Sabato prossimo, 2 dicembre, la Piattaforma Eurostop riunirà la sua assemblea nazionale, convocata già da quella precedente del 2 luglio scorso, per discutere sulla valutazione delle mobilitazioni del 10 ed 11 Novembre, lo sviluppo della situazione politica e la gestione della fase elettorale.
Con tutta evidenza gran parte dell’attenzione si va concentrando sull’ultimo punto, oggetto della accelerazione imposta dai compagni di Napoli e dall’assemblea al Teatro Italia del 18 novembre sulla proposta di una lista popolare alle prossime elezioni. Intervenendo in quella assemblea e in quelle territoriali che si stanno svolgendo in molte città, i compagni di Eurostop hanno chiarito due questioni fondamentali: sul cosa fare deciderà l’assemblea nazionale degli aderenti di sabato prossimo e la questione della rottura della gabbia dell’Unione Europea e della Nato è un punto dirimente.
Più volte abbiamo segnalato come l’arrivo di una scadenza elettorale provochi in giro una fibrillazione che troppo spesso rimuove sia i problemi politici di fondo che quelli materiali. Per alcuni, le elezioni – e il loro risultato – sono un certificato di esistenza in vita senza il quale non c’è soggettività e funzione politica che tenga. Per altri le elezioni sono un falso problema che merita una risposta meramente astensionista perché a fare la differenza nei rapporti di forza sono solo le lotte sociali.
Sparisce così il contesto politico, le sue contraddizioni, le sue accelerazioni e le sue possibilità di esercitare una funzione concreta che sposti un po’ più in avanti le possibilità di ricomposizione di un blocco di interessi “di classe” e del conflitto politico e sociale che ne sia l’esercizio materiale nei rapporti di forza.
La letterina della Commissione Europea al governo italiano, ad esempio, ci dice chiaramente che per le classi dominanti e il dispotismo tecnocratico europeo, non è affatto importante chi vincerà le elezioni, è importante solo che, chiunque governerà, applichi i diktat della Troika sul pareggio di bilancio, le privatizzazioni, lo smantellamento del welfare e dei diritti dei lavoratori, punto. Non è un dettaglio. Questo definisce il quadro dentro cui oggi viene ancora tollerata la funzione della “politica”. Lo ha spiegato chiaramente il “crudo” editoriale del Corriere della Sera di una settimana fa dando voce a quello che si pensa e si attua a livello di gerarchia di comando europea.
Il fallimento dell’esperienza di Tsipras e Syriza in Grecia – con il tradimento del coraggioso Oxi della popolazione nel referendum – ha messo fine ad ogni velleità di condizionamento dell’apparato di comando nell’Unione Europea. Figuriamoci quanto sia possibile poi “condizionare” la Nato o il testosterone dei militaristi “de noantri” eccitati dall’idea di un Esercito Europeo. Quindi ogni ipotesi di riforma, miglioramento, democratizzazione verso questo apparato diventa impraticabile e fuorviante. Un significativo cambiamento prevede dunque una radicale rottura con gli apparati della governance europea e delle regole che hanno imposto.
Nasce da questo la necessità di operare e di far circolare a livello popolare il percorso della “rottura” con questi apparati – Ue/euro e Nato – come fattore di sopravvivenza sociale e di ripristino della sovranità popolare e democratica sulle sorti di un paese (sancite tra l’altro da una Costituzione perennemente sotto attacco o inattuata).
Diventa importante, anzi decisivo, far entrare in campo il “come” praticare questa rottura. Solo per fare un piccolo e parziale esempio, la richiesta dei referendum sui Trattati Europei e internazionali (es: la Nato o il Fiscal Compact), entra immediatamente in rotta di collisione sia con chi vuole escludere “il popolo” dalle decisioni che lo riguardano e ne determinano le condizioni materiali, sia con chi ha agitato la questione (Lega, M5S) ma l’ha abbandonata perché cooptato nelle regole del gioco dei poteri forti.
In secondo luogo occorre indicare che quello che le classi dominanti hanno costruito sull’Europa – l’Unione Europea – non è affatto l’unico orizzonte o scenario di integrazione regionale possibile, soprattutto tra i paesi del Mediterraneo nord e del Mediterraneo sud alle prese, ad esempio, con la comune e devastante questione sia dell’immigrazione (verso l’Europa) che dell’emigrazione (dai paesi euromediterranei verso quelli del nord).
Dunque questo approccio e percorso di “rottura”, al momento è completamente assente dal panorama politico del paese. Ma abbiamo verificato che troppo spesso è assente anche nell’analisi e nei programmi di molte anime della sinistra esistente che ha rinunciato ad indicare qualsiasi modello alternativo di società. Anzi, la “sinistra” esistente ne è un ostacolo pervicace, fino ad essere percepita a livello di massa come parte del problema e non della soluzione. La Piattaforma Eurostop è nata proprio per non fare più sconti a questa sinistra o per accettarne il perimetro come unico spazio politico possibile.
La proposta dei compagni napoletani di “Je so pazzo”, sul piano dei contenuti non nasce all’origine con la stessa sintonia della Piattaforma Eurostop sulla questione europea, ma ha colto bene la contraddizione tra esigenze popolari disattese e divise, con la loro entrata in campo autonoma nella “politica”, indicandone le potenzialità, soprattutto tra chi ha meno di trent’anni (e non porta dunque le stimmate delle sconfitte del passato ma solo la rabbia sul presente) e tra chi da anni si è ritirato in una “militanza a chilometro zero” su un terreno specifico (ambientale, sociale, sindacale, solidale etc.) rinunciando alla “politica” perché ne ha completamente disatteso le aspettative, il radicamento sociale, le possibilità di risultati concreti.
Eppure nelle assemblee che si stanno facendo in giro per l’Italia su questa proposta di lista elettorale si respira un clima più positivo che tre, quattro o cinque anni fa non era affatto visibile. Non sono tanto o non solo gli argomenti più o meno convincenti, ma è la realtà che modifica radicalmente i comportamenti e costringe a fare cose diverse anche chi non le ha voluto fare fino a ieri. Come abbiamo scritto nei giorni scorsi, il problema non è tra vecchio e nuovo, il problema è evitare che il “morto afferri il vivo”.
Se non si coglie la dinamica della realtà – ma ci si limita a fotografare l’immobilità del presente e del passato –, se non si colgono le potenzialità che possono esprimersi in settori sociali diversi da quelli perimetrati e conosciuti fino ad ora, il rischio è quello di non cercare di cogliere gli squarci che si aprono in uno scenario che il nemico di classe vorrebbe blindato, esclusivo, inamovibile. Evocare nuovamente e praticare la rottura del quadro esistente sulla base di interessi popolari e di classe definiti, è il presupposto per qualsiasi ipotesi di cambiamento, indipendentemente dalle elezioni e dal loro risultato. Hic rhodus hic salta!
Fonte
30/11/2017
Il Pil non è roba da ricchi
Civil Servant richiama la nostra attenzione sul fatto che la maggior parte degli introiti dei super-ricchi, che vivono dei proventi del proprio patrimonio, non entrano nel Pil. Partendo dalla considerazione che negli ultimi due decenni la ricchezza del pianeta è aumenta a ritmi circa 3 volte superiori a quelli del Pil, Civil Servant sostiene che ciò ha indubbiamente contribuito ad allargare la forbice tra ricchi e poveri, e probabilmente ha anche declassato il Pil a misura del tenore di vita di una parte soltanto della società, i meno abbienti.
da https://www.eticaeconomia.it
Recentemente Maurizio Franzini ci ha ricordato su questa rivista che Jeff Bezos, patron di Amazon, dichiara al fisco americano solo 81.000 dollari l’anno pur essendo tra gli uomini più ricchi della terra, e si è chiesto se non stiamo entrando nell’era di un capitalismo senza profitti. In effetti, se chiedete ad uno statistico esperto di contabilità nazionale quanto Pil produce Bezos, vi risponderà senza indugio che il nostro contribuisce alla ricchezza creata ogni anno negli USA solo per quei miseri 68.500 euro, meno del salario di parecchi colletti bianchi. Tutto il resto gli deriva da operazioni che non incidono sul Pil, se non marginalmente. I contabili nazionali, infatti, sono ancora affezionati ad un piccolo mondo antico in cui operai ed impiegati percepivano un salario e gli imprenditori incassavano solo profitti, rendite e dividendi. E queste forme di reddito si dividevano, più o meno ingiustamente, tutto il “valore aggiunto” creato ogni anno dall’economia.
La realtà è un po’ diversa: oggi chi è veramente ricco non conosce buste paga e cedole da staccare, ma si “accontenta” di beneficiare dell’aumento di valore della propria ricchezza, prevalentemente attraverso i cosiddetti guadagni di capitale. Può farlo vendendo titoli per realizzare i progressi rispetto al valore di acquisto, oppure utilizzando i propri asset come garanzia per prestiti a condizioni stracciate. Se proprio non se la sente di mettere sul mercato la propria ricchezza, allora carica su qualche società di sua proprietà le spese per il sostentamento della sua famiglia, come gli 1,6 milioni di dollari che servono a garantire la sicurezza personale di Bezos. Tutte queste cose, però, i contabili nazionali non le vedono: considerano semplici variazioni della ricchezza “non prodotte” i guadagni di capitale e classificano tra i consumi intermedi, che addirittura vanno in detrazione del Pil, quasi tutte le spese di una società a favore di azionisti, manager e altri stakeholdes. Per chi ha seri problemi di insonnia, tutti questi aspetti sono descritti minuziosamente nel System of National Accounts 2008, un agile opuscolo di appena 722 pagine che dedica tutto il dodicesimo capitolo (una ventina di facciate) ai modi in cui il patrimonio può aumentare senza che il Pil se ne accorga, con decine di eccezioni e deroghe.
Ligi ai precetti del SNA 2008, o forse perché distratti dal laborioso calcolo del valore aggiunto prodotto da prostitute, ricettatori e contrabbandieri (solo di droga e sigarette... ma non di armi ed esseri umani), i contabili nazionali dimenticano di calcolare gli introiti dei veri ricchi. Per loro uno dei pochi indizi che costoro esistano è dato dai loro consumi e investimenti che attivano flussi di produzione, salari e profitti. Peccato che questi flussi di denaro possano dirigersi verso paesi molto lontani dalla residenza dei nostri amici, contribuendo addirittura ad un aumento delle importazioni che va a scapito del Pil locale. Comunque c’è solo da aspettare: fino alla caduta del muro di Berlino gli statistici del blocco sovietico misuravano solo il “Prodotto materiale”, escludendo quasi tutto il valore aggiunto creato dai servizi pubblici e privati (ossia oltre il 70% del Pil). Quindi si spera che tra qualche decennio anche i nostri contabili metteranno il naso nelle transazioni finanziarie. Nel frattempo, solo per un puro accidente, in tutto il mondo il fisco si dimostra sempre più indulgente nei riguardi dei guadagni di capitale e del “semplice” possesso della ricchezza. Anche in paesi piuttosto avanzati si assiste anzi ad una nobile gara a garantire il migliore trattamento fiscale a coloro che campano in questo modo, mentre ci si accanisce inesorabilmente sui salariati, i lavoratori indipendenti e gli imprenditori tradizionali che si limitano a produrre il Pil.
A dire il vero, questo stile di vita Pil-free non è affatto nuovo. Da diversi millenni sovrani e governi campano allegramente coniando monete ed emettendo titoli del debito pubblico che non entrano nel computo del valore aggiunto, ma solo in quello della ricchezza. Si chiamava signoraggio e qualche decennio fa alcuni stati europei vi hanno sdegnosamente rinunciato condividendo una valuta comune emessa da una banca centrale che, per statuto, può spendere liberamente solo pochi spicci dei suoi guadagni potenziali per acquistare beni e servizi sul mercato e per remunerare funzionari strapagati e sedi principesche. Viene quasi nostalgia dei vecchi sovrani che, quando non finanziavano guerre, approfittavano del signoraggio per sovvenzionare artisti, opere pubbliche e concubine.
Da qualche secolo i sovrani sono stati imitati dalle banche che, entro certi limiti, piazzano sul mercato titoli che corrispondono solo in parte a beni reali, come hanno imparato a proprie spese parecchi risparmiatori americani e, più recentemente, del Veneto e della Toscana. Si chiama creazione di moneta bancaria ed è essenziale per far lavorare quelli che producono il Pil. Ogni tanto qualcuno esagera con la creatività e lascia il suo nome negli schedari giudiziari e, se è fortunato, anche nei libri di economia, come il signor Carlo Pietro Giovanni Guglielmo Teobaldo Ponzi, da Lugo di Romagna. In fondo tutti questi signori vendono un bene del tutto immateriale che si chiama fiducia, se la fiducia svanisce anche la ricchezza che creano o intermediano si annulla. Le criptovalute, come il Bitcoin di cui si è occupato un numero monografico di questo Menabò, rappresentano un caso estremo di totale separazione tra creazione di ricchezza e generazione di Pil basato sulla compravendita della fiducia. I Bitcoin non sono altro che sequenze di bit riconosciute “valide” da un algoritmo molto sofisticato. Chi ha le sequenze giuste può tesaurizzarle o spenderle anche per acquistare qualche pezzo di Pil. L’aspetto più interessante ed inquietante delle criptovalute è la loro accumulazione. A differenza delle monete tradizionali, non sono ottenute come contropartita di beni, servizi e lavoro che fanno Pil, ma attraverso una attività che si chiama “mining” (ovvero scavo in miniera) e consiste sostanzialmente nella generazione a caso di sequenze di bit da sottoporre all’algoritmo validatore. E’ come cercare un ago in un pagliaio, solo che non si viene remunerati né per l’accumulo di fieno, né per la fabbricazione dell’ago, che entrerebbero entrambi nel Pil tradizionale. Anzi, diventerà immensamente ricco chi troverà il modo di procurarsi Bitcoin bruciando (metaforicamente?) il pagliaio della rete per cercare meglio l’ago nella cenere. Deve essere per questo che il governo cinese ha proibito l’uso delle criptovalute, salvo prepararsi ad introdurne una tutta sua.
La vera novità degli ultimi decenni è che il patrimonio di coloro che vivono prevalentemente della propria ricchezza è cresciuto a dismisura in tutto il mondo. Probabilmente non è aumentato troppo il numero dei soci di questo esclusivo club, ma c’è stato parecchio ricambio tra di loro e soprattutto si sono moltiplicati i modi in cui un patrimonio può essere sfruttato senza intaccarlo troppo. Pensiamo alla vicenda delle dot-com quotate sul NASDAQ, che accumulavano solo perdite vertiginose eppure vedevano le proprie azioni crescere di valore a ritmi esponenziali. Chi deteneva quelle azioni poteva guadagnarci speculando al rialzo (come negli ultimi anni novanta e prima dello scoppio della bolla nel 2000), ma anche al ribasso (come nel pieno della Grande Recessione). In questo gioco, infatti, non conta troppo se la Borsa sale o scende perché guadagna chi riesce ad anticipare o a determinare i movimenti futuri del mercato. Insomma basta molta volatilità, parecchia abilità, un pizzico di fortuna, e tanto insider trading e aggiotaggio per campare di rendita. Per tornare al nostro amico Jeff Bezos, le azioni della sua Amazon (che opera in un settore così tradizionale che prosperava persino nel vecchio West) sono passate da 107 a 7 dollari l’una alla fine anni novanta per poi risalire a 950 dollari. Si suppone, tuttavia, che gli introiti del buon Jeff non abbiano subito un tracollo neanche nel 2000-2001. Naturalmente non tutti sono stati così fortunati: per esempio oggi nessuno si ricorda più di colossi come Netscape, fagocitati da altre dot-com, e delle migliaia di startup fallite... a parte la startup Autopsy che ha costruito un archivio/cimitero per le colleghe scomparse. Hanno perso di più tutti quei risparmiatori che hanno sperperato salari e profitti, frutto del loro duro lavoro di produzione del Pil, in speculazioni sbagliate o semplicemente in qualche fondo pensioni. Insomma vivere senza contribuire al Pil è un privilegio riservato a pochi. Perché è vero che i guadagni di capitale non fanno Pil, ma ci vuole parecchio Pil per trasformarli in beni e servizi.
In attesa che il fisco e gli statistici si accorgano di tutto questo, non disponiamo di dati sul tenore di vita dei Pil-free e anche quelli sulla ricchezza complessiva sono scarsi e poco omogenei. Per ora, solo Credit Suisse pubblica ogni anno un pregevole volume sulla ricchezza globale, mettendo insieme le poche informazioni disponibili. L’ultima edizione del Rapporto, uscita pochi giorni fa, ci informa che tra il 2000 e il 2017 la ricchezza globale, a prezzi e cambi correnti, è aumentata in media di quasi il 6% l’anno. Nel frattempo, il Pil misurato secondo analoghi criteri dalla Banca Mondiale è cresciuto solo del 2,2% l’anno. Se immaginiamo che anche il patrimonio dei Pil-free sia aumentato in linea con quello dei comuni mortali (e si tratta certamente di una stima per difetto), questo significa che negli ultimi 17 anni chi viveva di Pil ha perso quasi il 3% l’anno rispetto a chi poteva contare solo sui proventi della propria ricchezza, perfino ipotizzando che il rendimento delle attività reali e finanziarie sia diminuito costantemente del 1% l’anno (e anche questa è un’ipotesi estremamente pessimistica sui super-ricchi). Se questi sono i fatti, non è difficile capire perché si vada allargando la forbice tra ricchi e poveri. Ma questi dati fanno anche sospettare che la Grande Recessione e la modesta ripresa del Pil siano tutti fenomeni che hanno interessato chi lavora e fa impresa tradizionale, ma non i nuovi rentier, alla faccia di Keynes che ne auspicava l’eutanasia.
Fonte
da https://www.eticaeconomia.it
Recentemente Maurizio Franzini ci ha ricordato su questa rivista che Jeff Bezos, patron di Amazon, dichiara al fisco americano solo 81.000 dollari l’anno pur essendo tra gli uomini più ricchi della terra, e si è chiesto se non stiamo entrando nell’era di un capitalismo senza profitti. In effetti, se chiedete ad uno statistico esperto di contabilità nazionale quanto Pil produce Bezos, vi risponderà senza indugio che il nostro contribuisce alla ricchezza creata ogni anno negli USA solo per quei miseri 68.500 euro, meno del salario di parecchi colletti bianchi. Tutto il resto gli deriva da operazioni che non incidono sul Pil, se non marginalmente. I contabili nazionali, infatti, sono ancora affezionati ad un piccolo mondo antico in cui operai ed impiegati percepivano un salario e gli imprenditori incassavano solo profitti, rendite e dividendi. E queste forme di reddito si dividevano, più o meno ingiustamente, tutto il “valore aggiunto” creato ogni anno dall’economia.
