti degli anni ’70.
Tutti temi, ha detto Sharek, su cui Polonia e Ucraina possono unirsi. Ha forse dimenticato di aggiungere il comune sentimento filohitleriano che, ad esempio, il 26 gennaio del 1938, aveva portato alla stipula del patto Lipski-Neurath, secondo cui Germania e Polonia, già alleate dal 1934, si spartivano la Cecoslovacchia.
A proposito di spartizioni, si attende ora il pronunciamento di Sharek a proposito degli appetiti territoriali di Varsavia, Budapest e Bucarest su quanto resterà dell’Ucraina golpista.
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Siria. Le tumultuose trattative in corso a Sochi guardano al futuro del paese
Procede con ripetuti stop and go il processo di pace del Congresso di tutti i siriani riunito a Sochi nel tentativo di mettere definitivamente fine alla guerra e delineare il futuro del paese.
Ieri la giornata di lavoro si era aperta in forte ritardo a causa del clima di confusione, delle proteste dell’opposizione siriana filo turca, giunta da Ankara a Sochi. All’aeroporto, scalo internazionale, oltre un’ottantina di oppositori si sono seduti per terra, in segno di protesta contro il logo del Congresso con il bianco il nero il rosso, ma senza il verde, nelle bandiere siriane.
Secondo indiscrezioni raccolte da Askanews, ci sarebbe stata anche una discussione tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e l’inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura. Seguita da una telefonata tra lo stesso Lavrov e la parte turca. Poi proprio quando tutto sembrava rientrare nei binari e Lavrov aveva preso la parola per aprire il Congresso, alcuni siriani si sono alzati per criticare i raid turchi permessi da Mosca, su Afrin contro i curdi. Altri si sono alzati per difendere la Russia. Alla fine Lavrov con grande fatica ha potuto riprendere la parola ed ha dato l’idea di poter gestire il difficile processo negoziale. Diversamente, dall’altra parte dell’Oceano gli Usa avevano diffuso la lista nera, detta anche Lista Putin, dei “sanzionabili” che comprende tutta la nomenklatura russa, compreso lo stesso ministro degli esteri russo Lavrov.
La discussione durante il congresso del dialogo nazionale della Siria a Sochi non è stata facile, ma è normale, ha dichiarato de Mistura. “Prima di tutto, grazie alla Federazione Russa per avermi invitato, anche a nome dell’Iran e della Turchia, a partecipare a questo congresso, il cui compito è di contribuire al processo di Ginevra. Mi rendo conto che la discussione qui oggi è stata tesa, ma è normale in un ambiente democratico, assolutamente normale”, ha detto de Mistura alla fine del congresso.
Il diplomatico ha anche sottolineato la “ampia rappresentanza dell’opposizione” al Congresso intrasiriano di Sochi. “La Siria non può aspettare”, serve un “lavoro delicato” per darle una nuova costituzione, ha detto. E comunque, “l’obiettivo” è l’attuazione della risoluzione n. 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede la natura inclusiva dei negoziati tra il governo e l’intero spettro di forze di opposizione, politiche ed etnoconfessionali in Siria.
Al momento i partecipanti al congresso del dialogo nazionale siriano di Sochi hanno concordato per la creazione di una commissione costituzionale, che comprenderà i delegati eletti nel forum, nonché i rappresentanti di quei gruppi che non hanno partecipato al congresso di Sochi: questa commissione lavorerà a Ginevra. Il numero di candidati per la commissione costituzionale – annunciata oggi – è 158 persone. Lo ha detto Makhmoud al Fandì, promotore del formato di Astana, ossia del pregresso dell’iniziativa odierna.
Insomma, all’indomani del fallimento dei colloqui di Vienna sotto l’egida delle Nazioni Unite e mentre ancora divampano le polemiche sull’attacco turco ad Afrin, la Siria continua a manifestarsi come un teatro di crisi irrisolto.
Fonte
Ieri la giornata di lavoro si era aperta in forte ritardo a causa del clima di confusione, delle proteste dell’opposizione siriana filo turca, giunta da Ankara a Sochi. All’aeroporto, scalo internazionale, oltre un’ottantina di oppositori si sono seduti per terra, in segno di protesta contro il logo del Congresso con il bianco il nero il rosso, ma senza il verde, nelle bandiere siriane.
Secondo indiscrezioni raccolte da Askanews, ci sarebbe stata anche una discussione tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e l’inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura. Seguita da una telefonata tra lo stesso Lavrov e la parte turca. Poi proprio quando tutto sembrava rientrare nei binari e Lavrov aveva preso la parola per aprire il Congresso, alcuni siriani si sono alzati per criticare i raid turchi permessi da Mosca, su Afrin contro i curdi. Altri si sono alzati per difendere la Russia. Alla fine Lavrov con grande fatica ha potuto riprendere la parola ed ha dato l’idea di poter gestire il difficile processo negoziale. Diversamente, dall’altra parte dell’Oceano gli Usa avevano diffuso la lista nera, detta anche Lista Putin, dei “sanzionabili” che comprende tutta la nomenklatura russa, compreso lo stesso ministro degli esteri russo Lavrov.
La discussione durante il congresso del dialogo nazionale della Siria a Sochi non è stata facile, ma è normale, ha dichiarato de Mistura. “Prima di tutto, grazie alla Federazione Russa per avermi invitato, anche a nome dell’Iran e della Turchia, a partecipare a questo congresso, il cui compito è di contribuire al processo di Ginevra. Mi rendo conto che la discussione qui oggi è stata tesa, ma è normale in un ambiente democratico, assolutamente normale”, ha detto de Mistura alla fine del congresso.
Il diplomatico ha anche sottolineato la “ampia rappresentanza dell’opposizione” al Congresso intrasiriano di Sochi. “La Siria non può aspettare”, serve un “lavoro delicato” per darle una nuova costituzione, ha detto. E comunque, “l’obiettivo” è l’attuazione della risoluzione n. 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede la natura inclusiva dei negoziati tra il governo e l’intero spettro di forze di opposizione, politiche ed etnoconfessionali in Siria.
Al momento i partecipanti al congresso del dialogo nazionale siriano di Sochi hanno concordato per la creazione di una commissione costituzionale, che comprenderà i delegati eletti nel forum, nonché i rappresentanti di quei gruppi che non hanno partecipato al congresso di Sochi: questa commissione lavorerà a Ginevra. Il numero di candidati per la commissione costituzionale – annunciata oggi – è 158 persone. Lo ha detto Makhmoud al Fandì, promotore del formato di Astana, ossia del pregresso dell’iniziativa odierna.
Insomma, all’indomani del fallimento dei colloqui di Vienna sotto l’egida delle Nazioni Unite e mentre ancora divampano le polemiche sull’attacco turco ad Afrin, la Siria continua a manifestarsi come un teatro di crisi irrisolto.
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Germania. Una piattaforma contrattuale innovativa
Gli « scioperi di avvertimento » dei 3.800.000 metalmeccanici ed elettrici tedeschi, in lotta da qualche settimana per il rinnovo del contratto, sono ormai 12. Il 24 gennaio scorso, gli scioperanti erano già 170.000. Al centro della piattaforma rivendicativa, oltre ad un aumento retributivo del 6%, c’è la riduzione dell’orario settimanale da 35 a 28 ore. Salvo poche eccezioni, dagli anni '90 l’iniziativa sull’orario è passata dai sindacati ai datori di lavoro. Per molti lavoratori a tempo pieno le norme contrattuali sono state allentate, dietro flessibilità e autonomia si nascondono spesso orari più lunghi, aumento della disponibilità e dello stress. Molti dubitano di poter arrivare alla pensione in buona salute.
Il lavoro femminile è aumentato prevalentemente come impieghi part time. Nella Germania orientale continua ad essere pagato ancora meno che in quella occidentale. Se è vero che l’orario di tutto il lavoro dipendente ha subito mediamente una riduzione a partire dagli anni '90, in realtà fra lavoro a tempo pieno e lavoro a tempo parziale resta un muro che deve essere rimosso perché il sindacato sia di nuovo in grado di agire sul tema dell’orario. A questo mira il « Tempo pieno breve » che la IG Metall mette al centro della piattaforma contrattuale.
Si tratta del diritto dei lavoratori a tempo pieno di lavorare meno, fino a 28 ore alla settimana, per brevi o lunghi periodi, secondo le esigenze della loro vita privata. Questo renderebbe più facile per le donne lavorare più a lungo e guadagnare di più secondo la loro qualifica piuttosto che continuare con il classico part time. E gli uomini potrebbero lavorare meno ore ed assumere le stesse responsabilità delle donne nella cura della casa e dei figli. Nell’attuale battaglia contrattuale si tratta di piccoli passi su un lungo cammino.
Per il sindacato è difficile tentare di ovviare alle carenze della politica. Molte cose sarebbero più semplici se esistesse già un diritto a tornare al tempo pieno dal tempo parziale. Aiuterebbe anche un contributo, finanziato dalle tasse, per compensare le fasi di lavoro ridotto dovute ad esigenze sociali. Si tratta di affrontare il problema della generazione che segue e di quella che precede i lavoratori. Bisogna investire nella scuola, che deve essere messa in condizione di fornire una formazione professionale adeguata a tutti i giovani. Quello dei metalmeccanici ed elettrici tedeschi è un tentativo di costruire una piattaforma contrattuale moderna, politicamente responsabile, che vada oltre la semplice rivendicazione economica.
