Non ci sono parole. Da decenni osserviamo le contorsioni della inconsistente classe politica italiana, ma dobbiamo ogni volta constatare che il degrado peggiora di mese in mese, come le metastasi di un tumore incurabile.
Per chi ha una qualche memoria delle crisi più complicate della “prima” e “seconda” repubblica, la situazione oggettiva appare abbastanza semplice. Una coalizione di governo si è rotta per decisione di un chiacchierone da palcoscenico persuaso, nell’autoesaltazione da spiaggia, di poter fare rubamazzo e ottenere i mitici “pieni poteri”. Il che già indica non aver capito affatto quanto il potere vero non risieda nelle stanze dei bottoni di Palazzo Chigi, ma nelle asettiche suite della borghesia finanziaria multinazionale e in quelle altrettanto impenetrabili dell’Unione Europea.
Data una realtà parlamentare “tripolare”, gioco forza le altre due formazioni politiche erano obbligate a trovare un accordo per evitare elezioni anticipate. Il mitico “programma”, una volta usciti i fantasiosi maneggioni leghisti, si riduceva all’ordinaria amministrazione di una regione sottoposta a controllo ferreo (la struttura della legge di bilancio, peraltro resa meno drammatica dalle risorse extra derivanti da entrate fiscali e risparmi su “quota 100” e reddito di cittadinanza).
Dunque ci voleva veramente poco per “trovare la quadra” sulla minutaglia che resta liberamente disponibile per nutrire un briciolo di clientele e promesse elettorali depotenziate.
E invece abbiamo assistito a un delirio in diretta televisiva, tra un Di Maio più stordito del solito che moltiplicava “punti di programma” come pani e pesci d’aprile per poter restare “vice-premier”, e un PD squassato dalle incomposte ambizioni dei singoli cacicchi (renziani in testa).
Tutto rientrato, pare, grazie alle paure di gruppi parlamentari terrorizzati dalla disoccupazione incipiente e alla “sapienza” dei pochi terminali intelligenti del potere vero (di cui sopra). I quali hanno facile gioco nello stemperare asprezze che sanno poter essere solo verbali, visto che alternative non ce ne sono.
Nel delirio, in particolare sul “toto-ministri”, qualche buontempone ha fatto circolare il nome persino di Luciano Vasapollo, docente di economia alla Sapienza di Roma, saldamente marxista e militante dell’Usb, che in passato – quando parte dei Cinque Stelle ipotizzava l’uscita dall’Unione Europea e dall’euro – era stato invitato come relatore in alcuni convegni sul tema. Interpellato, Luciano ci ha riso sopra, ricordando invece che “questo è un governo che non quindi sarà certamente amico dei lavoratori, bensì attento alle ‘ragioni’ delle imprese e del capitale, dimenticando che io sono un marxista e milito nel sindacato USB, che è rimasto l’unico a difendere i lavoratori”. E che “Cuba e Venezuela sono i governi che difendono queste istanze e certo una componente del Conte bis; il Pd, non li appoggia”.
Un dettaglio ci sembra rivelatore: l’insistenza del cosiddetto “capo politico” dei Cinque Stelle su “i decreti sicurezza non si toccano”, come fossero stati una sua creatura anziché del suo succhiavoti, Salvini. È un dettaglio che indica non solo confusione, ma l’assoluta ed anche inutile strumentalità, anche perché su quel tema non è che si possa pensare di trovare “resistenza umanitaria” nel Pd di Minniti & co.
“La politica” ridotta a mucillagine in perenne fermentazione non merita di essere narrata minuto per minuto, come fanno disperatamente i media mainstream, perché lo sbocco è individuabile solo guardando al ”contenitore” – europeo ed atlantico – dentro cui scorre. Un po’ come avviene per la pioggia, che si incanala a seconda della conformazione del suolo, raccogliendo scorie e liquami d’ogni tipo, viaggiando verso il mare.
Segnaliamo però all’attenzione dei compagni la fine ingloriosa della stagione dell’“antipolitica populista”, quella “né di destra né di sinistra”, perciò assolutamente priva di idee-guida, visioni del mondo, progettualità di almeno medio periodo, e quindi rapidamente ridotta ad ambizioni personali, opportunismi, furbizie e menzogne da sottobosco amministrativo.
Del resto, se la struttura economica del capitalismo occidentale vive da oltre un decennio nella “stagnazione”, se la volontà delle popolazioni dei diversi Stati non può e non deve trovare risposta, come potrebbe “la politica” essere qualcosa di più che pura recitazione per un quarto d’ora di notorietà?
Fonte
31/08/2019
"Gli USA non vinceranno il confronto con la Cina"
da humaniteinenglish.com
Traduzione di Marco Pondrelli
Entro il 2050, la Cina spera di diventare la prima economia mondiale. Il nostro compagno Jean-Claude Delaunay, economista e vicepresidente della World Association for Political Economy, fornisce al giornale l'Humanité le chiavi interpretative di un'economia, quella cinese, in rapido cambiamento.
Humanité: Come analizzare l'attuale guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti?
Jean-Claude Delaunay: Gli Stati Uniti sembrano essere in ritardo di cinque anni nello scoprire la strategia cinese di una "new normality". Non si tratta solo di realizzare il progresso sociale, ma anche di sviluppare le forze produttive: internet, l'elettronica, l'intelligenza artificiale, lo sviluppo del 5G...
Washington ha paura.
Penso che ci sia una guerra perché gli Stati Uniti hanno paura di perdere la loro posizione. Essendo difficile da condurre il confronto militare stanno conducendo una guerra economica. Di fronte a questo, i cinesi hanno una strategia pacifica ed estremamente paziente. Si circondano della fiducia dei paesi in via di sviluppo, i quali sostengono questa strategia, la Cina non vuole la guerra, ma senza essere ingenua ha infatti sviluppato le sue capacità di difesa, e cerca di disinnescare i conflitti attraverso il dialogo. Gli americani non vinceranno questo confronto.
H: Stanno emergendo critiche riguardo alla nuova via della seta e all'aumento del debito nei paesi coinvolti. Si tratta di un pericolo reale?
Jean-Claude Delaunay: I paesi in via di sviluppo interessati da questa strategia sono i primi a considerare la Cina dalla loro parte. Basti pensare al numero di capi di Stato africani presenti l'anno scorso al vertice della Via della Seta. Perché? Perché la Cina è considerata una contropotenza in questo continente crocevia dell'imperialismo mondiale. La presunta egemonia cinese è un contrordine lanciato dalle potenze occidentali. La Cina sta sviluppando infrastrutture che rimangono a disposizione degli Stati, non è un saccheggio. È accusata di acquistare terreni per sfamare la sua popolazione. Questi sono i problemi che il mondo dovrebbe affrontare: come sfamare l'intera popolazione mondiale, compresi i cinesi. Per il momento, lasciamo che loro gestiscano la situazione. Questo non è imperialismo in senso stretto. C'è stata un'attenuazione di questo termine. L'imperialismo è guerra.
H: La Cina si definisce un paese in via di sviluppo con un'economia di mercato socialista...
Jean-Claude Delaunay: Penso che il socialismo sarà inevitabilmente commerciale. Possiamo sognare un socialismo senza un mercato con una pianificazione integrale, ma esso in Cina è completamente fallito. Mao Zedong ha seguito il modello sovietico, che era un modello di economia di guerra. Bisogna capire che il mercato non è unimodale. Credo profondamente che ci sia una differenza tra un bene capitalista e un bene socialista. Il bene capitalista si basa su società separate che producono beni che inevitabilmente portano profitti. Una merce socialista può avere un orientamento macroeconomico. Le aziende cinesi, ad esempio, producono reattori secondo un progetto di produzione di energia pianificato. Si tratta di una merce orientata alla produzione globale che non genera necessariamente profitti. In un'economia socializzata gli investimenti possono essere distribuiti in modo diverso. Una società non realizza un profitto ma un'altra lo finanzierà. La socializzazione degli investimenti è un significativo passo avanti. Socializzare significa che possiamo pianificare, razionalizzare, controllare gli investimenti, studiare gli effetti sulla forza lavoro. In questo tipo di investimento, il mercato capitalistico è cieco. Ognuno investe nel proprio angolo e questo produce sovraccumulazione.
H: La Cina ha avuto problemi di sovraccumulazione. Il suo modo di affrontare la questione è diverso?
Jean-Claude Delaunay: Non si può negare che vi siano sovraccumuli di tipo socialista di natura diversa da quelli di un regime capitalista. Ciò può comportare, ad esempio, una sopravvalutazione della quantità di acciaio necessaria. Aumentare il mercato è un modo per combattere l'iperaccumulo. Anche i cinesi sono diventati consapevoli della necessità di sviluppare il loro mercato interno. Una delle differenze del mercato socialista è il funzionamento della forza lavoro. Dopo la crisi del 2008, la Cina si è resa conto della necessità di aumentare i salari e accelerare la formazione. Non so se i leader cinesi sono convinti del socialismo, credo che siano convinti dall'interesse popolare. Hanno un senso molto profondo della nazione sovrana. Portano con sé una storia di umiliazione che non è così lontana. Oggi la Cina sta a malapena dimostrando il suo potere e gli Stati Uniti vogliono bloccarla.
H: La Cina ha adottato una nuova legge sugli investimenti esteri per rispondere alle preoccupazioni espresse dai paesi occidentali. Qual è la sostanza?
Jean-Claude Delaunay: L'ingresso della Cina nel WTO nel 2001 ha accelerato il processo di apertura ai capitali stranieri. All'epoca, le multinazionali guadagnarono fiducia e pensarono che il paese si sarebbe convertito al capitalismo. Da parte loro, i leader cinesi hanno alimentato le illusioni sulla disponibilità di queste imprese a portare progresso tecnico e sociale. Si sono insediati e hanno semplicemente sovrasfruttato la forza lavoro. Il picco è stato raggiunto tra il 2009 e il 2010, con l'ondata di suicidi a Foxconn. Le autorità sono venute a conoscenza di una serie di problemi. È stata così condotta una riflessione sulla crisi globale e sull'obbligo di definire una strategia per il progresso tecnico e l'innalzamento del livello di sviluppo. Il principio era semplice: in cambio della quota di mercato acquisita le imprese erano tenute ad accettare il trasferimento di tecnologia. I cinesi hanno capito che dovevano svilupparsi costringendo le compagnie straniere a mettere a disposizione i loro progressi.
H: Tuttavia, le aziende straniere rischiano di rimanere indietro nell'innovazione, attraverso i contratti di subappalto...
Jean-Claude Delaunay: Dovranno capire che c'è un unico modo per cooperare con la Cina. Le multinazionali occidentali stanno distruggendo la loro capacità tecnica, mentre le imprese cinesi la stanno rafforzando. L'outsourcing a cascata è un disastro tecnologico. L'esternalizzazione dei contratti porta certamente ad un aumento dei profitti, ma da un punto di vista produttivo è un fallimento. I cinesi lo hanno capito molto bene.
Fonte
Traduzione di Marco Pondrelli
Entro il 2050, la Cina spera di diventare la prima economia mondiale. Il nostro compagno Jean-Claude Delaunay, economista e vicepresidente della World Association for Political Economy, fornisce al giornale l'Humanité le chiavi interpretative di un'economia, quella cinese, in rapido cambiamento.
Humanité: Come analizzare l'attuale guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti?
Jean-Claude Delaunay: Gli Stati Uniti sembrano essere in ritardo di cinque anni nello scoprire la strategia cinese di una "new normality". Non si tratta solo di realizzare il progresso sociale, ma anche di sviluppare le forze produttive: internet, l'elettronica, l'intelligenza artificiale, lo sviluppo del 5G...
Washington ha paura.
Penso che ci sia una guerra perché gli Stati Uniti hanno paura di perdere la loro posizione. Essendo difficile da condurre il confronto militare stanno conducendo una guerra economica. Di fronte a questo, i cinesi hanno una strategia pacifica ed estremamente paziente. Si circondano della fiducia dei paesi in via di sviluppo, i quali sostengono questa strategia, la Cina non vuole la guerra, ma senza essere ingenua ha infatti sviluppato le sue capacità di difesa, e cerca di disinnescare i conflitti attraverso il dialogo. Gli americani non vinceranno questo confronto.
H: Stanno emergendo critiche riguardo alla nuova via della seta e all'aumento del debito nei paesi coinvolti. Si tratta di un pericolo reale?
Jean-Claude Delaunay: I paesi in via di sviluppo interessati da questa strategia sono i primi a considerare la Cina dalla loro parte. Basti pensare al numero di capi di Stato africani presenti l'anno scorso al vertice della Via della Seta. Perché? Perché la Cina è considerata una contropotenza in questo continente crocevia dell'imperialismo mondiale. La presunta egemonia cinese è un contrordine lanciato dalle potenze occidentali. La Cina sta sviluppando infrastrutture che rimangono a disposizione degli Stati, non è un saccheggio. È accusata di acquistare terreni per sfamare la sua popolazione. Questi sono i problemi che il mondo dovrebbe affrontare: come sfamare l'intera popolazione mondiale, compresi i cinesi. Per il momento, lasciamo che loro gestiscano la situazione. Questo non è imperialismo in senso stretto. C'è stata un'attenuazione di questo termine. L'imperialismo è guerra.
H: La Cina si definisce un paese in via di sviluppo con un'economia di mercato socialista...
Jean-Claude Delaunay: Penso che il socialismo sarà inevitabilmente commerciale. Possiamo sognare un socialismo senza un mercato con una pianificazione integrale, ma esso in Cina è completamente fallito. Mao Zedong ha seguito il modello sovietico, che era un modello di economia di guerra. Bisogna capire che il mercato non è unimodale. Credo profondamente che ci sia una differenza tra un bene capitalista e un bene socialista. Il bene capitalista si basa su società separate che producono beni che inevitabilmente portano profitti. Una merce socialista può avere un orientamento macroeconomico. Le aziende cinesi, ad esempio, producono reattori secondo un progetto di produzione di energia pianificato. Si tratta di una merce orientata alla produzione globale che non genera necessariamente profitti. In un'economia socializzata gli investimenti possono essere distribuiti in modo diverso. Una società non realizza un profitto ma un'altra lo finanzierà. La socializzazione degli investimenti è un significativo passo avanti. Socializzare significa che possiamo pianificare, razionalizzare, controllare gli investimenti, studiare gli effetti sulla forza lavoro. In questo tipo di investimento, il mercato capitalistico è cieco. Ognuno investe nel proprio angolo e questo produce sovraccumulazione.
H: La Cina ha avuto problemi di sovraccumulazione. Il suo modo di affrontare la questione è diverso?
Jean-Claude Delaunay: Non si può negare che vi siano sovraccumuli di tipo socialista di natura diversa da quelli di un regime capitalista. Ciò può comportare, ad esempio, una sopravvalutazione della quantità di acciaio necessaria. Aumentare il mercato è un modo per combattere l'iperaccumulo. Anche i cinesi sono diventati consapevoli della necessità di sviluppare il loro mercato interno. Una delle differenze del mercato socialista è il funzionamento della forza lavoro. Dopo la crisi del 2008, la Cina si è resa conto della necessità di aumentare i salari e accelerare la formazione. Non so se i leader cinesi sono convinti del socialismo, credo che siano convinti dall'interesse popolare. Hanno un senso molto profondo della nazione sovrana. Portano con sé una storia di umiliazione che non è così lontana. Oggi la Cina sta a malapena dimostrando il suo potere e gli Stati Uniti vogliono bloccarla.
H: La Cina ha adottato una nuova legge sugli investimenti esteri per rispondere alle preoccupazioni espresse dai paesi occidentali. Qual è la sostanza?
Jean-Claude Delaunay: L'ingresso della Cina nel WTO nel 2001 ha accelerato il processo di apertura ai capitali stranieri. All'epoca, le multinazionali guadagnarono fiducia e pensarono che il paese si sarebbe convertito al capitalismo. Da parte loro, i leader cinesi hanno alimentato le illusioni sulla disponibilità di queste imprese a portare progresso tecnico e sociale. Si sono insediati e hanno semplicemente sovrasfruttato la forza lavoro. Il picco è stato raggiunto tra il 2009 e il 2010, con l'ondata di suicidi a Foxconn. Le autorità sono venute a conoscenza di una serie di problemi. È stata così condotta una riflessione sulla crisi globale e sull'obbligo di definire una strategia per il progresso tecnico e l'innalzamento del livello di sviluppo. Il principio era semplice: in cambio della quota di mercato acquisita le imprese erano tenute ad accettare il trasferimento di tecnologia. I cinesi hanno capito che dovevano svilupparsi costringendo le compagnie straniere a mettere a disposizione i loro progressi.
H: Tuttavia, le aziende straniere rischiano di rimanere indietro nell'innovazione, attraverso i contratti di subappalto...
Jean-Claude Delaunay: Dovranno capire che c'è un unico modo per cooperare con la Cina. Le multinazionali occidentali stanno distruggendo la loro capacità tecnica, mentre le imprese cinesi la stanno rafforzando. L'outsourcing a cascata è un disastro tecnologico. L'esternalizzazione dei contratti porta certamente ad un aumento dei profitti, ma da un punto di vista produttivo è un fallimento. I cinesi lo hanno capito molto bene.
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30/08/2019
Il fallimento del M5S e il ritorno del centro-sinistra
di Domenico Moro e Fabio Nobile
Nello spiegare la fine del governo giallo-verde ci si concentra più sugli aspetti tattici, ossia sulle scelte di opportunità dei singoli partiti, invece che sugli aspetti strategici, di contesto, che a nostro parere risultano più importanti.
È vero che l’esito delle elezioni europee e i sondaggi che l’hanno data come primo partito italiano hanno portato la Lega a vagheggiare le elezioni, conducendo viceversa il M5s a vederle come la peste. Però, la situazione attuale è determinata soprattutto dal contesto: l’inserimento dell’Italia nella Nato e l’alleanza con gli Usa, l’inserimento nella Ue e nell’euro e infine last but not least l’emergere della crisi a livello mondiale, certificata da un Pil che rimane a crescita 0.
Qualsiasi governo si troverebbe in difficoltà a far fronte alla crisi in un contesto di austerity europea. Ciò è tanto più vero per il governo giallo-verde che, come si è verificato in più di un anno, si è trovato nell’impossibilità di tenere insieme i punti programmatici di M5s e Lega. Sulla scelta di Salvini di staccare la spina al governo ha pesato la consapevolezza di essere costretto, entro i vincoli europei, a una manovra finanziaria pesante. Ciò avrebbe significato rinunciare a punti importanti del suo programma come la flat tax. Senza contare l’impossibilità di realizzare, per l’opposizione del M5s, l’autonomia regionale richiesta dai suoi governatori in Lombardia e Veneto, cioè dalla sua base elettorale e sociale principale.
Soprattutto, non bisogna dimenticare che il governo giallo-verde è sempre stato sotto la tutela del Presidente Mattarella, che ha svolto, sin dall’inizio, un ruolo di garante dei legami internazionali dell’Italia, soprattutto nei confronti dell’Ue e della Nato. Tale ruolo si è manifestato nel rifiuto di Savona come ministro dell’economia fino alla crisi di governo attuale. Infatti, Mattarella è stato determinate nella decisione di non andare a nuove elezioni, che avrebbero visto l’affermazione di due partiti (Lega e Fratelli d’Italia) critici nei confronti della Ue, e di proseguire la legislatura con l’affidamento del mandato pieno a Conte.
In particolare Mattarella, insieme alla presa di posizione di Renzi a favore di un’alleanza con il M5s, ha pesato molto sul passo indietro di Zingaretti, che in precedenza aveva dato per certo il ritorno alle urne. Dichiarazioni, quelle di Zingaretti, che indubbiamente avevano inciso sulla scelta di Salvini, che, successivamente, resosi conto della disponibilità del Pd a un governo con il M5s, ha provato a effettuare un dietrofront ormai tardivo.
C’è da dire, però, che il mutamento di posizionamento politico del M5s rappresentato dalla convergenza con il Pd si era già verificato proprio sull’Europa. Mentre la Lega aveva votato contro la nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il M5s, effettuando una virata di 180° rispetto alle sue storiche posizioni euroscettiche, aveva votato insieme al Pd per la candidata tedesca. Non è un caso che qualche tempo fa, nei momenti iniziali della crisi di governo, proprio Prodi, europeista convinto e già artefice di due coalizioni di centro-sinistra, fosse stato il primo a parlare di una coalizione “Ursula”, cioè di un governo M5s-Pd.
L’eventuale governo Conte bis si presenta quindi pro-Ue e filo-atlantico, come dimostrano gli endorsement che si sono sprecati all’ultimo vertice del G7 a Biarritz da parte di Trump, Macron e Merkel. Ancora più notevole è che nei fatti si presenti come una riedizione del centro-sinistra in una ottica nuovamente bipolare, che il M5s aveva invece contribuito a eliminare, introducendo nella politica italiana un terzo polo. Infine, lascia perplessi vedere Grillo invocare un governo di competenti, formato da ministri tecnici e senza politici, dimenticando persino le sue aspre critiche a quello che è stato il governo tecnico per eccellenza, quello di Mario Monti.
Per le ragioni suddette il governo Conte bis dimostra il fallimento del M5s rispetto al suo obiettivo principale: modificare il quadro politico italiano e mandare a casa la classe politica del passato. Di fatto, il M5s si trova a governare con coloro che aveva attaccato aspramente fino a ieri e che hanno rappresentato e rappresentano le esigenze di quelle élite di cui il populismo M5s si è sempre dichiarato avversario. Un fallimento di cui eravamo stati facili profeti, proprio perché consci dei limiti del Movimento, che risiedono soprattutto nella sua ambiguità politica e ideologica. Le debolezze intrinseche del M5s rimangono tutte e c’è da prevedere che il Movimento, dopo avere subito l’iniziativa di Salvini, non possa che subire quella del Pd, con la concreta possibilità che anche questo governo non abbia vita molto lunga.