La realtà è un po’ diversa: oggi chi è veramente ricco non conosce buste paga e cedole da staccare, ma si “accontenta” di beneficiare dell’aumento di valore della propria ricchezza, prevalentemente attraverso i cosiddetti guadagni di capitale. Può farlo vendendo titoli per realizzare i progressi rispetto al valore di acquisto, oppure utilizzando i propri asset come garanzia per prestiti a condizioni stracciate. Se proprio non se la sente di mettere sul mercato la propria ricchezza, allora carica su qualche società di sua proprietà le spese per il sostentamento della sua famiglia, come gli 1,6 milioni di dollari che servono a garantire la sicurezza personale di Bezos. Tutte queste cose, però, i contabili nazionali non le vedono: considerano semplici variazioni della ricchezza “non prodotte” i guadagni di capitale e classificano tra i consumi intermedi, che addirittura vanno in detrazione del Pil, quasi tutte le spese di una società a favore di azionisti, manager e altri stakeholdes. Per chi ha seri problemi di insonnia, tutti questi aspetti sono descritti minuziosamente nel System of National Accounts 2008, un agile opuscolo di appena 722 pagine che dedica tutto il dodicesimo capitolo (una ventina di facciate) ai modi in cui il patrimonio può aumentare senza che il Pil se ne accorga, con decine di eccezioni e deroghe.
Ligi ai precetti del SNA 2008, o forse perché distratti dal laborioso calcolo del valore aggiunto prodotto da prostitute, ricettatori e contrabbandieri (solo di droga e sigarette... ma non di armi ed esseri umani), i contabili nazionali dimenticano di calcolare gli introiti dei veri ricchi. Per loro uno dei pochi indizi che costoro esistano è dato dai loro consumi e investimenti che attivano flussi di produzione, salari e profitti. Peccato che questi flussi di denaro possano dirigersi verso paesi molto lontani dalla residenza dei nostri amici, contribuendo addirittura ad un aumento delle importazioni che va a scapito del Pil locale. Comunque c’è solo da aspettare: fino alla caduta del muro di Berlino gli statistici del blocco sovietico misuravano solo il “Prodotto materiale”, escludendo quasi tutto il valore aggiunto creato dai servizi pubblici e privati (ossia oltre il 70% del Pil). Quindi si spera che tra qualche decennio anche i nostri contabili metteranno il naso nelle transazioni finanziarie. Nel frattempo, solo per un puro accidente, in tutto il mondo il fisco si dimostra sempre più indulgente nei riguardi dei guadagni di capitale e del “semplice” possesso della ricchezza. Anche in paesi piuttosto avanzati si assiste anzi ad una nobile gara a garantire il migliore trattamento fiscale a coloro che campano in questo modo, mentre ci si accanisce inesorabilmente sui salariati, i lavoratori indipendenti e gli imprenditori tradizionali che si limitano a produrre il Pil.
A dire il vero, questo stile di vita Pil-free non è affatto nuovo. Da diversi millenni sovrani e governi campano allegramente coniando monete ed emettendo titoli del debito pubblico che non entrano nel computo del valore aggiunto, ma solo in quello della ricchezza. Si chiamava signoraggio e qualche decennio fa alcuni stati europei vi hanno sdegnosamente rinunciato condividendo una valuta comune emessa da una banca centrale che, per statuto, può spendere liberamente solo pochi spicci dei suoi guadagni potenziali per acquistare beni e servizi sul mercato e per remunerare funzionari strapagati e sedi principesche. Viene quasi nostalgia dei vecchi sovrani che, quando non finanziavano guerre, approfittavano del signoraggio per sovvenzionare artisti, opere pubbliche e concubine.
Da qualche secolo i sovrani sono stati imitati dalle banche che, entro certi limiti, piazzano sul mercato titoli che corrispondono solo in parte a beni reali, come hanno imparato a proprie spese parecchi risparmiatori americani e, più recentemente, del Veneto e della Toscana. Si chiama creazione di moneta bancaria ed è essenziale per far lavorare quelli che producono il Pil. Ogni tanto qualcuno esagera con la creatività e lascia il suo nome negli schedari giudiziari e, se è fortunato, anche nei libri di economia, come il signor Carlo Pietro Giovanni Guglielmo Teobaldo Ponzi, da Lugo di Romagna. In fondo tutti questi signori vendono un bene del tutto immateriale che si chiama fiducia, se la fiducia svanisce anche la ricchezza che creano o intermediano si annulla. Le criptovalute, come il Bitcoin di cui si è occupato un numero monografico di questo Menabò, rappresentano un caso estremo di totale separazione tra creazione di ricchezza e generazione di Pil basato sulla compravendita della fiducia. I Bitcoin non sono altro che sequenze di bit riconosciute “valide” da un algoritmo molto sofisticato. Chi ha le sequenze giuste può tesaurizzarle o spenderle anche per acquistare qualche pezzo di Pil. L’aspetto più interessante ed inquietante delle criptovalute è la loro accumulazione. A differenza delle monete tradizionali, non sono ottenute come contropartita di beni, servizi e lavoro che fanno Pil, ma attraverso una attività che si chiama “mining” (ovvero scavo in miniera) e consiste sostanzialmente nella generazione a caso di sequenze di bit da sottoporre all’algoritmo validatore. E’ come cercare un ago in un pagliaio, solo che non si viene remunerati né per l’accumulo di fieno, né per la fabbricazione dell’ago, che entrerebbero entrambi nel Pil tradizionale. Anzi, diventerà immensamente ricco chi troverà il modo di procurarsi Bitcoin bruciando (metaforicamente?) il pagliaio della rete per cercare meglio l’ago nella cenere. Deve essere per questo che il governo cinese ha proibito l’uso delle criptovalute, salvo prepararsi ad introdurne una tutta sua.
La vera novità degli ultimi decenni è che il patrimonio di coloro che vivono prevalentemente della propria ricchezza è cresciuto a dismisura in tutto il mondo. Probabilmente non è aumentato troppo il numero dei soci di questo esclusivo club, ma c’è stato parecchio ricambio tra di loro e soprattutto si sono moltiplicati i modi in cui un patrimonio può essere sfruttato senza intaccarlo troppo. Pensiamo alla vicenda delle dot-com quotate sul NASDAQ, che accumulavano solo perdite vertiginose eppure vedevano le proprie azioni crescere di valore a ritmi esponenziali. Chi deteneva quelle azioni poteva guadagnarci speculando al rialzo (come negli ultimi anni novanta e prima dello scoppio della bolla nel 2000), ma anche al ribasso (come nel pieno della Grande Recessione). In questo gioco, infatti, non conta troppo se la Borsa sale o scende perché guadagna chi riesce ad anticipare o a determinare i movimenti futuri del mercato. Insomma basta molta volatilità, parecchia abilità, un pizzico di fortuna, e tanto insider trading e aggiotaggio per campare di rendita. Per tornare al nostro amico Jeff Bezos, le azioni della sua Amazon (che opera in un settore così tradizionale che prosperava persino nel vecchio West) sono passate da 107 a 7 dollari l’una alla fine anni novanta per poi risalire a 950 dollari. Si suppone, tuttavia, che gli introiti del buon Jeff non abbiano subito un tracollo neanche nel 2000-2001. Naturalmente non tutti sono stati così fortunati: per esempio oggi nessuno si ricorda più di colossi come Netscape, fagocitati da altre dot-com, e delle migliaia di startup fallite... a parte la startup Autopsy che ha costruito un archivio/cimitero per le colleghe scomparse. Hanno perso di più tutti quei risparmiatori che hanno sperperato salari e profitti, frutto del loro duro lavoro di produzione del Pil, in speculazioni sbagliate o semplicemente in qualche fondo pensioni. Insomma vivere senza contribuire al Pil è un privilegio riservato a pochi. Perché è vero che i guadagni di capitale non fanno Pil, ma ci vuole parecchio Pil per trasformarli in beni e servizi.
In attesa che il fisco e gli statistici si accorgano di tutto questo, non disponiamo di dati sul tenore di vita dei Pil-free e anche quelli sulla ricchezza complessiva sono scarsi e poco omogenei. Per ora, solo Credit Suisse pubblica ogni anno un pregevole volume sulla ricchezza globale, mettendo insieme le poche informazioni disponibili. L’ultima edizione del Rapporto, uscita pochi giorni fa, ci informa che tra il 2000 e il 2017 la ricchezza globale, a prezzi e cambi correnti, è aumentata in media di quasi il 6% l’anno. Nel frattempo, il Pil misurato secondo analoghi criteri dalla Banca Mondiale è cresciuto solo del 2,2% l’anno. Se immaginiamo che anche il patrimonio dei Pil-free sia aumentato in linea con quello dei comuni mortali (e si tratta certamente di una stima per difetto), questo significa che negli ultimi 17 anni chi viveva di Pil ha perso quasi il 3% l’anno rispetto a chi poteva contare solo sui proventi della propria ricchezza, perfino ipotizzando che il rendimento delle attività reali e finanziarie sia diminuito costantemente del 1% l’anno (e anche questa è un’ipotesi estremamente pessimistica sui super-ricchi). Se questi sono i fatti, non è difficile capire perché si vada allargando la forbice tra ricchi e poveri. Ma questi dati fanno anche sospettare che la Grande Recessione e la modesta ripresa del Pil siano tutti fenomeni che hanno interessato chi lavora e fa impresa tradizionale, ma non i nuovi rentier, alla faccia di Keynes che ne auspicava l’eutanasia.
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Veleni: Germania decisiva in Commissione Europea per autorizzare il Glifosato. La Bayer ringrazia
La Commissione Europea ha approvato l’autorizzazione all’uso del glifosato. Altri cinque anni, dunque, prima della messa al bando a partire dal 2022. Il Glifosato (in sigla C3H8NO5P) più correttamente definito Roundup, viene considerato un erbicida totale. Il maggiore produttore mondiale è la multinazionale statunitense Monsanto che però nel settembre 2016 è stata acquisita dalla multinazionale tedesca Bayer.
In Italia c’è il divieto di usarlo sul grano in pre-raccolta, diversamente da quanto avviene per quello straniero proveniente da Usa e Canada, dove – nella stessa fase produttiva – viene invece intensivamente impiegato per seccare e garantire artificialmente un livello proteico elevato. La rivista Nature ha pubblicato uno studio scientifico, condotto su ratti, che fa molta chiarezza sul Glifosato (Roundup) il quale provoca un aumento di incidenza di patologie del fegato e del rene in particolare. E’ uno studio molto importante, condotto per molto tempo, che sta provocando nella comunità scientifica grandi discussioni sull’uso dell’erbicida, del diserbante Roundup sulla salute umana. Su questo il nostro giornale ha già documentato ampiamente.
Gli scienziati del King College di Londra hanno dimostrato che, sperimentalmente nei ratti, a un dosaggio bassissimo, il Roundup provocava una steatosi epatica: cioè un fegato grasso su base non-alcolica (NAFLD). Questa situazione non solo può portare alla cirrosi epatica, ma può indurre anche altre patologie tra cui quelle cardiovascolari, come infarti e ictus. Questo è il primo studio che dimostra, in maniera inequivocabile, il collegamento tra Roundup e gravi malattie.
Per l’approvazione è stato determinante il parere positivo della Germania, che ha di fatto spostato l’equilibrio dei paesi della Ue riuniti per decidere. Impossibile non individuare il nesso tra questa posizione del governo tedesco – decisivo per la scelta della Commissione Europea – e il fatto che il maggior produttore mondiale di Glifosato sia adesso la multinazionale tedesca Bayer.
La maggioranza qualificata si espressa con 18 paesi a favore della proroga di cinque anni, 9 i paesi contrari (Italia, Francia, Belgio, Grecia, Ungheria, Cipro, Malta, Lussemburgo e Lettonia), 1 astenuto (Portogallo). La Germania, si era sempre astenuta negli scorsi tentativi nel Comitato permanente Ue di poter applicare il glifosato su piante, cibi e mangimi (Comitato Paff) facendo così mancare la maggioranza qualificata sia pro che contro la proposta della Commissione Europea. Questa volta si è invece espressa a favore. Per altri cinque anni la Monsanto potrà vendere il veleno con cui irrorare le coltivazioni, anche in una Europa dove a fare la differenza sono gli interessi di multinazionali come la tedesca Bayer.
Fonte
In Italia c’è il divieto di usarlo sul grano in pre-raccolta, diversamente da quanto avviene per quello straniero proveniente da Usa e Canada, dove – nella stessa fase produttiva – viene invece intensivamente impiegato per seccare e garantire artificialmente un livello proteico elevato. La rivista Nature ha pubblicato uno studio scientifico, condotto su ratti, che fa molta chiarezza sul Glifosato (Roundup) il quale provoca un aumento di incidenza di patologie del fegato e del rene in particolare. E’ uno studio molto importante, condotto per molto tempo, che sta provocando nella comunità scientifica grandi discussioni sull’uso dell’erbicida, del diserbante Roundup sulla salute umana. Su questo il nostro giornale ha già documentato ampiamente.
Gli scienziati del King College di Londra hanno dimostrato che, sperimentalmente nei ratti, a un dosaggio bassissimo, il Roundup provocava una steatosi epatica: cioè un fegato grasso su base non-alcolica (NAFLD). Questa situazione non solo può portare alla cirrosi epatica, ma può indurre anche altre patologie tra cui quelle cardiovascolari, come infarti e ictus. Questo è il primo studio che dimostra, in maniera inequivocabile, il collegamento tra Roundup e gravi malattie.
Per l’approvazione è stato determinante il parere positivo della Germania, che ha di fatto spostato l’equilibrio dei paesi della Ue riuniti per decidere. Impossibile non individuare il nesso tra questa posizione del governo tedesco – decisivo per la scelta della Commissione Europea – e il fatto che il maggior produttore mondiale di Glifosato sia adesso la multinazionale tedesca Bayer.
La maggioranza qualificata si espressa con 18 paesi a favore della proroga di cinque anni, 9 i paesi contrari (Italia, Francia, Belgio, Grecia, Ungheria, Cipro, Malta, Lussemburgo e Lettonia), 1 astenuto (Portogallo). La Germania, si era sempre astenuta negli scorsi tentativi nel Comitato permanente Ue di poter applicare il glifosato su piante, cibi e mangimi (Comitato Paff) facendo così mancare la maggioranza qualificata sia pro che contro la proposta della Commissione Europea. Questa volta si è invece espressa a favore. Per altri cinque anni la Monsanto potrà vendere il veleno con cui irrorare le coltivazioni, anche in una Europa dove a fare la differenza sono gli interessi di multinazionali come la tedesca Bayer.
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La lezione del professor Macron agli africani
L’Unione Europea fa la corte all’Unione Africana. In Senegal, prima del vertice di Abidjan, i rappresentanti dell’UE vanno di villaggio in villaggio per informare i giovani dei loro progetti, con l’obiettivo di scoraggiare l’emigrazione. In una dichiarazione comune del presidente della Commissione europea e di quello della Commissione Africana, l’UE promette aiuti per 31 miliardi di euro fino al 2020 «per dare una chance alla gioventù africana».
Ai Paesi dove l’emigrazione è più massiccia arriveranno fondi per la formazione professionale e lo sviluppo di piccole e medie imprese. E, naturalmente, per blindare le frontiere. Un particolare di cui nel documento non si fa parola. In sintesi, l’UE dà i soldi e gli Stati africani si riprendono i migranti. Una cosa che fanno già – discretamente – dato che sono nell’impossibilità di offrire un futuro ai loro giovani.
Il vertice UE-AU coincide con un viaggio in Africa del presidente francese, Emmanuel Macron, che ha tenuto martedì un discorso di quasi tre ore a 800 studenti dell’università di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Macron era atteso da dimostranti del sindacato degli studenti e dell’organizzazione democratica della gioventù, che manifestano contro la sua visita. Rimproverano alla Francia il saccheggio delle risorse del loro Paese, una presenza militare insopportabile e il mantenimento del franco CFA, moneta coloniale. Sono stati dispersi dai gas lacrimogeni.
Un blogger del Senegal scrive: «cosa mi aspetto da Macron? Niente. Aspetto qualcosa da quelli che ho eletto. Nulla da un presidente straniero». Nel suo discorso, Macron parla di emigrazione, lotta contro il terrorismo e l’oscurantismo, demografia ed ambiente. Parla di istruzione, di uguaglianza fra i sessi, promette di restituire le opere d’arte, di concedere più visti per gli studenti e di prolungare i loro permessi di soggiorno. Tenta di sottolineare con formule-choc le nuove relazioni franco-africane. Secondo lui, la Francia non avrebbe più una politica africana e non sarebbe là per impartire lezioni. Un passaggio molto applaudito.
Per molti, si tratta di un un déjà-vu. Macron non è certo il primo presidente francese a parlare di un nuovo inizio. E’ nuovo il suo stile disteso, il gioco piuttosto libero delle domande e delle risposte con gli studenti (quelli selezionati per dialogare con lui), ma per il resto niente è cambiato. Per quanto riguarda la promessa dell’apertura degli archivi francesi relativamente all’assassinio di Thomas Sankara, l’attesa è d’obbligo. Se uno dei suoi presunti assassini, Blaise Compaoré, ha potuto restare al potere quasi trent’anni è «merito» della Francia. Ed è la Francia presieduta da François Hollande che ha protetto la sua fuga in Costa d’Avorio, paese che gli ha concesso la cittadinanza. Vi risiede tuttora, indisturbato.
Il «professor» Macron parla con arroganza e disprezzo del franco CFA, la moneta africana stampata a Parigi fin dal primo giorno dell’indipendenza delle sue ex colonie dell’Africa occidentale, dichiarando che è compito degli statisti africani di abbandonare quella valuta, se lo desiderano. Ma il problema è proprio quello: è Macron a proteggerli. Et pour cause!...
Fonte
Ai Paesi dove l’emigrazione è più massiccia arriveranno fondi per la formazione professionale e lo sviluppo di piccole e medie imprese. E, naturalmente, per blindare le frontiere. Un particolare di cui nel documento non si fa parola. In sintesi, l’UE dà i soldi e gli Stati africani si riprendono i migranti. Una cosa che fanno già – discretamente – dato che sono nell’impossibilità di offrire un futuro ai loro giovani.
Il vertice UE-AU coincide con un viaggio in Africa del presidente francese, Emmanuel Macron, che ha tenuto martedì un discorso di quasi tre ore a 800 studenti dell’università di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Macron era atteso da dimostranti del sindacato degli studenti e dell’organizzazione democratica della gioventù, che manifestano contro la sua visita. Rimproverano alla Francia il saccheggio delle risorse del loro Paese, una presenza militare insopportabile e il mantenimento del franco CFA, moneta coloniale. Sono stati dispersi dai gas lacrimogeni.
Un blogger del Senegal scrive: «cosa mi aspetto da Macron? Niente. Aspetto qualcosa da quelli che ho eletto. Nulla da un presidente straniero». Nel suo discorso, Macron parla di emigrazione, lotta contro il terrorismo e l’oscurantismo, demografia ed ambiente. Parla di istruzione, di uguaglianza fra i sessi, promette di restituire le opere d’arte, di concedere più visti per gli studenti e di prolungare i loro permessi di soggiorno. Tenta di sottolineare con formule-choc le nuove relazioni franco-africane. Secondo lui, la Francia non avrebbe più una politica africana e non sarebbe là per impartire lezioni. Un passaggio molto applaudito.