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Il lavoro femminile è aumentato prevalentemente come impieghi part time. Nella Germania orientale continua ad essere pagato ancora meno che in quella occidentale. Se è vero che l’orario di tutto il lavoro dipendente ha subito mediamente una riduzione a partire dagli anni '90, in realtà fra lavoro a tempo pieno e lavoro a tempo parziale resta un muro che deve essere rimosso perché il sindacato sia di nuovo in grado di agire sul tema dell’orario. A questo mira il « Tempo pieno breve » che la IG Metall mette al centro della piattaforma contrattuale.
Si tratta del diritto dei lavoratori a tempo pieno di lavorare meno, fino a 28 ore alla settimana, per brevi o lunghi periodi, secondo le esigenze della loro vita privata. Questo renderebbe più facile per le donne lavorare più a lungo e guadagnare di più secondo la loro qualifica piuttosto che continuare con il classico part time. E gli uomini potrebbero lavorare meno ore ed assumere le stesse responsabilità delle donne nella cura della casa e dei figli. Nell’attuale battaglia contrattuale si tratta di piccoli passi su un lungo cammino.
Per il sindacato è difficile tentare di ovviare alle carenze della politica. Molte cose sarebbero più semplici se esistesse già un diritto a tornare al tempo pieno dal tempo parziale. Aiuterebbe anche un contributo, finanziato dalle tasse, per compensare le fasi di lavoro ridotto dovute ad esigenze sociali. Si tratta di affrontare il problema della generazione che segue e di quella che precede i lavoratori. Bisogna investire nella scuola, che deve essere messa in condizione di fornire una formazione professionale adeguata a tutti i giovani. Quello dei metalmeccanici ed elettrici tedeschi è un tentativo di costruire una piattaforma contrattuale moderna, politicamente responsabile, che vada oltre la semplice rivendicazione economica.
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“È impossibile raccogliere le firme”, si lamentava Emma Bonino, che prima ha ottenuto che le dimezzassero e poi, non volendo raccogliere neanche quelle, ha infilato i radicali nelle liste del democristiano antiabortista Tabacci. A riprova del fatto che quel che pare impossibile diventa fattibile se c’è chi lo fa.
Potere al popolo ha raccolto in pochi giorni il doppio e il triplo delle firme necessarie per presentarsi alle elezioni in tutta Italia. “Abbiamo dovuto mandar via le persone ai banchetti perché non potevano firmare più di 2mila a collegio”.
La lista che ha scelto come portavoce una giovane donna, la ricercatrice precaria Viola Carofalo è la prima nella storia della repubblica italiana che ha tra i capolista più donne che uomini. La prima lista senza “paracadutati”, con il cento per cento dei candidati scelti da migliaia di persone sui territori in libere assemblee. La lista nata dopo il fallimento del Brancaccio, sconvocato da Tomaso Montanari e Anna Falcone (ora candidata in Liberi e Uguali con Grasso), ha convinto migliaia di persone spiegando ai banchetti il proprio programma: “Cancellare subito il Jobs Act e la Legge Fornero, non aggiustarli un pochino come promettono di fare Berlusconi o Bersani!” (“Cancellare la riforma Fornero? Siam mica matti!”, ha reagito l’ex segretario Pd, oggi con Falcone in Liberi e Uguali). “Proteggendo tutti i lavoratori dal licenziamento illegittimo con il ripristino e l’estensione dell’articolo 18 e l’abolizione dei contratti che hanno permesso alle imprese di sostituire il lavoro stabile con quello precario”. “Tassando i super-ricchi molto più di chi vive del solo stipendio”, al contrario di quel che promettono di fare Salvini e Berlusconi con la flat-tax, l’ennesima legge che avvantaggerà i miliardari come – che coincidenza! – Berlusconi.
E con l’unica riforma rivoluzionaria possibile, che l’altra non è una riforma, l’altra è la rivoluzione: andando in pensione prima e riducendo l’orario di lavoro a parità di salario, oggi che a parità di lavoro si produce e dunque si guadagna più di ieri, ma quel guadagno finisce tutto nelle tasche dei grandi imprenditori che infatti sono diventati più ricchi e non dei lavoratori che infatti sono diventati più poveri.
Non è frutto di un’utopia ma di un calcolo, la riforma che i candidati di Potere al popolo ripetono ai comizi. Calcolare a quanto ammonta la ricchezza prodotta dal lavoro e restituirla ai lavoratori che l’hanno prodotta. Un calcolo che ha appena fatto l’Oxfam: l’82 per cento della ricchezza prodotta nell’ultimo anno è come sempre finita nelle tasche dell’1 per cento più ricco della popolazione mondiale, mentre ai 3,7 miliardi dei più poveri non è andato un solo centesimo. Lo stesso vale per le pensioni: ai lavoratori viene restituito a stento quello che versano mentre sarebbe equo restituirgli la ricchezza che hanno prodotto, evitando che quei soldi finiscano tutti nelle tasche dei super-ricchi che, in questi anni di crisi, sono triplicati.
«Ma dove trovano i soldi?».
Rispondo con un’altra domanda: i governi del Pd, dove li hanno trovati i 31 miliardi per salvare le banche invece dei cittadini? E i 40 miliardi regalati in tre anni alle imprese invece che ai lavoratori resi precari dal Jobs Act? E i 25 miliardi di spese militari stanziati per il 2018 da un paese che ha nella sua Costituzione il ripudio della guerra? Più di quanti ne servirebbero, secondo le stime della Rete dei Numeri pari lanciata da Don Ciotti, per sconfiggere la povertà in Italia!
«I soldi li troviamo rompendo con i trattati europei che hanno imposto il pareggio di bilancio e affamato i popoli. Uscendo dalla Nato che chiede ai paesi aderenti di destinare alle spese militari il 2 per cento del Pil», dice Giorgio Cremaschi, candidato di Potere al Popolo, ex leader della Fiom deluso dal Movimento 5 Stelle per il quale aveva scritto il programma-lavoro di cui poco è rimasto nelle venti priorità indicate da Di Maio, che ieri prometteva il referendum per uscire dall’Euro e oggi di rassicurare i mercati assegnando il ministero del Tesoro a un tecnico del Fmi. Prima di criticare per anni la Troika conveniva sapere da chi era composta.
Con Potere al Popolo sono candidate decine di lavoratrici, lavoratori, decine di militanti. Nicoletta Dosio, professoressa di greco e simbolo della lotta contro la Tav. La partigiana Lidia Menapace. Giovanni Ceraolo, che si batte nel movimento per la casa a Livorno. Patrizia Buffa a Verona, impegnata nella lotta alla Mafia e per la Palestina. Roberta Leoni a Viterbo, insegnante in lotta contro la Buona Scuola di Renzi. La combattiva Stefania Iaccarino a Roma, simbolo della vertenza Almaviva. A Napoli c’è lo storico Giuseppe Aragno di DeMa, vicino a De Magistris, molto attivo nella battaglia del referendum del 4 dicembre.
“Potere al popolo è l’unica vera novità di queste elezioni”, dichiara entusiasta all’Ansa Luigi De Magistris. Non a caso, la lista che si impegna a cancellare il pareggio di bilancio inserito in Costituzione da Monti, Berlusconi e Bersani parte dalla città governata dall’unico sindaco che ha disobbedito ai vincoli del patto di stabilità con una delibera scritta con Stefano Rodotà per consentire l’assunzione di 300 maestre e garantire alle famiglie l’apertura delle scuole. «L’istruzione è un diritto, il pareggio di bilancio no», disse il Sindaco, che da anni chiude i suoi comizi gridando: “Potere al popolo!”.
Potere al popolo è nata per impulso del centro sociale napoletano Ex Opg – Je So Pazzo e hanno aderito tanti collettivi, sindacati di base, movimenti, associazioni e partiti come Rifondazione Comunista e Pci. La lista ha ricevuto l’endorsement di Momentum, il movimento di Jeremy Corbyn, e la portavoce Viola Garofalo è ora in Francia da Jean-Luc Melenchon. Stanno raccogliendo le firme per candidarsi anche alle regionali nel Lazio, opponendo a Zingaretti, Lombardi e Parisi la ginecologa femminista Elisabetta Canitano, con capolista il giornalista del Manifesto Sandro Medici. Ha scritto un appello al voto il regista Citto Maselli e lo stanno firmando con noi in queste ore Vauro, Moni Ovadia, Christian Raimo, Alberto Prunetti, Marina Boscaino del comitato per la difesa della scuola pubblica (nel programma della lista c’è la sua proposta di riforma della Buona Scuola).
Ho scelto come loro di votare Potere al popolo perché c’è bisogno di rovesciare il tavolo dove pochi stanno mangiando a spese di tutti gli altri e allestire un banchetto per chi vive di lavoro e sacrifici. Non solo per questo, però. So bene che il tavolo non si rovescerà il 4 marzo.
Quando racconto le storie dei lavoratori sfruttati, scopro che molti attribuiscono il proprio malessere all’ansia. Credono che l’emicrania, il reflusso gastroesofageo, l’insonnia, l’acidità di stomaco e le palpitazioni dipendano dall’ansia per il contratto precario, il mutuo, il futuro, il tempo che ci manca. Danno la colpa del loro disagio all’ansia che è una reazione individuale e non all’ingiustizia che è un fenomeno sociale. E curano l’ansia con le pasticche invece di ribellarsi all’ingiustizia con la lotta.