Di fronte alla probabile ulteriore perdita di consensi del M5s, già manifestatasi alle europee, si aprirebbe la possibilità per la sinistra di classe e per i comunisti di recuperare posizioni. Ciò però non è possibile se non si sfugge al richiamo della foresta di nuovo centro-sinistra, magari riveduto e corretto con la motivazione di fare argine nei confronti del nuovo fascismo in salsa leghista. Senza voler minimizzare la natura xenofoba e di destra di Salvini e della Lega, come abbiamo detto più volte, oggi il problema non è la riedizione del fascismo tout court. La democrazia rappresentativa è stata ed è aggirata dalla alienazione di alcune importanti funzioni statuali alla Ue, mediante i trattati europei e l’architettura dell’euro, che rappresenta un impedimento a effettuare politiche economiche e sociali effettivamente espansive e di sinistra. È, invece, proprio la riedizione di un centro-sinistra e l’alleanza del M5s con il Pd che rafforzerà alla lunga la Lega. L’unico modo di contrastare Salvini e la Lega è costruire una posizione chiara sui contenuti più importanti, a partire dal nodo dell’Europa, senza il cui scioglimento non è credibile alcuna soluzione né economica né politica.
Fonte
Nello spiegare la fine del governo giallo-verde ci si concentra più sugli aspetti tattici, ossia sulle scelte di opportunità dei singoli partiti, invece che sugli aspetti strategici, di contesto, che a nostro parere risultano più importanti.
È vero che l’esito delle elezioni europee e i sondaggi che l’hanno data come primo partito italiano hanno portato la Lega a vagheggiare le elezioni, conducendo viceversa il M5s a vederle come la peste. Però, la situazione attuale è determinata soprattutto dal contesto: l’inserimento dell’Italia nella Nato e l’alleanza con gli Usa, l’inserimento nella Ue e nell’euro e infine last but not least l’emergere della crisi a livello mondiale, certificata da un Pil che rimane a crescita 0.
Qualsiasi governo si troverebbe in difficoltà a far fronte alla crisi in un contesto di austerity europea. Ciò è tanto più vero per il governo giallo-verde che, come si è verificato in più di un anno, si è trovato nell’impossibilità di tenere insieme i punti programmatici di M5s e Lega. Sulla scelta di Salvini di staccare la spina al governo ha pesato la consapevolezza di essere costretto, entro i vincoli europei, a una manovra finanziaria pesante. Ciò avrebbe significato rinunciare a punti importanti del suo programma come la flat tax. Senza contare l’impossibilità di realizzare, per l’opposizione del M5s, l’autonomia regionale richiesta dai suoi governatori in Lombardia e Veneto, cioè dalla sua base elettorale e sociale principale.
Soprattutto, non bisogna dimenticare che il governo giallo-verde è sempre stato sotto la tutela del Presidente Mattarella, che ha svolto, sin dall’inizio, un ruolo di garante dei legami internazionali dell’Italia, soprattutto nei confronti dell’Ue e della Nato. Tale ruolo si è manifestato nel rifiuto di Savona come ministro dell’economia fino alla crisi di governo attuale. Infatti, Mattarella è stato determinate nella decisione di non andare a nuove elezioni, che avrebbero visto l’affermazione di due partiti (Lega e Fratelli d’Italia) critici nei confronti della Ue, e di proseguire la legislatura con l’affidamento del mandato pieno a Conte.
In particolare Mattarella, insieme alla presa di posizione di Renzi a favore di un’alleanza con il M5s, ha pesato molto sul passo indietro di Zingaretti, che in precedenza aveva dato per certo il ritorno alle urne. Dichiarazioni, quelle di Zingaretti, che indubbiamente avevano inciso sulla scelta di Salvini, che, successivamente, resosi conto della disponibilità del Pd a un governo con il M5s, ha provato a effettuare un dietrofront ormai tardivo.
C’è da dire, però, che il mutamento di posizionamento politico del M5s rappresentato dalla convergenza con il Pd si era già verificato proprio sull’Europa. Mentre la Lega aveva votato contro la nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il M5s, effettuando una virata di 180° rispetto alle sue storiche posizioni euroscettiche, aveva votato insieme al Pd per la candidata tedesca. Non è un caso che qualche tempo fa, nei momenti iniziali della crisi di governo, proprio Prodi, europeista convinto e già artefice di due coalizioni di centro-sinistra, fosse stato il primo a parlare di una coalizione “Ursula”, cioè di un governo M5s-Pd.
L’eventuale governo Conte bis si presenta quindi pro-Ue e filo-atlantico, come dimostrano gli endorsement che si sono sprecati all’ultimo vertice del G7 a Biarritz da parte di Trump, Macron e Merkel. Ancora più notevole è che nei fatti si presenti come una riedizione del centro-sinistra in una ottica nuovamente bipolare, che il M5s aveva invece contribuito a eliminare, introducendo nella politica italiana un terzo polo. Infine, lascia perplessi vedere Grillo invocare un governo di competenti, formato da ministri tecnici e senza politici, dimenticando persino le sue aspre critiche a quello che è stato il governo tecnico per eccellenza, quello di Mario Monti.
Per le ragioni suddette il governo Conte bis dimostra il fallimento del M5s rispetto al suo obiettivo principale: modificare il quadro politico italiano e mandare a casa la classe politica del passato. Di fatto, il M5s si trova a governare con coloro che aveva attaccato aspramente fino a ieri e che hanno rappresentato e rappresentano le esigenze di quelle élite di cui il populismo M5s si è sempre dichiarato avversario. Un fallimento di cui eravamo stati facili profeti, proprio perché consci dei limiti del Movimento, che risiedono soprattutto nella sua ambiguità politica e ideologica. Le debolezze intrinseche del M5s rimangono tutte e c’è da prevedere che il Movimento, dopo avere subito l’iniziativa di Salvini, non possa che subire quella del Pd, con la concreta possibilità che anche questo governo non abbia vita molto lunga.
Di fronte alla probabile ulteriore perdita di consensi del M5s, già manifestatasi alle europee, si aprirebbe la possibilità per la sinistra di classe e per i comunisti di recuperare posizioni. Ciò però non è possibile se non si sfugge al richiamo della foresta di nuovo centro-sinistra, magari riveduto e corretto con la motivazione di fare argine nei confronti del nuovo fascismo in salsa leghista. Senza voler minimizzare la natura xenofoba e di destra di Salvini e della Lega, come abbiamo detto più volte, oggi il problema non è la riedizione del fascismo tout court. La democrazia rappresentativa è stata ed è aggirata dalla alienazione di alcune importanti funzioni statuali alla Ue, mediante i trattati europei e l’architettura dell’euro, che rappresenta un impedimento a effettuare politiche economiche e sociali effettivamente espansive e di sinistra. È, invece, proprio la riedizione di un centro-sinistra e l’alleanza del M5s con il Pd che rafforzerà alla lunga la Lega. L’unico modo di contrastare Salvini e la Lega è costruire una posizione chiara sui contenuti più importanti, a partire dal nodo dell’Europa, senza il cui scioglimento non è credibile alcuna soluzione né economica né politica.
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Gran Bretagna - Ubriachi al potere. Johnson non è peggio di Blair
di Alberto Negri
Il premier laburista Blair, ubriacato dal suo narcisismo, mentì sulle armi di distruzione di massa di Saddam e sulla guerra del 2003 in Iraq. E ha continuato a farlo anche dopo, contro ogni evidenza. Un bugiardo spudorato, responsabile con Bush jr. della morte di decine di migliaia di persone, portato come esempio dalla sinistra europea e nominato persino mediatore in Medio Oriente contro ogni buonsenso.
Boris Johnson, ex giornalista, è per inclinazione e mestiere un contaballe patentato ma ha ereditato il governo dalla May, un vero disastro che in molti, solo perché donna e di destra, hanno confuso con la Thatcher che trattava gli inglesi come marinai ubriachi.
Johnson deve raccontare fesserie in cui non crede perché i marinai ubriachi hanno deciso di schiantare la nave contro lo scoglio della Brexit.
Johnson è il capitano di una ciurma di ammutinati dove sta serpeggiando il pentimento per quello che hanno fatto e non sanno dove andare. Mica facile, anche per questo ha sospeso il Parlamento.
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Governo di svolta?
Governo di svolta...
In attesa della nascita del Governo Conte 2, che però, giura Zingaretti non sarà Conte Bis, e della pregiata lista dei nuovi titolari dei Dicasteri, sia consentito dire qualche parola, almeno per dare sfogo al disgusto, davanti a quanto sta accadendo nella torpida indifferenza del popolo italiano che si gode (si fa per dire) le ultime giornata agostane. Disgusto.
Un governo nato in modo anomalo 14 mesi or sono, dopo ben tre mesi di trattative, sulla base di un inedito "contratto"; una cosa mai vista nella storia repubblicana, per di più tra due forze che pur condividendo l’elettorato e una certa ispirazione genericamente populista avevano assai più elementi di dissidio che di concordanza. E come si era previsto, l’esperimento è fallito, non senza aver fatto molti danni.
Ricordiamo anche che prima dell’abbraccio mortale del M5S con la Lega di Salvini, una mezza trattativa era stata avviata con il PD, che fu bloccata da Matteo Renzi che oggi è stato il principale sponsor dell’accordo con i 5S: quel Renzi, che prima della batosta sul referendum del dicembre 2016, aveva garantito che si sarebbe ritirato dalla vita politica, con i suoi fedelissimi, a cominciare da Maria Elena Boschi. Quel Renzi che come il suo sodale Carlo Calenda sta in realtà lavorando per fondare un proprio partito, mentre il suo successore Zingaretti finge di non accorgersene. E lavora a un “governo di svolta”, con il probabile recupero di una parte dei precedenti ministri e dopo aver tuonato che mai il PD avrebbe accettato il ritorno di Giuseppe Conte alla Presidenza, ora afferma che in fondo si può fare basta che non sia un bis...
Ma i Cinque Stelle che in realtà sono il partito che più teme le elezioni (ne sarebbero distrutti) davanti alla mollezza inerte dell’interlocutore alzano la posta. Non basta il presidente, vogliono anche il vice, e Di Maio scalpita per mantenere quella posizione, magari da solo, non più a mezzadria con il mostro Salvini, e davanti al successo di questi che ha raccattato consensi con la sua volgarità mescolata alla sua ferocia, con il suo fare popolano rivestito di grottesca inflessibilità, il povero Di Maio addirittura ha pensato che la poltrona di ministro dell’Interno sarebbe la più utile a lui e al movimento di cui qualcuno lo ha nominato “capo politico” (se questo è il capo...).
Governo di svolta...
E intanto il prof. avv. Conte, il signor Nessuno dalle dubbie credenziali accademiche, uscito dal cilindro del cappellaio matto, che aveva dichiarato di non essere disponibile a proseguire questa avventura, che lui era semplicemente un professore in prestito alla politica, ora si avventa sulla ciambella, pronto ad addentarla e tenerla stretta per altri 3 anni e mezzo. Sostenuto anche da una parte degli ambienti “democratici” soltanto perché qualche giorno fa ha dato alcune sberle a Salvini, pur rivendicando il comune operato, cosa che peraltro non si stanca di fare Di Maio. Sberle date dopo aver sostenuto e firmato ogni nefandezza voluta da Salvini, dopo aver parlato sia pure con toni più morbidi la stessa lingua del suo vice, dopo aver piattamente eseguito tutto ciò che lui e Di Maio gli ordinavano.
Governo di svolta...
Ma come si può pensare un governo di svolta, o "del cambiamento" (ebbene sì abbiamo sentito anche questa espressione che fino all’altro ieri era sulla bocca della coppia Di Maio – Salvini!), con questi figuri? E su quale programma si potranno intendere PD e M5S? Non sta per nascere un altro ircocervo destinato alla paralisi o a fare sfracelli ignominiosi? Certo, ci liberiamo dell’orrido figuro, e non nascondo la gioia, specie davanti agli ultimi suoi atti, come l’ennesima bravata di dire no a chi chiede accoglienza. Quel figuro che non rinuncia, finalmente rientrato alla scrivania del ministero dove nessuno lo ha mai visto dopo il primo giorno del marzo ’18, non ha esitato, lui dimissionario, a firmare l’ennesimo osceno decreto di divieto di ingresso “nelle acque territoriali italiane”, a una nave di ONG, con un centinaio di donne bambini e uomini in cerca di salvezza (faccio notare tuttavia che il decreto è stato regolarmente controfirmato da due ministri 5S, Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta, questa seconda in predicato di conservare la titolarità della Difesa nel governo di svolta...).
E intanto v’è chi ha avuto la faccia tosta di citare Marco Minniti come titolare dell’interno, Minniti che fece l’accordo con la Libia, fingendo di non sapere che cosa accadeva nei campi di accoglienza con i migranti che respingevamo in quel Paese, dopo aver contribuito in modo determinante a gettarlo nel caos, con l’aggressione militare del 2011, e l’uccisione proditoria di Gheddafi...
Governo di svolta...
Insomma, la toppa se non rischia di essere peggio del buco, certo difficilmente aprirà scenari progressivi. E davvero questo nascente governo, che per almeno metà sarà animato dagli stessi spiriti populisti ma nella sostanza antipopolari, potrà fare cose così diverse da quello precedente? Noi che non crediamo alla “svolta”, noi che non guardiamo con simpatia a nessuno di costoro, noi che riteniamo che il Partito Democratico abbia compiuto un altro passo verso il baratro, noi che pensiamo che la Costituzione, la grammatica istituzionale, la dialettica democratica, il buonsenso persino, indichino modi assai diversi di fare i governi...; noi, per quanto pochi (forse) e isolati (forse), per quanto ridotti all’angolo, e (forse) destinati a nuove sconfitte...; noi, pur rallegrandoci di non essere più sopraffatti d’ora in poi dalla infinita salvineide che ci ha ammorbato nei mesi scorsi (al mare, in caserma, tra croci e madonne, in pizzeria, tra cannoli e arancini, sui palchi di piazze ricolme di folle o forse no...); noi confessiamo tutto il nostro amaro sconforto, davanti alla annunciata soluzione della crisi. Davanti al “governo di svolta” che sta per nascere.
Eppure, è una promessa, noi non taceremo. Non ci accoderemo. Non batteremo le mani. Non brinderemo. Ma non taceremo. Sappiamo aspettare, sappiamo che la strada è lunga e in salita, ma sappiamo che dobbiamo percorrerla. E ciascuno dovrà fare la sua parte. Cercando nuove unità, non estemporanee, non di facciata, non di cartello elettorale. Ma di sostanza, fondate sui punti essenziali di un programma che voglia aiutare chi, tra un governo e il successivo, rimane comunque sotto, schiacciato, vilipeso. Un programma non genericamente per l’Italia, ma per l’Italia del 25 Aprile e del 2 Giugno, per l’Italia antifascista, che crede nella giustizia sociale, nei valori della cultura, nella solidarietà, nell’umanità. Un programma di tutela idrogeologica del territorio e di prevenzione antisismica. Un programma di salvaguardia ambientale, e paesaggistica; di economia "verde", di equità fiscale, di progresso civile, di lavoro per la gioventù, di aiuto alla ricerca scientifica e alla scuola (pubblica), un programma di difesa e rilancio del welfare, in particolare della sanità (pubblica), e del trasporto (pubblico). Un programma che denunci e rinunci ad ogni proclama inneggiante alle “grandi opere” e si concentri sulle “piccole opere”: le strade provinciali, gli edifici scolastici da mettere in sicurezza, gli argini dei fiumi, le ferrovie locali, gli ospedali cadenti..., e così via. Un programma che cominci almeno a riequilibrare la politica estera del nostro Paese, schiacciata dagli Stati Uniti (ricordiamo che Trump prontamente ha sostenuto con una ulteriore inaccettabile ingerenza Giuseppe Conte, come successore di se stesso), e incapace di cercare vie autonome di pensiero e di azione, anche all’interno di organizzazioni sovranazionali.
Angelo d'Orsi
(29 agosto 2019)
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In attesa della nascita del Governo Conte 2, che però, giura Zingaretti non sarà Conte Bis, e della pregiata lista dei nuovi titolari dei Dicasteri, sia consentito dire qualche parola, almeno per dare sfogo al disgusto, davanti a quanto sta accadendo nella torpida indifferenza del popolo italiano che si gode (si fa per dire) le ultime giornata agostane. Disgusto.
Un governo nato in modo anomalo 14 mesi or sono, dopo ben tre mesi di trattative, sulla base di un inedito "contratto"; una cosa mai vista nella storia repubblicana, per di più tra due forze che pur condividendo l’elettorato e una certa ispirazione genericamente populista avevano assai più elementi di dissidio che di concordanza. E come si era previsto, l’esperimento è fallito, non senza aver fatto molti danni.
Ricordiamo anche che prima dell’abbraccio mortale del M5S con la Lega di Salvini, una mezza trattativa era stata avviata con il PD, che fu bloccata da Matteo Renzi che oggi è stato il principale sponsor dell’accordo con i 5S: quel Renzi, che prima della batosta sul referendum del dicembre 2016, aveva garantito che si sarebbe ritirato dalla vita politica, con i suoi fedelissimi, a cominciare da Maria Elena Boschi. Quel Renzi che come il suo sodale Carlo Calenda sta in realtà lavorando per fondare un proprio partito, mentre il suo successore Zingaretti finge di non accorgersene. E lavora a un “governo di svolta”, con il probabile recupero di una parte dei precedenti ministri e dopo aver tuonato che mai il PD avrebbe accettato il ritorno di Giuseppe Conte alla Presidenza, ora afferma che in fondo si può fare basta che non sia un bis...
Ma i Cinque Stelle che in realtà sono il partito che più teme le elezioni (ne sarebbero distrutti) davanti alla mollezza inerte dell’interlocutore alzano la posta. Non basta il presidente, vogliono anche il vice, e Di Maio scalpita per mantenere quella posizione, magari da solo, non più a mezzadria con il mostro Salvini, e davanti al successo di questi che ha raccattato consensi con la sua volgarità mescolata alla sua ferocia, con il suo fare popolano rivestito di grottesca inflessibilità, il povero Di Maio addirittura ha pensato che la poltrona di ministro dell’Interno sarebbe la più utile a lui e al movimento di cui qualcuno lo ha nominato “capo politico” (se questo è il capo...).
Governo di svolta...
E intanto il prof. avv. Conte, il signor Nessuno dalle dubbie credenziali accademiche, uscito dal cilindro del cappellaio matto, che aveva dichiarato di non essere disponibile a proseguire questa avventura, che lui era semplicemente un professore in prestito alla politica, ora si avventa sulla ciambella, pronto ad addentarla e tenerla stretta per altri 3 anni e mezzo. Sostenuto anche da una parte degli ambienti “democratici” soltanto perché qualche giorno fa ha dato alcune sberle a Salvini, pur rivendicando il comune operato, cosa che peraltro non si stanca di fare Di Maio. Sberle date dopo aver sostenuto e firmato ogni nefandezza voluta da Salvini, dopo aver parlato sia pure con toni più morbidi la stessa lingua del suo vice, dopo aver piattamente eseguito tutto ciò che lui e Di Maio gli ordinavano.
Governo di svolta...
Ma come si può pensare un governo di svolta, o "del cambiamento" (ebbene sì abbiamo sentito anche questa espressione che fino all’altro ieri era sulla bocca della coppia Di Maio – Salvini!), con questi figuri? E su quale programma si potranno intendere PD e M5S? Non sta per nascere un altro ircocervo destinato alla paralisi o a fare sfracelli ignominiosi? Certo, ci liberiamo dell’orrido figuro, e non nascondo la gioia, specie davanti agli ultimi suoi atti, come l’ennesima bravata di dire no a chi chiede accoglienza. Quel figuro che non rinuncia, finalmente rientrato alla scrivania del ministero dove nessuno lo ha mai visto dopo il primo giorno del marzo ’18, non ha esitato, lui dimissionario, a firmare l’ennesimo osceno decreto di divieto di ingresso “nelle acque territoriali italiane”, a una nave di ONG, con un centinaio di donne bambini e uomini in cerca di salvezza (faccio notare tuttavia che il decreto è stato regolarmente controfirmato da due ministri 5S, Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta, questa seconda in predicato di conservare la titolarità della Difesa nel governo di svolta...).
E intanto v’è chi ha avuto la faccia tosta di citare Marco Minniti come titolare dell’interno, Minniti che fece l’accordo con la Libia, fingendo di non sapere che cosa accadeva nei campi di accoglienza con i migranti che respingevamo in quel Paese, dopo aver contribuito in modo determinante a gettarlo nel caos, con l’aggressione militare del 2011, e l’uccisione proditoria di Gheddafi...
Governo di svolta...
Insomma, la toppa se non rischia di essere peggio del buco, certo difficilmente aprirà scenari progressivi. E davvero questo nascente governo, che per almeno metà sarà animato dagli stessi spiriti populisti ma nella sostanza antipopolari, potrà fare cose così diverse da quello precedente? Noi che non crediamo alla “svolta”, noi che non guardiamo con simpatia a nessuno di costoro, noi che riteniamo che il Partito Democratico abbia compiuto un altro passo verso il baratro, noi che pensiamo che la Costituzione, la grammatica istituzionale, la dialettica democratica, il buonsenso persino, indichino modi assai diversi di fare i governi...; noi, per quanto pochi (forse) e isolati (forse), per quanto ridotti all’angolo, e (forse) destinati a nuove sconfitte...; noi, pur rallegrandoci di non essere più sopraffatti d’ora in poi dalla infinita salvineide che ci ha ammorbato nei mesi scorsi (al mare, in caserma, tra croci e madonne, in pizzeria, tra cannoli e arancini, sui palchi di piazze ricolme di folle o forse no...); noi confessiamo tutto il nostro amaro sconforto, davanti alla annunciata soluzione della crisi. Davanti al “governo di svolta” che sta per nascere.
Eppure, è una promessa, noi non taceremo. Non ci accoderemo. Non batteremo le mani. Non brinderemo. Ma non taceremo. Sappiamo aspettare, sappiamo che la strada è lunga e in salita, ma sappiamo che dobbiamo percorrerla. E ciascuno dovrà fare la sua parte. Cercando nuove unità, non estemporanee, non di facciata, non di cartello elettorale. Ma di sostanza, fondate sui punti essenziali di un programma che voglia aiutare chi, tra un governo e il successivo, rimane comunque sotto, schiacciato, vilipeso. Un programma non genericamente per l’Italia, ma per l’Italia del 25 Aprile e del 2 Giugno, per l’Italia antifascista, che crede nella giustizia sociale, nei valori della cultura, nella solidarietà, nell’umanità. Un programma di tutela idrogeologica del territorio e di prevenzione antisismica. Un programma di salvaguardia ambientale, e paesaggistica; di economia "verde", di equità fiscale, di progresso civile, di lavoro per la gioventù, di aiuto alla ricerca scientifica e alla scuola (pubblica), un programma di difesa e rilancio del welfare, in particolare della sanità (pubblica), e del trasporto (pubblico). Un programma che denunci e rinunci ad ogni proclama inneggiante alle “grandi opere” e si concentri sulle “piccole opere”: le strade provinciali, gli edifici scolastici da mettere in sicurezza, gli argini dei fiumi, le ferrovie locali, gli ospedali cadenti..., e così via. Un programma che cominci almeno a riequilibrare la politica estera del nostro Paese, schiacciata dagli Stati Uniti (ricordiamo che Trump prontamente ha sostenuto con una ulteriore inaccettabile ingerenza Giuseppe Conte, come successore di se stesso), e incapace di cercare vie autonome di pensiero e di azione, anche all’interno di organizzazioni sovranazionali.