Per molti, si tratta di un un déjà-vu. Macron non è certo il primo presidente francese a parlare di un nuovo inizio. E’ nuovo il suo stile disteso, il gioco piuttosto libero delle domande e delle risposte con gli studenti (quelli selezionati per dialogare con lui), ma per il resto niente è cambiato. Per quanto riguarda la promessa dell’apertura degli archivi francesi relativamente all’assassinio di Thomas Sankara, l’attesa è d’obbligo. Se uno dei suoi presunti assassini, Blaise Compaoré, ha potuto restare al potere quasi trent’anni è «merito» della Francia. Ed è la Francia presieduta da François Hollande che ha protetto la sua fuga in Costa d’Avorio, paese che gli ha concesso la cittadinanza. Vi risiede tuttora, indisturbato.
Il «professor» Macron parla con arroganza e disprezzo del franco CFA, la moneta africana stampata a Parigi fin dal primo giorno dell’indipendenza delle sue ex colonie dell’Africa occidentale, dichiarando che è compito degli statisti africani di abbandonare quella valuta, se lo desiderano. Ma il problema è proprio quello: è Macron a proteggerli. Et pour cause!...
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Quanto sta male il giornalismo? Intervista a Fulvio Scaglione
Seconda punta dell’inchiesta #obiettivoinformazione, ovvero “quanto sta male il giornalismo?”.
Intervista a Fulvio Scaglione, per 16 anni vicedirettore del settimanale Famiglia Cristiana, editorialista de L’Avvenire, ecc.
Un saluto al nostro ospite, il giornalista Fulvio Scaglione. Buongiorno Fulvio.
Buongiorno a tutti.
Grazie per la tua disponibilità. Dopo i fatti di Ostia di qualche settimana fa, dopo la vicenda dell’aggressione al giornalista di Nemo, abbiamo deciso di dare il nostro minuscolo contributo all’analisi di un settore che ci riguarda e che tendenzialmente riteniamo molto importante per il normale dibattito democratico di una società, che è quello dell’informazione e della stampa. In Italia la figura del giornalista, dell’operatore del settore dell’informazione, è ai minimi storici della popolarità. E’ da diverso tempo che la figura del giornalista, in Italia, è considerata, da gran parte dell’opinione pubblica, una via di mezzo tra una sorta di pennivendolo, che non diffonde notizie ma che è al servizio di qualsivoglia potere, una sorta di giornalista perennemente embedded... Oppure si fa riferimento alla scarsa qualità dell’informazione. Sei d’accordo che la visione di gran parte dell’opinione pubblica di questo paese è questa o già questa nostra analisi ti convince poco?
No, ahimè io quello che verifico quando mi capita di andare in giro a parlare in associazioni, circoli, gruppi di qualunque genere, e questo mi capita piuttosto spesso negli ultimi anni, è che purtroppo l’immagine del giornalista è quella. Difatti io trovo abbastanza buffa tutta questa campagna che la carta stampata fa sulle fake news, perché evidentemente noi giornalisti della carta stampata non sappiamo che presso la gente siamo noi stessi considerati dei grandi produttori di fake news, cioè di notizie false, sballate, o date male, o date solo in parte, ecc. ecc. Ora magari questa considerazione nei nostri confronti, nei confronti della categoria, è un po’ esagerata, ma non è assolutamente priva di ragioni. D’altra parte in Italia la figura dell’editore puro, cioè di colui che fa dei giornali per ricavare un profitto dalla confezione e vendita dei giornali è una rara avis e lo è da molti molti decenni. E’ chiaro che se poi un giornale viene prodotto a seguito di investimenti, che sono poi molto spesso e da molto tempo in perdita, viene prodotto da una banca, da un’industria, da un gruppo politico o con forti legami politici... è abbastanza evidente che in quel caso il profitto non è l’unica ragione, ma ce ne sono di accessorie: l’influenza, il potere, ecc. ecc. Quindi questo è abbastanza chiaro e scontato. Un altro fatto, secondo me, che va tenuto in forte considerazione è l’enorme, straordinario, appiattimento dell’informazione. Io vorrei ricordare – perché ogni tanto compaiono qua e là delle citazioni – che negli anni ’60 il Corriere della Sera diretto da Ottone, che era ovviamente il quotidiano della borghesia produttiva conservatrice italiana, faceva scrivere in prima pagina Pasolini. Un colpo d’ala così, oggi, sulla stampa italiana dove è? Chi è che ha il coraggio, in un giornale che pure ha tutto il diritto di avere le proprie opinioni, di far scrivere però anche qualcuno che abbia un vago odore di eresia rispetto a quelle stesse opinioni? Non succede. Non succede mai. E quindi anche questo va tenuto in considerazione. Abbiamo sicuramente un’informazione più appiattita, quindi più noiosa, quindi meno gradita. Io credo comunque che tutto questo discorso – e molti altri, ovviamente più approfonditi, più fondati che si potrebbero fare – vada tutto inserito dentro un altro discorso che richiama il titolo di quel libro di Julien Brenda, un libro del 1927, intitolato “Il tradimento dei Chierici”. Purtroppo io credo che nel nostro paese la classe intellettuale, chiamiamola così, ammesso che si possa usare questa definizione per un settore che comunque va dall’influencer su internet al famoso presentatore tv, al direttore di giornale, ecc. Però, veramente a me pare che in Italia questa classe intellettuale sia troppo timorosa delle opinioni fuori registro, troppo preoccupata della propria rispettabilità rispetto alle idee comuni, alle vulgate... Veramente tutti quelli che hanno un parere un po’... anche contestabile, anche criticabile, anche sbagliato, tutti quelli che hanno un parere eterodosso, che puzzano un po’ di zolfo, sono emarginati dai grandi canali dell’informazione nazionale. E questo contribuisce a tutto quello che si diceva prima. Contribuisce a rendere l’informazione più noiosa, meno credibile, ecc.
Sicuramente è così. Il giornalismo è un mestiere anche molto artigianale, secondo noi, però ci vuole molto coraggio a farlo e la schiena parecchio dritta. A volte è anche un po’ difficile poter applicare queste categorie in un contesto in cui gli editori hanno uno strapotere. Perché il problema è anche questo: le notizie degli esteri sono tutte uguali. Qualunque giornale o qualsiasi fonte di informazione uno vada ad approcciare, più o meno si parla sempre allo stesso modo, usando le stesse fonti ed utilizzando le stesse categorie. Noi ci occupiamo tanto, per esempio di Palestina, dove si fa una disinformazione che è abominevole, a nostro parere. Ma anche su vicende più mainstream, come per esempio le questioni inerenti allo stato islamico o alla guerra in Siria. E questo è grave, perché questo forse ha anche un po’ che fare con una certa sciatteria. O non è così?
Io credo che le due cose vadano di pari passo, perché quando si capisce – e si capisce sempre molto in fretta, molto presto, soprattutto chi è dentro i nostri giri, chiamiamoli così – si percepisce subito dove vuole andare quello che si chiama mainstream. A me è una parola che non piace, però si capisce subito dove i grandi gruppi puntano, che cosa hanno scelto, ecc. A quel punto, per quello che si diceva prima, o stai dentro quella roba lì o corri il rischio di finire fuori da tutto. E’ evidente che il professionista un po’ più debole, sia di coraggio personale sia di preparazione professionale, è il primo che si adegua. Io vorrei raccontare questo. È bruttissimo citarsi, ma lo dico perché io qualche dimostrazione di questo l’ho avuta anche personalmente. Nel 2003, quando tutti, vorrei ricordare, tutti dicevano che era una stupenda idea invadere l’Iraq e che sicuramente Saddam Hussein aveva le ami di distruzione di massa, io personalmente non la pensavo così e per un lungo periodo non ho più scritto una riga su un giornale, con cui collaboravo da tempo, e con cui c’era un ottimo rapporto. Questo è banale, no? Ma d’altra parte lo credo anche io: ci vuole un forte coraggio, ripeto, per scegliere una strada Corriere della Sera-Pasolini, per cui puoi avere una linea ma non temere che questa linea sia in qualche modo contraddetta da voci eterodosse. E, vorrei sottolineare, io ho fatto l’esempio del 2003, gli stessi che pontificavano allora, che ci spiegavano che idea meravigliosa fosse quella, sono poi gli stessi che hanno pontificato sulla Siria, che pontificano su Palestina e Israele, ecc. Quindi non c’è da stupirsi che l’immagine della stampa, diciamo del settore informazione in Italia, sia così bassa nel rating dei potenziali lettori. Non c’è da stupirsi che le tirature siano in calo anche per questo. Perché non è che solo ci è arrivato internet sulla schiena con tutto il suo peso... No, c’è anche il fatto che leggere i giornali è diventato più noioso, è diventato anche un po’ più utile, ovviamente, e soprattutto la gente si fida meno.
Noi portiamo un esempio pratico, e lo facciamo a tutti i nostri interlocutori di questa nostra piccola campagna #obiettivoinformazione. Proprio la vicenda del collega Piervicenzi, che ha subito quell’aggressione che ha avuto l’unico vantaggio – diciamo così – di essere ripresa mentre avveniva... Su quello si scatena una legittima baraonda mediatica, in cui comunque tutti fanno lo stesso tipo di analisi, in modo identico. Poi si esaurisce l’indignazione collettiva, dopo un paio di settimane si vota per il ballottaggio ad Ostia con una percentuale di presenze ai seggi del 33%. Nessuno analizza con tanta solerzia – in concomitanza, più o meno, con la vicenda di Piervincenzi – un’altra notizia: si registra in Italia uno sciopero generale tra l’altro molto molto partecipato, e una manifestazione nazionale i cui temi erano la lotta contro l’Unione Europea, la repressione, l’immigrazione... cioè temi interessanti. Manifestazione a Roma con 10 mila persone, non una sola parola in nessun giornale mainstream. Ma come funziona? Le stesse organizzazioni politiche e sociali organizzano una marcia di 300 migranti dal centro di accoglienza di Cona a Venezia, e se ne parla solo in seguito alla morte di un immigrato investito da una macchina. E’ possibile tracciare un criterio di scelta e di valutazione dell’importanza di una notizia in questo paese? Quali sono i modi, se è possibile ricostruirli, con cui si scelgono le notizie in Italia e si divulgano ai lettori, ascoltatori, spettatori?
Sono d’accordo con quello che hai appena detto, cioè si sceglie un po’ – diciamo così – il comodo, il sensazionalistico, anche serio, anche tragico – come il caso di questo immigrato che è morto mentre si recava alla marcia – in qualche modo viene ritenuto sempre pagante. Io ho la sensazione che un problema grosso dei giornali, dei giornali italiani in generale, è che vengano fatti – parlo di giornali perché quello è il mio mondo, io ho vissuto sempre dentro la carta – o vengano comunque concepiti con un ritardo mentale; mi sembrano fatti come se questo fosse un mondo in cui l’informazione viene trasmessa solo dai giornali, mentre invece sappiamo bene che l’arrivo della rete, di internet, ha cambiato tutto. Penso che questo sia un problema forte. D’altra parte noi vediamo bene che – e io l’ho vissuto personalmente nel giornale in cui ho lavorato tanti anni – ad un certo punto, quando si cerca di fare qualcosa, ecc. si passa ai famosi restyling che io, personalmente, proibirei per legge perché il restyling è come cambiare la camicia senza lavarsi le ascelle. Se la cosa non va, non è perché c’è un po’ più di nero in prima pagina o un po’ più bianco, o il titolo è un po’ più grosso, il pastone o il corsivo... Poi l’effetto del restyling dura due settimane, perché dopo due settimane il lettore non si ricorda più come era fatto il giornale prima. A me fa impressione vedere quanti dei giornali che non hanno capito la Brexit, non hanno capito Trump, non hanno capito il referendum istituzionale in Italia, ecc. Poi varano l’inserto culturale o, appunto, il restyling... E’ ben altro, a me pare, il problema. E’ un problema molto di sostanza. E’ molto di sostanza e per niente di forma.
La soluzione?
Vorrei aggiungere una cosa, se posso... Come dicevo prima sto andando molto in giro e ho la fortuna di essere ricevuto in gruppi che, voglio dire... ho incontrato persone sempre con effetti piacevoli, molto di destra, anzi di destra destra, con la celtica, ecc. E tanti molto di sinistra, di sinistra-sinistra, passando in mezzo per tante gradazioni (ambienti laici, ambienti cattolici, ecc). E quello che io ho verificato, e credo che dovrebbe essere un pensiero nostro, di chi fa informazione, è che ci sono alcuni temi, sono i soliti, sono quelli fondamentali di cui stiamo discutendo: il lavoro, l’immigrazione, la denatalità... Su alcuni temi portanti per la vita nazionale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per tutto quello che c’è in mezzo, ci sono delle consonanze molto ma molto superiori a quelle che gli stessi protagonisti immaginerebbero. E una di quelle consonanze è, appunto, la sfiducia totale nell’informazione corrente. Secondo me su quello bisognerebbe indagare e lavorare un po’ di più.
Bene, hai risposto anche alla domanda che volevo fare. Grazie ancora per la disponibilità e complimenti per il suo lavoro perché, lei rappresenta, nonostante le difficoltà, uno di quei pochi giornalisti che riescono a muoversi in un modo libero. Questo lo possiamo dire. Grazie, buon lavoro.
Grazie, troppo buoni. Buon lavoro a voi.
Fonte
Intervista a Fulvio Scaglione, per 16 anni vicedirettore del settimanale Famiglia Cristiana, editorialista de L’Avvenire, ecc.
Un saluto al nostro ospite, il giornalista Fulvio Scaglione. Buongiorno Fulvio.
Buongiorno a tutti.
Grazie per la tua disponibilità. Dopo i fatti di Ostia di qualche settimana fa, dopo la vicenda dell’aggressione al giornalista di Nemo, abbiamo deciso di dare il nostro minuscolo contributo all’analisi di un settore che ci riguarda e che tendenzialmente riteniamo molto importante per il normale dibattito democratico di una società, che è quello dell’informazione e della stampa. In Italia la figura del giornalista, dell’operatore del settore dell’informazione, è ai minimi storici della popolarità. E’ da diverso tempo che la figura del giornalista, in Italia, è considerata, da gran parte dell’opinione pubblica, una via di mezzo tra una sorta di pennivendolo, che non diffonde notizie ma che è al servizio di qualsivoglia potere, una sorta di giornalista perennemente embedded... Oppure si fa riferimento alla scarsa qualità dell’informazione. Sei d’accordo che la visione di gran parte dell’opinione pubblica di questo paese è questa o già questa nostra analisi ti convince poco?
No, ahimè io quello che verifico quando mi capita di andare in giro a parlare in associazioni, circoli, gruppi di qualunque genere, e questo mi capita piuttosto spesso negli ultimi anni, è che purtroppo l’immagine del giornalista è quella. Difatti io trovo abbastanza buffa tutta questa campagna che la carta stampata fa sulle fake news, perché evidentemente noi giornalisti della carta stampata non sappiamo che presso la gente siamo noi stessi considerati dei grandi produttori di fake news, cioè di notizie false, sballate, o date male, o date solo in parte, ecc. ecc. Ora magari questa considerazione nei nostri confronti, nei confronti della categoria, è un po’ esagerata, ma non è assolutamente priva di ragioni. D’altra parte in Italia la figura dell’editore puro, cioè di colui che fa dei giornali per ricavare un profitto dalla confezione e vendita dei giornali è una rara avis e lo è da molti molti decenni. E’ chiaro che se poi un giornale viene prodotto a seguito di investimenti, che sono poi molto spesso e da molto tempo in perdita, viene prodotto da una banca, da un’industria, da un gruppo politico o con forti legami politici... è abbastanza evidente che in quel caso il profitto non è l’unica ragione, ma ce ne sono di accessorie: l’influenza, il potere, ecc. ecc. Quindi questo è abbastanza chiaro e scontato. Un altro fatto, secondo me, che va tenuto in forte considerazione è l’enorme, straordinario, appiattimento dell’informazione. Io vorrei ricordare – perché ogni tanto compaiono qua e là delle citazioni – che negli anni ’60 il Corriere della Sera diretto da Ottone, che era ovviamente il quotidiano della borghesia produttiva conservatrice italiana, faceva scrivere in prima pagina Pasolini. Un colpo d’ala così, oggi, sulla stampa italiana dove è? Chi è che ha il coraggio, in un giornale che pure ha tutto il diritto di avere le proprie opinioni, di far scrivere però anche qualcuno che abbia un vago odore di eresia rispetto a quelle stesse opinioni? Non succede. Non succede mai. E quindi anche questo va tenuto in considerazione. Abbiamo sicuramente un’informazione più appiattita, quindi più noiosa, quindi meno gradita. Io credo comunque che tutto questo discorso – e molti altri, ovviamente più approfonditi, più fondati che si potrebbero fare – vada tutto inserito dentro un altro discorso che richiama il titolo di quel libro di Julien Brenda, un libro del 1927, intitolato “Il tradimento dei Chierici”. Purtroppo io credo che nel nostro paese la classe intellettuale, chiamiamola così, ammesso che si possa usare questa definizione per un settore che comunque va dall’influencer su internet al famoso presentatore tv, al direttore di giornale, ecc. Però, veramente a me pare che in Italia questa classe intellettuale sia troppo timorosa delle opinioni fuori registro, troppo preoccupata della propria rispettabilità rispetto alle idee comuni, alle vulgate... Veramente tutti quelli che hanno un parere un po’... anche contestabile, anche criticabile, anche sbagliato, tutti quelli che hanno un parere eterodosso, che puzzano un po’ di zolfo, sono emarginati dai grandi canali dell’informazione nazionale. E questo contribuisce a tutto quello che si diceva prima. Contribuisce a rendere l’informazione più noiosa, meno credibile, ecc.
Sicuramente è così. Il giornalismo è un mestiere anche molto artigianale, secondo noi, però ci vuole molto coraggio a farlo e la schiena parecchio dritta. A volte è anche un po’ difficile poter applicare queste categorie in un contesto in cui gli editori hanno uno strapotere. Perché il problema è anche questo: le notizie degli esteri sono tutte uguali. Qualunque giornale o qualsiasi fonte di informazione uno vada ad approcciare, più o meno si parla sempre allo stesso modo, usando le stesse fonti ed utilizzando le stesse categorie. Noi ci occupiamo tanto, per esempio di Palestina, dove si fa una disinformazione che è abominevole, a nostro parere. Ma anche su vicende più mainstream, come per esempio le questioni inerenti allo stato islamico o alla guerra in Siria. E questo è grave, perché questo forse ha anche un po’ che fare con una certa sciatteria. O non è così?