Se votano, si affidano a chi promette di aggiustare un pochino la Legge Fornero dopo averla votata, ai miliardari che promettono di tagliare le tasse ai miliardari, a chi vuole consegnarci a un tecnico del Fmi perché l’Europa è ancora lì che ce lo chiede. Ma non votano quasi mai, perché non hanno gli strumenti per mettere a fuoco le cause e le responsabilità della loro sofferenza e pensano che la loro ansia non abbia nulla a che fare con la politica. Voto Potere al popolo perché è la sola lista che attraverso le lotte dei suoi candidati vuole dare agli sfruttati questa consapevolezza, questo conforto, questo protagonismo. Incontriamoci, lottiamo insieme, studiamo le cose che non ci racconta la tv, dove l’ingiustizia scompare e quando appare è per dare la colpa agli immigrati sfruttati invece che ai loro sfruttatori: un vecchio trucco per coprire le responsabilità di chi, con le leggi che ha votato, ha legalizzato lo sfruttamento.
Basta pasticche, teniamoci stretti e affrontiamo la campagna elettorale e i mesi successivi sapendo di non avere i poteri forti alle spalle e tre reti come Berlusconi, le banche come Boschi, i finanzieri che ci finanziano come Renzi. Sapendo di non avere le risorse economiche che loro hanno ma di avere una risorsa che loro non hanno e non possono comprare. Noi abbiamo ragione.
Fonte
Potere al popolo ha raccolto in pochi giorni il doppio e il triplo delle firme necessarie per presentarsi alle elezioni in tutta Italia. “Abbiamo dovuto mandar via le persone ai banchetti perché non potevano firmare più di 2mila a collegio”.
La lista che ha scelto come portavoce una giovane donna, la ricercatrice precaria Viola Carofalo è la prima nella storia della repubblica italiana che ha tra i capolista più donne che uomini. La prima lista senza “paracadutati”, con il cento per cento dei candidati scelti da migliaia di persone sui territori in libere assemblee. La lista nata dopo il fallimento del Brancaccio, sconvocato da Tomaso Montanari e Anna Falcone (ora candidata in Liberi e Uguali con Grasso), ha convinto migliaia di persone spiegando ai banchetti il proprio programma: “Cancellare subito il Jobs Act e la Legge Fornero, non aggiustarli un pochino come promettono di fare Berlusconi o Bersani!” (“Cancellare la riforma Fornero? Siam mica matti!”, ha reagito l’ex segretario Pd, oggi con Falcone in Liberi e Uguali). “Proteggendo tutti i lavoratori dal licenziamento illegittimo con il ripristino e l’estensione dell’articolo 18 e l’abolizione dei contratti che hanno permesso alle imprese di sostituire il lavoro stabile con quello precario”. “Tassando i super-ricchi molto più di chi vive del solo stipendio”, al contrario di quel che promettono di fare Salvini e Berlusconi con la flat-tax, l’ennesima legge che avvantaggerà i miliardari come – che coincidenza! – Berlusconi.
E con l’unica riforma rivoluzionaria possibile, che l’altra non è una riforma, l’altra è la rivoluzione: andando in pensione prima e riducendo l’orario di lavoro a parità di salario, oggi che a parità di lavoro si produce e dunque si guadagna più di ieri, ma quel guadagno finisce tutto nelle tasche dei grandi imprenditori che infatti sono diventati più ricchi e non dei lavoratori che infatti sono diventati più poveri.
Non è frutto di un’utopia ma di un calcolo, la riforma che i candidati di Potere al popolo ripetono ai comizi. Calcolare a quanto ammonta la ricchezza prodotta dal lavoro e restituirla ai lavoratori che l’hanno prodotta. Un calcolo che ha appena fatto l’Oxfam: l’82 per cento della ricchezza prodotta nell’ultimo anno è come sempre finita nelle tasche dell’1 per cento più ricco della popolazione mondiale, mentre ai 3,7 miliardi dei più poveri non è andato un solo centesimo. Lo stesso vale per le pensioni: ai lavoratori viene restituito a stento quello che versano mentre sarebbe equo restituirgli la ricchezza che hanno prodotto, evitando che quei soldi finiscano tutti nelle tasche dei super-ricchi che, in questi anni di crisi, sono triplicati.
«Ma dove trovano i soldi?».
Rispondo con un’altra domanda: i governi del Pd, dove li hanno trovati i 31 miliardi per salvare le banche invece dei cittadini? E i 40 miliardi regalati in tre anni alle imprese invece che ai lavoratori resi precari dal Jobs Act? E i 25 miliardi di spese militari stanziati per il 2018 da un paese che ha nella sua Costituzione il ripudio della guerra? Più di quanti ne servirebbero, secondo le stime della Rete dei Numeri pari lanciata da Don Ciotti, per sconfiggere la povertà in Italia!
«I soldi li troviamo rompendo con i trattati europei che hanno imposto il pareggio di bilancio e affamato i popoli. Uscendo dalla Nato che chiede ai paesi aderenti di destinare alle spese militari il 2 per cento del Pil», dice Giorgio Cremaschi, candidato di Potere al Popolo, ex leader della Fiom deluso dal Movimento 5 Stelle per il quale aveva scritto il programma-lavoro di cui poco è rimasto nelle venti priorità indicate da Di Maio, che ieri prometteva il referendum per uscire dall’Euro e oggi di rassicurare i mercati assegnando il ministero del Tesoro a un tecnico del Fmi. Prima di criticare per anni la Troika conveniva sapere da chi era composta.
Con Potere al Popolo sono candidate decine di lavoratrici, lavoratori, decine di militanti. Nicoletta Dosio, professoressa di greco e simbolo della lotta contro la Tav. La partigiana Lidia Menapace. Giovanni Ceraolo, che si batte nel movimento per la casa a Livorno. Patrizia Buffa a Verona, impegnata nella lotta alla Mafia e per la Palestina. Roberta Leoni a Viterbo, insegnante in lotta contro la Buona Scuola di Renzi. La combattiva Stefania Iaccarino a Roma, simbolo della vertenza Almaviva. A Napoli c’è lo storico Giuseppe Aragno di DeMa, vicino a De Magistris, molto attivo nella battaglia del referendum del 4 dicembre.
“Potere al popolo è l’unica vera novità di queste elezioni”, dichiara entusiasta all’Ansa Luigi De Magistris. Non a caso, la lista che si impegna a cancellare il pareggio di bilancio inserito in Costituzione da Monti, Berlusconi e Bersani parte dalla città governata dall’unico sindaco che ha disobbedito ai vincoli del patto di stabilità con una delibera scritta con Stefano Rodotà per consentire l’assunzione di 300 maestre e garantire alle famiglie l’apertura delle scuole. «L’istruzione è un diritto, il pareggio di bilancio no», disse il Sindaco, che da anni chiude i suoi comizi gridando: “Potere al popolo!”.
Potere al popolo è nata per impulso del centro sociale napoletano Ex Opg – Je So Pazzo e hanno aderito tanti collettivi, sindacati di base, movimenti, associazioni e partiti come Rifondazione Comunista e Pci. La lista ha ricevuto l’endorsement di Momentum, il movimento di Jeremy Corbyn, e la portavoce Viola Garofalo è ora in Francia da Jean-Luc Melenchon. Stanno raccogliendo le firme per candidarsi anche alle regionali nel Lazio, opponendo a Zingaretti, Lombardi e Parisi la ginecologa femminista Elisabetta Canitano, con capolista il giornalista del Manifesto Sandro Medici. Ha scritto un appello al voto il regista Citto Maselli e lo stanno firmando con noi in queste ore Vauro, Moni Ovadia, Christian Raimo, Alberto Prunetti, Marina Boscaino del comitato per la difesa della scuola pubblica (nel programma della lista c’è la sua proposta di riforma della Buona Scuola).
Ho scelto come loro di votare Potere al popolo perché c’è bisogno di rovesciare il tavolo dove pochi stanno mangiando a spese di tutti gli altri e allestire un banchetto per chi vive di lavoro e sacrifici. Non solo per questo, però. So bene che il tavolo non si rovescerà il 4 marzo.
Quando racconto le storie dei lavoratori sfruttati, scopro che molti attribuiscono il proprio malessere all’ansia. Credono che l’emicrania, il reflusso gastroesofageo, l’insonnia, l’acidità di stomaco e le palpitazioni dipendano dall’ansia per il contratto precario, il mutuo, il futuro, il tempo che ci manca. Danno la colpa del loro disagio all’ansia che è una reazione individuale e non all’ingiustizia che è un fenomeno sociale. E curano l’ansia con le pasticche invece di ribellarsi all’ingiustizia con la lotta.
Se votano, si affidano a chi promette di aggiustare un pochino la Legge Fornero dopo averla votata, ai miliardari che promettono di tagliare le tasse ai miliardari, a chi vuole consegnarci a un tecnico del Fmi perché l’Europa è ancora lì che ce lo chiede. Ma non votano quasi mai, perché non hanno gli strumenti per mettere a fuoco le cause e le responsabilità della loro sofferenza e pensano che la loro ansia non abbia nulla a che fare con la politica. Voto Potere al popolo perché è la sola lista che attraverso le lotte dei suoi candidati vuole dare agli sfruttati questa consapevolezza, questo conforto, questo protagonismo. Incontriamoci, lottiamo insieme, studiamo le cose che non ci racconta la tv, dove l’ingiustizia scompare e quando appare è per dare la colpa agli immigrati sfruttati invece che ai loro sfruttatori: un vecchio trucco per coprire le responsabilità di chi, con le leggi che ha votato, ha legalizzato lo sfruttamento.
Basta pasticche, teniamoci stretti e affrontiamo la campagna elettorale e i mesi successivi sapendo di non avere i poteri forti alle spalle e tre reti come Berlusconi, le banche come Boschi, i finanzieri che ci finanziano come Renzi. Sapendo di non avere le risorse economiche che loro hanno ma di avere una risorsa che loro non hanno e non possono comprare. Noi abbiamo ragione.