Angelo d'Orsi
(29 agosto 2019)
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Italia in stagnazione, ma l’austerità uccide l’Europa
Stamane l’Istat ha comunicato i conti trimestrali del secondo trimestre 2019. Siamo in un territorio di stagnazione produttiva dove però bisogna rimarcare alcuni dati. A sorpresa gli investimenti fissi lordi sono cresciuti dell’1,9%, confermando la tesi dello scorso anno di Paolo Savona che vedeva un ruolo determinante degli investimenti. In particolare gli investimenti in macchinari sono cresciuti del 5,8% ed è quasi un miracolo visto il peggioramento della congiuntura internazionale. La domanda estera netta è risultata nulla cosi come i consumi delle famiglie.
La stagnazione si innesta in un contesto di forte e persistente austerità, visto che la spesa delle amministrazioni pubbliche è scesa dello 0,1%. All’apporto positivo degli investimenti fa da contraltare l’apporto congiunturale negativo delle scorte, che da circa un anno stanno diminuendo fortemente.
Ciò significa che se la congiuntura nel prossimo anno a livello internazionale fosse più favorevole ci sarebbe senz’altro uno scatto all’insù delle scorte con contributo positivo di industria e costruzione. Insomma si stanno svuotando sempre più i magazzini e l’apporto congiunturale delle scorte è negativo addirittura dello 0,3%, altrimenti ci sarebbe stato il segno più del pil trimestrale.
Un bilancio del governo Conte 1 è inesorabile, la spesa pubblica continua con persistenza a diminuire, malgrado quota 100 e reddito di cittadinanza. Più che oculatezza a noi sembra un suicidio economico. Evidentemente si hanno prospettive diverse e forse il Conte bis da questo punto di vista non promette nulla di buono. Seguitiamo ad andare dietro l’Ue, dunque a suicidarci.
Fonte
La stagnazione si innesta in un contesto di forte e persistente austerità, visto che la spesa delle amministrazioni pubbliche è scesa dello 0,1%. All’apporto positivo degli investimenti fa da contraltare l’apporto congiunturale negativo delle scorte, che da circa un anno stanno diminuendo fortemente.
Ciò significa che se la congiuntura nel prossimo anno a livello internazionale fosse più favorevole ci sarebbe senz’altro uno scatto all’insù delle scorte con contributo positivo di industria e costruzione. Insomma si stanno svuotando sempre più i magazzini e l’apporto congiunturale delle scorte è negativo addirittura dello 0,3%, altrimenti ci sarebbe stato il segno più del pil trimestrale.
Un bilancio del governo Conte 1 è inesorabile, la spesa pubblica continua con persistenza a diminuire, malgrado quota 100 e reddito di cittadinanza. Più che oculatezza a noi sembra un suicidio economico. Evidentemente si hanno prospettive diverse e forse il Conte bis da questo punto di vista non promette nulla di buono. Seguitiamo ad andare dietro l’Ue, dunque a suicidarci.
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Il G7 approfitta degli incendi per provare a internazionalizzare l’Amazzonia?
I terribili incendi che già hanno devastato quasi mezzo milione di ettari di selva amazzonica in Brasile hanno acceso il fuoco anche alla riunione del Gruppo dei Sette in Francia e hanno bruciacchiato, e lasciato in condizioni critiche, anche il trattato di libero commercio firmato recentemente tra l’Unione Europea e il Mercosur.
Paradossalmente, la vigliacca arrendevolezza dei governi neoliberisti del Mercosur ha salvato la riunione dei sette paesi capitalisti più industrializzati (Stati Uniti, Canada, Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna e Giappone) e ha dato una bella mano al presidente francese Emmanuel Macron per rilanciarsi come figura internazionale “a difesa dell’ambiente”.
Ma la cosa più importante è che, nell’immaginario collettivo internazionale, ha fatto fare ai paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay) la figura degli incompetenti sottosviluppati che hanno bisogno della tutela del mondo “civile” per sopravvivere, perché se si lasciano da soli distruggono il pianeta.
Gli incendi amazzonici si sono estesi con inaspettata rapidità sul terreno della diplomazia europea, quando il presidente francese Emmanuel Macron, ha accusato il suo pari brasiliano, Jair Bolsonaro, di avergli mentito circa i suoi impegni a favore dell’ambiente e ha annunciato la sua decisione di opporsi al TLC tra l’UE e il Mercosur.
Macron ha approfittato dell’enorme incendio dell’Amazzonia, delle provocatorie parole di Bolsonaro e, soprattutto, dell’assenza di reazione intelligente e sovrana degli altri tre paesi del Mercosur (Argentina, Paraguay e Uruguay), non solo per attaccare l’accordo segreto sottoscritto recentemente, ma per aprire la porta dell’offensiva del G7 per l’internazionalizzazione dell’Amazzonia, il polmone del pianeta (e, ovvio, alle sue risorse).
La mini-crisi diplomatica si è estesa al resto d’Europa, e la decisione di Macron è stata appoggiata dall’Irlanda. Anche Germania e Canada hanno rappresentato l’urgenza di parlare del tema dell’Amazzonia. Macron, in un discorso etichettato come manicheo, ha fatto presente che, per colpa di Bolsonaro e della sua politica nell’Amazzonia, si opporrà all’accordo tra l’Unione Europea e il Mercosur, e questo è servito per nascondere, ancora una volta, le responsabilità delle sette potenze nei drammi attuali, tra cui la diseguaglianza mondiale che promuovono.
Secondo documenti pubblicati questa settimana da un sito britannico, Bolsonaro e il suo gabinetto inondato di militari avrebbero un piano ben preciso per l’Amazzonia: costruire un’autostrada e una centrale idraulica nel cuore della selva, un progetto che data all’epoca della dittatura militare brasiliana (1964-1983).
La reazione del governo francese è stata presa con cautela dal governo argentino, che aveva festeggiato alla grande il disuguale accordo di libero commercio tra il Mercosur e l’UE, siglato a giugno dopo 20 anni di negoziati. Però il governo neoliberista di Maurizio Macri è in uscita, e questo pone in dubbio il fatto che questo TLC sia approvato dal Congresso, tenuto conto dell’opposizione sindacale, imprenditoriale e, soprattutto, del settore produttivo.
Macron non ha parlato – ovviamente – del Giappone e della sua predatrice pesca alle balene, della Germania e della sua multinazionale Bayer, proprietaria dell’ecoterrorista Monsanto, dell’Italia e del suo disprezzo per la condizione umana di fronte alla crisi dei migranti nel Mediterraneo, e di tutti come promotori e somministratori di armi che alimentano conflitti come quello dello Yemen, spalleggiano dittature e fanno a pezzi la regione del Medio Oriente.
In un discorso più mediatico che politico, Macron ha chiamato i cittadini a “rispondere all’appello degli oceani e della selva che sta bruciando”, senza dimenticare che per la sua politica coloniale ancora vigente anche la Francia è un paese dell’Amazzonia (per via della Guyana Francese). “Non lanciamo un semplice richiamo, ma una mobilitazione di tutte le potenze” riunite a Biarritz, e questo “insieme ai paesi dell’Amazzonia per lottare contro il fuoco e investire nella riforestazione”, ha detto.
Anche l’ancora presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk ha messo in dubbio la ratifica dell’accordo commerciale tra l’UE e il Mercosur se il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, non combatte gli incendi nell’Amazzonia brasiliana. E Tusk ha pure avvertito che «non faciliterà» il Regno Unito nell’abbandonare l’UE senza accordo.
Mentre Francia e Irlanda hanno minacciato di non approvare questo accordo, la Finlandia, che presiede attualmente l’Unione Europea, ha proposto d’imporre restrizioni alle importazioni di carne dal Brasile, il secondo fornitore di carne mondiale, come forma di pressione al paese per la preservazione dell’Amazzonia. «Non c’è possibilità che l’Irlanda voti a favore dell’accordo se il Brasile non rispetta i suoi impegni con l’ambiente», ha avvisato il premier irlandese Leo Varadkar.
La reazione di Macron si è originata nel mezzo di una estrema tensione tra i due paesi, un giorno dopo che Bolsonaro lo accusasse con un tweet di «avere una mentalità colonialista», che «strumentalizza una questione interna del Brasile e di altri paesi dell’Amazzonia» con «un tono sensazionalista che non contribuisce affatto a risolvere il problema».
Firmato a fine giugno, l’accordo UE-Mercosur, che creerebbe un mercato di 780 milioni di consumatori, è criticato non solo nei paesi del Mercosur, ma anche in Europa dal settore agricolo di vari paesi, oltre che da ecologisti e ONG. Parlamentari europei – a margine del vertice G7 – avevano avvisato della minaccia di Bolsonaro di «lasciare il Mercosur» se l’accoppiata Alberto Fernández-Cristina Kirchner dovesse vincere le elezioni in Argentina il prossimo ottobre.
Alcuni analisti europei preferiscono interpretare la crisi tra Brasile e alcuni paesi europei come un trionfo di Donald Trump, alleato di Bolsonaro e scettico sul cambiamento climatico (come il suo imitatore brasiliano), nemico del multilateralismo, dell’UE e dell’accordo UE-Mercosur.
Però, al di là del disuguale trattato di libero commercio, i sudamericani devono avere chiaro il fatto che dietro i discorsi di protezione ambientale, nella mente dei dirigenti dei sette principali paesi capitalisti, c’è l’impossessarsi del polmone del pianeta e delle sue enormi ricchezze.
Fonte
Paradossalmente, la vigliacca arrendevolezza dei governi neoliberisti del Mercosur ha salvato la riunione dei sette paesi capitalisti più industrializzati (Stati Uniti, Canada, Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna e Giappone) e ha dato una bella mano al presidente francese Emmanuel Macron per rilanciarsi come figura internazionale “a difesa dell’ambiente”.
Ma la cosa più importante è che, nell’immaginario collettivo internazionale, ha fatto fare ai paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay) la figura degli incompetenti sottosviluppati che hanno bisogno della tutela del mondo “civile” per sopravvivere, perché se si lasciano da soli distruggono il pianeta.
Gli incendi amazzonici si sono estesi con inaspettata rapidità sul terreno della diplomazia europea, quando il presidente francese Emmanuel Macron, ha accusato il suo pari brasiliano, Jair Bolsonaro, di avergli mentito circa i suoi impegni a favore dell’ambiente e ha annunciato la sua decisione di opporsi al TLC tra l’UE e il Mercosur.
Macron ha approfittato dell’enorme incendio dell’Amazzonia, delle provocatorie parole di Bolsonaro e, soprattutto, dell’assenza di reazione intelligente e sovrana degli altri tre paesi del Mercosur (Argentina, Paraguay e Uruguay), non solo per attaccare l’accordo segreto sottoscritto recentemente, ma per aprire la porta dell’offensiva del G7 per l’internazionalizzazione dell’Amazzonia, il polmone del pianeta (e, ovvio, alle sue risorse).
La mini-crisi diplomatica si è estesa al resto d’Europa, e la decisione di Macron è stata appoggiata dall’Irlanda. Anche Germania e Canada hanno rappresentato l’urgenza di parlare del tema dell’Amazzonia. Macron, in un discorso etichettato come manicheo, ha fatto presente che, per colpa di Bolsonaro e della sua politica nell’Amazzonia, si opporrà all’accordo tra l’Unione Europea e il Mercosur, e questo è servito per nascondere, ancora una volta, le responsabilità delle sette potenze nei drammi attuali, tra cui la diseguaglianza mondiale che promuovono.
Secondo documenti pubblicati questa settimana da un sito britannico, Bolsonaro e il suo gabinetto inondato di militari avrebbero un piano ben preciso per l’Amazzonia: costruire un’autostrada e una centrale idraulica nel cuore della selva, un progetto che data all’epoca della dittatura militare brasiliana (1964-1983).
La reazione del governo francese è stata presa con cautela dal governo argentino, che aveva festeggiato alla grande il disuguale accordo di libero commercio tra il Mercosur e l’UE, siglato a giugno dopo 20 anni di negoziati. Però il governo neoliberista di Maurizio Macri è in uscita, e questo pone in dubbio il fatto che questo TLC sia approvato dal Congresso, tenuto conto dell’opposizione sindacale, imprenditoriale e, soprattutto, del settore produttivo.
Macron non ha parlato – ovviamente – del Giappone e della sua predatrice pesca alle balene, della Germania e della sua multinazionale Bayer, proprietaria dell’ecoterrorista Monsanto, dell’Italia e del suo disprezzo per la condizione umana di fronte alla crisi dei migranti nel Mediterraneo, e di tutti come promotori e somministratori di armi che alimentano conflitti come quello dello Yemen, spalleggiano dittature e fanno a pezzi la regione del Medio Oriente.
In un discorso più mediatico che politico, Macron ha chiamato i cittadini a “rispondere all’appello degli oceani e della selva che sta bruciando”, senza dimenticare che per la sua politica coloniale ancora vigente anche la Francia è un paese dell’Amazzonia (per via della Guyana Francese). “Non lanciamo un semplice richiamo, ma una mobilitazione di tutte le potenze” riunite a Biarritz, e questo “insieme ai paesi dell’Amazzonia per lottare contro il fuoco e investire nella riforestazione”, ha detto.
Anche l’ancora presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk ha messo in dubbio la ratifica dell’accordo commerciale tra l’UE e il Mercosur se il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, non combatte gli incendi nell’Amazzonia brasiliana. E Tusk ha pure avvertito che «non faciliterà» il Regno Unito nell’abbandonare l’UE senza accordo.
Mentre Francia e Irlanda hanno minacciato di non approvare questo accordo, la Finlandia, che presiede attualmente l’Unione Europea, ha proposto d’imporre restrizioni alle importazioni di carne dal Brasile, il secondo fornitore di carne mondiale, come forma di pressione al paese per la preservazione dell’Amazzonia. «Non c’è possibilità che l’Irlanda voti a favore dell’accordo se il Brasile non rispetta i suoi impegni con l’ambiente», ha avvisato il premier irlandese Leo Varadkar.
La reazione di Macron si è originata nel mezzo di una estrema tensione tra i due paesi, un giorno dopo che Bolsonaro lo accusasse con un tweet di «avere una mentalità colonialista», che «strumentalizza una questione interna del Brasile e di altri paesi dell’Amazzonia» con «un tono sensazionalista che non contribuisce affatto a risolvere il problema».
Firmato a fine giugno, l’accordo UE-Mercosur, che creerebbe un mercato di 780 milioni di consumatori, è criticato non solo nei paesi del Mercosur, ma anche in Europa dal settore agricolo di vari paesi, oltre che da ecologisti e ONG. Parlamentari europei – a margine del vertice G7 – avevano avvisato della minaccia di Bolsonaro di «lasciare il Mercosur» se l’accoppiata Alberto Fernández-Cristina Kirchner dovesse vincere le elezioni in Argentina il prossimo ottobre.
Alcuni analisti europei preferiscono interpretare la crisi tra Brasile e alcuni paesi europei come un trionfo di Donald Trump, alleato di Bolsonaro e scettico sul cambiamento climatico (come il suo imitatore brasiliano), nemico del multilateralismo, dell’UE e dell’accordo UE-Mercosur.
Però, al di là del disuguale trattato di libero commercio, i sudamericani devono avere chiaro il fatto che dietro i discorsi di protezione ambientale, nella mente dei dirigenti dei sette principali paesi capitalisti, c’è l’impossessarsi del polmone del pianeta e delle sue enormi ricchezze.
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Danimarca - I tassi d’interesse e le chiacchiere stanno a zero
In un’intervista pubblicata su Bloomberg lo scorso 27 agosto, il Ceo del secondo istituto finanziario danese, la Sydbank, ha annunciato un tasso d’interesse negativo (-0,6%) sui depositi superiori a 1,1 milioni di dollari. La notizia segue di una settimana quella secondo cui un’altra banca danese, la Jyske Bank, la stessa che insieme ad altri istituti scandinavi aveva “fatto la storia dei mutui” offrendo prestiti a 10 anni (ma la tendenza è in espansione anche a quelli a 20 e a 30 anni) a tasso fisso sempre inferiore o uguale a zero.
La decisione è il frutto delle scelte della Banca centrale di Danimarca (BcD) che, per il settimo anno consecutivo (e l’ottavo è in vista), offre tassi d’interesse sui depositi penalizzanti: un record del mondo.
La Danimarca, così come per esempio il Regno Unito o gli altri paesi della Scandinavia, con l’esclusione della Norvegia, fa parte dell’Unione europea, ma non dell’Eurozona. Questo significa che pur prendendo parte al mercato comune, Copenaghen non utilizza l’Euro bensì una propria moneta, la Corona danese.
Apparentemente, questo significa che il governo danese, per mezzo della propria Banca centrale, ha la piena responsabilità sulla sua politica monetaria; tuttavia, l’adesione al Sistema europeo delle banche centrali (Sebc) e al Sistema monetario europeo (Sme) ne limita fortemente gli spazi di manovra.
Infatti, l’obiettivo del primo sistema, e perciò di tutti gli istituti-paesi che ne fanno parte, è la stabilità dei prezzi, a cui segue logicamente – ossia, solo successivamente in termini di priorità – quello della piena occupazione. Mentre il sistema monetario persegue la stabilità dei cambi tra le valute interessate, che con l’adozione dell’Euro (e gli accordi denominati Aec II, cui fanno eccezione i sudditi di sua maestà Queen Elizabeth II) si traduce nell’aggancio a questo della krone.
Per farla breve, dimmi che succede all’economia “europea” e ti dirò che succede anche nella virtuosa Danimarca. I seguenti grafici sui tassi d’interesse Bce-BcD e sull’indice dei prezzi al consumo (Cpi), ossia dell’inflazione, specialmente post-arrivo della crisi dei mutui subprime da questa parte dell’Atlantico, ne sono una conferma.
Il controsenso in termini capitalistici del denaro che non rende è un fenomeno di cui in questo giornale si è trattato ampiamente e, come scrive Salerno-Aletta in un suo editoriale per TeleBorsa, la politica dei tassi d’interesse negativi “sta producendo effetti disastrosi per tutti”.
Anni di politiche deflattive, depressione salariale, privatizzazione anche dei settori strategici e deregolamentazione del mondo del lavoro, non hanno impedito alle esportazioni – perlopiù di matrice tedesca – di frenare la loro corsa (e come avrebbero potuto, considerando che la loro competitività era basata sul taglio del costo del lavoro, che prima o poi si tramuta sul crollo della domanda, e non su ricerca e innovazione?) e con essa quella dei consumi, a cui segue naturalmente quella degli investimenti privati (quelli pubblici sono al palo da tempo, circa 25 anni nel nostro paese, perché, ci vorrebbero far credere, necessari ad abbassare il livello d’indebitamento della nostra economia).
In un’“economia reale” che ristagna da oltre un decennio e non dà segnali di risveglio l’investimento per il businessman è sempre meno remunerativo, quando non addirittura troppo rischioso; e allora non resta che speculare nel mondo della carta finanziaria (per stomaci forti), o depositarlo presso le banche centrali a rendimenti magari inferiori, persino negativi, ma più “sicuri”.
Ma è proprio qui che casca l’asino, perché l’architettura europea impedisce l’ingerenza del pubblico sotto forma di investimento nell’“ordine del mercato”, per cui in una condizione di stagnazione lo Stato non può intervenire e il privato non si mette in gioco, perché non vede all’orizzonte rendimenti sufficientemente profittevoli. Tutti fermi, tutto immobile.
In questo quadro, la penalizzazione dei depositi non poteva (e non potrà) produrre l’effetto sperato dalla Bce, ossia quello di rimettere in circolo denaro sonante, perché se chi dovrebbe comprare – beni o sevizi che siano – gode (si far per dire) di un potere d’acquisto sempre minore, chi pure potrebbe investire semplicemente non ha alcun interesse a farlo.
La Germania, a pensar male, forse era pronta da tempo anche per questo, perché la possibilità di uno sforamento del 3% del rapporto deficit-Pil come politica anti-ciclica per far fronte alla recessione è prevista dai Trattati, ma solo per i paesi che abbiano raggiunto un rapporto debito-Pil del 60%.
Quando tutto questo si protrae nel tempo si arriva perciò al paradosso per cui anche chi ha disponibilità di risorse è in difficoltà nella loro allocazione, perché la migliore scelta disponibile garantisce al massimo una perdita contenuta (di questo si è avvantaggiata la Germania, con tassi negativi sui propri titoli che le hanno permesso di guadagnare sul proprio indebitamento).
Come dire, se il Lavoro piange lacrime e sangue, la maggior parte del Capitale non riesce a ridere.
La difficoltà del sistema bancario danese allora è solo l’ultimo campanello di allarme di un sistema che è fallito, cui quasi nessuno ha mai chiesto spiegazioni e che per giunta esce ideologicamente rafforzato dall’ultima tornata elettorale di maggio. Non conta più essere i campioni della flexsecurity o uno dei paesi meno corrotti al mondo (anche se, diciamo così, ultimamente vittima di qualche svista di troppo).
A questo proposito, il prossimo governo giallo-blu che si andrà a formare in questo paese ha già espresso, nelle parole pronunciate ieri mattina al Quirinale dall’ex-futuro presidente del consiglio Giuseppe Conte, un forte impegno al processo di integrazione europea.
Ma quanto appena accennato in queste righe porta in dote (almeno) due insegnamenti: non sarebbe la sola uscita formale dall’Euro che risolverebbe per magia i problemi, come immaginato dal grillismo di qualche anno fa, se questa non fosse accompagnata da una solida alternativa; è l’istituzione europea tutta la causa principale della nostra instabilità attuale e dell’incertezza che pervade il nostro futuro.