Io credo che le due cose vadano di pari passo, perché quando si capisce – e si capisce sempre molto in fretta, molto presto, soprattutto chi è dentro i nostri giri, chiamiamoli così – si percepisce subito dove vuole andare quello che si chiama mainstream. A me è una parola che non piace, però si capisce subito dove i grandi gruppi puntano, che cosa hanno scelto, ecc. A quel punto, per quello che si diceva prima, o stai dentro quella roba lì o corri il rischio di finire fuori da tutto. E’ evidente che il professionista un po’ più debole, sia di coraggio personale sia di preparazione professionale, è il primo che si adegua. Io vorrei raccontare questo. È bruttissimo citarsi, ma lo dico perché io qualche dimostrazione di questo l’ho avuta anche personalmente. Nel 2003, quando tutti, vorrei ricordare, tutti dicevano che era una stupenda idea invadere l’Iraq e che sicuramente Saddam Hussein aveva le ami di distruzione di massa, io personalmente non la pensavo così e per un lungo periodo non ho più scritto una riga su un giornale, con cui collaboravo da tempo, e con cui c’era un ottimo rapporto. Questo è banale, no? Ma d’altra parte lo credo anche io: ci vuole un forte coraggio, ripeto, per scegliere una strada Corriere della Sera-Pasolini, per cui puoi avere una linea ma non temere che questa linea sia in qualche modo contraddetta da voci eterodosse. E, vorrei sottolineare, io ho fatto l’esempio del 2003, gli stessi che pontificavano allora, che ci spiegavano che idea meravigliosa fosse quella, sono poi gli stessi che hanno pontificato sulla Siria, che pontificano su Palestina e Israele, ecc. Quindi non c’è da stupirsi che l’immagine della stampa, diciamo del settore informazione in Italia, sia così bassa nel rating dei potenziali lettori. Non c’è da stupirsi che le tirature siano in calo anche per questo. Perché non è che solo ci è arrivato internet sulla schiena con tutto il suo peso... No, c’è anche il fatto che leggere i giornali è diventato più noioso, è diventato anche un po’ più utile, ovviamente, e soprattutto la gente si fida meno.
Noi portiamo un esempio pratico, e lo facciamo a tutti i nostri interlocutori di questa nostra piccola campagna #obiettivoinformazione. Proprio la vicenda del collega Piervicenzi, che ha subito quell’aggressione che ha avuto l’unico vantaggio – diciamo così – di essere ripresa mentre avveniva... Su quello si scatena una legittima baraonda mediatica, in cui comunque tutti fanno lo stesso tipo di analisi, in modo identico. Poi si esaurisce l’indignazione collettiva, dopo un paio di settimane si vota per il ballottaggio ad Ostia con una percentuale di presenze ai seggi del 33%. Nessuno analizza con tanta solerzia – in concomitanza, più o meno, con la vicenda di Piervincenzi – un’altra notizia: si registra in Italia uno sciopero generale tra l’altro molto molto partecipato, e una manifestazione nazionale i cui temi erano la lotta contro l’Unione Europea, la repressione, l’immigrazione... cioè temi interessanti. Manifestazione a Roma con 10 mila persone, non una sola parola in nessun giornale mainstream. Ma come funziona? Le stesse organizzazioni politiche e sociali organizzano una marcia di 300 migranti dal centro di accoglienza di Cona a Venezia, e se ne parla solo in seguito alla morte di un immigrato investito da una macchina. E’ possibile tracciare un criterio di scelta e di valutazione dell’importanza di una notizia in questo paese? Quali sono i modi, se è possibile ricostruirli, con cui si scelgono le notizie in Italia e si divulgano ai lettori, ascoltatori, spettatori?
Sono d’accordo con quello che hai appena detto, cioè si sceglie un po’ – diciamo così – il comodo, il sensazionalistico, anche serio, anche tragico – come il caso di questo immigrato che è morto mentre si recava alla marcia – in qualche modo viene ritenuto sempre pagante. Io ho la sensazione che un problema grosso dei giornali, dei giornali italiani in generale, è che vengano fatti – parlo di giornali perché quello è il mio mondo, io ho vissuto sempre dentro la carta – o vengano comunque concepiti con un ritardo mentale; mi sembrano fatti come se questo fosse un mondo in cui l’informazione viene trasmessa solo dai giornali, mentre invece sappiamo bene che l’arrivo della rete, di internet, ha cambiato tutto. Penso che questo sia un problema forte. D’altra parte noi vediamo bene che – e io l’ho vissuto personalmente nel giornale in cui ho lavorato tanti anni – ad un certo punto, quando si cerca di fare qualcosa, ecc. si passa ai famosi restyling che io, personalmente, proibirei per legge perché il restyling è come cambiare la camicia senza lavarsi le ascelle. Se la cosa non va, non è perché c’è un po’ più di nero in prima pagina o un po’ più bianco, o il titolo è un po’ più grosso, il pastone o il corsivo... Poi l’effetto del restyling dura due settimane, perché dopo due settimane il lettore non si ricorda più come era fatto il giornale prima. A me fa impressione vedere quanti dei giornali che non hanno capito la Brexit, non hanno capito Trump, non hanno capito il referendum istituzionale in Italia, ecc. Poi varano l’inserto culturale o, appunto, il restyling... E’ ben altro, a me pare, il problema. E’ un problema molto di sostanza. E’ molto di sostanza e per niente di forma.
La soluzione?
Vorrei aggiungere una cosa, se posso... Come dicevo prima sto andando molto in giro e ho la fortuna di essere ricevuto in gruppi che, voglio dire... ho incontrato persone sempre con effetti piacevoli, molto di destra, anzi di destra destra, con la celtica, ecc. E tanti molto di sinistra, di sinistra-sinistra, passando in mezzo per tante gradazioni (ambienti laici, ambienti cattolici, ecc). E quello che io ho verificato, e credo che dovrebbe essere un pensiero nostro, di chi fa informazione, è che ci sono alcuni temi, sono i soliti, sono quelli fondamentali di cui stiamo discutendo: il lavoro, l’immigrazione, la denatalità... Su alcuni temi portanti per la vita nazionale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per tutto quello che c’è in mezzo, ci sono delle consonanze molto ma molto superiori a quelle che gli stessi protagonisti immaginerebbero. E una di quelle consonanze è, appunto, la sfiducia totale nell’informazione corrente. Secondo me su quello bisognerebbe indagare e lavorare un po’ di più.
Bene, hai risposto anche alla domanda che volevo fare. Grazie ancora per la disponibilità e complimenti per il suo lavoro perché, lei rappresenta, nonostante le difficoltà, uno di quei pochi giornalisti che riescono a muoversi in un modo libero. Questo lo possiamo dire. Grazie, buon lavoro.
Grazie, troppo buoni. Buon lavoro a voi.
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Gli Stati Uniti evocano la guerra contro la Corea del Nord, ma chiedono alla Cina di fare il “lavoro sporco”
Se l’ambasciatore degli Usa all’Onu afferma che “Ora la guerra è più vicina”, diventa impossibile – e letale – sottovalutare il clima che si va determinando nelle relazioni internazionali. Sono parole pesanti quelle pronunciate dall’ambasciatrice americana all’Onu Nikki Haley, durante il consiglio di sicurezza convocato d’urgenza sulle tensioni nucleari con la Corea del Nord. Fanno meno effetto gli insulti di Trump verso Kim Jon Un, una guerra delle parole non produce morti e distruzione, rende ridicoli solo gli autori.
Negli Usa al momento sono allo studio nuove sanzioni finanziarie, mentre il Pentagono valuta l’ipotesi di un blocco navale intorno alle coste della Corea del Nord (di fatto un atto di guerra). In realtà sono in molti a volere – e a sperare – che sia la Cina a fare il “lavoro sporco” contro la Corea del Nord per conto della cosiddetta comunità internazionale (che in questo caso coincide solo con Usa e Giappone).
Dagli Usa è partito l’ennesimo appello rivolto soprattutto a Pechino per “tagliare tutti i rapporti con Pyongyang”, per isolare ulteriormente la Corea del Nord: dai rapporti diplomatici, alla cooperazione militare, scientifica e commerciale, passando per lo stop a tutte le importazioni ed esportazioni. “Alcuni paesi invece continuano ancora a finanziare il programma nucleare nordcoreano” ha tuonato l’ambasciatrice statunitense all’Onu. il presidente Usa Donald Trump ha discusso la situazione con il presidente cinese Xi Jinping invitandolo a “tagliare le forniture di petrolio” verso Pyongyang, una decisione che metterebbe in ginocchio l’economia del Paese. “Sarebbe un passo decisivo negli sforzi mondiali per fermare questo reietto internazionale”. Contestualmente l’ambasciatrice statunitense all’Onu, Nikky Haley ha minacciato anche che se Pechino non dovesse agire per interrompere le forniture gli Stati Uniti “potrebbero prendere la situazione del greggio nelle proprie mani”.
I dati rilevati da Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud confermano che il missile lanciato martedì è il più potente mai testato da Pyongyang. Il ministro della Difesa giapponese, Itsunori Onodera, ha riferito che il missile si è suddiviso in più parti durante la fase terminale del suo volo, e non è dunque da escludere che Pyongyang abbia testato un vettore a testate multiple indipendenti capace di raggiungere la costa orientale degli Stati Uniti. Uno scenario da incubo imprevisto e imprevedibile fino a pochi mesi fa per la potenza occidentale che ha fatto della supremazia militare l’ultimo e unico asset da giocare nella ridefinizione – a loro svantaggio – delle relazioni internazionali nel loro complesso.
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Leila Khaled, simbolo di resistenza, respinta dall’Italia
“É un’equazione: dove c’è occupazione, c’è resistenza. Non può essere diversamente, quando sei oppresso resisti”. Queste le parole pronunciate in una recente intervista da parte della militante, resistente e prima guerrigliera donna della storia palestinese: la compagna Leila Khaled.
Da circa un mese l’UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese) stava organizzando una serie di incontri in Italia (Cagliari, Roma e Napoli) per le celebrazioni del 50° anniversario della nascita del Fronte Popolare Liberazione della Palestina (FPLP).
Il Fronte è, attualmente, ancora l’unico partito della sinistra radicale palestinese ad avere un forte seguito nei Territori Occupati (Cisgiordania, Gaza), nei campi profughi palestinesi (Giordania, Siria e soprattutto Libano) e ad essere regolarmente riconosciuto come forza politica sia del Consiglio Nazionale Palestinese, ma sopratutto, dell’OLP (Organizzazione Liberazione Palestina).
Sbarcata all’aeroporto di Fiumicino, invece, le autorità italiane non le hanno riconosciuto il visto di ingresso nel nostro stato o, come meglio precisato dalle autorità di polizia, “dell’area Shengen”. Una banale scusa, facilmente confutabile, visto che nei mesi scorsi Leila Khaled aveva partecipato ad altre manifestazioni simili in Spagna e in Belgio: a Bruxelles aveva fatto un intervento al Parlamento Europeo.
Molto probabilmente le autorità italiane, come si temeva dall’inizio, si sono sottomesse ai diktat ed alle pressioni israeliane per boicottare l’ingresso della militante ed icona di tutta l’area anti-sionista e antimperialista internazionale. Pressioni che sono arrivate con numerose interrogazioni e interpellanze di esponenti politici in maniera trasversale, da Forza Italia al Partito Democratico, o con una campagna mediatica della stampa mainstream (Corriere, La Stampa, La Repubblica, Il Mattino) denigratoria e ignorante nei confronti della Khaled.
Secondo la quasi totalità dei numerosi editorialisti interpellati, Leila Khaled è considerata ancora oggi, dopo 40 anni, una “terrorista”. Un termine purtroppo attualmente inflazionato a causa dei numerosi attentati che insanguinano l’Europa come i paesi musulmani e sono frutto del terrorismo di matrice jihadista. La guerrigliera Khaled, al contrario, viene considerata da gran parte dei movimenti antagonisti come un’appartenente alla Resistenza Palestinese contro l’occupazione israeliana.
Gli episodi incriminati sono i due dirottamenti ai quale la Khaled partecipò. Il FPLP aveva avviato una serie di dirottamenti con l’obiettivo di far conoscere al mondo la frustrazione, gli omicidi, l’umiliazione e la feroce condizione di occupazione portata avanti dal Tel Aviv. Una pratica, quella dei dirottamenti, che funzionò e fu poi anche utilizzata da altre formazioni palestinesi, anche se i dirottamenti dovevano essere prevalentemente dei “catalizzatori mediatici” e non dovevano “mai in nessun caso provocare vittime innocenti” secondo le parole della stessa Khaled. “Sarebbe un controsenso per la stessa ideologia del nostro partito” – affermò l’allora segretario del FPLP George Habbash – “combattere per gli oppressi (i palestinesi,ndr) e uccidere degli innocenti”.
Il primo dirottamento (volo TWA Los Angeles – Tel Aviv) fu eseguito nel 1969. La Khaled con un altro militante del Fronte salì a Roma (ironia della sorte) ed il volo fu fatto atterrare a Damasco: tutti i passeggeri sbarcarono incolumi e l’aereo fu fatto esplodere. Il secondo dirottamento fu quello del 1970 (volo El Al Amsterdam – New York) nel quale un agente di sicurezza israeliano riuscì a sventare il tentativo di dirottamento ed uccise il compagno della Khaled, Patrick Arguello, americano di origine nicaraguense. “Avevo con me due bombe a mano” – dichiarò la Khaled nel suo libro autobiografico “Il mio popolo vivrà” – “ma ovviamente non le utilizzai per uccidere degli innocenti”. L’aereo fu fatto atterrare a Londra, dove la militante del Fronte venne incarcerata per essere poi liberata dopo uno scambio di prigionieri.
Leila Khaled è, per tutta una generazione, una guerrigliera ed una partigiana perché da sempre ha giustificato le proprie azioni – di fatto non uccise mai nessuno – come gesti di lotta per liberare una terra ingiustamente occupata, per combattere contro l’assassinio di migliaia di palestinesi (pratica tuttora utilizzata dal governo di Tel Aviv), per resistere ad una continua violazione dei diritti di un popolo che da oltre 70 anni vive oppresso e recluso o esiliato.
Combattere per la libertà di un popolo, per la restituzione di una terra e contro un’occupazione si può, quindi, considerare, come per i nostri partigiani, terrorismo o resistenza?
Fonte
Da circa un mese l’UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese) stava organizzando una serie di incontri in Italia (Cagliari, Roma e Napoli) per le celebrazioni del 50° anniversario della nascita del Fronte Popolare Liberazione della Palestina (FPLP).
Il Fronte è, attualmente, ancora l’unico partito della sinistra radicale palestinese ad avere un forte seguito nei Territori Occupati (Cisgiordania, Gaza), nei campi profughi palestinesi (Giordania, Siria e soprattutto Libano) e ad essere regolarmente riconosciuto come forza politica sia del Consiglio Nazionale Palestinese, ma sopratutto, dell’OLP (Organizzazione Liberazione Palestina).
Sbarcata all’aeroporto di Fiumicino, invece, le autorità italiane non le hanno riconosciuto il visto di ingresso nel nostro stato o, come meglio precisato dalle autorità di polizia, “dell’area Shengen”. Una banale scusa, facilmente confutabile, visto che nei mesi scorsi Leila Khaled aveva partecipato ad altre manifestazioni simili in Spagna e in Belgio: a Bruxelles aveva fatto un intervento al Parlamento Europeo.
Molto probabilmente le autorità italiane, come si temeva dall’inizio, si sono sottomesse ai diktat ed alle pressioni israeliane per boicottare l’ingresso della militante ed icona di tutta l’area anti-sionista e antimperialista internazionale. Pressioni che sono arrivate con numerose interrogazioni e interpellanze di esponenti politici in maniera trasversale, da Forza Italia al Partito Democratico, o con una campagna mediatica della stampa mainstream (Corriere, La Stampa, La Repubblica, Il Mattino) denigratoria e ignorante nei confronti della Khaled.
Secondo la quasi totalità dei numerosi editorialisti interpellati, Leila Khaled è considerata ancora oggi, dopo 40 anni, una “terrorista”. Un termine purtroppo attualmente inflazionato a causa dei numerosi attentati che insanguinano l’Europa come i paesi musulmani e sono frutto del terrorismo di matrice jihadista. La guerrigliera Khaled, al contrario, viene considerata da gran parte dei movimenti antagonisti come un’appartenente alla Resistenza Palestinese contro l’occupazione israeliana.
Gli episodi incriminati sono i due dirottamenti ai quale la Khaled partecipò. Il FPLP aveva avviato una serie di dirottamenti con l’obiettivo di far conoscere al mondo la frustrazione, gli omicidi, l’umiliazione e la feroce condizione di occupazione portata avanti dal Tel Aviv. Una pratica, quella dei dirottamenti, che funzionò e fu poi anche utilizzata da altre formazioni palestinesi, anche se i dirottamenti dovevano essere prevalentemente dei “catalizzatori mediatici” e non dovevano “mai in nessun caso provocare vittime innocenti” secondo le parole della stessa Khaled. “Sarebbe un controsenso per la stessa ideologia del nostro partito” – affermò l’allora segretario del FPLP George Habbash – “combattere per gli oppressi (i palestinesi,ndr) e uccidere degli innocenti”.
Il primo dirottamento (volo TWA Los Angeles – Tel Aviv) fu eseguito nel 1969. La Khaled con un altro militante del Fronte salì a Roma (ironia della sorte) ed il volo fu fatto atterrare a Damasco: tutti i passeggeri sbarcarono incolumi e l’aereo fu fatto esplodere. Il secondo dirottamento fu quello del 1970 (volo El Al Amsterdam – New York) nel quale un agente di sicurezza israeliano riuscì a sventare il tentativo di dirottamento ed uccise il compagno della Khaled, Patrick Arguello, americano di origine nicaraguense. “Avevo con me due bombe a mano” – dichiarò la Khaled nel suo libro autobiografico “Il mio popolo vivrà” – “ma ovviamente non le utilizzai per uccidere degli innocenti”. L’aereo fu fatto atterrare a Londra, dove la militante del Fronte venne incarcerata per essere poi liberata dopo uno scambio di prigionieri.
Leila Khaled è, per tutta una generazione, una guerrigliera ed una partigiana perché da sempre ha giustificato le proprie azioni – di fatto non uccise mai nessuno – come gesti di lotta per liberare una terra ingiustamente occupata, per combattere contro l’assassinio di migliaia di palestinesi (pratica tuttora utilizzata dal governo di Tel Aviv), per resistere ad una continua violazione dei diritti di un popolo che da oltre 70 anni vive oppresso e recluso o esiliato.
Combattere per la libertà di un popolo, per la restituzione di una terra e contro un’occupazione si può, quindi, considerare, come per i nostri partigiani, terrorismo o resistenza?
Fonte
Alternanza scuola lavoro: la nuova schiavitù del lavoro minorile voluta da padroni e Unione Europea
In vista dell’assemblea nazionale della campagna “BastaAlternaza” che si terrà Sabato 2 Dicembre a Roma al Csoa “Intifada” in Via Casalbruciato 15, proponiamo il documento che come Noi Restiamo abbiamo elaborato sull’ASL e la buona scuola.
L’ANALISI DEL FENOMENO
Il Contesto Europeo
Per una riflessione sul senso della legge 107/15 (la cosiddetta Buona Scuola) e in particolare sull’universalizzazione dell’alternanza scuola-lavoro non si può prescindere da una valutazione, seppur breve, del contesto nazionale e internazionale in cui si colloca, e in generale sulla fase storica che il modo di produzione capitalista sta vivendo oggi.