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Cavie umane per i test sui gas di scarico. Ultima frontiera della corsa al profitto.
Il delirio da profitto che pervade questa nostra società ultracapitalista ormai non ci sorprende più di tanto, e siamo abituati alle sue più oscene perversioni.
La notizia che però arriva dalla Germania è forse un po’ troppo, anche per il nostro ormai altissimo livello di consapevolezza.
Due quotidiani, il Sueddeutsche Zeitung e il Stuttgarter Zeitung, dichiarano che l’Eugt, un gruppo di ricerca europea per l’Ambiente e la Salute nei Trasporti finanziato da Wolkswagenm Bmw e Daimler, avrebbe condotto esperimenti per verificare l'effetto dei gas di scarico sull’uomo.
Non solo sulle scimmie, dunque, ma anche direttamente su esseri umani: il caso è esploso qualche giorno fa in seguito ad una inchiesta del New York Times che ha raccontato come ad Albuquerque, New Mexico, venissero effettuati test sui gas di scarico utilizzando appunto delle scimmie. Nell’inchiesta veniva citato l’Eugt.
Polemiche, indignazione, scuse, sgomento. Qualche articolo inseriva, tra le ultime righe, la notiziola che “alcuni scienziati avessero pensato di fare anche dei test con cavie umane volontarie, ma la folle idea è stata bocciata”.
Altroché bocciata. Lo scoop delle due testate tedesche alza di molto l’asticella, e apre a scenari che fanno venire i brividi.
Il test sarebbe stato svolto tra il 2014 ed il 2015: organizzato dall’Eugt in collaborazione con l’Università di Acquisgrana, consisteva nel far inalare a 25 persone diossido di azoto per tre ore al giorno per quattro settimane, per poi verificare i danni alla salute.
Lo studio è stato addirittura pubblicato nel 2016 sulla rivista International Archives of occupational and environmental health. I risultati, tra l’altro, non evidenziavano particolari aspetti di pericolo rilevante per la salute, anche se alcune voci di critica rispetto al metodo utilizzato si erano levate all’interno dell’ambiente scientifico.
Tutto alla luce del sole, quindi. Però lo scandalo è emerso solo ora, grazie prima al New York Times che ha raccontato degli studi sulle scimmie, poi grazie ai due quotidiani tedeschi.
Per comprendere il significato esatto di quello che è avvenuto partiamo dal 2012: lo IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, inserisce i gas di scarico dei motori diesel all’interno del gruppo di sostanze cancerogene.
Le grandi aziende produttrici a questo punto devono necessariamente affrontare la questione, e le possibilità sono tre: spendere in ricerca e sviluppo per abbattere il livello di emissioni, provare a confutare il verdetto dello IARC sul piano scientifico, oppure provare ad intervenire in altro modo.
Non vogliamo essere sempre quelli che parlano male del capitalismo, delle sue dinamiche e dei suoi protagonisti, per cui ci affidiamo alla cronaca per capire quali strade siano state battute per superare il problema.
Nel 2015 l’Epa (United States Environmental Protection Agency) ha comunicato che la Volkswagen ha illegalmente installato un software progettato per aggirare le normative ambientali sulle emissioni. Il software, rilevando il momento in cui le vetture erano sottoposte ai test, consentiva di bypassare e superare le prove. Successivamente altre case automobilistiche vengono messe sotto indagine.
Ecco, questa ci pare proprio la terza possibilità, il “provare ad intervenire in altro modo”.
Adesso, ad occhio e croce, il tentativo messo in atto è quello di dimostrare che a livello sanitario, tutto sommato, le cose non vanno male.
La situazione ci pare molto simile a come l’ha fotografata in una dichiarazione il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert: le aziende automobilistiche avrebbero dovuto limitare le emissioni, non dimostrarne la presunta innocuità.
La questione è sempre la stessa: quanto è compatibile la massimizzazione del profitto con la tutela dei diritti? Diritto alla salute, alla sicurezza, ad un ambiente salubre. Potremmo andare avanti per altre dieci righe soltanto descrivendo l’elenco di quello che dovrebbe essere tutelato ed invece è a disposizione del mercato: diritto alla casa, al reddito, alla sanità, all’istruzione... Quello che sta avvenendo nel settore automobilistico è in realtà quello che avviene praticamente ovunque, praticamente sempre.
Tornando alla cronaca ed al caso specifico, le case automobilistiche coinvolte si sono dissociate dall’iniziativa dell’Eugt dichiarandosi intenzionate a fare chiarezza.
La Volkswagen ha sospeso un dirigente.
Fonte
La notizia che però arriva dalla Germania è forse un po’ troppo, anche per il nostro ormai altissimo livello di consapevolezza.
Due quotidiani, il Sueddeutsche Zeitung e il Stuttgarter Zeitung, dichiarano che l’Eugt, un gruppo di ricerca europea per l’Ambiente e la Salute nei Trasporti finanziato da Wolkswagenm Bmw e Daimler, avrebbe condotto esperimenti per verificare l'effetto dei gas di scarico sull’uomo.
Non solo sulle scimmie, dunque, ma anche direttamente su esseri umani: il caso è esploso qualche giorno fa in seguito ad una inchiesta del New York Times che ha raccontato come ad Albuquerque, New Mexico, venissero effettuati test sui gas di scarico utilizzando appunto delle scimmie. Nell’inchiesta veniva citato l’Eugt.
Polemiche, indignazione, scuse, sgomento. Qualche articolo inseriva, tra le ultime righe, la notiziola che “alcuni scienziati avessero pensato di fare anche dei test con cavie umane volontarie, ma la folle idea è stata bocciata”.
Altroché bocciata. Lo scoop delle due testate tedesche alza di molto l’asticella, e apre a scenari che fanno venire i brividi.
Il test sarebbe stato svolto tra il 2014 ed il 2015: organizzato dall’Eugt in collaborazione con l’Università di Acquisgrana, consisteva nel far inalare a 25 persone diossido di azoto per tre ore al giorno per quattro settimane, per poi verificare i danni alla salute.
Lo studio è stato addirittura pubblicato nel 2016 sulla rivista International Archives of occupational and environmental health. I risultati, tra l’altro, non evidenziavano particolari aspetti di pericolo rilevante per la salute, anche se alcune voci di critica rispetto al metodo utilizzato si erano levate all’interno dell’ambiente scientifico.
Tutto alla luce del sole, quindi. Però lo scandalo è emerso solo ora, grazie prima al New York Times che ha raccontato degli studi sulle scimmie, poi grazie ai due quotidiani tedeschi.
Per comprendere il significato esatto di quello che è avvenuto partiamo dal 2012: lo IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, inserisce i gas di scarico dei motori diesel all’interno del gruppo di sostanze cancerogene.
Le grandi aziende produttrici a questo punto devono necessariamente affrontare la questione, e le possibilità sono tre: spendere in ricerca e sviluppo per abbattere il livello di emissioni, provare a confutare il verdetto dello IARC sul piano scientifico, oppure provare ad intervenire in altro modo.
Non vogliamo essere sempre quelli che parlano male del capitalismo, delle sue dinamiche e dei suoi protagonisti, per cui ci affidiamo alla cronaca per capire quali strade siano state battute per superare il problema.
Nel 2015 l’Epa (United States Environmental Protection Agency) ha comunicato che la Volkswagen ha illegalmente installato un software progettato per aggirare le normative ambientali sulle emissioni. Il software, rilevando il momento in cui le vetture erano sottoposte ai test, consentiva di bypassare e superare le prove. Successivamente altre case automobilistiche vengono messe sotto indagine.
Ecco, questa ci pare proprio la terza possibilità, il “provare ad intervenire in altro modo”.
Adesso, ad occhio e croce, il tentativo messo in atto è quello di dimostrare che a livello sanitario, tutto sommato, le cose non vanno male.
La situazione ci pare molto simile a come l’ha fotografata in una dichiarazione il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert: le aziende automobilistiche avrebbero dovuto limitare le emissioni, non dimostrarne la presunta innocuità.
La questione è sempre la stessa: quanto è compatibile la massimizzazione del profitto con la tutela dei diritti? Diritto alla salute, alla sicurezza, ad un ambiente salubre. Potremmo andare avanti per altre dieci righe soltanto descrivendo l’elenco di quello che dovrebbe essere tutelato ed invece è a disposizione del mercato: diritto alla casa, al reddito, alla sanità, all’istruzione... Quello che sta avvenendo nel settore automobilistico è in realtà quello che avviene praticamente ovunque, praticamente sempre.
Tornando alla cronaca ed al caso specifico, le case automobilistiche coinvolte si sono dissociate dall’iniziativa dell’Eugt dichiarandosi intenzionate a fare chiarezza.
La Volkswagen ha sospeso un dirigente.
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Potere al Popolo-France Insoumise. Ossia i popoli contro l’Unione Europea
La prima sortita internazionale della lista Potere al Popolo è subito molto impegnativa. Niente partitini dello zerovirgola, nessuna ricerca di per “quelli proprio come noi”, ma subito il contatto con uno dei movimenti che stanno stravolgendo il quadro politico europeo.