Prima tutto questo diviene di dominio comune, meglio sarà per tutti. Per assurdo, padroni compresi.
Fonte
La decisione è il frutto delle scelte della Banca centrale di Danimarca (BcD) che, per il settimo anno consecutivo (e l’ottavo è in vista), offre tassi d’interesse sui depositi penalizzanti: un record del mondo.
La Danimarca, così come per esempio il Regno Unito o gli altri paesi della Scandinavia, con l’esclusione della Norvegia, fa parte dell’Unione europea, ma non dell’Eurozona. Questo significa che pur prendendo parte al mercato comune, Copenaghen non utilizza l’Euro bensì una propria moneta, la Corona danese.
Apparentemente, questo significa che il governo danese, per mezzo della propria Banca centrale, ha la piena responsabilità sulla sua politica monetaria; tuttavia, l’adesione al Sistema europeo delle banche centrali (Sebc) e al Sistema monetario europeo (Sme) ne limita fortemente gli spazi di manovra.
Infatti, l’obiettivo del primo sistema, e perciò di tutti gli istituti-paesi che ne fanno parte, è la stabilità dei prezzi, a cui segue logicamente – ossia, solo successivamente in termini di priorità – quello della piena occupazione. Mentre il sistema monetario persegue la stabilità dei cambi tra le valute interessate, che con l’adozione dell’Euro (e gli accordi denominati Aec II, cui fanno eccezione i sudditi di sua maestà Queen Elizabeth II) si traduce nell’aggancio a questo della krone.
Per farla breve, dimmi che succede all’economia “europea” e ti dirò che succede anche nella virtuosa Danimarca. I seguenti grafici sui tassi d’interesse Bce-BcD e sull’indice dei prezzi al consumo (Cpi), ossia dell’inflazione, specialmente post-arrivo della crisi dei mutui subprime da questa parte dell’Atlantico, ne sono una conferma.
Il controsenso in termini capitalistici del denaro che non rende è un fenomeno di cui in questo giornale si è trattato ampiamente e, come scrive Salerno-Aletta in un suo editoriale per TeleBorsa, la politica dei tassi d’interesse negativi “sta producendo effetti disastrosi per tutti”.
Anni di politiche deflattive, depressione salariale, privatizzazione anche dei settori strategici e deregolamentazione del mondo del lavoro, non hanno impedito alle esportazioni – perlopiù di matrice tedesca – di frenare la loro corsa (e come avrebbero potuto, considerando che la loro competitività era basata sul taglio del costo del lavoro, che prima o poi si tramuta sul crollo della domanda, e non su ricerca e innovazione?) e con essa quella dei consumi, a cui segue naturalmente quella degli investimenti privati (quelli pubblici sono al palo da tempo, circa 25 anni nel nostro paese, perché, ci vorrebbero far credere, necessari ad abbassare il livello d’indebitamento della nostra economia).
In un’“economia reale” che ristagna da oltre un decennio e non dà segnali di risveglio l’investimento per il businessman è sempre meno remunerativo, quando non addirittura troppo rischioso; e allora non resta che speculare nel mondo della carta finanziaria (per stomaci forti), o depositarlo presso le banche centrali a rendimenti magari inferiori, persino negativi, ma più “sicuri”.
Ma è proprio qui che casca l’asino, perché l’architettura europea impedisce l’ingerenza del pubblico sotto forma di investimento nell’“ordine del mercato”, per cui in una condizione di stagnazione lo Stato non può intervenire e il privato non si mette in gioco, perché non vede all’orizzonte rendimenti sufficientemente profittevoli. Tutti fermi, tutto immobile.
In questo quadro, la penalizzazione dei depositi non poteva (e non potrà) produrre l’effetto sperato dalla Bce, ossia quello di rimettere in circolo denaro sonante, perché se chi dovrebbe comprare – beni o sevizi che siano – gode (si far per dire) di un potere d’acquisto sempre minore, chi pure potrebbe investire semplicemente non ha alcun interesse a farlo.
La Germania, a pensar male, forse era pronta da tempo anche per questo, perché la possibilità di uno sforamento del 3% del rapporto deficit-Pil come politica anti-ciclica per far fronte alla recessione è prevista dai Trattati, ma solo per i paesi che abbiano raggiunto un rapporto debito-Pil del 60%.
Quando tutto questo si protrae nel tempo si arriva perciò al paradosso per cui anche chi ha disponibilità di risorse è in difficoltà nella loro allocazione, perché la migliore scelta disponibile garantisce al massimo una perdita contenuta (di questo si è avvantaggiata la Germania, con tassi negativi sui propri titoli che le hanno permesso di guadagnare sul proprio indebitamento).
Come dire, se il Lavoro piange lacrime e sangue, la maggior parte del Capitale non riesce a ridere.
La difficoltà del sistema bancario danese allora è solo l’ultimo campanello di allarme di un sistema che è fallito, cui quasi nessuno ha mai chiesto spiegazioni e che per giunta esce ideologicamente rafforzato dall’ultima tornata elettorale di maggio. Non conta più essere i campioni della flexsecurity o uno dei paesi meno corrotti al mondo (anche se, diciamo così, ultimamente vittima di qualche svista di troppo).
A questo proposito, il prossimo governo giallo-blu che si andrà a formare in questo paese ha già espresso, nelle parole pronunciate ieri mattina al Quirinale dall’ex-futuro presidente del consiglio Giuseppe Conte, un forte impegno al processo di integrazione europea.
Ma quanto appena accennato in queste righe porta in dote (almeno) due insegnamenti: non sarebbe la sola uscita formale dall’Euro che risolverebbe per magia i problemi, come immaginato dal grillismo di qualche anno fa, se questa non fosse accompagnata da una solida alternativa; è l’istituzione europea tutta la causa principale della nostra instabilità attuale e dell’incertezza che pervade il nostro futuro.
Prima tutto questo diviene di dominio comune, meglio sarà per tutti. Per assurdo, padroni compresi.
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Libano. Hezbollah: «Risponderemo all’aggressione israeliana»
“Una dichiarazione di guerra”. In questa maniera il presidente della repubblica libanese, il maronita Michel Aoun, ha qualificato l’attacco di domenica su Beirut con due droni da parte di Tel Aviv. Toni accesi e dichiarazioni simili anche da parte del primo ministro, il sunnita Saad Hariri, che ha affermato alla stampa libanese la necessità “di una risposta alle recenti aggressioni israeliane”, visto che anche ieri l’esercito libanese ha colpito altri due droni israeliani nella zona di confine.
Come riporta il canale libanese NBN, sempre Hariri ha duramente replicato al ministro degli Affari Sociali, Richard Kayomija, legato alle Forze Libanesi di Samir Geagea (partito che, insieme alle Falangi, resta un solido alleato dell’Arabia Saudita e di Israele in Libano), che si lamentava della dura presa di posizione del governo libanese nei confronti di Tel Aviv.
In conferenza stampa Aoun ha evidenziato la sua “paura” riguardo ad una possibile escalation militare a causa delle “continue e sempre più minacciose aggressioni israeliane con l’obiettivo di far degenerare la situazione e destabilizzare il paese”. “Ho sempre ripetuto che il Libano non tirerà un solo colpo contro Israele, se non per difendersi” – ha continuato il presidente maronita – “ma quello che è avvenuto in questi giorni, ci permette e ci spinge ad esercitare questo diritto”.
Visti i toni durante il consiglio dei ministri di ieri, è servito a poco il messaggio inviato ad Hariri dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, per evidenziargli la “necessità di evitare che la situazione degeneri in un conflitto con Tel Aviv”.
In un comunicato ufficiale, Hezbollah ha affermato che i due droni caduti nei cieli di Beirut avevano l’obiettivo non di “spiare” obiettivi sensibili, ma di colpire, visto che “uno dei due velivoli conteneva circa 5 kg di esplosivo di tipo C4”.
Domenica scorsa, poche ore dopo l’attacco israeliano a Beirut, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che “Hezbollah risponderà a questo attacco suicida che rappresenta la prima aggressione israeliana diretta contro la Resistenza libanese dalla guerra del 2006”. “Da oggi abbatteremo qualsiasi velivolo israeliano che entri nel nostro spazio aereo” – ha continuato Nasrallah – “visto che questi droni non sono utilizzati più per lo spionaggio, ma sono mezzi suicidi per portare attacchi contro di noi, così come è avvenuto in Iraq”.
Secondo molti analisti, in effetti, l’attacco con i droni di Tel Aviv stabilisce una nuova equazione nei rapporti di forza tra Israele ed Hezbollah. Durante questi 13 anni, infatti, l’equilibrio di forza era legato al “tacito accordo” di non colpirsi nei rispettivi territori – Libano ed Israele – con attacchi diretti contro obiettivi militari.
L’unico terreno di confronto era lungo il confine nei territori occupati libanesi delle Fattorie di Shebaa, che sono stati teatro di frizioni e attacchi anche in questi anni. Sul quotidiano Rai Al Youm l’analista palestinese Kamal Khalaf ha scritto che “questo fragile equilibrio dopo il 25 agosto si è rotto e pone Hezbollah nella posizione di dover scegliere se sottomettersi ad un’aggressione permanente da parte israeliana o se rispondere militarmente”.
Una parte dell’opinione pubblica israeliana, che considera il nemico Nasrallah sempre “concreto e veritiero” nelle sue affermazioni, critica l’atteggiamento aggressivo e la superficialità dei recenti attacchi israeliani in Iraq ed in Libano. Secondo il quotidiano Haeretz, come scritto da Amos Harael, la scelta di Netanyahu di colpire diversi obiettivi in tutta l’area (Iraq, Siria, Libano e Gaza) per mostrare ancora la “forza militare di Israele”, potrebbe, al contrario, “portare ad un conflitto su diversi fronti con esiti non scontati”.
Martedì 27 agosto, come riportato da Al Jazeera, in un comunicato tutte le fazioni della Resistenza palestinese di Gaza hanno dichiarato che, in caso di un conflitto tra Israele ed Hezbollah, “entreranno in guerra contro il regime sionista”. Dichiarazioni dello stesso tono per quanto riguarda le Hashed Shaabi irachene o Unità di Mobilitazione Popolare che sono state oggetto di attacchi, sempre con droni, da parte del governo di Tel Aviv la scorsa settimana.
Per numerosi esperti israeliani, infatti, la risposta di Hezbollah è una questione di tempo. “Nasrallah ha affermato che Hezbollah colpirà a tempo debito” – ha dichiarato il cronista militare Alon Ben David al canale israeliano 13 “questo significa che il partito sciita sta già pianificando una risposta che sarà dolorosa ed umiliante per il nostro esercito”.
Sempre secondo Haeretz “la risposta di Hezbollah arriverà nei prossimi giorni e molto probabilmente sarà contro obiettivi militari, all’interno di Israele o sul Golan, in maniera da far comprendere a Netanyahu quali sono le capacità militari e la precisione nel colpirci”.
Minacce che sono state prese in grande considerazione dall’esercito israeliano visto che, come riporta il canale libanese Al Mayadeen, lungo la frontiera con il Libano ”sono totalmente scomparse le pattuglie militari israeliane e tutte le postazioni sono in stato di massima allerta”.
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Come riporta il canale libanese NBN, sempre Hariri ha duramente replicato al ministro degli Affari Sociali, Richard Kayomija, legato alle Forze Libanesi di Samir Geagea (partito che, insieme alle Falangi, resta un solido alleato dell’Arabia Saudita e di Israele in Libano), che si lamentava della dura presa di posizione del governo libanese nei confronti di Tel Aviv.
In conferenza stampa Aoun ha evidenziato la sua “paura” riguardo ad una possibile escalation militare a causa delle “continue e sempre più minacciose aggressioni israeliane con l’obiettivo di far degenerare la situazione e destabilizzare il paese”. “Ho sempre ripetuto che il Libano non tirerà un solo colpo contro Israele, se non per difendersi” – ha continuato il presidente maronita – “ma quello che è avvenuto in questi giorni, ci permette e ci spinge ad esercitare questo diritto”.
Visti i toni durante il consiglio dei ministri di ieri, è servito a poco il messaggio inviato ad Hariri dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, per evidenziargli la “necessità di evitare che la situazione degeneri in un conflitto con Tel Aviv”.
In un comunicato ufficiale, Hezbollah ha affermato che i due droni caduti nei cieli di Beirut avevano l’obiettivo non di “spiare” obiettivi sensibili, ma di colpire, visto che “uno dei due velivoli conteneva circa 5 kg di esplosivo di tipo C4”.
Domenica scorsa, poche ore dopo l’attacco israeliano a Beirut, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che “Hezbollah risponderà a questo attacco suicida che rappresenta la prima aggressione israeliana diretta contro la Resistenza libanese dalla guerra del 2006”. “Da oggi abbatteremo qualsiasi velivolo israeliano che entri nel nostro spazio aereo” – ha continuato Nasrallah – “visto che questi droni non sono utilizzati più per lo spionaggio, ma sono mezzi suicidi per portare attacchi contro di noi, così come è avvenuto in Iraq”.
Secondo molti analisti, in effetti, l’attacco con i droni di Tel Aviv stabilisce una nuova equazione nei rapporti di forza tra Israele ed Hezbollah. Durante questi 13 anni, infatti, l’equilibrio di forza era legato al “tacito accordo” di non colpirsi nei rispettivi territori – Libano ed Israele – con attacchi diretti contro obiettivi militari.
L’unico terreno di confronto era lungo il confine nei territori occupati libanesi delle Fattorie di Shebaa, che sono stati teatro di frizioni e attacchi anche in questi anni. Sul quotidiano Rai Al Youm l’analista palestinese Kamal Khalaf ha scritto che “questo fragile equilibrio dopo il 25 agosto si è rotto e pone Hezbollah nella posizione di dover scegliere se sottomettersi ad un’aggressione permanente da parte israeliana o se rispondere militarmente”.
Una parte dell’opinione pubblica israeliana, che considera il nemico Nasrallah sempre “concreto e veritiero” nelle sue affermazioni, critica l’atteggiamento aggressivo e la superficialità dei recenti attacchi israeliani in Iraq ed in Libano. Secondo il quotidiano Haeretz, come scritto da Amos Harael, la scelta di Netanyahu di colpire diversi obiettivi in tutta l’area (Iraq, Siria, Libano e Gaza) per mostrare ancora la “forza militare di Israele”, potrebbe, al contrario, “portare ad un conflitto su diversi fronti con esiti non scontati”.
Martedì 27 agosto, come riportato da Al Jazeera, in un comunicato tutte le fazioni della Resistenza palestinese di Gaza hanno dichiarato che, in caso di un conflitto tra Israele ed Hezbollah, “entreranno in guerra contro il regime sionista”. Dichiarazioni dello stesso tono per quanto riguarda le Hashed Shaabi irachene o Unità di Mobilitazione Popolare che sono state oggetto di attacchi, sempre con droni, da parte del governo di Tel Aviv la scorsa settimana.
Per numerosi esperti israeliani, infatti, la risposta di Hezbollah è una questione di tempo. “Nasrallah ha affermato che Hezbollah colpirà a tempo debito” – ha dichiarato il cronista militare Alon Ben David al canale israeliano 13 “questo significa che il partito sciita sta già pianificando una risposta che sarà dolorosa ed umiliante per il nostro esercito”.
Sempre secondo Haeretz “la risposta di Hezbollah arriverà nei prossimi giorni e molto probabilmente sarà contro obiettivi militari, all’interno di Israele o sul Golan, in maniera da far comprendere a Netanyahu quali sono le capacità militari e la precisione nel colpirci”.
Minacce che sono state prese in grande considerazione dall’esercito israeliano visto che, come riporta il canale libanese Al Mayadeen, lungo la frontiera con il Libano ”sono totalmente scomparse le pattuglie militari israeliane e tutte le postazioni sono in stato di massima allerta”.
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Anche gli ultrà europeisti vogliono “cambiare la Ue”. Per competere meglio...
Tormento o delizia di ogni analista, l’Unione Europea resta l’ircocervo che si preferisce in genere affrontare solo dal punto di vista ideologico, come se questa strana creatura fosse davvero una “anticipazione” della fine dei nazionalismi e non invece – come è – una struttura di regolazione dei vari nazionalismi. Con effetti fortemente asimmetrici, quasi sempre voluti, che avvantaggiano sempre i paesi più forti a scapito di quelli più deboli.
Come è facile capire, dato un mercato comune (come spazio e regole), se qualcuno ci perde (va in deficit) è perché qualcuno ci guadagna (va in surplus).
Un mercato comune che opera in modo sfrangiato (nazionalisticamente, a parte qualche trattato come il Ceta con il Canada o quello con il Mercosur) e ambisce ad essere un competitore globale all’altezza di Stati Uniti, Cina, Russia. Nel nostro linguaggio si potrebbe anche dire un imperialismo competitivo con altri, il che getta una luce non proprio favorevole sull’immagine di “Europa” dipinta dalla propaganda, che cita sempre e solo Schengen e l’Erasmus.
Per aiutare anche i più restii, pubblichiamo qui l’editoriale del Corriere della Sera di oggi, a firma di Lucrezia Reichlin (tra i nomi in ballo per il ministero dell’economia).
Articolo notevole per chiarezza, che centra bene tutti i temi rilevanti sul piano economico e geopolitico, le assurdità e l’idiozia dell’austerità (non la definisce così, ma il senso è quello), la perdita di centralità degli Usa e il ruolo comunque ingombrante del dollaro, la fragilità esterna della gabbia Ue e l’inesistente “messa in comune” interna (politiche comuni e condivisione dei rischi, anche finanziari). Un luogo popolato di fessi (l’italietta degli ultimi 30 anni, con qualsiasi governo, anche con presenza Lega e Fdi) che firmano accordi suicidi e avvoltoi che li scrivono per beneficiarne al meglio.
Ma la Reichlin non è né una euroscettica di destra, né un’internazionalista comunista contro la Ue (nonostante i genitori...).
E infatti, dopo aver elencato i punti di debolezza della situazione globale, in specifico di quella continentale, riassume il tutto in un progetto di ridisegno della “visione europea” tale da darle effettivamente la possibilità di “giocare alla pari” con gli altri competitori globali.
Per riuscirci, naturalmente, bisogna superare le politiche micragnose degli ultimi 30 anni con l’obbiettivo di “una maggiore condivisione del rischio a fianco di impegni per politiche nazionali responsabili”, altrimenti “rimaniamo fragili e in balia delle scelte americane, oggi più che mai volatili e non cooperative”.
L’occasione è ora, che – non viene ricordato, ma è “il problema europeo” per eccellenza – la Germania sta andando in recessione, vede il suo modello mercantilista e deflazionista (bassi salari e precarietà contrattuale) in crisi e quindi sta preparando un aumento monstre della spesa pubblica nazionale mentre raccomanda a tutti gli altri di stringere la cinghia.
Ma non c’è alcuna ragione di “equità” o “redistribuzione della ricchezza” a monte di questo progetto di “riforma dei trattati”. Solo la necessità di fare il tagliando alla macchina perché possa “competere meglio”. Anche armandosi di più, in relativa autonomia (siamo pur sempre dentro il trattato Nato, con basi Usa sparse un po’ ovunque sul continente).
Chi ancora pensa che l’“europeismo” sia una “cosa di sinistra”, magari da correggere qua e là, dovrebbe farsene finalmente una ragione.
Alla fine di agosto si sono svolti due incontri internazionali significativi: la riunione annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole in Wyoming e la riunione dei G7. I temi delle due conferenze erano diversi, ma da ambedue le riunioni è emerso un comune spaesamento per una situazione in cui gli Usa non sono più il pilastro della cooperazione internazionale e l’alternativa, per ora, non c’è. Questo rende il rafforzamento del progetto europeo una necessità.
Da Jackson Hole un tema centrale è stato la fragilità del sistema finanziario internazionale dominato dal dollaro. Gli Stati Uniti sono il banchiere del mondo. Si domandano dollari perché gran parte del commercio internazionale si fattura in dollari e/o perché i titoli di Stato Usa sono liquidi e sicuri – e quindi appetibili — soprattutto quando l’incertezza è diffusa. Questo dà agli Stati Uniti un «privilegio esorbitante», come lo aveva definito Giscard d’Estaing in un’altra epoca e fa sì che la loro politica monetaria influenzi i prezzi degli strumenti finanziari mondiali e i tassi di cambio: gli altri Paesi sono costretti a subirla. Ma non solo. Se ci dovesse essere una nuova crisi le banche centrali del resto del mondo, come è avvenuto nel 2008, avrebbero bisogno di chiedere prestiti speciali alla Federal reserve per soddisfare la domanda di liquidità da parte delle loro banche ed evitare l'instabilità finanziaria.
Ottenerli oggi, a differenza del 2008, non sarebbe scontato: dipenderebbe dalla volontà di cooperazione degli Stati Uniti, non più cosa certa. Il dominio del dollaro non è un problema nuovo ma diventa preoccupante in una situazione in cui l’indipendenza della Federal Reserve viene messa in discussione dal presidente Trump e in cui gli Stati Uniti hanno cambiato rotta, rinunciando ad essere il pilastro della cooperazione internazionale e prendendo la strada della guerra commerciale e dei cambi. Come può funzionare il sistema finanziario internazionale se il Paese che ne è al centro, gli Stati Uniti, sono diventati inaffidabili ed imprevedibili?
Simile preoccupazione trapela dal G7. L’incontro ha coperto temi più generali, ma anche lì è emersa la preoccupazione fondamentale del mutato ruolo degli Usa guidati da un Presidente che di proposito crea una incertezza permanente sui temi del commercio internazionale e non si fa promotore di soluzioni cooperative su tutte le altre questioni importanti, dalla geopolitica all’ambiente. La nuova stagione europea si apre in questo contesto. Non sfugge a nessuno che se l’Europa fosse più coesa e capace di approfondire la sua unione economica e politica potrebbe assumere un ruolo maggiore nel mondo. Oggi rimane schiacciata tra Stati Uniti, Cina e Russia ed è vulnerabile per via della sua fragilità politica nonostante l'importante dimensione della sua economia.
Pesano gli errori del passato e l’incertezza di oggi. Sul piano economico i Paesi dell’Unione non sono stati capaci di affiancare la Bce con politiche complementari per sostenere in modo più aggressivo l’economia. Oggi non bisogna ripetere questo errore.