La crisi sistemica in cui viviamo si è manifestata ormai da più di dieci anni e non accenna a risolversi. L’incapacità del sistema di ritrovare un adeguata valorizzazione del capitale, unita alla tendenziale ritirata degli USA come unico stato egemone a livello mondiale, ha portato ad un forte incremento delle pressioni competitive inter-imperialistiche, e alla conseguente destabilizzazione di numerose regioni del mondo. Questa velocizzazione della competizione internazionale ha dato un forte impulso alla necessità di centralizzazione e rafforzamento dell’Unione Europea. Tale processo ovviamente non può che essere fortemente contraddittorio, e ha dato luogo a significative spinte contrarie, sia derivanti dall’opposizione popolare che alle contrapposizioni interne alle varie borghesie nazionali. La forma con cui il polo imperialista in costruzione sta rispondendo a tali contraddizioni passa attraverso la costituzione di un’Europa a due velocità, a cerchi concentrici, in cui il piano decisionale viene definitivamente trasferito nelle mani di una serie di paesi centrali, stretti intorno all’asse franco-tedesco.
Naturalmente questa forma ricalca un processo di ristrutturazione delle forze produttive europee che va avanti da decenni: l’UE si è sin dall’inizio costruita intorno a un Centro produttivo fondato su politiche neo-mercantiliste e su una produzione ad alto valore aggiunto e una Periferia (comprendente sia i paesi mediterranei che quelli dell’est) a svolgere il ruolo di “colonie interne”: sbocco per le merci prodotte al nord, terreno di espansione per i capitali centrali, e bacino di forza lavoro qualificata e non.
Tale processo di ristrutturazione macro-regionale si è poi sempre accompagnato con una ristrutturazione interna ai vari paesi europei (sempre con le dovute differenze ovviamente), improntata allo smantellamento di quel sistema di garanzie sociali e politiche che era stato conquistato nel dopoguerra. Sempre più persone vengono escluse dalla ricchezza prodotta dal sistema, in un processo di polarizzazione della società sempre più marcato. In tutto questo gli stati nazionali e la UE stessa non sono stati soggetti passivi, semplicemente ritirandosi da parte e lasciando agire il mercato, come vorrebbe una certa narrazione del neoliberismo. Al contrario sono stati parte attiva nella produzione di leggi e trattati vincolanti volti alla costruzione di un certo ordine sociale, favorevole alla appropriazione del profitto.
All’interno di questo processo il mondo della formazione svolge un ruolo fondamentale: sia nella centralità nella formazione di competenze utili alla competizione internazionale; sia nella selezione di una classe dirigente europea; sia, infine, come ulteriore strumento di differenziazione tra i diversi paesi europei per ruolo e funzione.
Gia nel Trattato di Maastricht (1992), il testo fondativo dell’Unione Europea come la conosciamo oggi, viene sottolineata l’importanza strategica di una “dimensione europea dell’istruzione”[1], e si pongono le basi per un intervento sovra-nazionale sulla questione. Al Capo 3, articolo 126 leggiamo infatti che “La Comunità contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione “. Tale importanza è ripresa dal Trattato di Amsterdam (1997) in cui si aggiunge al preambolo della Costituzione della Comunità Europea la determinazione a “promuovere lo sviluppo del massimo livello possibile di conoscenza nelle popolazioni attraverso un ampio accesso all’istruzione e attraverso l’aggiornamento costante”.
A questa riconosciuta importanza si associa tuttavia la necessità, da parte della controparte, di ridefinire i rapporti tra educazione pubblica e imprese: è del 1987 il rapporto dell’ERT (European Round Table of Industrialist)[2] in cui si lamentava la distanza tra impresa e scuola, l’eccessiva burocratizzazione delle scuole centralizzate e si auspicavano partenariati tra imprese e scuole con un maggior protagonismo del mondo dell’impresa nell’ambito della discussione pubblica sull’educazione. Vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», che «non comprendono i bisogni dell’industria». Comunque, insiste il Gruppo di Lavoro «competenza ed educazione sono fattori di riuscita vitali». In conclusione, si invitano gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo».
Attualmente il quadro europeo di cooperazione nel settore dell’istruzione e della formazione è rappresentato da ET 2020 (Quadro strategico: istruzione e formazione 2020), adottato dai ministri dell’istruzione dei paesi dell’Unione nel 2009. Tale piano si pone quattro obiettivi da realizzare entro il 2020[3]:
fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà
migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione
promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva
incoraggiare la creatività e l’innovazione, compreso lo spirito imprenditoriale, a tutti i livelli dell’istruzione e della formazione.
All’interno di questi punti troviamo tre concetti chiave che definiscono la visione europea sulla ridefinizione della funzione dell’istruzione: apprendimento permanente, mobilità e spirito imprenditoriale.
Il concetto di lifelong learning (apprendimento permanente) viene introdotto dal Rapporto Faure nel 1972[4] e adottato come parola chiave della strategia europea nel 1994 dal Rapporto Delors[5]. Significa letteralmente che la persona è tenuta a formarsi durante tutto l’arco della vita, dalla nascita alla morte. Infatti la ristrutturazione capitalista post-fordista richiede il precariato come forma di lavoro prevalente, e di conseguenza la capacità di adeguarsi perennemente a nuovi lavori e mansioni. La forza lavoro quindi deve essere in formazione costante, per adeguarsi alle necessità variabili dell’accumulazione flessibile. Con le parole della Commissione[6]:
I nuovi modi di strutturare e gestire gli affari in periodi di recessione economica hanno anche reso obsoleto il concetto di impiego “a vita” nelle grandi aziende. L’apprendimento per tutta la vita, d’altra parte, apre la porta alla facile transizione delle persone ad un altro lavoro, e l’industria appoggia questo concetto incondizionatamente.
Anche l’importanza data alla mobilità è coerente con la ricerca di una forza lavoro flessibile, che possa muoversi agilmente dove vi è più domanda. Nell’ambito dell’istruzione questo processo si traduce in un vero e proprio “furto di cervelli” da parte dei paesi del Centro nei confronti dei paesi mediterranei, un tema che come Noi Restiamo abbiamo già trattato ampiamente.
Infine lo stimolo del cosiddetto “spirito imprenditoriale” funge da cornice ideologica di una società basata sul profitto, in cui i ragazzi sono incentivati a diventare “imprenditori di sé stessi” all’interno di una falsa meritocrazia in cui solo pochi individui riusciranno ad avere “successo”, ed essere sussunti all’interno della classe dirigente europea in formazione.
Se fino a qui abbiamo visto le linee guida per istruzione e formazione che possiamo trovare in report e documenti ufficiali, che necessariamente si rivolgono a tutti i paesi europei, per avere un quadro completo delle influenze che dall’Unione Europea arrivano al nostro sistema scolastico non possiamo ignorare una componente fondamentale: il Rigore di Bilancio. Il Patto di Stabilità e il rispetto dei parametri di Maastricht impongono infatti da più di trenta anni ai paesi membri politiche di riduzione della spesa pubblica che naturalmente vanno anche a toccare l’istruzione pubblica. Naturalmente queste politiche di austerità non impattano (né d’altronde sono applicate con lo stesso rigore su) i diversi paesi nello stesso modo, ma colpiscono coerentemente con il processo di ristrutturazione macro-regionale di cui si parlava sopra. I sistemi educativi dei paesi mediterranei sono stati vittime di pesantissimi tagli negli ultimi trenta anni, che ne hanno compromesso significativamente la qualità. La classe dirigente è ben consapevole di questi processi, e della maniera efficiente di portarli avanti, come appare chiaramente da questo paper pubblicato dall’OCSE[7]:
Dopo questa descrizione di misure rischiose, si possono consigliare, al contrario, numerose misure che non creano difficoltà politica. [..] Se si diminuisce la spesa di gestione, bisogna stare attenti a non calare la quantità del servizio, ma calare la qualità. Si possono ridurre per esempio i finanziamenti a scuole e università, ma sarebbe pericoloso ridurre il numero di allievi e studenti. Le famiglie reagiranno violentemente se non si permette ai loro figli di immatricolarsi, ma non faranno fronte ad un abbassamento graduale della qualità dell’insegnamento e la scuola può progressivamente e puntualmente ottenere un contributo economico dalle famiglie o eliminare alcune attività. Questo si fa passo a passo, prima in una scuola e poi in un’altra, ma non in quella accanto, in modo da evitare il malcontento generalizzato della popolazione
Evoluzione del sistema educativo in Italia: dalle linee guida europee alle Riforme scolastiche.
Come scrive Lorenzo Varaldo nel suo libro La scuola Rovesciata (2016), la scuola pubblica svolge storicamente un duplice ruolo: in quanto scuola è l’istituzione deputata alla trasmissione delle conoscenze e della cultura; in quanto pubblica deve garantire l’universalità di questa trasmissione, indipendentemente dalla condizione sociale, dalla localizzazione geografica e dalle fedi politiche e religiose degli studenti. Lo Stato, fino agli anni ’90, era considerato responsabile di garantire questa doppia funzione, di assicurare che tutti i cittadini ottenessero le conoscenze adeguate per essere messi sulla stessa base di partenza. Non è necessario dire che le mancanze in questo senso sono state enormi durante tutta la storia del sistema educativo italiano, ma il suo ruolo emancipatorio e soprattutto l’universale riconoscimento della sua funzione sono innegabili.
Questi principi iniziano ad essere messi in dubbio negli ultimi due decenni del secolo scorso, attraverso un duplice processo. Da un lato durante gli anni ottanta si fanno strada una serie di teorie pedagogiche e organizzative che sostengono che la scuola non debba trasmettere conoscenze bensì competenze. Gli studenti devono imparare a “organizzare le conoscenze” anziché apprenderle, devono “imparare ad imparare”. Arrivati alla metà degli anni Novanta tali teorie sono diventate talmente dominanti da aver sommerso completamente il dibattito.[8] Ora, è evidente che il metodo “tradizionale” di insegnamento in cui gli studenti sono semplici ricevitori passivi di conoscenza nozionistica non sia l’ideale, e per questo è stato oggetto di forti critiche da parte di movimenti politici o studenteschi.
Ma è altrettanto evidente che tale pressione ideologica sia stata funzionale alla trasmissione di un’idea di competenze, di “saper fare” generico che prepari gli studenti ad un futuro lavorativo precario e evanescente. La scuola deve mettere lo studente nella condizione di essere in grado di apprendere qualsiasi compito gli verrà richiesto nella sua instabile vita lavorativa. Si tratta della flessibilità applicata all’educazione, la base scolastica del processo di apprendimento permanente di cui abbiamo parlato nella precedente sezione. Questo viene detto in modo esplicito nei documenti ufficiali. Nel 1997 l’allora ministro Berlinguer pubblica un documento di lavoro sul riordino dei cicli scolastici in cui scrive[9]:
In un mondo nel quale l’evoluzione dell’organizzazione sociale fa presumere che ciascun individuo, nel corso della propria esistenza, sia chiamato a cambiare più volte la propria attività lavorativa, è evidente che la pretesa della scuola di consegnare saperi, abilità e capacità definitive deve essere in parte abbandonata. [..] È necessaria una prospettiva di educazione permanente che tenga conto del fatto che non esiste più una società nella quale prima si studia e poi si lavora per tutta la vita, magari sempre nello stesso posto di lavoro.
Le somiglianze con le analisi della Commissione Europea prima citate sono evidenti.
Dall’altro lato il principio dell’universalità dell’istruzione pubblica subisce un duro colpo con l’introduzione dell’Autonomia Scolastica attraverso il DPR 275/99, nell’ambito della più ampia riforma dell’amministrazione pubblica varata con la legge Bassanini (legge 59 del 1997). Nello stesso anno il Ministero pubblica Il Libro Verde della Pubblica Istruzione, in cui viene esplicitato l’obiettivo di riforma[10]:
L’istituto dovrà cambiare, diventando sempre di più un ente autoregolato [..] Ossia un sistema che, in primo luogo, definisce da sé fini, mezzi, controlli e trova nel suo interno le competenze e l’energia per svolgere al meglio la sua missione educativa e che, in secondo luogo, sviluppa la cooperazione con altri enti per acquisire le risorse e la massa critica per aderire ai bisogni complessi degli utenti.
Le scuole dovranno diventare quindi sempre di più enti autonomi, sia nella determinazione degli obiettivi didattici che nel reperimento delle risorse. Dal lato formativo lo strumento principe è fornito dalla istituzione all’articolo 3 del DPR 275/99 del Piano di Offerta Formativa, ovvero il “documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”. La parola “offerta” è tipica del mercato, e infatti le scuole sono tenute a competere tra loro attraverso il POF più accattivante o fruibile dalle famiglie. La natura universale dell’istruzione pubblica ne viene fortemente indebolita. Le specificità di un certo collegio docenti, o di un particolare dirigente, o di un certo territorio diventano fondamentali nella determinazione del livello di qualità dell’insegnamento offerto agli studenti.
Dal lato del reperimento delle risorse invece si apre la strada ai finanziamenti privati delle scuole pubbliche, prevedendo che la possibilità di “stipulare convenzioni con università statali o private, ovvero con istituzioni, enti, associazioni o agenzie operanti sul territorio”. Tale possibilità preclude inevitabilmente ad un’influenza di enti privati nella determinazione degli obiettivi educativi, ora così flessibili, nonché ad un’ulteriore differenziazione in scuole di serie A e scuole di serie B. Questo processo verrà alimentato all’estremo dalla recente introduzione della School Bonus da parte della Legge 107/15 (Buona Scuola), ovvero la possibilità a qualsiasi privato di elargire fino a 100.000 euro in cambio di sgravi fiscali.
L’Autonomia Scolastica svolge infatti allo stesso tempo un altro ruolo fondamentale: la cornice adatta ad un progressivo taglio delle spese in istruzione. Le riforme che si susseguono negli anni successivi (Riforma Moratti nel 2003, le modifiche di Fioroni nel 2007 e la Riforma Gelmini nel 2009) rivendicano sempre la piena applicazione dell’Autonomia Scolastica e sono sempre accompagnate da provvedimenti che comportano pesanti tagli (in particolare la Riforma Gelmini), in continuità con la politica di rigore imposta dalla UE. Di questo il ministero è ben consapevole, e infatti si legge nel già citato Libretto Verde della Pubblica Istruzione del 1999
Fino a quando il figlio sa che c’è papà che pensa a tutto [..] bussa alla porta! Quando però i cittadini sanno che lo Stato paga solo le spese di base (uguali da Sondrio a Trapani, a cui si aggiunge il fondo perequativo) si dovranno attrezzare per fare una scuola di qualità. La scuola autonoma, quella che con la formazione e la ricerca darà futuro ai nostri ragazzi, sarà la scuola che ciascuna comunità si costruirà.
Alternanza Scuola-Lavoro
In questo contesto si inserisce la Buona Scuola di Renzi, ed in particolare la generalizzazione e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (introdotta per le scuole professionali già dalla Riforma Moratti). La legge 107/15 prevede che tutti gli studenti debbano svolgere durante il triennio un certo numero di ore di alternanza (200 ore per i licei, 400 ore per gli istituti tecnici/professionali). Dai primi dati raccolti dal MIUR[11] risulta che nell’anno scolastico 15/16 652.6421 studenti abbia partecipato al programma, pari a quasi la metà di tutti gli studenti del triennio (45.7%). In totale l’87.4% delle scuole hanno fatto Alternanza, con percentuali significativamente più alte al Centro-Nord rispetto che al Sud. Al Sud si sono anche avute difficoltà nel reperimento di strutture ospitanti (il 16% del totale).
Il progetto di Alternanza scuola-lavoro è perfettamente coerente con le tendenze generali di evoluzione della scuola italiana che abbiamo presentato fino ad ora. Le riforme, guidate dalle linee guida europee, infatti hanno puntato, da un lato, ad una differenziazione tra i diversi istituti, con l’emergere di istituti di serie A e di serie B; dall’altro ad una preparazione degli studenti tesa all’acquisizione di competenze generiche, atte ad essere applicate a qualsiasi lavoro. Tali competenze ovviamente non possono essere valutate in astratto, e il periodo di alternanza fornisce un perfetto strumento di valutazione.
Inoltre sul un piano ideologico costituirà uno strumento formidabile di egemonia culturale per educare la quasi totalità delle nuove generazioni alla cosiddetta cultura d’impresa, per trasmettere l’importanza dello spirito di imprenditorialità e della meritocrazia. L’importanza di questo messaggio è sottolineata sia da documenti UE[12] che dalle linee guida del MIUR[13]. Tuttavia questa propaganda chiaramente non potrà trovare un’applicazione pratica universale, come si vede chiaramente dalle prime indagini sui primi due anni in cui è stata (ancora a livello parziale) implementata[14], da cui risulta che quasi due terzi dei ragazzi si sono trovati a svolgere mansioni dequalificate e ripetitive, che poco o nulla hanno a che fare con il loro percorso di studi o con una qualsivoglia forma di percorso educativo. Vista la dimensione di massa del programma (che comprende tutti gli studenti degli ultimi tre anni delle superiori per 70/130 ore l’anno) questi risultati non sono inattesi, anzi sono scontati.
Ed è qui che si inserisce l’ultima grande funzione dell’ASL: ovvero la fornitura di un significativo e perennemente rinnovabile monte ore di lavoro gratuito alle imprese. Chiaramente infatti una delle più grande bugie che viene raccontata riguardo all’alternanza scuola lavoro è quella secondo cui essa sarebbe la soluzione alla sempre più crescente disoccupazione giovanile, in quanto permetterebbe agli studenti di avvicinarsi al mondo del lavoro e a fare quella esperienza di cui necessitano. In realtà proprio grazie ad essa il datore di lavoro ha a disposizione ogni anno un bacino di mano d’opera gratuito a cui attingere. Tale infusione di forza lavoro non qualificata costituisce sicuramente un gradito regalo per la redditività delle imprese, permettendo di sostituire direttamente lavoratori finora stipendiati e in generale contribuendo alla maggior ricattabilità della classe lavoratrice nel suo insieme. Si parla di circa un milione di studenti che ogni anno mettono gratuitamente a disposizione la propria forza lavoro, che andrebbero a coprire un monte ore di circa 100.000 lavoratori full time, disincentivando le assunzioni dell’azienda. Non a caso le grandi imprese come McDonald, Zara, Eni (insieme ad altre 13, i cosiddetti Campioni dell’Alternanza) si sono buttate a capofitto in questa possibilità. L’unica funzione “educativa” non esplicitata che l’alternanza reale avrà sarà quella di abituare lo studente ad un futuro di sfruttamento, precarietà e lavoro gratuito non qualificato, coerentemente con il ruolo affidato alla forza lavoro mediterranea nella catena del valore europea. Tutto ciò in perfetta continuità con il Jobs-act ed il suo potenziamento dello strumento dell’apprendistato.
Plausibilmente la contraddizione tra la cornice ideologica attraverso la quale sta venendo presentata l’ASL e la pratica in cui si applica potrà essere terreno di lavoro politico. A maggior ragione in quanto probabilmente questa contraddizione si manifesterà nella determinazione di un’alternanza di serie A e un’alternanza di serie B. Infatti con l’introduzione dell’ASL, unita al provvedimento che permette agli istituti scolastici di ricevere finanziamenti da soggetti privati fino a 100mila euro (i così detti School Bonus), lo Stato opera l’ennesimo passo indietro rispetto al proprio ruolo di garantire un’educazione di qualità per tutti. Vi saranno scuole che per collocazione geografica, accessibilità a risorse private (che dipenderanno da quanto l’istituto formi studenti più o meno potenzialmente utili alle imprese locali), caratteristiche di programmi e capacità del dirigente di intrattenere rapporti con le imprese forniranno un’esperienza formativa che sarà il primo passo nella selezione della classe dirigente da integrare in quella europea, mentre le altre scuole manderanno i propri studenti a girare hamburger. Si accentueranno così le disuguaglianze non solo fra centro e periferia, ma anche tra Nord e Sud del Paese.