Ci vediamo di mattina presto – per le abitudini parigine, bene o male spostate di un’ora rispetto all’Italia (stessa ora legale, ma qualche meridiano di differenza) – per mettere a punto come presentarci davanti a Jean-Luc Mélenchon, frontman di France Insoumise, 19,6% alle presidenziali dello scorso anno, quarta forza di Francia. I giornali locali ci aggiornano però subito sul cambiamento di posizione. Si è votato domenica per sostituire due parlamentari all’Assemblee Nationale e la formazione di Mélenchon ha scavalcato nettamente la destra di Marine Le Pen, in aperta crisi. En Marche di Macron è lì a un passo, così come i gaullisti. Scomparsi i socialisti di Benoit Hamon, ridotti al 2%, praticamente evaporati dopo il settennato di François Hollande, in cui il neoliberismo ha sostituito il tradizionale modo di fare socialdemocratico (non a caso Emmanuel Macron ne era stato ministro dell’economia per tre anni).
Neanche il tempo di elaborare una scaletta mentale ed ecco che parte il tourbillon delle intervista ai media francesi (LeMedia, L’Humanité, Mediapart…). Parla solo Viola Carofalo, naturalmente, e se la cava alla grande anche senza interprete. E’ qui nonostante avesse impegni lavorativi a Napoli, e – da precari – prendersi un giorno per una cosa importantissima può esser ritenuto “peccato grave”.In un attimo è l’ora di pranzo, i tavolini della lussosissima Brasserie Le Bourbon si affollano di parlamentari e portaborse e siamo costretti a fuggire altrove. Quei prezzi non fanno per noi. Altrove si parlerebbe di gentrificazione...
Ci raggiungono una decina di italiani a Parigi, quasi tutti studenti Erasmus, che poi in serata rivedremo per un’affollatissima assembla alla Maison des Association, a Montreuil, nella benaugurante avenue de la Résistance. Un toast di corsa – per risparmiare tempo e denaro – e siamo alla porta della severissima Assemblee Nationale, presidiata da guardie armate ovunque e sistemi di sicurezza stile aeroporto non-Schengen.
Mélenchon ci accoglie nei suoi uffici al piano terra, tra una squadra di collaboratori giovanissimi, come vecchi compagni di lotta, parla a lungo, incuriosito da questa bizzarra delegazione di “italiani che ci provano”.
Si comincia con Bénédicte che fa da interprete, ma quasi subito rinunciamo e prendiamo a discutere in francese, con poche pause di traduzione intorno ai temi su cui è necessario evitare qualsiasi fraintendimento.
Ci spiega come è nata France Insoummise, dello sforzo inaudito per non farla raccontare come “una federazione dei gruppuscoli di sinistra” (è diventata una parolaccia impopolare anche oltralpe), delle ostilità di tanti partitini incapaci di uscire dalle formulazioni astratte e calarsi nel blocco sociale (il “popolo” ha molte determinazioni, ovviamente) per organizzare resistenza e dare battaglia.Ci si confronta sulle diversità della molla che ha fatto mettere in moto i due movimenti, per scoprire invece molte similitudini. France Insoumise si fonda soprattutto sui “gruppi di azione” locale; in pratica, qualunque gruppo voglia promuovere azione politica localmente può farlo se il tema che agita, e il modo di collegarlo alla politica generale del movimento, corrisponde a quanto scritto nel programma. Potere al Popolo ha invece dovuto animare oltre 150 assemblee locali, fisiche, per suscitare l’entusiasmo contagioso in figure completamente nuove alla politica e rianimare gruppi di attivisti spesso rassegnati a ripetere stancamente il già noto. Ma non si tratta di differenza “ideologiche”. Corrispondono invece alle modalità della partecipazione politica in due paesi simili, ma molto diversi (per dirne solo una: gli italiani sono molto diffidenti – e a ragion veduta – verso lo Stato, mentre i francesi vi si affidano fin troppo fideisticamente).
Il punto saliente arriva ovviamente quando si prende a parlare del rapporto che i nostri movimenti intendono mantenere con l’Unione Europea. Lo si capiva da cento commenti che inframezzavano la chiacchierata, ma l’opposizione dura alla Ue e alla Troika vengono esplicitate a partire dall’impossibilità – per tutti i paesi, persino per l’orgogliosa Francia – di mettere in atto una qualsiasi politica di difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari. “L’Europa vuole questo”, “L’Europa impone dei vincoli, “l’Europa è fatta di trattati che vanno rispettati”...
In realtà l’Europa non vuole nulla. E’ in fondo un continente, abitato da diversi popoli, con tradizioni e livelli di sviluppo molto differenti. E’ invece l’Unione Europea a “volere” e decidere, perché è un sistema tecnico-amministrativo – un “quasi Stato”, che controlla le leve del comando su una serie di materie in continuo aumento. Non sarebbe un problema così devastante se le decisioni che ci vengono presentate come “obiettive”, “necessarie”, “per il nostro benessere”, non fossero invece ispirate dagli interessi dominanti (“i mercati”, “le banche”, gli Stati più forti – la Germania, essenzialmente, con la Francia a qualche lunghezza di distanza).
Nel programma di France Insoumise il rapporto con l’Unione Europea viene ridefinito con un Plan A (messa in discussione di quasi tutti i trattati), anche sapendo che è praticamente impossibile modificare anche solo un trattato se c’è un paese contrario (le “regole europee” prevedono l’unanimità; ma tutti sanno che Germania, Olanda, ecc, non rinunceranno mai alla posizione di vantaggio acquisita).
La discussione viaggia insomma intorno al Plan B: rottura unilaterale o concertata tra diversi paesi rispetto alla “cordata tedesca”.
Il tema, a noi di Eurostop, sta molto a cuore, naturalmente. E dunque spieghiamo la condizione infame del dibattito italiano, in cui destra, governo e “sinistra” cercano di presentare la necessità della rottura come un atteggiamento “sovranista”, “nazionalista”, ecc. Al contrario, spieghiamo che secondo noi sarebbe di vitale importanza cominciare a ragionare e agire come “alleanza europea” dei movimenti popolari contro l’Unione Europea e i suoi tecnoburocrati. In fondo, diciamo, Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ma anche la Tunisia, presentano problemi e potenzialità comuni.Mélenchon prende al balzo l’idea e rilancia: “bisogna lavorare a un Forum da fare prima delle elezioni europee – giugno 2019 – coinvolgendo tutti i paesi possibili, anche Algeria e Marocco”. Dimostrare fisicamente, insomma, che il Plan B o “la rottura” costituiscono una prospettiva internazionalista e anticapitalista, che unisce i popoli d’Europa e del Mediterraneo contro l’Unione Europea della finanza e delle multinazionali.
Si continua. C’è la possibilità che Mélenchon scenda in Italia prima del 4 marzo, per far vedere subito come questa alleanza comincia a cambiare il quadro consolidato. Mélenchon spiega di voler andare a Napoli, non solo per la straordinaria partita iniziata dai compagni di Je so’ Pazzo (vuol vedere come funzionano le tante attività sociali che gli sono state descritte), ma per la particolarità politica attuale di una città che ai francesi è sempre apparsa come la “gemella di Marsiglia”.
Si finisce con le raccomandazioni del vecchio leone: “difendete Lula e la democrazia brasiliana da queste accuse vergognose, noi in Francia siamo gli unici a farlo” (è appena stato condannato in appello nel tentativo di bloccarne la rielezione a presidente, con i sondaggi che danno a lui la maggioranza assoluta e il golpista Temer al 7%). “E fate lo stesso con il Venezuela bolivariano, attaccato dai terroristi!”.
Gli diciamo che su questo sfonda una porta aperta, raccontando di iniziative, articoli, colloqui diretti.
E’ un inizio, certamente. Ma con grandi potenzialità.
Un tentativo che non può piacere all’establishment italiano, lo sappiamo e lo verifichiamo subito. Una troupe della Rai era entrata insieme a noi, fin nell’ufficio di Mélenchon. Ha fatto riprese, la giornalista Iman Sabbah ha fatto qualche domanda, chiedendo la classica “battuta” da inserire in un tg (lavora per RaiNews24, in particolare).
Ma nessuno, finora, ha potuto godersi il servizio. Si vede che il direttore (Antonio Di Bella) o chi per lui ha deciso che è meglio non parlare di Potere al Popolo. Soprattutto se in Europa viene preso sul serio...
Fonte
Ci vediamo di mattina presto – per le abitudini parigine, bene o male spostate di un’ora rispetto all’Italia (stessa ora legale, ma qualche meridiano di differenza) – per mettere a punto come presentarci davanti a Jean-Luc Mélenchon, frontman di France Insoumise, 19,6% alle presidenziali dello scorso anno, quarta forza di Francia. I giornali locali ci aggiornano però subito sul cambiamento di posizione. Si è votato domenica per sostituire due parlamentari all’Assemblee Nationale e la formazione di Mélenchon ha scavalcato nettamente la destra di Marine Le Pen, in aperta crisi. En Marche di Macron è lì a un passo, così come i gaullisti. Scomparsi i socialisti di Benoit Hamon, ridotti al 2%, praticamente evaporati dopo il settennato di François Hollande, in cui il neoliberismo ha sostituito il tradizionale modo di fare socialdemocratico (non a caso Emmanuel Macron ne era stato ministro dell’economia per tre anni).
Neanche il tempo di elaborare una scaletta mentale ed ecco che parte il tourbillon delle intervista ai media francesi (LeMedia, L’Humanité, Mediapart…). Parla solo Viola Carofalo, naturalmente, e se la cava alla grande anche senza interprete. E’ qui nonostante avesse impegni lavorativi a Napoli, e – da precari – prendersi un giorno per una cosa importantissima può esser ritenuto “peccato grave”.In un attimo è l’ora di pranzo, i tavolini della lussosissima Brasserie Le Bourbon si affollano di parlamentari e portaborse e siamo costretti a fuggire altrove. Quei prezzi non fanno per noi. Altrove si parlerebbe di gentrificazione...