La discussione a Jackson Hole ha dato un secondo spunto di riflessione che va in questo senso. Le banche centrali stanno esaurendo le loro «cartucce». La politica monetaria da sola non riesce ad incidere più di tanto sull’economia. I tassi di interesse sono a zero (nel caso dell’euro-zona quelli sulle riserve presso la Bce addirittura negative) e i bilanci delle banche centrali sono più che raddoppiati dal 2008 come conseguenza degli acquisti dei titoli e operazioni speciali, ma l’inflazione rimane debole e l’economia reale oggi rallenta. Se questo rallentamento dovesse tramutarsi in recessione non è chiaro in che forma potrà arrivare un ulteriore stimolo monetario e se avrà effetto.
In Europa più che mai questo significa mettere in campo politiche coraggiose al livello dell’Unione: stimolo fiscale ma non solo. È soprattutto necessario che i governi si impegnino in iniziative politiche di rilancio del progetto europeo per fare ritornare la fiducia. La fiducia è necessaria a far ripartire gli investimenti e a combattere l’avversione al rischio che fa sì che gli investitori tedeschi e olandesi preferiscano parcheggiare depositi a tassi negativi piuttosto che spenderli in progetti più ambiziosi e pan-europei. Senza un progetto convincente che implica reimpostare un dialogo tra Stati membri e che apra la porta a una maggiore condivisione del rischio a fianco di impegni per politiche nazionali responsabili, rimaniamo fragili e in balia delle scelte americane, oggi più che mai volatili e non cooperative. La conferenza di Jackson Hole ci ha ricordato che un mondo multilaterale più robusto non può poggiarsi esclusivamente sul dollaro. Ma se l’euro vuole competere come moneta internazionale, l’Unione deve diventare una federazione più convincente in cui la moneta sia sostenuta dalla credibilità degli Stati membri. D’altro canto un ritorno alle monete nazionali moltiplicherebbe la fragilità di oggi e lascerebbe ciascun Paese europeo alla mercé dei sussulti della politica americana.
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Come è facile capire, dato un mercato comune (come spazio e regole), se qualcuno ci perde (va in deficit) è perché qualcuno ci guadagna (va in surplus).
Un mercato comune che opera in modo sfrangiato (nazionalisticamente, a parte qualche trattato come il Ceta con il Canada o quello con il Mercosur) e ambisce ad essere un competitore globale all’altezza di Stati Uniti, Cina, Russia. Nel nostro linguaggio si potrebbe anche dire un imperialismo competitivo con altri, il che getta una luce non proprio favorevole sull’immagine di “Europa” dipinta dalla propaganda, che cita sempre e solo Schengen e l’Erasmus.
Per aiutare anche i più restii, pubblichiamo qui l’editoriale del Corriere della Sera di oggi, a firma di Lucrezia Reichlin (tra i nomi in ballo per il ministero dell’economia).
Articolo notevole per chiarezza, che centra bene tutti i temi rilevanti sul piano economico e geopolitico, le assurdità e l’idiozia dell’austerità (non la definisce così, ma il senso è quello), la perdita di centralità degli Usa e il ruolo comunque ingombrante del dollaro, la fragilità esterna della gabbia Ue e l’inesistente “messa in comune” interna (politiche comuni e condivisione dei rischi, anche finanziari). Un luogo popolato di fessi (l’italietta degli ultimi 30 anni, con qualsiasi governo, anche con presenza Lega e Fdi) che firmano accordi suicidi e avvoltoi che li scrivono per beneficiarne al meglio.
Ma la Reichlin non è né una euroscettica di destra, né un’internazionalista comunista contro la Ue (nonostante i genitori...).
E infatti, dopo aver elencato i punti di debolezza della situazione globale, in specifico di quella continentale, riassume il tutto in un progetto di ridisegno della “visione europea” tale da darle effettivamente la possibilità di “giocare alla pari” con gli altri competitori globali.
Per riuscirci, naturalmente, bisogna superare le politiche micragnose degli ultimi 30 anni con l’obbiettivo di “una maggiore condivisione del rischio a fianco di impegni per politiche nazionali responsabili”, altrimenti “rimaniamo fragili e in balia delle scelte americane, oggi più che mai volatili e non cooperative”.
L’occasione è ora, che – non viene ricordato, ma è “il problema europeo” per eccellenza – la Germania sta andando in recessione, vede il suo modello mercantilista e deflazionista (bassi salari e precarietà contrattuale) in crisi e quindi sta preparando un aumento monstre della spesa pubblica nazionale mentre raccomanda a tutti gli altri di stringere la cinghia.
Ma non c’è alcuna ragione di “equità” o “redistribuzione della ricchezza” a monte di questo progetto di “riforma dei trattati”. Solo la necessità di fare il tagliando alla macchina perché possa “competere meglio”. Anche armandosi di più, in relativa autonomia (siamo pur sempre dentro il trattato Nato, con basi Usa sparse un po’ ovunque sul continente).
Chi ancora pensa che l’“europeismo” sia una “cosa di sinistra”, magari da correggere qua e là, dovrebbe farsene finalmente una ragione.
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Il ruolo maggiore di una UE più coesa
Alla fine di agosto si sono svolti due incontri internazionali significativi: la riunione annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole in Wyoming e la riunione dei G7. I temi delle due conferenze erano diversi, ma da ambedue le riunioni è emerso un comune spaesamento per una situazione in cui gli Usa non sono più il pilastro della cooperazione internazionale e l’alternativa, per ora, non c’è. Questo rende il rafforzamento del progetto europeo una necessità.
Da Jackson Hole un tema centrale è stato la fragilità del sistema finanziario internazionale dominato dal dollaro. Gli Stati Uniti sono il banchiere del mondo. Si domandano dollari perché gran parte del commercio internazionale si fattura in dollari e/o perché i titoli di Stato Usa sono liquidi e sicuri – e quindi appetibili — soprattutto quando l’incertezza è diffusa. Questo dà agli Stati Uniti un «privilegio esorbitante», come lo aveva definito Giscard d’Estaing in un’altra epoca e fa sì che la loro politica monetaria influenzi i prezzi degli strumenti finanziari mondiali e i tassi di cambio: gli altri Paesi sono costretti a subirla. Ma non solo. Se ci dovesse essere una nuova crisi le banche centrali del resto del mondo, come è avvenuto nel 2008, avrebbero bisogno di chiedere prestiti speciali alla Federal reserve per soddisfare la domanda di liquidità da parte delle loro banche ed evitare l'instabilità finanziaria.
Ottenerli oggi, a differenza del 2008, non sarebbe scontato: dipenderebbe dalla volontà di cooperazione degli Stati Uniti, non più cosa certa. Il dominio del dollaro non è un problema nuovo ma diventa preoccupante in una situazione in cui l’indipendenza della Federal Reserve viene messa in discussione dal presidente Trump e in cui gli Stati Uniti hanno cambiato rotta, rinunciando ad essere il pilastro della cooperazione internazionale e prendendo la strada della guerra commerciale e dei cambi. Come può funzionare il sistema finanziario internazionale se il Paese che ne è al centro, gli Stati Uniti, sono diventati inaffidabili ed imprevedibili?
Simile preoccupazione trapela dal G7. L’incontro ha coperto temi più generali, ma anche lì è emersa la preoccupazione fondamentale del mutato ruolo degli Usa guidati da un Presidente che di proposito crea una incertezza permanente sui temi del commercio internazionale e non si fa promotore di soluzioni cooperative su tutte le altre questioni importanti, dalla geopolitica all’ambiente. La nuova stagione europea si apre in questo contesto. Non sfugge a nessuno che se l’Europa fosse più coesa e capace di approfondire la sua unione economica e politica potrebbe assumere un ruolo maggiore nel mondo. Oggi rimane schiacciata tra Stati Uniti, Cina e Russia ed è vulnerabile per via della sua fragilità politica nonostante l'importante dimensione della sua economia.
Pesano gli errori del passato e l’incertezza di oggi. Sul piano economico i Paesi dell’Unione non sono stati capaci di affiancare la Bce con politiche complementari per sostenere in modo più aggressivo l’economia. Oggi non bisogna ripetere questo errore.
La discussione a Jackson Hole ha dato un secondo spunto di riflessione che va in questo senso. Le banche centrali stanno esaurendo le loro «cartucce». La politica monetaria da sola non riesce ad incidere più di tanto sull’economia. I tassi di interesse sono a zero (nel caso dell’euro-zona quelli sulle riserve presso la Bce addirittura negative) e i bilanci delle banche centrali sono più che raddoppiati dal 2008 come conseguenza degli acquisti dei titoli e operazioni speciali, ma l’inflazione rimane debole e l’economia reale oggi rallenta. Se questo rallentamento dovesse tramutarsi in recessione non è chiaro in che forma potrà arrivare un ulteriore stimolo monetario e se avrà effetto.
In Europa più che mai questo significa mettere in campo politiche coraggiose al livello dell’Unione: stimolo fiscale ma non solo. È soprattutto necessario che i governi si impegnino in iniziative politiche di rilancio del progetto europeo per fare ritornare la fiducia. La fiducia è necessaria a far ripartire gli investimenti e a combattere l’avversione al rischio che fa sì che gli investitori tedeschi e olandesi preferiscano parcheggiare depositi a tassi negativi piuttosto che spenderli in progetti più ambiziosi e pan-europei. Senza un progetto convincente che implica reimpostare un dialogo tra Stati membri e che apra la porta a una maggiore condivisione del rischio a fianco di impegni per politiche nazionali responsabili, rimaniamo fragili e in balia delle scelte americane, oggi più che mai volatili e non cooperative. La conferenza di Jackson Hole ci ha ricordato che un mondo multilaterale più robusto non può poggiarsi esclusivamente sul dollaro. Ma se l’euro vuole competere come moneta internazionale, l’Unione deve diventare una federazione più convincente in cui la moneta sia sostenuta dalla credibilità degli Stati membri. D’altro canto un ritorno alle monete nazionali moltiplicherebbe la fragilità di oggi e lascerebbe ciascun Paese europeo alla mercé dei sussulti della politica americana.
Fonte
No al biscontismo ultima variante del trasformismo
Siamo di fronte a piccoli personaggi frutto della selezione a rovescio della classe politica, prodotta dalla caduta delle alternative vere, non ci sono più destra e sinistra; da sistemi elettorali maggioritari che trasformano le minoranze in grandi maggioranze vuote; e poi della selezione mediatica, di cui il social è oramai una variante.
Il risultato sono leader che si gonfiano e si sgonfiano velocemente ed il cui principio guida è quello sarcasticamente sintetizzato da una battuta di Groucho Marx: questi sono i miei principi, non vanno bene? Ne ho degli altri.
Il governo Bisconte nasce con un presidente del consiglio che aveva definito il governo gialloverde la rappresentanza politica della voglia di cambiamento degli italiani e che ora guida una maggioranza politica opposta. Salvini, che piangerà nella sua stanzetta da bulletto pauroso quale è, prima ha messo in crisi il governo, poi non si è dimesso e ha addirittura proposto di continuare affidando ai Cinquestelle la presidenza.
Delle giravolte di Di Maio per ragioni di spazio ricordiamo solo l’ultima: mai col partito di Bibbiano.
Zingaretti a sua volta ha dovuto rovesciare la posizione che aveva concordato con Salvini: elezioni subito. Non solo ha dovuto smentire questa sua irrinunciabile scelta, ma anche quella successiva: no al Conte bis. E lo ha dovuto fare perché Renzi, che nel passato aveva minacciato la scissione se il PD si fosse alleato con il M5S, ora la minacciava se non avessero governato assieme.
Lasciamo perdere i cespugli parlamentari da LeU a +Europa, mostratisi appunto come puri cespugli.
E i programmi? La sola cosa chiara è che i Cinquestelle hanno votato il Decreto Sicurezza bis con la Lega, che a sua volta con il PD ha votato il TAV e condivide l’autonomia differenziata. Alla fine i tre partiti che litigano sul governo hanno il 99% dei programmi in comune.
Questo governo nasce con la benedizione di Trump e Ursula von der Leyen, della Confindustria che vuole soldi, di Grillo che vuole i tecnici e di Landini che chiede il ritorno al consociativismo sindacale. E i mercati festeggiano e comandano.
Tutto ciò garantisce un governo di pura continuità con tutti i governi passati, compreso l’ultimo. E la soddisfazione,che in molti abbiamo provato, per la pessima figura di Salvini politicamente non vuol dire nulla. Anzi va tenuta nello stesso conto di quella di un tifoso che gioisca per la sconfitta di una squadra antipatica, mentre la propria va in serie B.
Non c’è nulla di consolatorio nel governo BisConte, che anzi annuncia un nuovo degrado della politica italiana: il biscontismo, ultima versione del trasformismo. Di un trasformismo che annuncia la fine del conflitto tra destra e sinistra, perché in realtà tutto il confronto politico ufficiale avviene tra diverse versioni della destra.
Ciò che è difficile ma indispensabile oggi, è costruire una alternativa e una rottura con tutto questo, sul piano sociale, economico, politico e anche culturale. Questo il compito di chi non si rassegna che, agli anni della disastrosa alternanza tra Prodi e Berlusconi, seguano quelli in peggio tra Conte e Salvini. Dobbiamo fermare il degrado risalendo e affrontando le sue cause.
Fonte
Il risultato sono leader che si gonfiano e si sgonfiano velocemente ed il cui principio guida è quello sarcasticamente sintetizzato da una battuta di Groucho Marx: questi sono i miei principi, non vanno bene? Ne ho degli altri.
Il governo Bisconte nasce con un presidente del consiglio che aveva definito il governo gialloverde la rappresentanza politica della voglia di cambiamento degli italiani e che ora guida una maggioranza politica opposta. Salvini, che piangerà nella sua stanzetta da bulletto pauroso quale è, prima ha messo in crisi il governo, poi non si è dimesso e ha addirittura proposto di continuare affidando ai Cinquestelle la presidenza.
Delle giravolte di Di Maio per ragioni di spazio ricordiamo solo l’ultima: mai col partito di Bibbiano.
Zingaretti a sua volta ha dovuto rovesciare la posizione che aveva concordato con Salvini: elezioni subito. Non solo ha dovuto smentire questa sua irrinunciabile scelta, ma anche quella successiva: no al Conte bis. E lo ha dovuto fare perché Renzi, che nel passato aveva minacciato la scissione se il PD si fosse alleato con il M5S, ora la minacciava se non avessero governato assieme.
Lasciamo perdere i cespugli parlamentari da LeU a +Europa, mostratisi appunto come puri cespugli.
E i programmi? La sola cosa chiara è che i Cinquestelle hanno votato il Decreto Sicurezza bis con la Lega, che a sua volta con il PD ha votato il TAV e condivide l’autonomia differenziata. Alla fine i tre partiti che litigano sul governo hanno il 99% dei programmi in comune.
Questo governo nasce con la benedizione di Trump e Ursula von der Leyen, della Confindustria che vuole soldi, di Grillo che vuole i tecnici e di Landini che chiede il ritorno al consociativismo sindacale. E i mercati festeggiano e comandano.
Tutto ciò garantisce un governo di pura continuità con tutti i governi passati, compreso l’ultimo. E la soddisfazione,che in molti abbiamo provato, per la pessima figura di Salvini politicamente non vuol dire nulla. Anzi va tenuta nello stesso conto di quella di un tifoso che gioisca per la sconfitta di una squadra antipatica, mentre la propria va in serie B.
Non c’è nulla di consolatorio nel governo BisConte, che anzi annuncia un nuovo degrado della politica italiana: il biscontismo, ultima versione del trasformismo. Di un trasformismo che annuncia la fine del conflitto tra destra e sinistra, perché in realtà tutto il confronto politico ufficiale avviene tra diverse versioni della destra.
Ciò che è difficile ma indispensabile oggi, è costruire una alternativa e una rottura con tutto questo, sul piano sociale, economico, politico e anche culturale. Questo il compito di chi non si rassegna che, agli anni della disastrosa alternanza tra Prodi e Berlusconi, seguano quelli in peggio tra Conte e Salvini. Dobbiamo fermare il degrado risalendo e affrontando le sue cause.
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Colombia - Un settore delle FARC annuncia il ritorno alla lotta armata
Contro “il tradimento dell’accordo di pace da parte dello Stato”.
L’ex numero due delle FARC, Iván Márquez, da un luogo sconosciuto da più di un anno, è riapparso in un video insieme ad altri ex leader della guerriglia estinta per annunciare “una nuova fase della lotta armata”.
“Annunciamo al mondo che la seconda Marquetalia (città natale delle FARC da più di mezzo secolo) è iniziata sotto la protezione del diritto universale che aiuta tutti i popoli del mondo a sollevarsi in armi contro l’oppressione” ha affermato Márquez nel video pubblicato su Internet, in cui appare accanto a una ventina di uomini armati di fucili.
Il video è stato caricato su una pagina web che, a quanto pare, è stata creata come portale ufficiale del nuovo gruppo armato. Questa guerriglia, tuttavia, acquisisce il nome del gruppo estinto al quale apparteneva Márquez, ovvero, Forze armate rivoluzionarie della Colombia FARC-EP . Marquez appare nel video in questione insieme ad altri ex comandanti delle FARC come ‘Jesús Santrich’, ‘El Paisa’ e ‘Romaña’ .
Marquez, che nel video è vestito di verde militare e con una pistola alla cintola, afferma che la decisione di tornare alle armi “[…] è la continuazione della lotta di guerriglia in risposta al tradimento dello stato dell’accordo di pace di La Paz L’Avana” e afferma che cercherà di stabilire alleanze con l’ELN [1].
Nel manifesto che legge nel video, afferma che questa insurrezione, che prende il nome e i simboli delle forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC), non è rivolta ai soldati o alla polizia “rispettosa degli interessi popolari”, ma che sarà rivolta contro “... quell’oligarchia esclusiva e corrotta , mafiosa e violenta che crede di poter continuare a bloccare la porta del futuro del Paese”. In tal senso, afferma: “Lo Stato conoscerà una nuova modalità operativa. Risponderemo solo agli attacchi”. Inoltre Marquez annuncia anche il loro “totale disimpegno delle trattenute a fini economici”, in un apparente riferimento ai rapimenti, ma anche che “cercheranno un dialogo con uomini d’affari, allevatori, commercianti e i ricchi del paese, per cercare in questo modo il loro contributo al progresso di comunità rurali e urbane ” aggiungendo: “[...] in due anni, oltre 500 leader del movimento sociale sono stati uccisi e 150 guerriglieri sono già stati uccisi in mezzo all’indifferenza e all’indolenza dello Stato”.
Alla fine del manifesto letto da Márquez, Santrich, del quale viene richiesta l’estradizione dagli Stati Uniti con l’accusa di traffico di droga, interviene per lanciare l’arringa “Viva las FARC-EP”, cui il resto dei guerriglieri risponde con un “viva!”.
La Fondazione per la Pace e la Riconciliazione aveva avvertito in un rapporto che “... i gruppi dissidenti delle FARC erano entrati in un processo di ‘banditizzazione’ senza carattere politico” e che “[…]gli ex leader di quel gruppo armato si stavano radunando ed avrebbero potevano formare un nuovo guerrigliero entro l’anno prossimo”.
Durante il primo anno del governo del presidente Iván Duque, i gruppi armati composti da dissidenti delle FARC si sono rafforzati. Questa è la principale conclusione del rapporto “Più ombre che luci, sicurezza in Colombia un anno dopo il governo di Duque”, presentato mercoledì dalla Peace and Reconciliation Foundation (Peers), che ha coinvolto più di 50 ricercatori in varie aree del paese per fare una radiografia della violenza in Colombia, tre anni dopo la firma dell’Accordo di pace con le FARC.
Molti in Colombia ritengono che Duque, che ha superato un anno di governo lo scorso 7 agosto, stia gettando benzina anziché acqua sul fuoco.
Il primo di questi focus è il dissenso delle FARC, sia “politico che armato” composto da ex guerriglieri che non hanno accettato il processo di pace mentre il secondo è guidato da diversi ex leader come Iván Márquez o Jesús Santrich che non sono stati presi in considerazione durante il processo di pace.
“Se questi due (dissidenti) si uniscono, la potenza di fuoco crescerà perché danno una base politica alle persone che sono vittime del traffico di droga e del crimine comune”, ha affermato Ariel Avila, vicedirettore della Fondazione nella presentazione del rapporto.
Note:
[1] L’Esercito di Liberazione Nazionale (in spagnolo: Ejército de Liberación Nacional – ELN) è una organizzazione di guerriglia insurrezionale rivoluzionaria marxista che opera in diverse aree dellaColombia dal 1964
Fonte
L’ex numero due delle FARC, Iván Márquez, da un luogo sconosciuto da più di un anno, è riapparso in un video insieme ad altri ex leader della guerriglia estinta per annunciare “una nuova fase della lotta armata”.
“Annunciamo al mondo che la seconda Marquetalia (città natale delle FARC da più di mezzo secolo) è iniziata sotto la protezione del diritto universale che aiuta tutti i popoli del mondo a sollevarsi in armi contro l’oppressione” ha affermato Márquez nel video pubblicato su Internet, in cui appare accanto a una ventina di uomini armati di fucili.
Il video è stato caricato su una pagina web che, a quanto pare, è stata creata come portale ufficiale del nuovo gruppo armato. Questa guerriglia, tuttavia, acquisisce il nome del gruppo estinto al quale apparteneva Márquez, ovvero, Forze armate rivoluzionarie della Colombia FARC-EP . Marquez appare nel video in questione insieme ad altri ex comandanti delle FARC come ‘Jesús Santrich’, ‘El Paisa’ e ‘Romaña’ .
Marquez, che nel video è vestito di verde militare e con una pistola alla cintola, afferma che la decisione di tornare alle armi “[…] è la continuazione della lotta di guerriglia in risposta al tradimento dello stato dell’accordo di pace di La Paz L’Avana” e afferma che cercherà di stabilire alleanze con l’ELN [1].
Nel manifesto che legge nel video, afferma che questa insurrezione, che prende il nome e i simboli delle forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC), non è rivolta ai soldati o alla polizia “rispettosa degli interessi popolari”, ma che sarà rivolta contro “... quell’oligarchia esclusiva e corrotta , mafiosa e violenta che crede di poter continuare a bloccare la porta del futuro del Paese”. In tal senso, afferma: “Lo Stato conoscerà una nuova modalità operativa. Risponderemo solo agli attacchi”. Inoltre Marquez annuncia anche il loro “totale disimpegno delle trattenute a fini economici”, in un apparente riferimento ai rapimenti, ma anche che “cercheranno un dialogo con uomini d’affari, allevatori, commercianti e i ricchi del paese, per cercare in questo modo il loro contributo al progresso di comunità rurali e urbane ” aggiungendo: “[...] in due anni, oltre 500 leader del movimento sociale sono stati uccisi e 150 guerriglieri sono già stati uccisi in mezzo all’indifferenza e all’indolenza dello Stato”.