L’introduzione dell’impresa privata nella scuola avrà quindi un’influenza nel determinare non solo la didattica attraverso i programmi di insegnamento, ma anche la qualità con cui i programmi verranno portati avanti. Viene meno quindi la funzione dello Stato che si preoccupava di fornire, in quanto diritto costituzionale, un’istruzione pubblica e in linea teorica universale, uniforme, capace di garantire un “livello minimo” di qualità, poiché essa si avvia invece a dipendere in forma sempre più diretta dalle realtà economiche che circondano l’istituto. Da un soggetto pubblico che deve rispondere alla collettività si passa in modo sempre più completo ad una società di mercato dove soggetti privati, diffusi sul territorio nazionale, determinano e direzionano la formazione dei futuri cittadini e lavoratori. La ridefinizione del ruolo di istruzione pubblica compie quindi un ulteriore passo in avanti nella direzione desiderata dalla controparte.
Ricapitolando, l’alternanza non rappresenta solamente un regalo alle imprese, ma anche un progetto educativo di formazione della stragrande maggioranza della popolazione, una riproposizione in chiave ridotta delle contraddizioni di una società che celebra l’individuo e la possibilità di successo, ma che per condizioni oggettive può garantire questo futuro solo ad una parte estremamente minoritaria della popolazione, lasciando il resto nel loro abisso di precarietà e lavoro gratuito. D’altronde il successo, in un’economia capitalista, si basa su una selezione darwiniana in cui è previsto che necessariamente 999 su mille non ce la facciano. Ma di fronte ai dati allarmanti sui fallimenti delle novelle start up, alla chiusura delle aziende e a una disoccupazione sempre più di massa sembra che si voglia trovare un giustificazione non nei difetti del sistema produttivo interessato, ma nei singoli lavoratori/studenti che non sono stati abbastanza brillanti quando ero loro richiesto.
A questo dobbiamo aggiungere il necessario peggioramento generale della didattica all’interno della scuola italiana che seguirà l’introduzione a regime dell’ASL: vengono infatti scissi meccanicamente i due piani della formazione, vale a dire la preparazione teorica e l’educazione pratica, in luoghi diversi e con figure che hanno indubbiamente fini diversi. Da un parte nella scuola si ha un professionista dell’insegnamento che oltre a possedere delle nozioni e una propria formazione, è in grado di impartire ciò che sa e di avere un ruolo di educatore sociale. Dall’altra un soggetto privato tende a utilizzare lo studente per mansioni non qualificate, spesso trascurando l’aspetto dell’acquisizione di determinate conoscenze, ma abituando già lo studente a una precisa forma mentis quale quella di essere un lavoratore flessibile e facilmente sostituibile.
Infine, uno degli altri grandi problemi a cui l’Asl dovrebbe porre rimedio è il fenomeno della dispersione scolastica, che in Italia coinvolge ben il 15% dei ragazzi[15]. Tuttavia di fronte a un livello potenzialmente scadente di insegnamenti pratici, soprattutto a causa dei forti tagli che i laboratori hanno subito (vedi riforma Gelmini), e all’obbligo di dedicarsi gratuitamente all’alternanza, gli studenti si ritroveranno nella condizione in cui sembra più appetibile abbandonare la scuola e dedicarsi direttamente al lavoro. Questa volta però remunerato.
Note:
[1] Trattato di Maastricht, Capo 3, Articolo 126.2
[2] Fondata nel 1983 dai più importanti gruppi industriali europei tra cui Nestlè, Volvo, Lufthansa, Fiat, Nokia, Renault, TOTAL
[3] http://ec.europa.eu/education/policy/strategic-framework_it
[4] Learning to be, E.Faure, UNESCO (1972)
[5] Delors Report, della Commissione Europea presieduta da Jacques Delors, la prima della storia della UE.
[6] Libro dell’istruzione e della formazione. Insegnare e apprendere: verso la società conoscitiva, a cura della Commissione Europea (1995), citato in La scuola rovesciata (Lorenzo Varaldo, 2016).
[7] La faisibilité politique de l’adjustement, Christian Morrison, in “Cahier de politique économique”, OCSE (1996)
[8] La scuola rovesciata ,Lorenzo Varaldo, 2016.
[9] Riordino dei cicli scolastici (documento di lavoro), Ministero della Pubblica Istruzione, gennaio 1997.
[10] Libro Verde della Pubblica istruzione, a cura di F.Butera. Il ministro è sempre Berlinguer.
[11] http://www.istruzione.it/alternanza/primoanno.shtml
[12] Un esempio dal documento della Commissione Europea “Ripensare l’istruzione” (2012): “Prima di lasciare l’istruzione obbligatoria tutti i giovani dovrebbero usufruire di almeno un’esperienza imprenditoriale concreta”
[13] Un esempio dal sito del MIUR (http://www.istruzione.it/alternanza/formazione_docenti.shtml) : “La dimensione orientativa che caratterizza i percorsi di alternanza dovrà trovare compimento attraverso l’incontro con le realtà più dinamiche dell’innovazione nel mondo del lavoro favorendo gli studenti nello sviluppo di competenze chiave espresse dall’Agenda Europea 2020, quali ad esempio l’imprenditorialità, intesa come atteggiamento pro-attivo nei confronti delle problematiche affrontate, e lo spirito di iniziativa. “
[14] http://contropiano.org/news/politica-news/2017/05/31/alternanza-scuola-lavoro-sfruttamento-senza-limiti-092456
[15] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-04-01/poverta-educativa-e-dispersione-scolastica-italia-ritardo-ue-110451.shtml?uuid=AEqAVkx
Fonte
L’ANALISI DEL FENOMENO
Il Contesto Europeo
Per una riflessione sul senso della legge 107/15 (la cosiddetta Buona Scuola) e in particolare sull’universalizzazione dell’alternanza scuola-lavoro non si può prescindere da una valutazione, seppur breve, del contesto nazionale e internazionale in cui si colloca, e in generale sulla fase storica che il modo di produzione capitalista sta vivendo oggi.
La crisi sistemica in cui viviamo si è manifestata ormai da più di dieci anni e non accenna a risolversi. L’incapacità del sistema di ritrovare un adeguata valorizzazione del capitale, unita alla tendenziale ritirata degli USA come unico stato egemone a livello mondiale, ha portato ad un forte incremento delle pressioni competitive inter-imperialistiche, e alla conseguente destabilizzazione di numerose regioni del mondo. Questa velocizzazione della competizione internazionale ha dato un forte impulso alla necessità di centralizzazione e rafforzamento dell’Unione Europea. Tale processo ovviamente non può che essere fortemente contraddittorio, e ha dato luogo a significative spinte contrarie, sia derivanti dall’opposizione popolare che alle contrapposizioni interne alle varie borghesie nazionali. La forma con cui il polo imperialista in costruzione sta rispondendo a tali contraddizioni passa attraverso la costituzione di un’Europa a due velocità, a cerchi concentrici, in cui il piano decisionale viene definitivamente trasferito nelle mani di una serie di paesi centrali, stretti intorno all’asse franco-tedesco.
Naturalmente questa forma ricalca un processo di ristrutturazione delle forze produttive europee che va avanti da decenni: l’UE si è sin dall’inizio costruita intorno a un Centro produttivo fondato su politiche neo-mercantiliste e su una produzione ad alto valore aggiunto e una Periferia (comprendente sia i paesi mediterranei che quelli dell’est) a svolgere il ruolo di “colonie interne”: sbocco per le merci prodotte al nord, terreno di espansione per i capitali centrali, e bacino di forza lavoro qualificata e non.
Tale processo di ristrutturazione macro-regionale si è poi sempre accompagnato con una ristrutturazione interna ai vari paesi europei (sempre con le dovute differenze ovviamente), improntata allo smantellamento di quel sistema di garanzie sociali e politiche che era stato conquistato nel dopoguerra. Sempre più persone vengono escluse dalla ricchezza prodotta dal sistema, in un processo di polarizzazione della società sempre più marcato. In tutto questo gli stati nazionali e la UE stessa non sono stati soggetti passivi, semplicemente ritirandosi da parte e lasciando agire il mercato, come vorrebbe una certa narrazione del neoliberismo. Al contrario sono stati parte attiva nella produzione di leggi e trattati vincolanti volti alla costruzione di un certo ordine sociale, favorevole alla appropriazione del profitto.
All’interno di questo processo il mondo della formazione svolge un ruolo fondamentale: sia nella centralità nella formazione di competenze utili alla competizione internazionale; sia nella selezione di una classe dirigente europea; sia, infine, come ulteriore strumento di differenziazione tra i diversi paesi europei per ruolo e funzione.
Gia nel Trattato di Maastricht (1992), il testo fondativo dell’Unione Europea come la conosciamo oggi, viene sottolineata l’importanza strategica di una “dimensione europea dell’istruzione”[1], e si pongono le basi per un intervento sovra-nazionale sulla questione. Al Capo 3, articolo 126 leggiamo infatti che “La Comunità contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione “. Tale importanza è ripresa dal Trattato di Amsterdam (1997) in cui si aggiunge al preambolo della Costituzione della Comunità Europea la determinazione a “promuovere lo sviluppo del massimo livello possibile di conoscenza nelle popolazioni attraverso un ampio accesso all’istruzione e attraverso l’aggiornamento costante”.
A questa riconosciuta importanza si associa tuttavia la necessità, da parte della controparte, di ridefinire i rapporti tra educazione pubblica e imprese: è del 1987 il rapporto dell’ERT (European Round Table of Industrialist)[2] in cui si lamentava la distanza tra impresa e scuola, l’eccessiva burocratizzazione delle scuole centralizzate e si auspicavano partenariati tra imprese e scuole con un maggior protagonismo del mondo dell’impresa nell’ambito della discussione pubblica sull’educazione. Vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», che «non comprendono i bisogni dell’industria». Comunque, insiste il Gruppo di Lavoro «competenza ed educazione sono fattori di riuscita vitali». In conclusione, si invitano gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo».
Attualmente il quadro europeo di cooperazione nel settore dell’istruzione e della formazione è rappresentato da ET 2020 (Quadro strategico: istruzione e formazione 2020), adottato dai ministri dell’istruzione dei paesi dell’Unione nel 2009. Tale piano si pone quattro obiettivi da realizzare entro il 2020[3]:
fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà
migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione
promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva
incoraggiare la creatività e l’innovazione, compreso lo spirito imprenditoriale, a tutti i livelli dell’istruzione e della formazione.
All’interno di questi punti troviamo tre concetti chiave che definiscono la visione europea sulla ridefinizione della funzione dell’istruzione: apprendimento permanente, mobilità e spirito imprenditoriale.
Il concetto di lifelong learning (apprendimento permanente) viene introdotto dal Rapporto Faure nel 1972[4] e adottato come parola chiave della strategia europea nel 1994 dal Rapporto Delors[5]. Significa letteralmente che la persona è tenuta a formarsi durante tutto l’arco della vita, dalla nascita alla morte. Infatti la ristrutturazione capitalista post-fordista richiede il precariato come forma di lavoro prevalente, e di conseguenza la capacità di adeguarsi perennemente a nuovi lavori e mansioni. La forza lavoro quindi deve essere in formazione costante, per adeguarsi alle necessità variabili dell’accumulazione flessibile. Con le parole della Commissione[6]:
I nuovi modi di strutturare e gestire gli affari in periodi di recessione economica hanno anche reso obsoleto il concetto di impiego “a vita” nelle grandi aziende. L’apprendimento per tutta la vita, d’altra parte, apre la porta alla facile transizione delle persone ad un altro lavoro, e l’industria appoggia questo concetto incondizionatamente.
Anche l’importanza data alla mobilità è coerente con la ricerca di una forza lavoro flessibile, che possa muoversi agilmente dove vi è più domanda. Nell’ambito dell’istruzione questo processo si traduce in un vero e proprio “furto di cervelli” da parte dei paesi del Centro nei confronti dei paesi mediterranei, un tema che come Noi Restiamo abbiamo già trattato ampiamente.
Infine lo stimolo del cosiddetto “spirito imprenditoriale” funge da cornice ideologica di una società basata sul profitto, in cui i ragazzi sono incentivati a diventare “imprenditori di sé stessi” all’interno di una falsa meritocrazia in cui solo pochi individui riusciranno ad avere “successo”, ed essere sussunti all’interno della classe dirigente europea in formazione.
Se fino a qui abbiamo visto le linee guida per istruzione e formazione che possiamo trovare in report e documenti ufficiali, che necessariamente si rivolgono a tutti i paesi europei, per avere un quadro completo delle influenze che dall’Unione Europea arrivano al nostro sistema scolastico non possiamo ignorare una componente fondamentale: il Rigore di Bilancio. Il Patto di Stabilità e il rispetto dei parametri di Maastricht impongono infatti da più di trenta anni ai paesi membri politiche di riduzione della spesa pubblica che naturalmente vanno anche a toccare l’istruzione pubblica. Naturalmente queste politiche di austerità non impattano (né d’altronde sono applicate con lo stesso rigore su) i diversi paesi nello stesso modo, ma colpiscono coerentemente con il processo di ristrutturazione macro-regionale di cui si parlava sopra. I sistemi educativi dei paesi mediterranei sono stati vittime di pesantissimi tagli negli ultimi trenta anni, che ne hanno compromesso significativamente la qualità. La classe dirigente è ben consapevole di questi processi, e della maniera efficiente di portarli avanti, come appare chiaramente da questo paper pubblicato dall’OCSE[7]:
Dopo questa descrizione di misure rischiose, si possono consigliare, al contrario, numerose misure che non creano difficoltà politica. [..] Se si diminuisce la spesa di gestione, bisogna stare attenti a non calare la quantità del servizio, ma calare la qualità. Si possono ridurre per esempio i finanziamenti a scuole e università, ma sarebbe pericoloso ridurre il numero di allievi e studenti. Le famiglie reagiranno violentemente se non si permette ai loro figli di immatricolarsi, ma non faranno fronte ad un abbassamento graduale della qualità dell’insegnamento e la scuola può progressivamente e puntualmente ottenere un contributo economico dalle famiglie o eliminare alcune attività. Questo si fa passo a passo, prima in una scuola e poi in un’altra, ma non in quella accanto, in modo da evitare il malcontento generalizzato della popolazione
Evoluzione del sistema educativo in Italia: dalle linee guida europee alle Riforme scolastiche.
Come scrive Lorenzo Varaldo nel suo libro La scuola Rovesciata (2016), la scuola pubblica svolge storicamente un duplice ruolo: in quanto scuola è l’istituzione deputata alla trasmissione delle conoscenze e della cultura; in quanto pubblica deve garantire l’universalità di questa trasmissione, indipendentemente dalla condizione sociale, dalla localizzazione geografica e dalle fedi politiche e religiose degli studenti. Lo Stato, fino agli anni ’90, era considerato responsabile di garantire questa doppia funzione, di assicurare che tutti i cittadini ottenessero le conoscenze adeguate per essere messi sulla stessa base di partenza. Non è necessario dire che le mancanze in questo senso sono state enormi durante tutta la storia del sistema educativo italiano, ma il suo ruolo emancipatorio e soprattutto l’universale riconoscimento della sua funzione sono innegabili.
Questi principi iniziano ad essere messi in dubbio negli ultimi due decenni del secolo scorso, attraverso un duplice processo. Da un lato durante gli anni ottanta si fanno strada una serie di teorie pedagogiche e organizzative che sostengono che la scuola non debba trasmettere conoscenze bensì competenze. Gli studenti devono imparare a “organizzare le conoscenze” anziché apprenderle, devono “imparare ad imparare”. Arrivati alla metà degli anni Novanta tali teorie sono diventate talmente dominanti da aver sommerso completamente il dibattito.[8] Ora, è evidente che il metodo “tradizionale” di insegnamento in cui gli studenti sono semplici ricevitori passivi di conoscenza nozionistica non sia l’ideale, e per questo è stato oggetto di forti critiche da parte di movimenti politici o studenteschi.
Ma è altrettanto evidente che tale pressione ideologica sia stata funzionale alla trasmissione di un’idea di competenze, di “saper fare” generico che prepari gli studenti ad un futuro lavorativo precario e evanescente. La scuola deve mettere lo studente nella condizione di essere in grado di apprendere qualsiasi compito gli verrà richiesto nella sua instabile vita lavorativa. Si tratta della flessibilità applicata all’educazione, la base scolastica del processo di apprendimento permanente di cui abbiamo parlato nella precedente sezione. Questo viene detto in modo esplicito nei documenti ufficiali. Nel 1997 l’allora ministro Berlinguer pubblica un documento di lavoro sul riordino dei cicli scolastici in cui scrive[9]:
In un mondo nel quale l’evoluzione dell’organizzazione sociale fa presumere che ciascun individuo, nel corso della propria esistenza, sia chiamato a cambiare più volte la propria attività lavorativa, è evidente che la pretesa della scuola di consegnare saperi, abilità e capacità definitive deve essere in parte abbandonata. [..] È necessaria una prospettiva di educazione permanente che tenga conto del fatto che non esiste più una società nella quale prima si studia e poi si lavora per tutta la vita, magari sempre nello stesso posto di lavoro.
Le somiglianze con le analisi della Commissione Europea prima citate sono evidenti.
Dall’altro lato il principio dell’universalità dell’istruzione pubblica subisce un duro colpo con l’introduzione dell’Autonomia Scolastica attraverso il DPR 275/99, nell’ambito della più ampia riforma dell’amministrazione pubblica varata con la legge Bassanini (legge 59 del 1997). Nello stesso anno il Ministero pubblica Il Libro Verde della Pubblica Istruzione, in cui viene esplicitato l’obiettivo di riforma[10]:
L’istituto dovrà cambiare, diventando sempre di più un ente autoregolato [..] Ossia un sistema che, in primo luogo, definisce da sé fini, mezzi, controlli e trova nel suo interno le competenze e l’energia per svolgere al meglio la sua missione educativa e che, in secondo luogo, sviluppa la cooperazione con altri enti per acquisire le risorse e la massa critica per aderire ai bisogni complessi degli utenti.
Le scuole dovranno diventare quindi sempre di più enti autonomi, sia nella determinazione degli obiettivi didattici che nel reperimento delle risorse. Dal lato formativo lo strumento principe è fornito dalla istituzione all’articolo 3 del DPR 275/99 del Piano di Offerta Formativa, ovvero il “documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche”. La parola “offerta” è tipica del mercato, e infatti le scuole sono tenute a competere tra loro attraverso il POF più accattivante o fruibile dalle famiglie. La natura universale dell’istruzione pubblica ne viene fortemente indebolita. Le specificità di un certo collegio docenti, o di un particolare dirigente, o di un certo territorio diventano fondamentali nella determinazione del livello di qualità dell’insegnamento offerto agli studenti.