Ci raggiungono una decina di italiani a Parigi, quasi tutti studenti Erasmus, che poi in serata rivedremo per un’affollatissima assembla alla Maison des Association, a Montreuil, nella benaugurante avenue de la Résistance. Un toast di corsa – per risparmiare tempo e denaro – e siamo alla porta della severissima Assemblee Nationale, presidiata da guardie armate ovunque e sistemi di sicurezza stile aeroporto non-Schengen.
Mélenchon ci accoglie nei suoi uffici al piano terra, tra una squadra di collaboratori giovanissimi, come vecchi compagni di lotta, parla a lungo, incuriosito da questa bizzarra delegazione di “italiani che ci provano”.
Si comincia con Bénédicte che fa da interprete, ma quasi subito rinunciamo e prendiamo a discutere in francese, con poche pause di traduzione intorno ai temi su cui è necessario evitare qualsiasi fraintendimento.
Ci spiega come è nata France Insoummise, dello sforzo inaudito per non farla raccontare come “una federazione dei gruppuscoli di sinistra” (è diventata una parolaccia impopolare anche oltralpe), delle ostilità di tanti partitini incapaci di uscire dalle formulazioni astratte e calarsi nel blocco sociale (il “popolo” ha molte determinazioni, ovviamente) per organizzare resistenza e dare battaglia.Ci si confronta sulle diversità della molla che ha fatto mettere in moto i due movimenti, per scoprire invece molte similitudini. France Insoumise si fonda soprattutto sui “gruppi di azione” locale; in pratica, qualunque gruppo voglia promuovere azione politica localmente può farlo se il tema che agita, e il modo di collegarlo alla politica generale del movimento, corrisponde a quanto scritto nel programma. Potere al Popolo ha invece dovuto animare oltre 150 assemblee locali, fisiche, per suscitare l’entusiasmo contagioso in figure completamente nuove alla politica e rianimare gruppi di attivisti spesso rassegnati a ripetere stancamente il già noto. Ma non si tratta di differenza “ideologiche”. Corrispondono invece alle modalità della partecipazione politica in due paesi simili, ma molto diversi (per dirne solo una: gli italiani sono molto diffidenti – e a ragion veduta – verso lo Stato, mentre i francesi vi si affidano fin troppo fideisticamente).
Il punto saliente arriva ovviamente quando si prende a parlare del rapporto che i nostri movimenti intendono mantenere con l’Unione Europea. Lo si capiva da cento commenti che inframezzavano la chiacchierata, ma l’opposizione dura alla Ue e alla Troika vengono esplicitate a partire dall’impossibilità – per tutti i paesi, persino per l’orgogliosa Francia – di mettere in atto una qualsiasi politica di difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari. “L’Europa vuole questo”, “L’Europa impone dei vincoli, “l’Europa è fatta di trattati che vanno rispettati”...
In realtà l’Europa non vuole nulla. E’ in fondo un continente, abitato da diversi popoli, con tradizioni e livelli di sviluppo molto differenti. E’ invece l’Unione Europea a “volere” e decidere, perché è un sistema tecnico-amministrativo – un “quasi Stato”, che controlla le leve del comando su una serie di materie in continuo aumento. Non sarebbe un problema così devastante se le decisioni che ci vengono presentate come “obiettive”, “necessarie”, “per il nostro benessere”, non fossero invece ispirate dagli interessi dominanti (“i mercati”, “le banche”, gli Stati più forti – la Germania, essenzialmente, con la Francia a qualche lunghezza di distanza).
Nel programma di France Insoumise il rapporto con l’Unione Europea viene ridefinito con un Plan A (messa in discussione di quasi tutti i trattati), anche sapendo che è praticamente impossibile modificare anche solo un trattato se c’è un paese contrario (le “regole europee” prevedono l’unanimità; ma tutti sanno che Germania, Olanda, ecc, non rinunceranno mai alla posizione di vantaggio acquisita).
La discussione viaggia insomma intorno al Plan B: rottura unilaterale o concertata tra diversi paesi rispetto alla “cordata tedesca”.
Il tema, a noi di Eurostop, sta molto a cuore, naturalmente. E dunque spieghiamo la condizione infame del dibattito italiano, in cui destra, governo e “sinistra” cercano di presentare la necessità della rottura come un atteggiamento “sovranista”, “nazionalista”, ecc. Al contrario, spieghiamo che secondo noi sarebbe di vitale importanza cominciare a ragionare e agire come “alleanza europea” dei movimenti popolari contro l’Unione Europea e i suoi tecnoburocrati. In fondo, diciamo, Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ma anche la Tunisia, presentano problemi e potenzialità comuni.Mélenchon prende al balzo l’idea e rilancia: “bisogna lavorare a un Forum da fare prima delle elezioni europee – giugno 2019 – coinvolgendo tutti i paesi possibili, anche Algeria e Marocco”. Dimostrare fisicamente, insomma, che il Plan B o “la rottura” costituiscono una prospettiva internazionalista e anticapitalista, che unisce i popoli d’Europa e del Mediterraneo contro l’Unione Europea della finanza e delle multinazionali.
Si continua. C’è la possibilità che Mélenchon scenda in Italia prima del 4 marzo, per far vedere subito come questa alleanza comincia a cambiare il quadro consolidato. Mélenchon spiega di voler andare a Napoli, non solo per la straordinaria partita iniziata dai compagni di Je so’ Pazzo (vuol vedere come funzionano le tante attività sociali che gli sono state descritte), ma per la particolarità politica attuale di una città che ai francesi è sempre apparsa come la “gemella di Marsiglia”.
Si finisce con le raccomandazioni del vecchio leone: “difendete Lula e la democrazia brasiliana da queste accuse vergognose, noi in Francia siamo gli unici a farlo” (è appena stato condannato in appello nel tentativo di bloccarne la rielezione a presidente, con i sondaggi che danno a lui la maggioranza assoluta e il golpista Temer al 7%). “E fate lo stesso con il Venezuela bolivariano, attaccato dai terroristi!”.
Gli diciamo che su questo sfonda una porta aperta, raccontando di iniziative, articoli, colloqui diretti.
E’ un inizio, certamente. Ma con grandi potenzialità.
Un tentativo che non può piacere all’establishment italiano, lo sappiamo e lo verifichiamo subito. Una troupe della Rai era entrata insieme a noi, fin nell’ufficio di Mélenchon. Ha fatto riprese, la giornalista Iman Sabbah ha fatto qualche domanda, chiedendo la classica “battuta” da inserire in un tg (lavora per RaiNews24, in particolare).
Ma nessuno, finora, ha potuto godersi il servizio. Si vede che il direttore (Antonio Di Bella) o chi per lui ha deciso che è meglio non parlare di Potere al Popolo. Soprattutto se in Europa viene preso sul serio...
Fonte
30/01/2018
Le mancate promesse dei tecnici
RAI Radio Uno – 26 gennaio 2018 – A proposito di annunci inverosimili dei partiti, c’è da ricordare che anche i tecnocrati a volte fanno promesse che non riescono poi a mantenere. Il governo Monti, per esempio, promise che con i sacrifici dell’austerity avremmo ridotto i tassi d’interesse e avremmo visto diminuire il debito. In realtà le cose sono andate all’opposto. A ben guardare, questa non è un’anomalia italiana. Numerose ricerche, realizzate persino da esponenti di vertice del FMI, rivelano che nel corso della storia gli episodi prevalenti di riduzione del debito pubblico non sono associati alle politiche di austerity ma sono collegati piuttosto a politiche “eretiche”, fondate su tassi d’interesse reali negativi e vere e proprie ristrutturazioni del debito. Giorgio Zanchini intervista l’ex ricercatore del FMI ed ex commisario alla spending review Carlo Cottarelli e l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio.
Piani USA per il Donbass: promesse di confetti e guerra aperta
Con ogni evidenza, pare che Kiev si stia preparando (quanto approvato alla Rada il 18 gennaio per il cosiddetto reintegro di Crimea e Donbass nella compagine ucraina sembra costituirne la sanzione “legale”) all’ennesima offensiva contro il Donbass. Già nei giorni scorsi il Ministro degli interni golpista, Pavel Avakov aveva dichiarato che la Guardia nazionale ucraina deve tenersi pronta a operare con la polizia in Donbass e Crimea, non appena quei territori “saranno liberati dall’occupazione”.
Per il momento, Kiev prosegue i cannoneggiamenti terroristici sulle città del Donbass. La scorsa notte, secondo informazioni dell’amministrazione rionale, le forze ucraine hanno bersagliato per tre ore di fila il rione Petrovskij di Donetsk, mentre per l’intera giornata di ieri avevano violato in più punti il cessate il fuoco.
Intanto, l’attenzione è concentrata sul dialogo Mosca-Washington a proposito dell’introduzione di “forze di pace ONU” nell’Ucraina sudorientale. Il rappresentante speciale USA, Kurt Volker, nel corso dell’incontro svoltosi il 26 gennaio a Dubai, avrebbe dichiarato al rappresentante presidenziale russo Vladislav Surkov che “la Russia non ha fatto nulla per risolvere il conflitto nel Donbass e ritirare le proprie forze”. L’agenzia Novorossija riferisce che Volker avrebbe dichiarato al canale “112 Ukraina” che “la bozza di risoluzione russa per lo schieramento di un contingente di pace nel Donbass, solo lungo la linea di conflitto, è inaccettabile per USA e ONU, poiché non garantisce la sicurezza, ma inasprisce il conflitto”. Secondo Volker, la proposta russa garantirebbe “solo la sicurezza degli osservatori OSCE, senza prevedere il controllo sui confini”, così che “continuerebbe il flusso ininterrotto di forze e armamenti russi in appoggio ai raggruppamenti marionetta, attraverso la frontiera internazionale”.