Alla fine del manifesto letto da Márquez, Santrich, del quale viene richiesta l’estradizione dagli Stati Uniti con l’accusa di traffico di droga, interviene per lanciare l’arringa “Viva las FARC-EP”, cui il resto dei guerriglieri risponde con un “viva!”.
La Fondazione per la Pace e la Riconciliazione aveva avvertito in un rapporto che “... i gruppi dissidenti delle FARC erano entrati in un processo di ‘banditizzazione’ senza carattere politico” e che “[…]gli ex leader di quel gruppo armato si stavano radunando ed avrebbero potevano formare un nuovo guerrigliero entro l’anno prossimo”.
Durante il primo anno del governo del presidente Iván Duque, i gruppi armati composti da dissidenti delle FARC si sono rafforzati. Questa è la principale conclusione del rapporto “Più ombre che luci, sicurezza in Colombia un anno dopo il governo di Duque”, presentato mercoledì dalla Peace and Reconciliation Foundation (Peers), che ha coinvolto più di 50 ricercatori in varie aree del paese per fare una radiografia della violenza in Colombia, tre anni dopo la firma dell’Accordo di pace con le FARC.
Molti in Colombia ritengono che Duque, che ha superato un anno di governo lo scorso 7 agosto, stia gettando benzina anziché acqua sul fuoco.
Il primo di questi focus è il dissenso delle FARC, sia “politico che armato” composto da ex guerriglieri che non hanno accettato il processo di pace mentre il secondo è guidato da diversi ex leader come Iván Márquez o Jesús Santrich che non sono stati presi in considerazione durante il processo di pace.
“Se questi due (dissidenti) si uniscono, la potenza di fuoco crescerà perché danno una base politica alle persone che sono vittime del traffico di droga e del crimine comune”, ha affermato Ariel Avila, vicedirettore della Fondazione nella presentazione del rapporto.
Note:
[1] L’Esercito di Liberazione Nazionale (in spagnolo: Ejército de Liberación Nacional – ELN) è una organizzazione di guerriglia insurrezionale rivoluzionaria marxista che opera in diverse aree dellaColombia dal 1964
Fonte
29/08/2019
Tra Salvini e Bolsonaro
L’intervista che segue, uscita il 23 agosto scorso in Brasile su «Esquerda online», me l’ha chiesta Rogèrio Freitas, ricercatore e attivista del «Partito Socialista della Libertà». Ho accettato di buon grado un po’ perché incuriosito e sorpreso dal fatto che si rivolgesse a me e un po’ perché il tema del dialogo mi è sembrato di grande attualità e di estremo interesse.
Ne è venuto fuori un discorso a mio avviso articolato, che prova a mettere insieme realtà lontane tra loro partendo da un elemento comune: la crescita di una destra eversiva, che dilaga, unendo realtà molto diverse tra loro e superando confini che non sono quelli degli Stati, ma – a seconda dei punti di vista – dividono o uniscono i Continenti.
Lascio nella traduzione portoghese la presentazione di Rogèrio, riporto qui il testo italiano e in coda all’articolo inserisco il link che conduce all’originale brasiliano. Buona lettura.
Giuseppe Aragno, historiador italiano analisa o conceito de fascismo e assemelhanças
entre Bolsonaro e Salvini
Nascido em Nápoles, comunista libertário por convicção, professor e escritor, Giuseppe Aragno diz que “ensina para viver, mas aprendeu e vive aprendendo”. Foi professor de História Contemporânea na Universitá Degli Studi di Napoli Federico II. Em 1995 ganhou o Prêmio Laterza por uma coletânea de poemas. Seu coração pulsa mesmo quando o tema é antifascismo. Entre suas principais obras estão “I compagni mi vendicheranno: lettere di condannati a morte della resistenza italiana” (2006), “Antifacismo popolare: storia di storie” (2009), e “Le quattro Giornate di Napoli: storie di antifacisti” (2017). A entrevista que segue foi conduzida por Rogério Freitas para o Esquerda Online. Aragno conversa sobre a resistência italiana, revoltas populares, crescimento da extrema direita no mundo, atualidade política italiana e similaridades entre governos neo-fascistas de Salvini e Bolsonaro. Destaca que a história das lutas dos trabalhadores, do antifascismo e da resistência agora fazem parte do nosso DNA.
Tutti conoscono Napoli come la città italiana del buon cibo. Luogo in cui è stata inventata la pizza. Pochi sanno, tuttavia, che nel 1943 ci fu una rivolta popolare di liberazione di Napoli dai nazifacisti. L’insurrezione è conosciuta nella storia come “Quattro Giornate di Napoli”. Uno dei suoi ultimi libri è su questo argomento. Quali sono state le motivazioni per scrivere questo libro? Quali storie antifasciste racconta Lei nel suo libro? E quanto è importante questo evento per la memoria collettiva?
Il potere non ama storie vittoriose di popoli in lotta: sono esempi pericolosi. Per le «Quattro Giornate di Napoli» perciò ha cucito l’abito su misura: rivolta spontanea, apolitica, isolata dalla «storia nazionale», scugnizzi e popolani incoscienti a fare gli eroi. Una favola così affidabile, che quando Nanni Loy ricostruisce la sommossa in un film che segue il binario della lotta spontanea e popolare, ma fa cenno a un capo antifascista, il tedesco Steinmayr, direttore dello «Stern», risponde da razza superiore: «una sommossa contro lo straniero oppressore, nella città dei mandolini e delle pizze» può essere solo «un parapiglia tra papponi e prostitute». Anni dopo, nel 1992, Claudio Pavone, storico della Resistenza, insiste sui «lazzari» delle «Quattro Giornate» che – dice – per una volta sono dalla parte giusta, ma non si avvede che i suoi apolitici «eroi per caso» restituiscono l’immagine deformata dei combattenti civili napoletani visti dai nazisti assaliti, che li chiamano «canaglia» [1]. Una «canaglia» che, annotano con maggior senso storico dei nostri storici, è molto sensibile alla propaganda «sovversiva».
Nell’immaginario collettivo, Napoli, prigioniera del cliché della «città di plebe», simbolo di malcostume politico e ricatto clientelare, non è mai stata la prima grande città europea che impone la resa ai nazifascisti. Si sono avuti, è vero, sporadici scontri armati, ma si è trattato di scaramucce tra retroguardie naziste che difendono le vie di fuga verso Nord, e bande di «lazzari» che fanno a schioppettate dall’angolo dei vicoli.
Per cancellare questa immagine falsa e dare un volto politico alla rivolta, ho ricostruito la resistenza all’occupazione nazista e restituito la parola agli antifascisti, motore della rivolta. Sono venute fuori così storie dimenticate di perseguitati politici, il ruolo che rivestirono durante la dittatura e poi nel laboratorio politico che fu la città liberata, quando si prese a disegnare la repubblica. Ricostruire i percorsi umani e politici dei combattenti, alcuni dei quali fanno poi la guerra di liberazione, è stato decisivo per dimostrare che il mito della città tutta sole, mare e pizza, che insorge, poi torna indifferente, non è ingenuo: mette in ombra lo scontro di classe e la mancata epurazione.
Nel 2013 ho avuto l’opportunità di ascoltarLa durante un suo discorso alla Biblioteca Brau dell’Università Federico II, che era occupata dagli studenti. Ha parlato di autoritarismo e ha detto che il fascismo non è mai veramente scomparso. In tempi di democrazia minacciata da governi autoritari come Salvini in Italia e Trump negli Stati Uniti, quali parallelismi si possono tracciare oggi con quello che era in realtà il nazifascismo?
Dopo gli eventi degli ultimi sei anni, il concetto di «autoritarismo», utilizzato per la conferenza che ricorda, non è più sufficiente a descrivere la realtà che viviamo io, lei e milioni di cittadini come noi, in contesti sociali e politici lontani tra loro, ma tuttavia accomunati da un dato molto preoccupante: il rapporto sempre più squilibrato tra potere e regole che ne fissano i limiti. Un rapporto che, per quanto riguarda il potere, non solo è sprezzante verso la democrazia, ma assume sempre più spesso connotati parafascisti.
Prenda, per esempio, il caso di Dilma Roussef. Senza entrare nel merito della vicenda, credo di poter dire che sei anni fa nessun politico, votando a favore dell’impeachment della prima donna Presidente del Brasile, ex guerrigliera contro la dittatura, avrebbe dichiarato di votare per la decadenza in nome di chi l’aveva torturata durante gli anni della sua militanza. Sei anni fa, per non fermarsi al Brasile, in Italia, l’ex comunista combattente Cesare Battisti, non sarebbe stato oggetto di scambio e prova di amicizia tra Bolsonaro e Salvini e soprattutto, quali che siano le sue responsabilità, dopo l’estradizione, non avrebbe trovato all’aeroporto i ministri Bonafede e Salvini, pronti a esibirsi davanti a compiacenti telecamere e ad esporre il detenuto come un trofeo di caccia.
In maniera diversa, ma in entrambi i casi, l’odio per la sinistra militante e combattente è stato così forte e così volutamente mostrato, che è impossibile parlare di competizione politica; tutto fa pensare a comportamenti vendicativi di natura reazionaria e per molti aspetti fascista. E dico fascista a ragion veduta, perché sei anni fa in Italia nessun ministro di centrosinistra e uomo del PD, avrebbe osato trattare la questione degli immigrati come Marco Minniti, predecessore di Salvini. Un ministro, va detto, che ha costretto l’ONU a definire «disumana» la politica adottata nei confronti degli immigrati e ha firmato un decreto sulla sicurezza che contiene numerosi elementi presenti in un documento fascista del 1934.
Sei anni fa noi non avremmo potuto parlare di Salvini, Bolsonaro, Trump, Orban e Le Pen, come di un gruppo di leader che condividono sia dal punto di vista teorico, che da quello pratico, posizioni politiche di una destra che non basta definire estrema. Inevitabilmente un così rapido degenerare dell’autoritarismo verso posizioni apertamente reazionarie interroga e inquieta le coscienze. È possibile individuare nella formazione di questo blocco di destra, apparentemente eterogeneo, i tratti di un moderno nazifascismo? Dalle mie parti, appena ti azzardi a porre questa domanda, ti si risponde che fascismo e nazismo sono fenomeni storici che fanno parte definitivamente del passato. Morti e sepolti. È un argomento forte, che trascura però dati di fatto incontestabili. L’Italia, per esempio, che ha conservato il Codice Rocco, esempio insuperato della concezione fascista dello Stato, non ha realizzato una seria “defascistizzazione” e anzi ha riciclato parte del personale politico e della burocrazia fascista.
Da noi la repubblica consentì che a presiedere la Corte Costituzionale fosse chiamato Gaetano Azzariti, ex presidente del Tribunale fascista della razza, e affidò la formazione tecnica della Polizia repubblicana a Guido Leto, ex capo dell’OVRA, la famigerata polizia politica fascista.
A volerlo continuare, l’elenco sarebbe infinito, ma non avremmo né spazio né tempo per farlo. Vale però la pena di citare almeno una parte dei casi più significativi. Vincenzo Eula, Pubblico Ministero nel processo che condannò Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli, fu poi Procuratore generale della Cassazione; Luigi Oggioni, ex procuratore generale della Repubblica sociale italiana, giunse alla presidenza della Corte di Cassazione e fu infine giudice della Corte Costituzionale; Carlo Alliney, uomo di punta della legislazione antiebraica nella Repubblica sociale italiana, proseguì senza intoppi la carriera fino alla Cassazione. Nessuno degli scienziati che avevano firmato il Manifesto della razza, pagò per le sue scelte.
Così stando le cose, non stupisce se, ignorando la Costituzione, Marco Minnitti, Ministro dell’interno, ha ammesso i fascisti di “Casa Pound” alle elezioni politiche del 2018 e se Salvini, suo successore, vada puntualmente ai congressi dell’organizzazione neofascista. Più che stupirsi occorre prendere atto: è là, in quella cultura, che vanno cercate le radici degli elementi di forte razzismo presenti nella feroce politica sugli immigrati voluta dal ministro dell’Interno leghista. D’altra parte Salvini non è solo nelle sua scelte sulla scena internazionale. Proponendosi di eliminare la sinistra dalla vita politica del Brasile, Bolsonaro non mira soprattutto a cancellare la stagione dell’esperienza integrazionista? Perché lo fa? L’impressione è che intenda riportare nelle terre latinoamericane l’antica condizione di subalternità e in questa scelta non appare lontano dall’antimeridionalismo, dal separatismo camuffato da autonomismo, dalla guerra agli immigrati e ai rom che sono la sostanza della concezione politica di Salvini e di altri leader della nebulosa in cui si colloca l’attuale estrema destra entro e fuori dall’Italia e dal Brasile.
Certo, Bolsonaro porta alle estreme conseguenze il populismo sessista, omofobo e razzista delle classi medie bianche e di destra più moderate e “civilizzate”, ma la sua campagna d’odio, di esaltazione della mano dura, che giunge sino alla tortura, accomuna il Brasile non solo all’Italia di Genova 2001, ma a tutti quei Paesi in cui la polizia mette mano alle armi anche quando non dovrebbe. A partire dagli Usa di Trump. Una vittoria della destra sulla sinistra in questo o quel Paese è fisiologica. Ma quando si registra contemporaneamente in vari Paesi e continenti e nasce ovunque dall’onda lunga di una identica visione gerarchica della società e dei rapporti tra i popoli, sull’esaltazione dell’omofobia, del misoginismo, del nazionalismo, del razzismo e dell’anti-ambientalismo, inseriti su profondo disprezzo per la democrazia, allora sì, allora non si può non temere che lo spettro del nazifascismo si stia delineando su di un orizzonte sempre più fosco.
Bolsonaro ha vinto le ultime elezioni in Brasile. L’attuale clima oscuro e pesante nel paese ricorda solo quello della dittatura militare degli anni 1960. Il discorso di odio è stato un’arma di Bolsonaro per la gestione del paese. Discorsi politici, social network, televisione e media hanno in qualche modo sempre più modellato e potenziato la “parola come espressione”. Secondo Lei, la “parola” è diventata più fascista o è stata uno degli strumenti anti fascisti di oggi? E come si vede Bolsonaro in Italia e in Europa?
Non ho un’esperienza diretta su cui contare, ma ho buone ragioni per ritenere il clima pesante che si va instaurando in Brasile simile a quello dei tempi della dittatura militare in un contesto internazionale a dir poco preoccupante. Non azzardo previsioni, ma mi pare evidente che con Bolsonaro ha vinto l’antisistema e si sono inseriti elementi di «barbarie locale» in una crisi del capitalismo che ormai è anzitutto crisi di civiltà.
In questa situazione, un discorso sul valore della «parola» va fatto, perché, se il fascismo intuì il valore strategico della comunicazione e di un linguaggio immediato che esprimeva una visione del mondo in forme sintetiche e brevi come slogan, anche Salvini e Trump usano un linguaggio immediato, cercano un contatto diretto e le forme e i toni del dialogo personale. A questa caratteristica «tecnica» nei discorsi dei leader attuali si unisce – e anche questo fu tipico del linguaggio fascista – una tendenza costante a forzare in senso peggiorativo il significato della parola. Nell’attacco all’avversario, per esempio, frequente, quasi sistematica è la nota offensiva; la virilità – un punto fermo del modo di essere della destra – non ha quasi più senso se non evoca violenza e aggressività. Non occorre un grande sforzo per cogliere altre significative affinità. La distanza che separa il «Vaffa» di Grillo dal «Me ne frego» fascista è minima e la carica di disprezzo per le Istituzioni presente nella descrizione di un Parlamento che «va aperto come una scatola di tonno» è pari, se non superiore, a quella che si ritrova nell’«aula sorda e grigia » di mussoliniana memoria.
Quando in Italia studiosi come Emilio Gentile insistono sul valore definitivamente storico della parola «fascismo», dimenticano di dirci dov’è scritto che un fenomeno storico non lasci in eredità un pensiero e un linguaggio. Se si riflette sulle espressioni utilizzate da leader come Salvini e Di Maio, uno leghista, l’altro dei 5 Stelle, entrambi ministri dell’attuale governo italiano, la prova della continuità tra il linguaggio dell’estrema destra e quello fascista diventa evidente: come i fascisti entrambi chiamano continuamente in causa il popolo, posto spesso in conflitto con élite sistematicamente attaccate. D’altra parte, persino i corpi dello Stato fanno pensare a una torsione in senso fascista della loro funzione.
In Italia giorni fa, Conte, Presidente del Consiglio, ha convocato le parti sociali e c’è stato un incontro. Di lì a un giorno, invitate da Salvini, esse sono andate anche dal Ministro dell’Interno. Il comportamento evidentemente anomalo, ne ha di fatto stravolto il ruolo; quando infatti le parti sociali, prive di un interlocutore istituzionale, vanno da chiunque voglia discutere dei loro interessi, la loro funzione cambia. Certo, noi continuiamo a chiamarli sindacati, ma fingiamo d’ignorare che invece si stanno comportando come corporazioni. In questo caso, la parola, per quanto taciuta, è indiscutibilmente fascista. Ormai assieme al valore apparente della parola, è necessario capire ciò che esse nasconde.
«Cambieremo insieme il destino del Brasile. Vi offriremo un governo degno, che lavorerà per tutti i brasiliani, lavoreremo per trasformare il Brasile in un Paese democratico»: questo aveva promesso Bolsonaro, utilizzando parole che non sembrano affatto fasciste. Bolsonaro si limitava a dire che la sinistra non aveva lavorato per tutti i brasiliani, aveva fatto del male al Paese e ne aveva manomesso l’anima democratica. Condivisibile o no, si trattava di un giudizio politico. Fasciste, invece, e ciò che più conta chiarificatrici, sono state invece le parole usate per dirsi ammiratore della dittatura nei suoi comportamenti più sanguinari. Fascista è – peggio ancora – ciò che Bolsonaro non dice, ma si legge dietro tutte le sue dichiarazioni: l’innata tendenza per una violenza che ricorda sangue, caserme e soluzioni di forza.
Come si vede un uomo così in Europa? Dipende. Molti sono ormai così lontani dalla politica che non sanno chi sia. L’estrema destra lo guarda con ammirazione e speranza, mentre ciò che resta della sinistra lo ritiene un rischio mortale. Una domanda c’è però che non trova risposta: cosa penseranno di lui e da quale parte andranno alla fine quelli che oggi sono tra gli indifferenti?
Bolsonaro ha recentemente criticato l’INPE (Istituto Nazionale di Ricerca Spaciale) sui dati sulla deforestazione in Amazzonia. Ha dichiarato che i dati dell’Istituto non erano veri. Basato su satelliti e alta tecnologia, INPE ha mostrato che oltre 1000 km2 di foresta pluviale amazzonica sono stati bonificati nei primi quindici giorni di luglio. Bolsonaro afferma che questi dati “sconvolgono l’immagine del Brasile all’estero”, in quanto ciò non attira gli investimenti degli uomini d’affari per esplorare l’Amazzonia. In Italia ci sono scontri in corso come quello contro i treni ad alta velocità in Val de Susa e il mondo sta osservando con grande preoccupazione i pericoli delle variazioni climatiche della terra. Questa agenda ambientale è diventata centrale per la sinistra mondiale. Lei crede che l’agenda ambientale sia promettente in termini di resistenza globale al capitalismo contemporaneo?
Purtroppo quando si tratta del rapporto tra questione ambientale e politica, capita di dover fare i conti con sorprendenti blackout. Questo accade soprattutto nel campo di una ormai sedicente «sinistra», ridotta al rango umiliante di sacerdote e custode del pensiero unico neoliberista. In Italia, per esempio, il Partito Democratico, che politologi e opinionisti collocano ostinatamente nel campo della sinistra, da qualche tempo parla – e talora straparla – di variazioni climatiche, pianeta malato e urgente necessità di varare politiche ambientali che abbiano la forza di una terapia d’urto. Questo accade per lo più durante le frequenti campagne elettorali, quando il partito va a caccia di voti e promette sistematicamente tutto ciò che poi non farà. Quando si tratta però di passare ai fatti, la scena cambia e inizia il ritornello che ricalca i discorsi delle destre sulle necessità del mercato e sul rischio di scoraggiare gli investitori. A quel punto la montagna partorisce un topolino.
Pochi giorni fa, col suo voto decisivo, il PD ha tenuto in vita il devastante progetto che porta il treno ad alta velocità in Valsusa, ignorando completamente la lunga lotta degli abitanti del territorio colpito. Da tempo purtroppo in Italia si va avanti con questo equivoco, costruito ad arte, in maniera del tutto strumentale da chi «fa opinione»: il PD, si ripete in maniera quasi ossessiva, è il più grande partito della sinistra moderata. Questo consente ai poteri forti che sono ormai i protagonisti reali della vita politica italiana di centrare due obiettivi con un sol colpo: da un lato si scredita la sinistra attribuendole un capofila collocato molto più a destra di gran parte della destra, dall’altro si coprono le spalle agli investitori-speculatori grazie al doppio gioco di un partito che dovrebbe essere il loro peggior nemico.
Non so come funzionino le cose da voi, ma credo che non sempre le differenze siano forti. Quando Bolsonaro mette in discussione i dati dell’INPE, si fonda su una certezza che vale anche per le destre italiane; sa di poterlo fare, perché è consapevole di godere di un vantaggio per ora decisivo, di cui la sinistra stenta a prendere coscienza: sa, cioè, che prima di essere politica, la sconfitta della sinistra è culturale. E quando le cose stanno così, quando sei stato battuto sul terreno culturale, non è facile rimediare su quello politico. Per chiarire meglio questo concetto, non sarà male spostarsi per un attimo dalla realtà del Brasile di Bolsonaro a quella italiana, per vedere quanto peso avrebbero in Italia i dati che Bolsonaro contesta in Brasile.