Dal lato del reperimento delle risorse invece si apre la strada ai finanziamenti privati delle scuole pubbliche, prevedendo che la possibilità di “stipulare convenzioni con università statali o private, ovvero con istituzioni, enti, associazioni o agenzie operanti sul territorio”. Tale possibilità preclude inevitabilmente ad un’influenza di enti privati nella determinazione degli obiettivi educativi, ora così flessibili, nonché ad un’ulteriore differenziazione in scuole di serie A e scuole di serie B. Questo processo verrà alimentato all’estremo dalla recente introduzione della School Bonus da parte della Legge 107/15 (Buona Scuola), ovvero la possibilità a qualsiasi privato di elargire fino a 100.000 euro in cambio di sgravi fiscali.
L’Autonomia Scolastica svolge infatti allo stesso tempo un altro ruolo fondamentale: la cornice adatta ad un progressivo taglio delle spese in istruzione. Le riforme che si susseguono negli anni successivi (Riforma Moratti nel 2003, le modifiche di Fioroni nel 2007 e la Riforma Gelmini nel 2009) rivendicano sempre la piena applicazione dell’Autonomia Scolastica e sono sempre accompagnate da provvedimenti che comportano pesanti tagli (in particolare la Riforma Gelmini), in continuità con la politica di rigore imposta dalla UE. Di questo il ministero è ben consapevole, e infatti si legge nel già citato Libretto Verde della Pubblica Istruzione del 1999
Fino a quando il figlio sa che c’è papà che pensa a tutto [..] bussa alla porta! Quando però i cittadini sanno che lo Stato paga solo le spese di base (uguali da Sondrio a Trapani, a cui si aggiunge il fondo perequativo) si dovranno attrezzare per fare una scuola di qualità. La scuola autonoma, quella che con la formazione e la ricerca darà futuro ai nostri ragazzi, sarà la scuola che ciascuna comunità si costruirà.
Alternanza Scuola-Lavoro
In questo contesto si inserisce la Buona Scuola di Renzi, ed in particolare la generalizzazione e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (introdotta per le scuole professionali già dalla Riforma Moratti). La legge 107/15 prevede che tutti gli studenti debbano svolgere durante il triennio un certo numero di ore di alternanza (200 ore per i licei, 400 ore per gli istituti tecnici/professionali). Dai primi dati raccolti dal MIUR[11] risulta che nell’anno scolastico 15/16 652.6421 studenti abbia partecipato al programma, pari a quasi la metà di tutti gli studenti del triennio (45.7%). In totale l’87.4% delle scuole hanno fatto Alternanza, con percentuali significativamente più alte al Centro-Nord rispetto che al Sud. Al Sud si sono anche avute difficoltà nel reperimento di strutture ospitanti (il 16% del totale).
Il progetto di Alternanza scuola-lavoro è perfettamente coerente con le tendenze generali di evoluzione della scuola italiana che abbiamo presentato fino ad ora. Le riforme, guidate dalle linee guida europee, infatti hanno puntato, da un lato, ad una differenziazione tra i diversi istituti, con l’emergere di istituti di serie A e di serie B; dall’altro ad una preparazione degli studenti tesa all’acquisizione di competenze generiche, atte ad essere applicate a qualsiasi lavoro. Tali competenze ovviamente non possono essere valutate in astratto, e il periodo di alternanza fornisce un perfetto strumento di valutazione.
Inoltre sul un piano ideologico costituirà uno strumento formidabile di egemonia culturale per educare la quasi totalità delle nuove generazioni alla cosiddetta cultura d’impresa, per trasmettere l’importanza dello spirito di imprenditorialità e della meritocrazia. L’importanza di questo messaggio è sottolineata sia da documenti UE[12] che dalle linee guida del MIUR[13]. Tuttavia questa propaganda chiaramente non potrà trovare un’applicazione pratica universale, come si vede chiaramente dalle prime indagini sui primi due anni in cui è stata (ancora a livello parziale) implementata[14], da cui risulta che quasi due terzi dei ragazzi si sono trovati a svolgere mansioni dequalificate e ripetitive, che poco o nulla hanno a che fare con il loro percorso di studi o con una qualsivoglia forma di percorso educativo. Vista la dimensione di massa del programma (che comprende tutti gli studenti degli ultimi tre anni delle superiori per 70/130 ore l’anno) questi risultati non sono inattesi, anzi sono scontati.
Ed è qui che si inserisce l’ultima grande funzione dell’ASL: ovvero la fornitura di un significativo e perennemente rinnovabile monte ore di lavoro gratuito alle imprese. Chiaramente infatti una delle più grande bugie che viene raccontata riguardo all’alternanza scuola lavoro è quella secondo cui essa sarebbe la soluzione alla sempre più crescente disoccupazione giovanile, in quanto permetterebbe agli studenti di avvicinarsi al mondo del lavoro e a fare quella esperienza di cui necessitano. In realtà proprio grazie ad essa il datore di lavoro ha a disposizione ogni anno un bacino di mano d’opera gratuito a cui attingere. Tale infusione di forza lavoro non qualificata costituisce sicuramente un gradito regalo per la redditività delle imprese, permettendo di sostituire direttamente lavoratori finora stipendiati e in generale contribuendo alla maggior ricattabilità della classe lavoratrice nel suo insieme. Si parla di circa un milione di studenti che ogni anno mettono gratuitamente a disposizione la propria forza lavoro, che andrebbero a coprire un monte ore di circa 100.000 lavoratori full time, disincentivando le assunzioni dell’azienda. Non a caso le grandi imprese come McDonald, Zara, Eni (insieme ad altre 13, i cosiddetti Campioni dell’Alternanza) si sono buttate a capofitto in questa possibilità. L’unica funzione “educativa” non esplicitata che l’alternanza reale avrà sarà quella di abituare lo studente ad un futuro di sfruttamento, precarietà e lavoro gratuito non qualificato, coerentemente con il ruolo affidato alla forza lavoro mediterranea nella catena del valore europea. Tutto ciò in perfetta continuità con il Jobs-act ed il suo potenziamento dello strumento dell’apprendistato.
Plausibilmente la contraddizione tra la cornice ideologica attraverso la quale sta venendo presentata l’ASL e la pratica in cui si applica potrà essere terreno di lavoro politico. A maggior ragione in quanto probabilmente questa contraddizione si manifesterà nella determinazione di un’alternanza di serie A e un’alternanza di serie B. Infatti con l’introduzione dell’ASL, unita al provvedimento che permette agli istituti scolastici di ricevere finanziamenti da soggetti privati fino a 100mila euro (i così detti School Bonus), lo Stato opera l’ennesimo passo indietro rispetto al proprio ruolo di garantire un’educazione di qualità per tutti. Vi saranno scuole che per collocazione geografica, accessibilità a risorse private (che dipenderanno da quanto l’istituto formi studenti più o meno potenzialmente utili alle imprese locali), caratteristiche di programmi e capacità del dirigente di intrattenere rapporti con le imprese forniranno un’esperienza formativa che sarà il primo passo nella selezione della classe dirigente da integrare in quella europea, mentre le altre scuole manderanno i propri studenti a girare hamburger. Si accentueranno così le disuguaglianze non solo fra centro e periferia, ma anche tra Nord e Sud del Paese.
L’introduzione dell’impresa privata nella scuola avrà quindi un’influenza nel determinare non solo la didattica attraverso i programmi di insegnamento, ma anche la qualità con cui i programmi verranno portati avanti. Viene meno quindi la funzione dello Stato che si preoccupava di fornire, in quanto diritto costituzionale, un’istruzione pubblica e in linea teorica universale, uniforme, capace di garantire un “livello minimo” di qualità, poiché essa si avvia invece a dipendere in forma sempre più diretta dalle realtà economiche che circondano l’istituto. Da un soggetto pubblico che deve rispondere alla collettività si passa in modo sempre più completo ad una società di mercato dove soggetti privati, diffusi sul territorio nazionale, determinano e direzionano la formazione dei futuri cittadini e lavoratori. La ridefinizione del ruolo di istruzione pubblica compie quindi un ulteriore passo in avanti nella direzione desiderata dalla controparte.
Ricapitolando, l’alternanza non rappresenta solamente un regalo alle imprese, ma anche un progetto educativo di formazione della stragrande maggioranza della popolazione, una riproposizione in chiave ridotta delle contraddizioni di una società che celebra l’individuo e la possibilità di successo, ma che per condizioni oggettive può garantire questo futuro solo ad una parte estremamente minoritaria della popolazione, lasciando il resto nel loro abisso di precarietà e lavoro gratuito. D’altronde il successo, in un’economia capitalista, si basa su una selezione darwiniana in cui è previsto che necessariamente 999 su mille non ce la facciano. Ma di fronte ai dati allarmanti sui fallimenti delle novelle start up, alla chiusura delle aziende e a una disoccupazione sempre più di massa sembra che si voglia trovare un giustificazione non nei difetti del sistema produttivo interessato, ma nei singoli lavoratori/studenti che non sono stati abbastanza brillanti quando ero loro richiesto.
A questo dobbiamo aggiungere il necessario peggioramento generale della didattica all’interno della scuola italiana che seguirà l’introduzione a regime dell’ASL: vengono infatti scissi meccanicamente i due piani della formazione, vale a dire la preparazione teorica e l’educazione pratica, in luoghi diversi e con figure che hanno indubbiamente fini diversi. Da un parte nella scuola si ha un professionista dell’insegnamento che oltre a possedere delle nozioni e una propria formazione, è in grado di impartire ciò che sa e di avere un ruolo di educatore sociale. Dall’altra un soggetto privato tende a utilizzare lo studente per mansioni non qualificate, spesso trascurando l’aspetto dell’acquisizione di determinate conoscenze, ma abituando già lo studente a una precisa forma mentis quale quella di essere un lavoratore flessibile e facilmente sostituibile.
Infine, uno degli altri grandi problemi a cui l’Asl dovrebbe porre rimedio è il fenomeno della dispersione scolastica, che in Italia coinvolge ben il 15% dei ragazzi[15]. Tuttavia di fronte a un livello potenzialmente scadente di insegnamenti pratici, soprattutto a causa dei forti tagli che i laboratori hanno subito (vedi riforma Gelmini), e all’obbligo di dedicarsi gratuitamente all’alternanza, gli studenti si ritroveranno nella condizione in cui sembra più appetibile abbandonare la scuola e dedicarsi direttamente al lavoro. Questa volta però remunerato.
Note:
[1] Trattato di Maastricht, Capo 3, Articolo 126.2
[2] Fondata nel 1983 dai più importanti gruppi industriali europei tra cui Nestlè, Volvo, Lufthansa, Fiat, Nokia, Renault, TOTAL
[3] http://ec.europa.eu/education/policy/strategic-framework_it
[4] Learning to be, E.Faure, UNESCO (1972)
[5] Delors Report, della Commissione Europea presieduta da Jacques Delors, la prima della storia della UE.
[6] Libro dell’istruzione e della formazione. Insegnare e apprendere: verso la società conoscitiva, a cura della Commissione Europea (1995), citato in La scuola rovesciata (Lorenzo Varaldo, 2016).
[7] La faisibilité politique de l’adjustement, Christian Morrison, in “Cahier de politique économique”, OCSE (1996)
[8] La scuola rovesciata ,Lorenzo Varaldo, 2016.
[9] Riordino dei cicli scolastici (documento di lavoro), Ministero della Pubblica Istruzione, gennaio 1997.
[10] Libro Verde della Pubblica istruzione, a cura di F.Butera. Il ministro è sempre Berlinguer.
[11] http://www.istruzione.it/alternanza/primoanno.shtml
[12] Un esempio dal documento della Commissione Europea “Ripensare l’istruzione” (2012): “Prima di lasciare l’istruzione obbligatoria tutti i giovani dovrebbero usufruire di almeno un’esperienza imprenditoriale concreta”
[13] Un esempio dal sito del MIUR (http://www.istruzione.it/alternanza/formazione_docenti.shtml) : “La dimensione orientativa che caratterizza i percorsi di alternanza dovrà trovare compimento attraverso l’incontro con le realtà più dinamiche dell’innovazione nel mondo del lavoro favorendo gli studenti nello sviluppo di competenze chiave espresse dall’Agenda Europea 2020, quali ad esempio l’imprenditorialità, intesa come atteggiamento pro-attivo nei confronti delle problematiche affrontate, e lo spirito di iniziativa. “
[14] http://contropiano.org/news/politica-news/2017/05/31/alternanza-scuola-lavoro-sfruttamento-senza-limiti-092456
[15] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-04-01/poverta-educativa-e-dispersione-scolastica-italia-ritardo-ue-110451.shtml?uuid=AEqAVkx
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Unione Europea e Unione Africana sulle macerie di un continente
L’Unione europea e l’Unione africana si ritrovano nel loro 5° summit dal 29 al 30 novembre ad Abidjan (Costa D’Avorio), a distanza di 17 anni dall’accordo adottato in sostituzione della Convenzione di Lome (Togo) del 1975, sulle macerie di scelte politico-economiche e ambientali imposte all’Africa non senza la complicità di alcuni dirigenti africani.
L’accordo di Cotonou (Benin) del 2000, firmato tra la Ue e il gruppo degli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, con scadenza nel mese di febbraio del 2020 mirava, secondo i suoi promotori, a sradicare la povertà poggiando su tre pilastri:
• la cooperazione allo sviluppo
• la cooperazione economica e commerciale
• la dimensione politica
Oggi il contesto non è quello della Conferenza di Berlino, tenutasi dal 15 novembre 1884 al 26 febbraio 1885, con la spartizione del continente africano tra Germania, Francia, Portogallo, Italia, Spagna, Danimarca, Belgio, Olanda, Austria, Turchia (allora Impero ottomano), Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti senza che gli africani potessero dire una sola parola mentre venivano decisi il presente e il futuro di un intero continente.
Dopo 132 anni da quella conferenza, l’Africa vive ancora, insieme alle sue popolazioni, con un cappio al collo nonostante la crescita macroeconomica. L’Africa oggi ha circa 1,25 miliardi di abitanti, sul totale di 7,5 miliardi della popolazione mondiale, il 60% dei quali ha meno 25 anni.
L’impoverimento sistematico e continuo del continente africano è ascrivibile ai danni del fenomeno coloniale e neo coloniale, ma anche a fattori quali i conflitti geopolitici, spesso orchestrati direttamente o indirettamente da chi oggi alza muri e fili spinati. Non è infatti casuale che 489 milioni delle 815 milioni di persone ridotte alla fame vivano in paesi colpiti da conflitti.
Non bastasse questo quadro, va denunciato come nuovi fenomeni quali la sottoscrizione di accordi iniqui – spesso sotto ricatto – stanno facendo sprofondare ancora di più nella miseria e nel caos l’intero continente insieme alla sua giovane popolazione.
L’indipendenza economica continua ad essere ostacolata, eppure essa sola è “il preludio di una lotta nuova e più complessa per la conquista del diritto di gestire le nostre questioni economiche e sociali, fuori dalle pressioni schiaccianti ed umilianti della dominazione e dell’intervento neocolonialista” come diceva Kwame Nkrumah.
A tal proposito è da notare che dal 1945, la moneta di scambio dei paesi dell’Africa occidentale e dell’Africa centrale continua ad essere il Franco CFA (franco delle colonie francesi africane). Oggi, il valore del franco CFA, con il suo collegamento all’euro, è determinato molto di più dagli avvenimenti in seno alla zona euro (1 euro = 655,957 F CFA) che dalla congiuntura in seno ai paesi dove viene utilizzata questa moneta, come sottolineato dall’economista Kako Nubukpo.
Così la vita monetaria ed economica alle Comores ed in quattordici Stati in Africa (Benin, Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Gabon, Guinea-Bissau, Guinea equatoriale, Mali, Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Senegal, Ciad, Togo) resta legata, dopo più di settant’anni “dall’indipendenza”, a una politica monetaria imposta dalla Francia. Quindi un controllo totale e sistematico anche attraverso i depositi bancari obbligatori presso la Banca Centrale francese.
Parliamo quindi di accordi firmati in un’ottica di dominazione mentre risorse naturali e umane vengono saccheggiate. In altri termini parliamo di processi di colonizzazione che possiamo sintetizzare nelle parole di Aimé Césaire: “Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la repressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio, lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, la sfiducia, l’alterigia, la sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite. Nessuno spazio per il contatto umano, ma rapporti di dominazione e di sottomissione che trasformano l’uomo colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurme, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione. Adesso tocca a me porre un’equazione: colonizzazione = cosificazzione”.
L’appuntamento di Abidjan, che va letto anche in ottica di riposizionamento rispetto alla presenza di alcuni paesi dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa) quali la Cina in particolare sul Continente, vede al centroquesti temi:
• pace e sicurezza;
• governance, democrazia, diritti umani, migrazioni e mobilità
• investimenti e commercio
• sviluppo di competenze
• creazione di posti di lavoro
Come già avvenuto in più circostanze, si tratta di “maquillage” linguistico per camuffare e manipolare la realtà rispetto alle disuguaglianze sociali con tassi di disoccupazione equiparabili ad una bomba a orologeria. Proprio le scelte economiche, attraverso la balcanizzazione dell’Africa da parte di multinazionali europee, asiatiche, e statunitensi, trasformano l’intera popolazione africana in dannati della globalizzazione, con la fuga di persone di ogni età verso i confini militarizzati da parte della stessa Ue.
Occorre prendere atto della dimensione disumana e ricattatoria di questi vari accordi, compresa la Strategia comune Ue – Africa del 2007 e l’accordo firmato al vertice di La Valletta (Malta) nel 2015, che dovrebbero portare l’Italia, insieme alla Ue e all’Unione Africana, ad interrogarsi sulle proprie responsabilità morali davanti ai corpi senza vita migliaia di persone morte nel Mediterraneo e nel deserto. Tuttavia questi governanti non sembrano aver l’intenzione di interrogarsi sulle conseguenze del loro operato e della distanza che li separa dal popolo. Già Thomas Sankara, assassinato 30 anni fa, diceva che: “Preferiamo un passo col popolo che dieci passi senza il popolo”.
Le popolazioni, preso atto di questa distanza, hanno avviato processi di costruzione di una coscienza collettiva attraverso iniziative sociali, culturali e di piazza contro l’operato dei dirigenti europei ed africani. La ricerca di convergenze tra i dannati delle politiche di austerità, sia in Africa che in Europa, non può che essere un obiettivo da perseguire. Prova di questa convergenza, oltre alle infinite denunce contro questi accordi e contro ogni forma di schiavitù, è il Summit alternativo “Europa-Africa” in corso sempre in Costa D’Avorio, che vede la partecipazione di delegazioni della CISPM (Coalizione Internazionale Sans Papiers, Migranti, Rifugiati e Richiedenti Asilo), di studenti, contadini, associazioni per la giustizia sociale, di movimento di donne, di lavoratori e disoccupati. Tante le iniziative e gli argomenti al centro dei lavori: giovani e disoccupazione, debiti e nuove forme di colonizzazione, guerre, ambiente, agricoltura, accordi bilaterali e militarizzazione delle frontiere, accaparramento delle terre e sovranità alimentare, lotte sindacali e sociali, libertà di circolazione e di residenza, risorse miniere e naturale, ecc...