In sostanza, nei piani di Kiev, si tratterebbe di garantire, con la copertura internazionale, il controllo ucraino sulla frontiera russo-ucraina del Donbass. Delle dichiarazioni di Volker ha infatti immediatamente approfittato il GUR (l’intelligence militare) ucraino, per dichiarare, riferisce Ukrainskaja Pravda, che “gli occupanti continuano a “inviare nel Donbass le armi di cui si è impossessato l’esercito russo allorché ha annesso la Crimea”, seguendo “i due percorsi del mar d’Azov e del territorio russo”.
Di fatto, secondo le ultime dichiarazioni di Surkov, dopo l’incontro del 26 gennaio, il piano USA per il dislocamento di forze ONU in Donbass, parallelamente all’adempimento dei punti politici degli accordi di Minsk, sarebbe “pienamente realizzabile”, a differenza di quanto proposto un mese fa e nonostante il beneplacito statunitense alla legge ucraina sul “reintegro di Crimea e Donbass”.
Casualmente, osserva Novorossija, il giorno seguente l’incontro Volker-Surkov, l’amministrazione USA ha smentito il programma di un incontro Trump-Porošenko a Davos, inizialmente annunciato da Kiev. Inoltre, le secche dichiarazioni di Christine Lagard circa la “fine dei giochi e dei compromessi”, sembrano costringere Kiev a cercare crediti a Washington, adeguandosi ai piani USA di un eventuale riavvicinamento con Mosca.
D’altra parte, però, c’è chi vede, nelle ultime mosse del Cremlino, una relativa resa alle posizioni USA, con Washington che, sotto la copertura diplomatica, espande l’appoggio militare a Kiev. Secondo il politologo Eduard Popov, sentito da Svobodnaja Pressa, la “situazione in Donbass precipita velocemente verso la guerra” e le parole di “Surkov dimostrano il tentativo di tenere a galla la situazione secondo il principio del meglio un magro accordo che una buona lite”.
Per la verità, continua Popov, “dal punto di vista puramente giuridico, sorprende che gli USA, che non sono tra i garanti degli accordi di Minsk e per di più forniscono apertamente armi al regime criminale di Kiev, partecipino ai negoziati come parte arbitrale. Gli Stati Uniti (insieme a Germania, Polonia e UE) sono i principali promotori del golpe in Ucraina e parte attiva del conflitto in Donbass, armando e istruendo esercito e battaglioni nazisti e partecipando direttamente agli scontri, insieme a militari canadesi e di altri paesi”.
Tra l’altro, è di queste ore la dichiarazione dell’ambasciatrice britannica a Kiev, Judith Gough, riportata dall’agenzia Xinhua, secondo cui oltre settemila militari ucraini hanno partecipato finora all’operazione “Orbital”, il programma di addestramento del Regno Unito per le truppe ucraine.
E’ così che Washington, conclude Popov, maschera con “piccoli e apparenti passi diplomatici” la reale fornitura di armi letali a Kiev.
Più diretto il giornalista Anatolij Baranov, secondo cui “qualunque missione ONU in Ucraina orientale è una resa di posizioni” e, più che di un “cambio di posizioni da parte di Volker rispetto al vertice di Belgrado”, si dovrebbe “parlare di un cambio di posizione da parte di Surkov”, così che si dovrebbe chiedere al “diretto superiore di Surkov (Putin), se sia soddisfatto del suo lavoro riguardo al Donbass”.
Surkov, continua Baranov, afferma che le posizioni di Mosca e Washington coincidono sui problemi umanitari nel Donbass che, però, “non sono quelli di nuovi punti di accesso o della rete wi-fi, ma di assicurare prodotti alimentari, far fronte alla carenza di insulina, antibiotici, medicina specialistica o materiali didattici”. E, di questi, a Dubai pare non si sia parlato.
Ed è ancora Svobodnaja Pressa che scrive del piano della famigerata USAID, reso pubblico lo scorso 18 gennaio – guarda caso, in contemporanea con l’adozione alla Rada della “legge sul reintegro” – per l’integrazione del Donbass nell’economia ucraina e UE. L’esecuzione del piano è affidata, come d’uso, a un “appaltatore”, che deve tessere “i legami tra le imprese del Donbass e i mercati ucraino, europeo e mondiale”, attraverso investimenti, anche nelle infrastrutture civili, nella “riqualificazione di tecnici e operai, in collaborazione con istituti superiori e tecnici”, per mettere a punto nuovi programmi di istruzione, ligi agli obiettivi del mercato mondiale. Il tutto, “per legare il Donbass a Kiev e sganciarlo dalla Russia”, nell’ambito del piano più generale USAID 2018-2023 per l’Ucraina, che prevede il ritorno del controllo ucraino sul Donbass anche per via militare, “nel qual caso edifici civili e amministrativi, ospedali e altro saranno notevolmente danneggiati”.
A parere del politologo ucraino Mikhail Pogrebinskij, la linea USA per privare il Donbass del sostegno russo e raggiungere il pieno controllo ucraino, prevede alcuni “confetti”: ad esempio, gli investimenti nelle imprese del Donbass. Inoltre, il piano USAID, si inquadra pienamente negli ultimatum lanciati da FMI e USA a Kiev, tra l’altro, circa la riforma pensionistica e il cosiddetto “tribunale anticorruzione”, nell’ambito del programma EFF (Extended Fund Facility Arrangement), a proposito del quale Washington sembra minacciare Kiev di perdere le garanzie della Banca Mondiale sul credito di 800 milioni di dollari.
Addirittura, a parere del consigliere presidenziale russo, Bogdan Bezpalko, il piano USAID, che non indica concretamente l’ammontare degli aiuti per la ricostruzione del Donbass, né il soggetto diretto incaricato della questione, appare con ogni evidenza una spinta ad allargare il conflitto, anche premendo psicologicamente sugli abitanti del Donbass, stremati da quattro anni di guerra e quasi a voler dire a Kiev: attaccate, combattete e non abbiate remore a distruggere tutto, che tanto poi, noi, istituiamo un piccolo “Piano Marshall” per il Donbass e ricostruiremo.
Sembra che la riposta delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk a tale piano USA debba seguire l’adagio africano: una volta cacciata la volpe, ci prenderemo poi cura delle galline morte.
Fonte
Per il momento, Kiev prosegue i cannoneggiamenti terroristici sulle città del Donbass. La scorsa notte, secondo informazioni dell’amministrazione rionale, le forze ucraine hanno bersagliato per tre ore di fila il rione Petrovskij di Donetsk, mentre per l’intera giornata di ieri avevano violato in più punti il cessate il fuoco.
Intanto, l’attenzione è concentrata sul dialogo Mosca-Washington a proposito dell’introduzione di “forze di pace ONU” nell’Ucraina sudorientale. Il rappresentante speciale USA, Kurt Volker, nel corso dell’incontro svoltosi il 26 gennaio a Dubai, avrebbe dichiarato al rappresentante presidenziale russo Vladislav Surkov che “la Russia non ha fatto nulla per risolvere il conflitto nel Donbass e ritirare le proprie forze”. L’agenzia Novorossija riferisce che Volker avrebbe dichiarato al canale “112 Ukraina” che “la bozza di risoluzione russa per lo schieramento di un contingente di pace nel Donbass, solo lungo la linea di conflitto, è inaccettabile per USA e ONU, poiché non garantisce la sicurezza, ma inasprisce il conflitto”. Secondo Volker, la proposta russa garantirebbe “solo la sicurezza degli osservatori OSCE, senza prevedere il controllo sui confini”, così che “continuerebbe il flusso ininterrotto di forze e armamenti russi in appoggio ai raggruppamenti marionetta, attraverso la frontiera internazionale”.
In sostanza, nei piani di Kiev, si tratterebbe di garantire, con la copertura internazionale, il controllo ucraino sulla frontiera russo-ucraina del Donbass. Delle dichiarazioni di Volker ha infatti immediatamente approfittato il GUR (l’intelligence militare) ucraino, per dichiarare, riferisce Ukrainskaja Pravda, che “gli occupanti continuano a “inviare nel Donbass le armi di cui si è impossessato l’esercito russo allorché ha annesso la Crimea”, seguendo “i due percorsi del mar d’Azov e del territorio russo”.
Di fatto, secondo le ultime dichiarazioni di Surkov, dopo l’incontro del 26 gennaio, il piano USA per il dislocamento di forze ONU in Donbass, parallelamente all’adempimento dei punti politici degli accordi di Minsk, sarebbe “pienamente realizzabile”, a differenza di quanto proposto un mese fa e nonostante il beneplacito statunitense alla legge ucraina sul “reintegro di Crimea e Donbass”.
Casualmente, osserva Novorossija, il giorno seguente l’incontro Volker-Surkov, l’amministrazione USA ha smentito il programma di un incontro Trump-Porošenko a Davos, inizialmente annunciato da Kiev. Inoltre, le secche dichiarazioni di Christine Lagard circa la “fine dei giochi e dei compromessi”, sembrano costringere Kiev a cercare crediti a Washington, adeguandosi ai piani USA di un eventuale riavvicinamento con Mosca.