In Italia, buona parte della popolazione non solo non è in grado di rendersi conto della serietà delle fonti ma, per grave che essa sia, non è interessata a conoscere la questione. Secondo un’accreditata indagine internazionale – il Piaac, Programme for the International Assessment of Adult Competencies – per quanto riguarda gli analfabeti funzionali, su 33 Paesi analizzati, l’Italia è penultima in Europa – preceduta solo dalla Turchia – e quartultima a livello mondiale. Stiamo parlando di una massa enorme di popolazione capace di leggere e scrivere, ma non di comprendere facilmente testi semplici; gente cui mancano molte competenze utili nella vita quotidiana, che non sa risalire a un numero di telefono presente in una pagina web quando si trova in corrispondenza del link “Contattaci” e non legge il libretto di istruzioni di un cellulare, perché sa che non capirebbe nulla. In queste condizioni è possibile dar vita talora a movimenti forti e persino vittoriosi. Lei ha citato il movimento no TAV, ed io posso confermarle che si tratta di una realtà forte, in grado di costituire un modello. Parlo con cognizione di causa perché conosco la realtà del movimento e Nicoletta Dosio, la sua leader più rappresentativa, milita come me in un movimento giovane, ma particolarmente attivo e ricco di risorse umane e politiche, qual è certamente Potere al Popolo. Potrei dire le stesse cose per il movimento sorto in difesa dell’acqua pubblica e per quello sorto in Puglia contro un devastante oleodotto; sono realtà di lotta molto significative. Devo però riconoscere allo stesso tempo che si tratta di movimenti territoriali relativamente piccoli, non sempre collegati tra loro in maniera organica, che subiscono costantemente una dura stretta repressiva e che, dopo la recentissima approvazione di un decreto sulla sicurezza, che ha carattere davvero fascista, rischiano di pagare a caro prezzo la loro coraggiosa resistenza. Esistono anche realtà istituzionali guidate da uomini coraggiosi come il sindaco di Riace, messo però fuori gioco da strumentali e insussistenti inchieste giudiziarie, e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. In quanto a Potere al Popolo, il più giovane e più originale movimento di sinistra nato in Italia, abbiamo finora dimostrato qualità innovative molto significative, e una grande capacità di intessere relazioni con realtà di altri Paesi, dal Venezuela di Maduro, alla «France Insoumise» di Melenchon.
Una nuova sinistra può certamente nascere attorno all’agenda che lei indica e io credo anzi che questo processo sia in qualche modo inevitabile e già in cammino. Vi militano alcuni tra i nostri giovani più capaci, impegnati in un’attività politica internazionalista che costituisce di per sé una realtà che è stata inizialmente speranza e oggi mi pare un modello. Il tempo dirà dove si potrà giungere, ma io non ho dubbi: è su questo fronte che può e deve nascere una resistenza globale al capitalismo contemporaneo.
All’inizio di quest’anno, la professoressa di letteratura Rosa Maria Dell’Aria della città di Palermo, in Sicilia, è stata sospesa per 15 giorni per aver permesso ai suoi studenti in un incarico scolastico di confrontare le leggi razziali del 1938 con l’attuale decreto di sicurezza da Salvini. Questa fotografia è molto simile a ciò che è avvenuto in Brasile,la proposta di Bolsonaro è di consentire agli insegnanti di essere filmati mentre insegnano le loro lezioni. Il presidente e il ministro della pubblica istruzione, Abraham Weintraub, ritengono che ci sia un “marxismo culturale” nello spazio educativo brasiliano e che debba essere distrutto. Una delle varie proposte di Bolsonaro è la creazione di scuole militari. Inoltre, entrambi intendono ritirare lo status del pedagogo brasiliano riconosciuto a livello internazionale, Paulo Freire, di patrono dell’educazione in Brasile. Da alcuni anni organizzazioni internazionali come l’OCSE regolano l’istruzione mondiale attraverso meccanismi più “soft” in termini di politiche educative neoliberali come valutazioni, raccomandazioni, ecc. Non esiste un’incongruenza tra questi governi autoritari e le istituzioni e organizzazioni internazionali che optano per un altro tipo di governance globale come la ricerca del consenso?
Non bisogna stupirsi se appena giunge al potere, l’estrema destra mette nel mirino la scuola. La storia antica della repressione ha insegnato agli sfruttatori di tutto il mondo che l’operaio molto ignorante giunge a ringraziare il padrone che gli dà lavoro e subisce il licenziamento come se fosse una sorta di calamità naturale. Anche il movimento operaio e socialista ha però una storia antica e ricca di insegnamenti ancora attuali. Uno di questi è senza dubbio il valore per certi aspetti rivoluzionario della formazione. Il lavoratore che studia distingue tra ciò che gli viene concesso e ciò che gli spetta. Mentre l’ignorante s’inchina, l’altro lotta. È naturale quindi, che uno dei punti di scontro più aspro e decisivo nella lotta di classe sia la scuola, avamposto del diritto allo studio e della libertà d’insegnamento. Quanto valesse in termini di autonomia di pensiero e spirito critico una scuola libera lo scoprì lo zar Alessandro II, che nel 1861 mandò a scuola gratis i figli dei contadini, consentì agli studenti universitari di gestire le biblioteche di facoltà e pochi anni dopo fu costretto a fare marcia indietro, di fronte a una gioventù critica e consapevole. Dubito che Bolsonaro conosca la storia della scuola, ma credo che la diffidenza per la scuola libera in cui liberamente insegnino docenti di sinistra sia istintivamente malvista da ogni politico reazionario. Non mi meraviglio perciò se, dopo aver promesso al Paese un governo che avrebbe lavorato per tutti i brasiliani, oggi rivolga minacce ai docenti di sinistra e quindi alla libertà d’insegnamento.
Al di là del gesto di per sé grave, a me pare particolarmente significativo il fatto che non siamo di fronte a una linea di condotta esclusivamente brasiliana. Berlusconi, in Italia, ha scatenato l’ira di Dio contro i docenti di Sinistra e oggi abbiamo rappresentanti delle Istituzioni che propongono addirittura di schedarli. Recentemente, come lei ricorda nella sua domanda, a riprova delle tendenze fascistoidi che caratterizzano l’attuale governo italiano, una docente è stata sospesa per non aver impedito ai suoi studenti di concludere una ricerca sul razzismo, esprimendo l’opinione che Salvini segue la via di Mussolini. Io credo però che il caso più significativo di tutti sia stato quello di Lavinia Flavia Cassaro, una docente licenziata per aver aspramente criticato in piazza i poliziotti che difendevano militanti di «Casa Pound» – i «fascisti del terzo millennio» – e caricavano i manifestanti antifascisti.
L’attacco alla scuola democratica è in questo caso davvero rivelatore, perché si collega a una inaccettabile scelta del governo targato PD e del suo Ministro dell’Interno, Marco Minniti, che per la prima volta nella storia della repubblica, ignorando un aperto divieto della Costituzione, ha consentito a un movimento dichiaratamente fascista di partecipare alle elezioni. La docente in sostanza è stata licenziata perché – non a scuola, ma durante una manifestazione – ha espresso il suo sdegno per la vergognosa decisione di Minniti, che ha fatto da apripista al suo successore, il leghista Matteo Salvini.
Come Lei osserva giustamente il caso brasiliano è molto simile a quelli italiani; da noi si è giunti a proporre di schedare gli insegnanti di sinistra, da voi si pretende di filmarli mentre fanno lezione, ma in entrambi i casi ciò che si vuole ottenere è la cancellazione della libertà di insegnamento e l’imposizione di una cultura di Stato. Una decisione che sa evidentemente di fascismo. Da noi si è fatto di tutto per cancellare la scuola nata dalle lotte del 1968 e si è di fatto messo al bando Don Milani, un riferimento fortissimo per la scuola democratica. In questo caso non occorrono mezze parole: quando la politica decide di colpire il pensiero o prova a mettere al bando un pedagogo siamo di fronte a un processo di fascistizzazione della formazione. Non lo attestano solo operazioni apertamente repressive. Ne sono testimoni gli interventi esterni di agenzie che fanno capo ai governi nei processi di valutazione, l’imposizione di test che non tengono conto delle differenti realtà territoriali e sociali in cui operano i docenti, le ore di lavoro gratuito regalate alle aziende e imposte agli studenti come strumento di formazione, l’ingresso dei privati nella scuola pubblica in veste di finanziatori. È in questo modo che sostanzialmente in Italia si stanno privatizzando la scuola e l’università.
Non so come funziona in Brasile la valutazione della ricerca. In Italia è stata creata un’Agenzia, l’Anvur, che non chiede alle Commissione di leggere i lavori degli studiosi, ma li classifica in base all’importanza dell’editore e alle citazioni di studiosi stranieri, soprattutto anglosassoni. Citazioni che si ottengono solo se si partecipa ai congressi internazionali; congressi ai quali si può accedere solo se si è in buoni rapporti con i cosiddetti «baroni»; buoni rapporti che si costruiscono solo seguendo la via del più assoluto servilismo. Inutile dire che un editore che conta non pubblica una storia degli anarchici e dei socialisti, sicché allo studioso che vuol fare carriera non resta che abbandonare rami di ricerca invisi al potere. Ciò che, in pratica, significa imporre un controllo ferreo sulla ricerca.
A proposito della lotta politica. Lei è stato un candidato di sinistra nelle ultime elezioni per Potere al Popolo. Qual è il panorama della sinistra italiana e quali sono state le sue proposte?
La sinistra in Italia è estremamente frammentata. Prima delle elezioni politiche del 2018 in Parlamento il maggior partito di «sinistra» era il PD, nato da una fusione a freddo tra cattolici ed ex comunisti e attestato da anni su posizioni neoliberiste. Considerato di sinistra, è stato il Partito che in realtà ha realizzato nei fatti tutto quanto non aveva saputo o potuto fare la destra berlusconiana in tema di privatizzazioni, ambiente, grandi opere, attacchi ai diritti dei lavoratori e stravolgimento della Costituzione antifascista. Il PD ha creato così una frattura profonda con il popolo di sinistra e con i valori nei quali quel popolo si riconosce. Dal PD sono usciti, dando vita a effimeri soggetti politici, piccoli gruppi di dirigenti e deputati che non hanno però mai veramente rotto con il neoliberismo e non hanno assunto una posizione chiara sul tema dell’Unione Europea. Tra queste formazioni ha avuto un qualche peso la «Sinistra», guidata da Fratoianni, che si è dimostrata però sostanzialmente subalterna al PD. Fuori dal Parlamento, ci sono piccole formazioni comuniste prive di seguito tra la popolazione; un peso ha avuto fino alle recenti elezioni politiche il «Partito della Rifondazione Comunista», che contava su una minima rappresentanza nel Parlamento Europeo ma, sclerotizzato nei gruppi dirigenti, era perennemente diviso sul tema decisivo dei rapporti col PD. A tutte queste formazioni politiche va addebitato il discredito della sinistra presso la popolazione.
In questo clima è nato Potere al Popolo, del quale sono stato prima candidato e oggi Presidente della Commissione di Garanzia. È nato per creare un movimento in cui tutti avessero davvero diritto di parola e di scelta, per dare un riferimento a chi non si sentiva rappresentato, per far passare finalmente un programma autenticamente anticapitalista e creare una rete di rapporti internazionali che oggi esiste e ha un suo spessore. Non siamo entrati in Parlamento, ma non siamo spariti dalla vita politica perché un progetto politico ha un futuro quando risponde a una necessità della storia. Non avevamo torto: l’esistenza di una sinistra di classe, alternativa al pensiero unico, è oggi una profonda necessità della storia. Il nostro programma era semplice, ma conteneva scelte davvero alternative. Noi proponemmo l’abolizione dalla Costituzione del «fiscal compact» e del pareggio di bilancio, che stravolgono i principi su cui nasce e poggia la Repubblica; il ripristino dello Statuto dei Lavoratori e la cancellazione del Jobs Act, che consente di licenziare quando e come si vuole. Proponemmo anche una seria lotta all’evasione, una imposta patrimoniale progressiva, una politica di edilizia popolare finanziata con le immense risorse assegnate alle spese militari, il ritorno alla scuola statale, l’abolizione dell’Anvur e dell’Invalsi, che stanno distruggendo il nostro sistema formativo e infine una grande battaglia di resistenza per la tutela dell’ambiente. Ci fermò purtroppo l’onda effimera ma travolgente del qualunquismo grillino.
Perché cade il governo e qual è la via attuale delle resistenza in Italia davanti alla crisi?
Dopo 14 mesi di vita, in Italia il Governo è caduto. L’ha annunciato ieri, 20 agosto, al Senato, il premier Giuseppe Conte. La crisi si trascinava dall’8 agosto, quando il Segretario della Lega e Ministro dell’Interno, Salvini aveva sfiduciato Conte e attaccato duramente gli alleati. Bisognava vederlo. L’uomo forte della politica italiana, che voleva pieni poteri, sfidava l’Europa e faceva sognare l’estrema destra, esce ridimensionato dalla vicenda, ma ha fatto emergere la stanchezza enorme del Paese, la gravissima crisi istituzionale che lo indebolisce e la fortuna che trova ormai, in un popolo sfiduciato, il mito dell’uomo solo al comando. Un mito che, è bene ricordarlo, qui da noi conduce direttamente alla crisi dello Stato liberale e alla nascita del fascismo.
Perché Salvini abbia aperto la crisi in fondo non è difficile capire. Guidava tre leghe: quella voluta da Bossi nel 1991, che mira all’indipendenza della Padania (le regioni ricche del Nord), la Lega per Salvini premier e la Lega-simbolo elettorale, che promette ponti d’oro agli odiati meridionali in cambio del voto, mentre pensa a una secessione travestita dalla foglia di fico dell’autonomia differenziata. Scoperto il trucco e contestato vivamente in ogni piazza meridionale – Potere al Popolo ci ha messo del suo – Salvini, troppo piccolo nel governo per portare al Nord l’autonomia, troppo screditato al Sud per sperare nello sfondamento, ha perso la testa e rovesciato il tavolo. Costretto dagli eventi, il redivivo Presidente della Repubblica, Mattarella, che per 14 mesi ha firmato ogni infamia leghista, compresa una politica della sicurezza di marca fascista, condivisa da Conte, che si è svegliato solo ad agosto, ha aperto le consultazioni per verificare se in Parlamento c’è una maggioranza che sostenga un nuovo governo.
Troverà da un lato i Cinque Stelle, terrorizzati dal voto dopo il disastro delle europee e pronti ad allearsi anche col diavolo, per conservare potere e poltrone, dall’altro le destre, decise ad andare al voto perché convinte di avere in pugno il Paese. Ago della bilancia il PD, un partito di destra, servo sciocco dell’Unione Europea e reduce dai disastri di Renzi, autentico nemico dei lavoratori e della povera gente. Diviso al suo interno, ma forte di un’etichetta di sinistra inventata da una stampa che da noi è quasi tutta padronale, potrà vender fumo e ricorrere all’arte tutta italiana di cambiare tutto per non cambiare nulla.
Se si voterà, metà paese, privo di rappresentanza, diserterà le urne. Vinca la destra parafascista, il qualunquismo di Di Maio o il PD di Renzi, parafascista quanto e a volte più dei salviniani, la povera gente sarà massacrata del neoliberismo, che viaggerà su tappeti rossi. Nel migliore dei casi, se ci sarà, potrà tutt’al più difendere con un nuovo referendum quanto resta della Costituzione. Il solo possibile vantaggio potrebbe venire dal tempo che avrà a disposizione ciò che a sinistra del Pd va nascendo per rafforzarsi e creare un’alternativa. Parliamo di tempi stretti e forze deboli come Potere al Popolo e ciò che ruota attorno a De Magistris. La crisi istituzionale e quella economica, però, potrebbero fare da forte acceleratore. Se, com’è evidente, la rinascita della sinistra è una necessità della storia, in fondo all’orribile buio che ci avvolge, c’è una piccola luce. Bisogna andare a tutti i costi in quella direzione, ricordando che c’è una costante nella vicenda umana: dopo ogni gelido inverno della storia, le ragioni della forza bruta hanno sempre ceduto il campo alla forza delle giuste ragioni.
Abbiamo visto gli ultimi partigiani italiani partire da questa terra come Liliana Pacini, Ugo Morchi ed Emma Fighetti, quest’ultima la “sarta della Resistenza” che ha trasformato il suo studio in una base per attività antifascista. Come pensa Lei che l’attuale generazione possa essere antifascista? Quali sono le lezioni principali che possiamo imparare dai partigiani della Resistenza? E come non essere indifferenti in questi giorni?
Credo che nel profondo della persona umana trovino un posto decisivo l’amore per la libertà e il senso della dignità. Non ne siamo consapevoli, finché le circostanze della vita non ci spingono a scoprirlo. Quanto accade attorno a noi in questi giorni è di fatto un continuo e forse irresistibile invito a lottare per la libertà e per la dignità, che si difende anzitutto grazie a un minimo di indipendenza economica. Ho un’altra convinzione profonda: credo che la storia delle lotte operaie, dell’antifascismo e della Resistenza facciano parte ormai del nostro DNA. Perché i giovani escano dall’apatia della sconfitta e si ribellino contro l’ingiustizia occorre che gli anziani diventino esempi viventi di quello che è stato, delle lotte che hanno vissuto, dei sogni per cui hanno lottato. È loro compito collegare il filo della memoria del passato a quello che conduce al futuro. La conoscenza è di per sé strumento di lotta e seme di rivoluzione. In nome di questa convinzione, vorrei chiudere questa intervista e rispondere alla sua ultima domanda, ricorrendo alle parole scritte agli amici da Giacomo Ulivi, un giovane partigiano italiano, prima di affrontare il plotone di esecuzione. Per me non sono solo un testamento, ma un programma di lotta:
[1] La parola lazzaro è di origine spagnola e indicò inizialmente il giovane plebeo napoletano che popolava il quartiere Mercato. I lazzari ebbero un ruolo nella sollevazione capitanata nel 1647 da Masaniello. In senso lato indicò la plebe miserabile, che si schierò contro i rivoluzionari nell’attacco sanfedista alla Repubblica Partenopea nata nel 1799.
* Esquerda online, 28 agosto 2019
Fonte
Ne è venuto fuori un discorso a mio avviso articolato, che prova a mettere insieme realtà lontane tra loro partendo da un elemento comune: la crescita di una destra eversiva, che dilaga, unendo realtà molto diverse tra loro e superando confini che non sono quelli degli Stati, ma – a seconda dei punti di vista – dividono o uniscono i Continenti.
Lascio nella traduzione portoghese la presentazione di Rogèrio, riporto qui il testo italiano e in coda all’articolo inserisco il link che conduce all’originale brasiliano. Buona lettura.
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Giuseppe Aragno, historiador italiano analisa o conceito de fascismo e assemelhanças
entre Bolsonaro e Salvini
Nascido em Nápoles, comunista libertário por convicção, professor e escritor, Giuseppe Aragno diz que “ensina para viver, mas aprendeu e vive aprendendo”. Foi professor de História Contemporânea na Universitá Degli Studi di Napoli Federico II. Em 1995 ganhou o Prêmio Laterza por uma coletânea de poemas. Seu coração pulsa mesmo quando o tema é antifascismo. Entre suas principais obras estão “I compagni mi vendicheranno: lettere di condannati a morte della resistenza italiana” (2006), “Antifacismo popolare: storia di storie” (2009), e “Le quattro Giornate di Napoli: storie di antifacisti” (2017). A entrevista que segue foi conduzida por Rogério Freitas para o Esquerda Online. Aragno conversa sobre a resistência italiana, revoltas populares, crescimento da extrema direita no mundo, atualidade política italiana e similaridades entre governos neo-fascistas de Salvini e Bolsonaro. Destaca que a história das lutas dos trabalhadores, do antifascismo e da resistência agora fazem parte do nosso DNA.
Tutti conoscono Napoli come la città italiana del buon cibo. Luogo in cui è stata inventata la pizza. Pochi sanno, tuttavia, che nel 1943 ci fu una rivolta popolare di liberazione di Napoli dai nazifacisti. L’insurrezione è conosciuta nella storia come “Quattro Giornate di Napoli”. Uno dei suoi ultimi libri è su questo argomento. Quali sono state le motivazioni per scrivere questo libro? Quali storie antifasciste racconta Lei nel suo libro? E quanto è importante questo evento per la memoria collettiva?
Il potere non ama storie vittoriose di popoli in lotta: sono esempi pericolosi. Per le «Quattro Giornate di Napoli» perciò ha cucito l’abito su misura: rivolta spontanea, apolitica, isolata dalla «storia nazionale», scugnizzi e popolani incoscienti a fare gli eroi. Una favola così affidabile, che quando Nanni Loy ricostruisce la sommossa in un film che segue il binario della lotta spontanea e popolare, ma fa cenno a un capo antifascista, il tedesco Steinmayr, direttore dello «Stern», risponde da razza superiore: «una sommossa contro lo straniero oppressore, nella città dei mandolini e delle pizze» può essere solo «un parapiglia tra papponi e prostitute». Anni dopo, nel 1992, Claudio Pavone, storico della Resistenza, insiste sui «lazzari» delle «Quattro Giornate» che – dice – per una volta sono dalla parte giusta, ma non si avvede che i suoi apolitici «eroi per caso» restituiscono l’immagine deformata dei combattenti civili napoletani visti dai nazisti assaliti, che li chiamano «canaglia» [1]. Una «canaglia» che, annotano con maggior senso storico dei nostri storici, è molto sensibile alla propaganda «sovversiva».
Nell’immaginario collettivo, Napoli, prigioniera del cliché della «città di plebe», simbolo di malcostume politico e ricatto clientelare, non è mai stata la prima grande città europea che impone la resa ai nazifascisti. Si sono avuti, è vero, sporadici scontri armati, ma si è trattato di scaramucce tra retroguardie naziste che difendono le vie di fuga verso Nord, e bande di «lazzari» che fanno a schioppettate dall’angolo dei vicoli.
Per cancellare questa immagine falsa e dare un volto politico alla rivolta, ho ricostruito la resistenza all’occupazione nazista e restituito la parola agli antifascisti, motore della rivolta. Sono venute fuori così storie dimenticate di perseguitati politici, il ruolo che rivestirono durante la dittatura e poi nel laboratorio politico che fu la città liberata, quando si prese a disegnare la repubblica. Ricostruire i percorsi umani e politici dei combattenti, alcuni dei quali fanno poi la guerra di liberazione, è stato decisivo per dimostrare che il mito della città tutta sole, mare e pizza, che insorge, poi torna indifferente, non è ingenuo: mette in ombra lo scontro di classe e la mancata epurazione.