Il Summit alternativo “Europa-Africa” va a rafforzare un processo che si vuole popolare coinvolgendo tutti gli esclusi e dannati della globalizzazione, indipendentemente dal colore della pelle, proprio come diceva Toma Sankara: “Le masse popolari in Europa non sono opposte alle masse popolari in Africa ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa, sono gli stessi che sfruttano l’Europa; abbiamo un nemico comune”.
E la manifestazione del 16 dicembre prossimo a Roma sarà un’altra occasione per fa vivere questa necessità di convergenza, poiché le popolazioni in Africa come in Europa sono col cappio al collo per via delle stesse politiche che stanno generando guerra alle persone e Continenti impoveriti.
Coalizione Internazionale Sans Papiers e Migranti (Cispm).
Fonte
L’accordo di Cotonou (Benin) del 2000, firmato tra la Ue e il gruppo degli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, con scadenza nel mese di febbraio del 2020 mirava, secondo i suoi promotori, a sradicare la povertà poggiando su tre pilastri:
• la cooperazione allo sviluppo
• la cooperazione economica e commerciale
• la dimensione politica
Oggi il contesto non è quello della Conferenza di Berlino, tenutasi dal 15 novembre 1884 al 26 febbraio 1885, con la spartizione del continente africano tra Germania, Francia, Portogallo, Italia, Spagna, Danimarca, Belgio, Olanda, Austria, Turchia (allora Impero ottomano), Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti senza che gli africani potessero dire una sola parola mentre venivano decisi il presente e il futuro di un intero continente.
Dopo 132 anni da quella conferenza, l’Africa vive ancora, insieme alle sue popolazioni, con un cappio al collo nonostante la crescita macroeconomica. L’Africa oggi ha circa 1,25 miliardi di abitanti, sul totale di 7,5 miliardi della popolazione mondiale, il 60% dei quali ha meno 25 anni.
L’impoverimento sistematico e continuo del continente africano è ascrivibile ai danni del fenomeno coloniale e neo coloniale, ma anche a fattori quali i conflitti geopolitici, spesso orchestrati direttamente o indirettamente da chi oggi alza muri e fili spinati. Non è infatti casuale che 489 milioni delle 815 milioni di persone ridotte alla fame vivano in paesi colpiti da conflitti.
Non bastasse questo quadro, va denunciato come nuovi fenomeni quali la sottoscrizione di accordi iniqui – spesso sotto ricatto – stanno facendo sprofondare ancora di più nella miseria e nel caos l’intero continente insieme alla sua giovane popolazione.
L’indipendenza economica continua ad essere ostacolata, eppure essa sola è “il preludio di una lotta nuova e più complessa per la conquista del diritto di gestire le nostre questioni economiche e sociali, fuori dalle pressioni schiaccianti ed umilianti della dominazione e dell’intervento neocolonialista” come diceva Kwame Nkrumah.
A tal proposito è da notare che dal 1945, la moneta di scambio dei paesi dell’Africa occidentale e dell’Africa centrale continua ad essere il Franco CFA (franco delle colonie francesi africane). Oggi, il valore del franco CFA, con il suo collegamento all’euro, è determinato molto di più dagli avvenimenti in seno alla zona euro (1 euro = 655,957 F CFA) che dalla congiuntura in seno ai paesi dove viene utilizzata questa moneta, come sottolineato dall’economista Kako Nubukpo.
Così la vita monetaria ed economica alle Comores ed in quattordici Stati in Africa (Benin, Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Gabon, Guinea-Bissau, Guinea equatoriale, Mali, Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Senegal, Ciad, Togo) resta legata, dopo più di settant’anni “dall’indipendenza”, a una politica monetaria imposta dalla Francia. Quindi un controllo totale e sistematico anche attraverso i depositi bancari obbligatori presso la Banca Centrale francese.
Parliamo quindi di accordi firmati in un’ottica di dominazione mentre risorse naturali e umane vengono saccheggiate. In altri termini parliamo di processi di colonizzazione che possiamo sintetizzare nelle parole di Aimé Césaire: “Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la repressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio, lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, la sfiducia, l’alterigia, la sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite. Nessuno spazio per il contatto umano, ma rapporti di dominazione e di sottomissione che trasformano l’uomo colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurme, in frusta e l’indigeno in strumento di produzione. Adesso tocca a me porre un’equazione: colonizzazione = cosificazzione”.
L’appuntamento di Abidjan, che va letto anche in ottica di riposizionamento rispetto alla presenza di alcuni paesi dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa) quali la Cina in particolare sul Continente, vede al centroquesti temi:
• pace e sicurezza;
• governance, democrazia, diritti umani, migrazioni e mobilità
• investimenti e commercio
• sviluppo di competenze
• creazione di posti di lavoro
Come già avvenuto in più circostanze, si tratta di “maquillage” linguistico per camuffare e manipolare la realtà rispetto alle disuguaglianze sociali con tassi di disoccupazione equiparabili ad una bomba a orologeria. Proprio le scelte economiche, attraverso la balcanizzazione dell’Africa da parte di multinazionali europee, asiatiche, e statunitensi, trasformano l’intera popolazione africana in dannati della globalizzazione, con la fuga di persone di ogni età verso i confini militarizzati da parte della stessa Ue.
Occorre prendere atto della dimensione disumana e ricattatoria di questi vari accordi, compresa la Strategia comune Ue – Africa del 2007 e l’accordo firmato al vertice di La Valletta (Malta) nel 2015, che dovrebbero portare l’Italia, insieme alla Ue e all’Unione Africana, ad interrogarsi sulle proprie responsabilità morali davanti ai corpi senza vita migliaia di persone morte nel Mediterraneo e nel deserto. Tuttavia questi governanti non sembrano aver l’intenzione di interrogarsi sulle conseguenze del loro operato e della distanza che li separa dal popolo. Già Thomas Sankara, assassinato 30 anni fa, diceva che: “Preferiamo un passo col popolo che dieci passi senza il popolo”.
Le popolazioni, preso atto di questa distanza, hanno avviato processi di costruzione di una coscienza collettiva attraverso iniziative sociali, culturali e di piazza contro l’operato dei dirigenti europei ed africani. La ricerca di convergenze tra i dannati delle politiche di austerità, sia in Africa che in Europa, non può che essere un obiettivo da perseguire. Prova di questa convergenza, oltre alle infinite denunce contro questi accordi e contro ogni forma di schiavitù, è il Summit alternativo “Europa-Africa” in corso sempre in Costa D’Avorio, che vede la partecipazione di delegazioni della CISPM (Coalizione Internazionale Sans Papiers, Migranti, Rifugiati e Richiedenti Asilo), di studenti, contadini, associazioni per la giustizia sociale, di movimento di donne, di lavoratori e disoccupati. Tante le iniziative e gli argomenti al centro dei lavori: giovani e disoccupazione, debiti e nuove forme di colonizzazione, guerre, ambiente, agricoltura, accordi bilaterali e militarizzazione delle frontiere, accaparramento delle terre e sovranità alimentare, lotte sindacali e sociali, libertà di circolazione e di residenza, risorse miniere e naturale, ecc...
Il Summit alternativo “Europa-Africa” va a rafforzare un processo che si vuole popolare coinvolgendo tutti gli esclusi e dannati della globalizzazione, indipendentemente dal colore della pelle, proprio come diceva Toma Sankara: “Le masse popolari in Europa non sono opposte alle masse popolari in Africa ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa, sono gli stessi che sfruttano l’Europa; abbiamo un nemico comune”.
E la manifestazione del 16 dicembre prossimo a Roma sarà un’altra occasione per fa vivere questa necessità di convergenza, poiché le popolazioni in Africa come in Europa sono col cappio al collo per via delle stesse politiche che stanno generando guerra alle persone e Continenti impoveriti.
Coalizione Internazionale Sans Papiers e Migranti (Cispm).
Fonte
Le ipocrisie del civismo proprietario
La vicenda Retake e il fenomeno del volontarismo antidegrado, a cui abbiamo già dedicato alcune riflessioni nei mesi scorsi (leggi), questa settimana si è arricchito di nuovi aspetti che meritano di essere sottolineati. Prima di tutto i fatti. Domenica scorsa i pasdaran delle spugnette hanno deciso di dedicare le loro attenzioni all’isola pedonale del Pigneto dimenticando, nella loro furia iconoclasta, persino di rispettare quella proprietà privata a cui pure dicono di tenere tanto. I cultori dei muri grigi, senza chiedere il permesso a chicchessia, hanno infatti pensato bene di “ripulire” la serranda e i muri attigui al Tuba Bazar da stickers e poster, cancellando ciò che per loro non risultava conforme al pubblico decoro. La lettera aperta contro questa vera e propria prepotenza operata dai “cittadini perbene”, pubblicata in rete dalle compagne che gestiscono il locale, ha poi fatto scendere in campo a sostegno dei retakers il Savonarola antidegrado di “Roma fa schifo”.
Anche sulla funzione svolta da questo feticista dei secchioni, un tipo triste triste che passa la vita a fotografare i sacchetti della spazzatura, abbiamo già detto la nostra in passato (leggi, leggi). Il buon Tonelli dalla sua pagina Fb ha quindi pubblicamente invitato gli haters che lo seguono a scagliarsi contro il Tuba Bazar condendo i suoi ragionamenti con i soliti luoghi comuni contro il degrado, evidentemente il decoro non prevede il rispetto delle opinioni altrui, neanche quando sono espresse pacatamente. E fin qui, per quanto fastidioso, nulla di nuovo sotto il cielo di Roma. Ciò che invece a nostro avviso rende “interessante” il retake di domenica scorsa è il fatto che questa volta al fianco dei volontari in pettorina blu siano scesi anche gli host di Airbnb del quartiere. Si è operata dunque una saldatura, tanto naturale quanto inquietante, tra il “civismo proprietario” di chi ha paura che il “degrado” diminuisca il valore dei propri investimenti immobiliari (senza mai domandarsi quali siano le ragioni reali dello stato in cui versa la città) e le aspirazioni estetiche di chi sulla gentrificazione dei quartieri specula e fa profitti rigorosamente esentasse. Un circolo vizioso che progressivamente cambia la faccia e la geografia sociale di interi quartieri, distrugge relazioni e comunità, espelle i residenti non abbienti, ne cambia la struttura produttiva trasformandoli in divertimentifici usa e getta, e impoverisce umanamente ed economicamente la città. Un fenomeno contro cui, in altre città europee, sono stati messi in piedi movimenti significativi e che più presto che tardi bisognerà iniziare a prendere di petto anche da noi se vorremo imporre un’idea di città pubblica, solidale e includente.
Fonte
29/11/2017
Facebook diventerà un ministero privato della verità
Il dibattito su privacy e notizie false è
scoppiato ormai da più di un anno e ruota tutto intorno a due temi: il
primo è quello della privacy, vale a dire se Facebook rispetta gli
standard o meno. Il secondo è se Facebook sia solo una piattaforma
(Privata, aggiungiamo noi, sempre meglio ricordarlo) o è anche un
editore. E se le valutazioni se una notizia sia falsa o meno debba
avvenire attraverso algoritmi o con l’intervento umano. A prima vista
sembrano solo questioni tecniche, invece sono diventate discussioni
fondamentali dal momento che ormai Facebook è parte integrante della
sfera privata di ognuno di noi (o quasi) ed è in grado di condizionare
campagne elettorali, voti e immaginario di miliardi di persone. Proviamo
a capire quali sono i problemi e le possibili soluzioni con l’aiuto del
sito Valigiablu.it che ha sempre prodotto
analisi e approfondimenti a riguardo. Partiamo tuttavia da una premessa:
Facebook è lo strumento ma la sostanza del problema sta nei processi di
disinformazione anche dei media classici che devono difendere gli
interessi di chi li finanzia e della classe dominante. La breccia che
tale disinformazione fa in seno al popolo avviene perché c’è sempre meno
investimento nell’istruzione e sempre più distacco fra cittadino e
politica. Facebook quindi è la punta di un iceberg che va molto più in
profondità ed il problema della disinformazione e delle notizie false
non nesce certo con l’azienda di Zuckerberg. Basta solo ricordare la
campagna di falsità prodotta, quando ancora Facebook non esisteva, da
parte di chi voleva iniziare la disastrosa guerra in Iraq con tanto di
Colin Powell che mostrava all’Onu una fiala e delle foto per dimostrare
la presenza di armi di distruzione di massa nel paese di Saddam. Quindi
le bugie e le fake news sono sempre esistite, adesso è solo
cambiato il modo in cui prendono forma e si diffondono. Ed uno dei
motivi per cui spesso molti credono a cose impensabili parte soprattutto
dalla sfiducia, legittima e comprensibile, che si è creata intorno a
media tradizionali e politica. Senza mai scordarsi che solo pochi giorni
fa, quotidiani ritenuti autorevoli hanno pubblicato la foto di una
modella e la hanno indicata come la sorella del kamikaze di Manchester,
diffondendo a loro volta una bufala incredibile.
L’imbroglio di Facebook alla UE. Lo
scorso 18 maggio il Commissario alla Concorrenza della Commissione
europea ha inflitto una multa di 110 milioni di euro (avrebbe potuto
portarla fino a 250 milioni) a Facebook per l’acquisizione di WhatsApp.
Nel 2014 Facebook comunicò alla Commissione l’intenzione di acquisire
WhatsApp ma dichiarò che non poteva stabilire una corrispondenza
automatica tra account Facebook e utenti WhatsApp. Invece nell’agosto
2016, le due aziende annunciarono la possibilità di collegare i numeri
di telefono con gli account degli utenti del social network. E’ stato
accertato anche che nel 2014 Facebook disse una bugia alla Commissione
perché era già in grado al tempo di fare questa operazione. Con
l’acquisizione di WhatsApp, di fatto Facebook ha acquistato un elenco
telefonico da un miliardo di persone, molti dei quali già iscritti alla
propria piattaforma. Con questa mossa Facebook ha ovviato al fatto di
non avere il numero di telefono dei propri utenti (vi ricordate che più
volte aveva provato a chiederlo ogni volta che ci si collegava?) ed
adesso è in grado di abbinare un numero di telefono anche a quei profili
falsi o seminascosti alzando moltissimo le proprie capacità di “profilazione dell’utente”
per poi venderla a fini pubblicitari, operazione che aveva già fatto
nel 2012 con Instagram. C’è però un problema: 110 milioni per Facebook
sono niente. Tanto per farsi un’idea, il colosso dei social network ha
pagato WhatsApp 19 miliardi e nel 2016 ne ha fatti 6 di fatturato e 2
di utile. Come ha scritto giustamente Valigiablu.it nel proprio articolo si tratta praticamente di una “monetizzazione dei diritti” a costi irrisori.
Chi decide se è una fake news? L’evento che fece scoppiare il dibattito su come controllare e segnalare le fake news
fu la bufala, condivisa da migliaia di utenti, del sostegno di Papa
Francesco a Trump durante la campagna elettorale americana. Il dibattito
però si è incentrato sul fatto che dovesse essere un algoritmo a fare
questo lavoro oppure la decisione finale dovesse spettare giocoforza ad
un essere umano. Intanto c’è da precisare una cosa. Come avviene spesso
la bufala raggiunge molte più persone se ne parlano i media tradizionali
che con le condivisioni sui social network. Le fake news sono
argomento che attira il lettore quindi, seppur con finalità diverse,
viaggiano anche per merito di chi le vuole combattere. Fino ad oggi
Facebook ha cercato di limitare il più possibile l’intervento umano per
tutelare la presunta neutralità della piattaforma. E come sempre
qualunque soluzione crea altri problemi. Ci sono due esempi classici che
hanno scaturito polemiche. Il primo è la famosa foto della bambina
vietnamita che scappa nuda sotto il napalm lanciato dall’esercito Usa.
Secondo l’algoritmo era una foto da censurare perché c’è la presenza di
un nudo per di più di una bambina. Ma il valore storico, artistico e
politico di quella foto sappiamo tutti qual è. Il secondo esempio è
quello della sezione editoriale di Facebook, le “trending news”, cioè le
notizie più cliccate. Prima c’era un algoritmo che sceglieva le notizie
ma con la testimonianza di ex impiegati di Facebook è stato scoperto
che la mano umana determinava quella sezione, accusando l’azienda di
favorire alcune notizie a discapito di altre (Zuckerberg ad esempio era
schierato con la Clinton e Facebook è stato accusato di favorire le
notizie pro-Democratici). Siccome Facebook, come già detto, vuole darsi
un’immagine di neutralità, è stato ripristinato il sistema
automatizzato. E quindi? Chi decide se una notizia è falsa o meno? Dopo
la vittoria di Trump che per molti è stata scioccante e di cui molti
danno merito anche alle fake news, Facebook ha deciso di
mettere mano al problema e trovare un sistema per segnalarle
pubblicamente. E qui nasce un altro problema, forse più grande. Perché
per molti ci sarebbe il rischio che Facebook diventi una sorta di
ministero (privato) della Verità e vista la diffusione del social
network, anche il più potente editore del mondo che decide quali siano
le fonti affidabili e quali no (che un giornale sia registrato presso
il Tribunale ad esempio non è garanzia che non produca bufale) e quali
contenuti lo siano o meno. Certo, Facebook potrebbe assumere qualche
migliaia di persone per fare il fact checking (controllo dei fatti)
delle notizie condivise da un tot numero di utenti ma il livello
discrezionale rimarrebbe alto e per molti sarebbe pericoloso. La domanda
quindi è un’altra. Facebook vuole mantenere la sua immagine di attore
neutro (anche se non lo è, chiaramente) oppure vuole diventare attore
principale nel mondo globale dell’informazione? In base alle strategie
del colosso americano la scelta sarà una diretta conseguenza e noi
dovremmo tutti rivalutare il nostro rapporto con la piattaforma.
La fiducia perduta. Da
qualunque parte si guardi il problema, le soluzioni paiono dei
palliativi o misure che vanno a risolvere un problema per crearne altri.
Probabilmente la soluzione è molto più vicina a ciò che sta nel cuore
dell’informazione: i giornalisti dovrebbero concentrarsi di più sul
produrre un buon giornalismo, riconquistando la fiducia dei lettori. Se
siamo arrivati a questo punto è perché i giornalisti hanno saccheggiato
la verità e svolto il proprio lavoro soprattutto al servizio della
propria azienda e di chi la controlla dal punto di vista politico e
finanziario.
Concludiamo con una considerazione che Arianna Ciccone fa in un articolo di Valigiablu.it su odio in politica e fake news: “Oggi,
i partiti politici non sono più solo le persone che dovrebbero
governare nel modo in cui noi vogliamo. Sono una squadra da sostenere, e
una tribù di cui sentirsi parte. E la visione politica dei cittadini è
sempre più a somma zero: si tratta di aiutare la loro squadra a vincere,
e fare in modo che l’altra squadra perda. Questa forma di “tribalismo”
spinge le persone a cercare e a credere a notizie che confermano i loro
pre-esistenti pregiudizi, al di là se siano vere o meno. E questo è
assolutamente trasversale. Non è una esclusiva di una sola parte
politica”.
Tratto dall’edizione cartacea di Senza Soste n.127 (luglio-agosto 2017)
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