D’altra parte, però, c’è chi vede, nelle ultime mosse del Cremlino, una relativa resa alle posizioni USA, con Washington che, sotto la copertura diplomatica, espande l’appoggio militare a Kiev. Secondo il politologo Eduard Popov, sentito da Svobodnaja Pressa, la “situazione in Donbass precipita velocemente verso la guerra” e le parole di “Surkov dimostrano il tentativo di tenere a galla la situazione secondo il principio del meglio un magro accordo che una buona lite”.
Per la verità, continua Popov, “dal punto di vista puramente giuridico, sorprende che gli USA, che non sono tra i garanti degli accordi di Minsk e per di più forniscono apertamente armi al regime criminale di Kiev, partecipino ai negoziati come parte arbitrale. Gli Stati Uniti (insieme a Germania, Polonia e UE) sono i principali promotori del golpe in Ucraina e parte attiva del conflitto in Donbass, armando e istruendo esercito e battaglioni nazisti e partecipando direttamente agli scontri, insieme a militari canadesi e di altri paesi”.
Tra l’altro, è di queste ore la dichiarazione dell’ambasciatrice britannica a Kiev, Judith Gough, riportata dall’agenzia Xinhua, secondo cui oltre settemila militari ucraini hanno partecipato finora all’operazione “Orbital”, il programma di addestramento del Regno Unito per le truppe ucraine.
E’ così che Washington, conclude Popov, maschera con “piccoli e apparenti passi diplomatici” la reale fornitura di armi letali a Kiev.
Più diretto il giornalista Anatolij Baranov, secondo cui “qualunque missione ONU in Ucraina orientale è una resa di posizioni” e, più che di un “cambio di posizioni da parte di Volker rispetto al vertice di Belgrado”, si dovrebbe “parlare di un cambio di posizione da parte di Surkov”, così che si dovrebbe chiedere al “diretto superiore di Surkov (Putin), se sia soddisfatto del suo lavoro riguardo al Donbass”.
Surkov, continua Baranov, afferma che le posizioni di Mosca e Washington coincidono sui problemi umanitari nel Donbass che, però, “non sono quelli di nuovi punti di accesso o della rete wi-fi, ma di assicurare prodotti alimentari, far fronte alla carenza di insulina, antibiotici, medicina specialistica o materiali didattici”. E, di questi, a Dubai pare non si sia parlato.
Ed è ancora Svobodnaja Pressa che scrive del piano della famigerata USAID, reso pubblico lo scorso 18 gennaio – guarda caso, in contemporanea con l’adozione alla Rada della “legge sul reintegro” – per l’integrazione del Donbass nell’economia ucraina e UE. L’esecuzione del piano è affidata, come d’uso, a un “appaltatore”, che deve tessere “i legami tra le imprese del Donbass e i mercati ucraino, europeo e mondiale”, attraverso investimenti, anche nelle infrastrutture civili, nella “riqualificazione di tecnici e operai, in collaborazione con istituti superiori e tecnici”, per mettere a punto nuovi programmi di istruzione, ligi agli obiettivi del mercato mondiale. Il tutto, “per legare il Donbass a Kiev e sganciarlo dalla Russia”, nell’ambito del piano più generale USAID 2018-2023 per l’Ucraina, che prevede il ritorno del controllo ucraino sul Donbass anche per via militare, “nel qual caso edifici civili e amministrativi, ospedali e altro saranno notevolmente danneggiati”.
A parere del politologo ucraino Mikhail Pogrebinskij, la linea USA per privare il Donbass del sostegno russo e raggiungere il pieno controllo ucraino, prevede alcuni “confetti”: ad esempio, gli investimenti nelle imprese del Donbass. Inoltre, il piano USAID, si inquadra pienamente negli ultimatum lanciati da FMI e USA a Kiev, tra l’altro, circa la riforma pensionistica e il cosiddetto “tribunale anticorruzione”, nell’ambito del programma EFF (Extended Fund Facility Arrangement), a proposito del quale Washington sembra minacciare Kiev di perdere le garanzie della Banca Mondiale sul credito di 800 milioni di dollari.
Addirittura, a parere del consigliere presidenziale russo, Bogdan Bezpalko, il piano USAID, che non indica concretamente l’ammontare degli aiuti per la ricostruzione del Donbass, né il soggetto diretto incaricato della questione, appare con ogni evidenza una spinta ad allargare il conflitto, anche premendo psicologicamente sugli abitanti del Donbass, stremati da quattro anni di guerra e quasi a voler dire a Kiev: attaccate, combattete e non abbiate remore a distruggere tutto, che tanto poi, noi, istituiamo un piccolo “Piano Marshall” per il Donbass e ricostruiremo.
Sembra che la riposta delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk a tale piano USA debba seguire l’adagio africano: una volta cacciata la volpe, ci prenderemo poi cura delle galline morte.
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“Quanti morti devono esserci per una accoglienza razionale e dignitosa”?
C’è differenza tra le vittime del treno deragliato a Pioltello, gli operai della Lamina di Milano, i braccianti delle nostre campagne e gli “abitanti” di una qualsiasi baraccopoli? No, non c’è differenza!
Sono lavoratori, italiani e immigrati che muoiono o sul posto di lavoro come Marco, Giuseppe e Arrigo, mentre pulivano un forno in una fabbrica metalmeccanica o come Paola morta mentre raccoglieva uva ad Andria o Mohamed e Zakaria, morti mentre raccoglievano pomodori.
Sono lavoratori che muoiono mentre vanno al lavoro o dal lavoro tornano, chi in un treno che deraglia, come Pierangela, Giuseppina e Ida, chi investito da un’auto sulla statale 18 in Calabria, mentre fa ritorno a casa con la sua bicicletta come John, Kadjali e Mimmo, che anche se era africano, insisteva sul voler essere chiamato così perché “era nato a Milano” e da lì era finito a raccogliere arance e mandarini nelle campagne del sud Italia.
Poi ci sono quelli come Sekine, che muoiono per un colpo di pistola sparato da un pubblico ufficiale che dovrebbe essere capace di disarmare una persona che ha un coltello da cucina in mano senza sparagli addosso.
E poi ci sono quelle e quelli che muoiono per il freddo, direttamente come Dominic, morto di freddo perché non aveva trovato posto nella tendopoli, o Marcus che si ammalò di polmonite perché dormiva in una baracca abbandonata in mezzo alla campagna o indirettamente, perché dal freddo cercava di proteggersi con il fuoco in una capanna di plastica e cartone, come Becky, morta carbonizzata la scorsa notte.
Minimo comune denominatore: diritti e sicurezza sul lavoro presi a colpi di ascia, insensate politiche di accoglienza.
E intanto, mentre gli ultimi continuano a morire, si affrontano come emergenze situazioni che emergenze non sono più ma vere e proprie cancrene, visto che sono sempre le stesse e non vengono risolte o per manifesta incapacità o per mancanza di volontà.
Sono anni che si spendono milioni di euro per montare tendopoli per poi abbandonarle a sé stesse e quando si montano le tendopoli, si fa il lavoro a tre quarti se non a metà, visto che molti erano stati costretti a vivere nelle baracche di plastica e cartone.
Eppure i fatti di Rosarno dovrebbero aver insegnato qualcosa: evitare grossi insediamenti di persone come le tendopoli, non fare sgomberi.
Quanti morti bisogna ancora aspettare prima di avviare efficaci e razionali interventi di accoglienza?
Fonte
Sono lavoratori, italiani e immigrati che muoiono o sul posto di lavoro come Marco, Giuseppe e Arrigo, mentre pulivano un forno in una fabbrica metalmeccanica o come Paola morta mentre raccoglieva uva ad Andria o Mohamed e Zakaria, morti mentre raccoglievano pomodori.
Sono lavoratori che muoiono mentre vanno al lavoro o dal lavoro tornano, chi in un treno che deraglia, come Pierangela, Giuseppina e Ida, chi investito da un’auto sulla statale 18 in Calabria, mentre fa ritorno a casa con la sua bicicletta come John, Kadjali e Mimmo, che anche se era africano, insisteva sul voler essere chiamato così perché “era nato a Milano” e da lì era finito a raccogliere arance e mandarini nelle campagne del sud Italia.
Poi ci sono quelli come Sekine, che muoiono per un colpo di pistola sparato da un pubblico ufficiale che dovrebbe essere capace di disarmare una persona che ha un coltello da cucina in mano senza sparagli addosso.
E poi ci sono quelle e quelli che muoiono per il freddo, direttamente come Dominic, morto di freddo perché non aveva trovato posto nella tendopoli, o Marcus che si ammalò di polmonite perché dormiva in una baracca abbandonata in mezzo alla campagna o indirettamente, perché dal freddo cercava di proteggersi con il fuoco in una capanna di plastica e cartone, come Becky, morta carbonizzata la scorsa notte.
Minimo comune denominatore: diritti e sicurezza sul lavoro presi a colpi di ascia, insensate politiche di accoglienza.
E intanto, mentre gli ultimi continuano a morire, si affrontano come emergenze situazioni che emergenze non sono più ma vere e proprie cancrene, visto che sono sempre le stesse e non vengono risolte o per manifesta incapacità o per mancanza di volontà.
Sono anni che si spendono milioni di euro per montare tendopoli per poi abbandonarle a sé stesse e quando si montano le tendopoli, si fa il lavoro a tre quarti se non a metà, visto che molti erano stati costretti a vivere nelle baracche di plastica e cartone.
Eppure i fatti di Rosarno dovrebbero aver insegnato qualcosa: evitare grossi insediamenti di persone come le tendopoli, non fare sgomberi.
Quanti morti bisogna ancora aspettare prima di avviare efficaci e razionali interventi di accoglienza?
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