Nel 2013 ho avuto l’opportunità di ascoltarLa durante un suo discorso alla Biblioteca Brau dell’Università Federico II, che era occupata dagli studenti. Ha parlato di autoritarismo e ha detto che il fascismo non è mai veramente scomparso. In tempi di democrazia minacciata da governi autoritari come Salvini in Italia e Trump negli Stati Uniti, quali parallelismi si possono tracciare oggi con quello che era in realtà il nazifascismo?
Dopo gli eventi degli ultimi sei anni, il concetto di «autoritarismo», utilizzato per la conferenza che ricorda, non è più sufficiente a descrivere la realtà che viviamo io, lei e milioni di cittadini come noi, in contesti sociali e politici lontani tra loro, ma tuttavia accomunati da un dato molto preoccupante: il rapporto sempre più squilibrato tra potere e regole che ne fissano i limiti. Un rapporto che, per quanto riguarda il potere, non solo è sprezzante verso la democrazia, ma assume sempre più spesso connotati parafascisti.
Prenda, per esempio, il caso di Dilma Roussef. Senza entrare nel merito della vicenda, credo di poter dire che sei anni fa nessun politico, votando a favore dell’impeachment della prima donna Presidente del Brasile, ex guerrigliera contro la dittatura, avrebbe dichiarato di votare per la decadenza in nome di chi l’aveva torturata durante gli anni della sua militanza. Sei anni fa, per non fermarsi al Brasile, in Italia, l’ex comunista combattente Cesare Battisti, non sarebbe stato oggetto di scambio e prova di amicizia tra Bolsonaro e Salvini e soprattutto, quali che siano le sue responsabilità, dopo l’estradizione, non avrebbe trovato all’aeroporto i ministri Bonafede e Salvini, pronti a esibirsi davanti a compiacenti telecamere e ad esporre il detenuto come un trofeo di caccia.
In maniera diversa, ma in entrambi i casi, l’odio per la sinistra militante e combattente è stato così forte e così volutamente mostrato, che è impossibile parlare di competizione politica; tutto fa pensare a comportamenti vendicativi di natura reazionaria e per molti aspetti fascista. E dico fascista a ragion veduta, perché sei anni fa in Italia nessun ministro di centrosinistra e uomo del PD, avrebbe osato trattare la questione degli immigrati come Marco Minniti, predecessore di Salvini. Un ministro, va detto, che ha costretto l’ONU a definire «disumana» la politica adottata nei confronti degli immigrati e ha firmato un decreto sulla sicurezza che contiene numerosi elementi presenti in un documento fascista del 1934.
Sei anni fa noi non avremmo potuto parlare di Salvini, Bolsonaro, Trump, Orban e Le Pen, come di un gruppo di leader che condividono sia dal punto di vista teorico, che da quello pratico, posizioni politiche di una destra che non basta definire estrema. Inevitabilmente un così rapido degenerare dell’autoritarismo verso posizioni apertamente reazionarie interroga e inquieta le coscienze. È possibile individuare nella formazione di questo blocco di destra, apparentemente eterogeneo, i tratti di un moderno nazifascismo? Dalle mie parti, appena ti azzardi a porre questa domanda, ti si risponde che fascismo e nazismo sono fenomeni storici che fanno parte definitivamente del passato. Morti e sepolti. È un argomento forte, che trascura però dati di fatto incontestabili. L’Italia, per esempio, che ha conservato il Codice Rocco, esempio insuperato della concezione fascista dello Stato, non ha realizzato una seria “defascistizzazione” e anzi ha riciclato parte del personale politico e della burocrazia fascista.
Da noi la repubblica consentì che a presiedere la Corte Costituzionale fosse chiamato Gaetano Azzariti, ex presidente del Tribunale fascista della razza, e affidò la formazione tecnica della Polizia repubblicana a Guido Leto, ex capo dell’OVRA, la famigerata polizia politica fascista.
A volerlo continuare, l’elenco sarebbe infinito, ma non avremmo né spazio né tempo per farlo. Vale però la pena di citare almeno una parte dei casi più significativi. Vincenzo Eula, Pubblico Ministero nel processo che condannò Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli, fu poi Procuratore generale della Cassazione; Luigi Oggioni, ex procuratore generale della Repubblica sociale italiana, giunse alla presidenza della Corte di Cassazione e fu infine giudice della Corte Costituzionale; Carlo Alliney, uomo di punta della legislazione antiebraica nella Repubblica sociale italiana, proseguì senza intoppi la carriera fino alla Cassazione. Nessuno degli scienziati che avevano firmato il Manifesto della razza, pagò per le sue scelte.
Così stando le cose, non stupisce se, ignorando la Costituzione, Marco Minnitti, Ministro dell’interno, ha ammesso i fascisti di “Casa Pound” alle elezioni politiche del 2018 e se Salvini, suo successore, vada puntualmente ai congressi dell’organizzazione neofascista. Più che stupirsi occorre prendere atto: è là, in quella cultura, che vanno cercate le radici degli elementi di forte razzismo presenti nella feroce politica sugli immigrati voluta dal ministro dell’Interno leghista. D’altra parte Salvini non è solo nelle sua scelte sulla scena internazionale. Proponendosi di eliminare la sinistra dalla vita politica del Brasile, Bolsonaro non mira soprattutto a cancellare la stagione dell’esperienza integrazionista? Perché lo fa? L’impressione è che intenda riportare nelle terre latinoamericane l’antica condizione di subalternità e in questa scelta non appare lontano dall’antimeridionalismo, dal separatismo camuffato da autonomismo, dalla guerra agli immigrati e ai rom che sono la sostanza della concezione politica di Salvini e di altri leader della nebulosa in cui si colloca l’attuale estrema destra entro e fuori dall’Italia e dal Brasile.
Certo, Bolsonaro porta alle estreme conseguenze il populismo sessista, omofobo e razzista delle classi medie bianche e di destra più moderate e “civilizzate”, ma la sua campagna d’odio, di esaltazione della mano dura, che giunge sino alla tortura, accomuna il Brasile non solo all’Italia di Genova 2001, ma a tutti quei Paesi in cui la polizia mette mano alle armi anche quando non dovrebbe. A partire dagli Usa di Trump. Una vittoria della destra sulla sinistra in questo o quel Paese è fisiologica. Ma quando si registra contemporaneamente in vari Paesi e continenti e nasce ovunque dall’onda lunga di una identica visione gerarchica della società e dei rapporti tra i popoli, sull’esaltazione dell’omofobia, del misoginismo, del nazionalismo, del razzismo e dell’anti-ambientalismo, inseriti su profondo disprezzo per la democrazia, allora sì, allora non si può non temere che lo spettro del nazifascismo si stia delineando su di un orizzonte sempre più fosco.
Bolsonaro ha vinto le ultime elezioni in Brasile. L’attuale clima oscuro e pesante nel paese ricorda solo quello della dittatura militare degli anni 1960. Il discorso di odio è stato un’arma di Bolsonaro per la gestione del paese. Discorsi politici, social network, televisione e media hanno in qualche modo sempre più modellato e potenziato la “parola come espressione”. Secondo Lei, la “parola” è diventata più fascista o è stata uno degli strumenti anti fascisti di oggi? E come si vede Bolsonaro in Italia e in Europa?
Non ho un’esperienza diretta su cui contare, ma ho buone ragioni per ritenere il clima pesante che si va instaurando in Brasile simile a quello dei tempi della dittatura militare in un contesto internazionale a dir poco preoccupante. Non azzardo previsioni, ma mi pare evidente che con Bolsonaro ha vinto l’antisistema e si sono inseriti elementi di «barbarie locale» in una crisi del capitalismo che ormai è anzitutto crisi di civiltà.
In questa situazione, un discorso sul valore della «parola» va fatto, perché, se il fascismo intuì il valore strategico della comunicazione e di un linguaggio immediato che esprimeva una visione del mondo in forme sintetiche e brevi come slogan, anche Salvini e Trump usano un linguaggio immediato, cercano un contatto diretto e le forme e i toni del dialogo personale. A questa caratteristica «tecnica» nei discorsi dei leader attuali si unisce – e anche questo fu tipico del linguaggio fascista – una tendenza costante a forzare in senso peggiorativo il significato della parola. Nell’attacco all’avversario, per esempio, frequente, quasi sistematica è la nota offensiva; la virilità – un punto fermo del modo di essere della destra – non ha quasi più senso se non evoca violenza e aggressività. Non occorre un grande sforzo per cogliere altre significative affinità. La distanza che separa il «Vaffa» di Grillo dal «Me ne frego» fascista è minima e la carica di disprezzo per le Istituzioni presente nella descrizione di un Parlamento che «va aperto come una scatola di tonno» è pari, se non superiore, a quella che si ritrova nell’«aula sorda e grigia » di mussoliniana memoria.
Quando in Italia studiosi come Emilio Gentile insistono sul valore definitivamente storico della parola «fascismo», dimenticano di dirci dov’è scritto che un fenomeno storico non lasci in eredità un pensiero e un linguaggio. Se si riflette sulle espressioni utilizzate da leader come Salvini e Di Maio, uno leghista, l’altro dei 5 Stelle, entrambi ministri dell’attuale governo italiano, la prova della continuità tra il linguaggio dell’estrema destra e quello fascista diventa evidente: come i fascisti entrambi chiamano continuamente in causa il popolo, posto spesso in conflitto con élite sistematicamente attaccate. D’altra parte, persino i corpi dello Stato fanno pensare a una torsione in senso fascista della loro funzione.
In Italia giorni fa, Conte, Presidente del Consiglio, ha convocato le parti sociali e c’è stato un incontro. Di lì a un giorno, invitate da Salvini, esse sono andate anche dal Ministro dell’Interno. Il comportamento evidentemente anomalo, ne ha di fatto stravolto il ruolo; quando infatti le parti sociali, prive di un interlocutore istituzionale, vanno da chiunque voglia discutere dei loro interessi, la loro funzione cambia. Certo, noi continuiamo a chiamarli sindacati, ma fingiamo d’ignorare che invece si stanno comportando come corporazioni. In questo caso, la parola, per quanto taciuta, è indiscutibilmente fascista. Ormai assieme al valore apparente della parola, è necessario capire ciò che esse nasconde.
«Cambieremo insieme il destino del Brasile. Vi offriremo un governo degno, che lavorerà per tutti i brasiliani, lavoreremo per trasformare il Brasile in un Paese democratico»: questo aveva promesso Bolsonaro, utilizzando parole che non sembrano affatto fasciste. Bolsonaro si limitava a dire che la sinistra non aveva lavorato per tutti i brasiliani, aveva fatto del male al Paese e ne aveva manomesso l’anima democratica. Condivisibile o no, si trattava di un giudizio politico. Fasciste, invece, e ciò che più conta chiarificatrici, sono state invece le parole usate per dirsi ammiratore della dittatura nei suoi comportamenti più sanguinari. Fascista è – peggio ancora – ciò che Bolsonaro non dice, ma si legge dietro tutte le sue dichiarazioni: l’innata tendenza per una violenza che ricorda sangue, caserme e soluzioni di forza.
Come si vede un uomo così in Europa? Dipende. Molti sono ormai così lontani dalla politica che non sanno chi sia. L’estrema destra lo guarda con ammirazione e speranza, mentre ciò che resta della sinistra lo ritiene un rischio mortale. Una domanda c’è però che non trova risposta: cosa penseranno di lui e da quale parte andranno alla fine quelli che oggi sono tra gli indifferenti?
Bolsonaro ha recentemente criticato l’INPE (Istituto Nazionale di Ricerca Spaciale) sui dati sulla deforestazione in Amazzonia. Ha dichiarato che i dati dell’Istituto non erano veri. Basato su satelliti e alta tecnologia, INPE ha mostrato che oltre 1000 km2 di foresta pluviale amazzonica sono stati bonificati nei primi quindici giorni di luglio. Bolsonaro afferma che questi dati “sconvolgono l’immagine del Brasile all’estero”, in quanto ciò non attira gli investimenti degli uomini d’affari per esplorare l’Amazzonia. In Italia ci sono scontri in corso come quello contro i treni ad alta velocità in Val de Susa e il mondo sta osservando con grande preoccupazione i pericoli delle variazioni climatiche della terra. Questa agenda ambientale è diventata centrale per la sinistra mondiale. Lei crede che l’agenda ambientale sia promettente in termini di resistenza globale al capitalismo contemporaneo?
Purtroppo quando si tratta del rapporto tra questione ambientale e politica, capita di dover fare i conti con sorprendenti blackout. Questo accade soprattutto nel campo di una ormai sedicente «sinistra», ridotta al rango umiliante di sacerdote e custode del pensiero unico neoliberista. In Italia, per esempio, il Partito Democratico, che politologi e opinionisti collocano ostinatamente nel campo della sinistra, da qualche tempo parla – e talora straparla – di variazioni climatiche, pianeta malato e urgente necessità di varare politiche ambientali che abbiano la forza di una terapia d’urto. Questo accade per lo più durante le frequenti campagne elettorali, quando il partito va a caccia di voti e promette sistematicamente tutto ciò che poi non farà. Quando si tratta però di passare ai fatti, la scena cambia e inizia il ritornello che ricalca i discorsi delle destre sulle necessità del mercato e sul rischio di scoraggiare gli investitori. A quel punto la montagna partorisce un topolino.
Pochi giorni fa, col suo voto decisivo, il PD ha tenuto in vita il devastante progetto che porta il treno ad alta velocità in Valsusa, ignorando completamente la lunga lotta degli abitanti del territorio colpito. Da tempo purtroppo in Italia si va avanti con questo equivoco, costruito ad arte, in maniera del tutto strumentale da chi «fa opinione»: il PD, si ripete in maniera quasi ossessiva, è il più grande partito della sinistra moderata. Questo consente ai poteri forti che sono ormai i protagonisti reali della vita politica italiana di centrare due obiettivi con un sol colpo: da un lato si scredita la sinistra attribuendole un capofila collocato molto più a destra di gran parte della destra, dall’altro si coprono le spalle agli investitori-speculatori grazie al doppio gioco di un partito che dovrebbe essere il loro peggior nemico.
Non so come funzionino le cose da voi, ma credo che non sempre le differenze siano forti. Quando Bolsonaro mette in discussione i dati dell’INPE, si fonda su una certezza che vale anche per le destre italiane; sa di poterlo fare, perché è consapevole di godere di un vantaggio per ora decisivo, di cui la sinistra stenta a prendere coscienza: sa, cioè, che prima di essere politica, la sconfitta della sinistra è culturale. E quando le cose stanno così, quando sei stato battuto sul terreno culturale, non è facile rimediare su quello politico. Per chiarire meglio questo concetto, non sarà male spostarsi per un attimo dalla realtà del Brasile di Bolsonaro a quella italiana, per vedere quanto peso avrebbero in Italia i dati che Bolsonaro contesta in Brasile.
In Italia, buona parte della popolazione non solo non è in grado di rendersi conto della serietà delle fonti ma, per grave che essa sia, non è interessata a conoscere la questione. Secondo un’accreditata indagine internazionale – il Piaac, Programme for the International Assessment of Adult Competencies – per quanto riguarda gli analfabeti funzionali, su 33 Paesi analizzati, l’Italia è penultima in Europa – preceduta solo dalla Turchia – e quartultima a livello mondiale. Stiamo parlando di una massa enorme di popolazione capace di leggere e scrivere, ma non di comprendere facilmente testi semplici; gente cui mancano molte competenze utili nella vita quotidiana, che non sa risalire a un numero di telefono presente in una pagina web quando si trova in corrispondenza del link “Contattaci” e non legge il libretto di istruzioni di un cellulare, perché sa che non capirebbe nulla. In queste condizioni è possibile dar vita talora a movimenti forti e persino vittoriosi. Lei ha citato il movimento no TAV, ed io posso confermarle che si tratta di una realtà forte, in grado di costituire un modello. Parlo con cognizione di causa perché conosco la realtà del movimento e Nicoletta Dosio, la sua leader più rappresentativa, milita come me in un movimento giovane, ma particolarmente attivo e ricco di risorse umane e politiche, qual è certamente Potere al Popolo. Potrei dire le stesse cose per il movimento sorto in difesa dell’acqua pubblica e per quello sorto in Puglia contro un devastante oleodotto; sono realtà di lotta molto significative. Devo però riconoscere allo stesso tempo che si tratta di movimenti territoriali relativamente piccoli, non sempre collegati tra loro in maniera organica, che subiscono costantemente una dura stretta repressiva e che, dopo la recentissima approvazione di un decreto sulla sicurezza, che ha carattere davvero fascista, rischiano di pagare a caro prezzo la loro coraggiosa resistenza. Esistono anche realtà istituzionali guidate da uomini coraggiosi come il sindaco di Riace, messo però fuori gioco da strumentali e insussistenti inchieste giudiziarie, e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. In quanto a Potere al Popolo, il più giovane e più originale movimento di sinistra nato in Italia, abbiamo finora dimostrato qualità innovative molto significative, e una grande capacità di intessere relazioni con realtà di altri Paesi, dal Venezuela di Maduro, alla «France Insoumise» di Melenchon.
Una nuova sinistra può certamente nascere attorno all’agenda che lei indica e io credo anzi che questo processo sia in qualche modo inevitabile e già in cammino. Vi militano alcuni tra i nostri giovani più capaci, impegnati in un’attività politica internazionalista che costituisce di per sé una realtà che è stata inizialmente speranza e oggi mi pare un modello. Il tempo dirà dove si potrà giungere, ma io non ho dubbi: è su questo fronte che può e deve nascere una resistenza globale al capitalismo contemporaneo.
All’inizio di quest’anno, la professoressa di letteratura Rosa Maria Dell’Aria della città di Palermo, in Sicilia, è stata sospesa per 15 giorni per aver permesso ai suoi studenti in un incarico scolastico di confrontare le leggi razziali del 1938 con l’attuale decreto di sicurezza da Salvini. Questa fotografia è molto simile a ciò che è avvenuto in Brasile,la proposta di Bolsonaro è di consentire agli insegnanti di essere filmati mentre insegnano le loro lezioni. Il presidente e il ministro della pubblica istruzione, Abraham Weintraub, ritengono che ci sia un “marxismo culturale” nello spazio educativo brasiliano e che debba essere distrutto. Una delle varie proposte di Bolsonaro è la creazione di scuole militari. Inoltre, entrambi intendono ritirare lo status del pedagogo brasiliano riconosciuto a livello internazionale, Paulo Freire, di patrono dell’educazione in Brasile. Da alcuni anni organizzazioni internazionali come l’OCSE regolano l’istruzione mondiale attraverso meccanismi più “soft” in termini di politiche educative neoliberali come valutazioni, raccomandazioni, ecc. Non esiste un’incongruenza tra questi governi autoritari e le istituzioni e organizzazioni internazionali che optano per un altro tipo di governance globale come la ricerca del consenso?
Non bisogna stupirsi se appena giunge al potere, l’estrema destra mette nel mirino la scuola. La storia antica della repressione ha insegnato agli sfruttatori di tutto il mondo che l’operaio molto ignorante giunge a ringraziare il padrone che gli dà lavoro e subisce il licenziamento come se fosse una sorta di calamità naturale. Anche il movimento operaio e socialista ha però una storia antica e ricca di insegnamenti ancora attuali. Uno di questi è senza dubbio il valore per certi aspetti rivoluzionario della formazione. Il lavoratore che studia distingue tra ciò che gli viene concesso e ciò che gli spetta. Mentre l’ignorante s’inchina, l’altro lotta. È naturale quindi, che uno dei punti di scontro più aspro e decisivo nella lotta di classe sia la scuola, avamposto del diritto allo studio e della libertà d’insegnamento. Quanto valesse in termini di autonomia di pensiero e spirito critico una scuola libera lo scoprì lo zar Alessandro II, che nel 1861 mandò a scuola gratis i figli dei contadini, consentì agli studenti universitari di gestire le biblioteche di facoltà e pochi anni dopo fu costretto a fare marcia indietro, di fronte a una gioventù critica e consapevole. Dubito che Bolsonaro conosca la storia della scuola, ma credo che la diffidenza per la scuola libera in cui liberamente insegnino docenti di sinistra sia istintivamente malvista da ogni politico reazionario. Non mi meraviglio perciò se, dopo aver promesso al Paese un governo che avrebbe lavorato per tutti i brasiliani, oggi rivolga minacce ai docenti di sinistra e quindi alla libertà d’insegnamento.
Al di là del gesto di per sé grave, a me pare particolarmente significativo il fatto che non siamo di fronte a una linea di condotta esclusivamente brasiliana. Berlusconi, in Italia, ha scatenato l’ira di Dio contro i docenti di Sinistra e oggi abbiamo rappresentanti delle Istituzioni che propongono addirittura di schedarli. Recentemente, come lei ricorda nella sua domanda, a riprova delle tendenze fascistoidi che caratterizzano l’attuale governo italiano, una docente è stata sospesa per non aver impedito ai suoi studenti di concludere una ricerca sul razzismo, esprimendo l’opinione che Salvini segue la via di Mussolini. Io credo però che il caso più significativo di tutti sia stato quello di Lavinia Flavia Cassaro, una docente licenziata per aver aspramente criticato in piazza i poliziotti che difendevano militanti di «Casa Pound» – i «fascisti del terzo millennio» – e caricavano i manifestanti antifascisti.
L’attacco alla scuola democratica è in questo caso davvero rivelatore, perché si collega a una inaccettabile scelta del governo targato PD e del suo Ministro dell’Interno, Marco Minniti, che per la prima volta nella storia della repubblica, ignorando un aperto divieto della Costituzione, ha consentito a un movimento dichiaratamente fascista di partecipare alle elezioni. La docente in sostanza è stata licenziata perché – non a scuola, ma durante una manifestazione – ha espresso il suo sdegno per la vergognosa decisione di Minniti, che ha fatto da apripista al suo successore, il leghista Matteo Salvini.
Come Lei osserva giustamente il caso brasiliano è molto simile a quelli italiani; da noi si è giunti a proporre di schedare gli insegnanti di sinistra, da voi si pretende di filmarli mentre fanno lezione, ma in entrambi i casi ciò che si vuole ottenere è la cancellazione della libertà di insegnamento e l’imposizione di una cultura di Stato. Una decisione che sa evidentemente di fascismo. Da noi si è fatto di tutto per cancellare la scuola nata dalle lotte del 1968 e si è di fatto messo al bando Don Milani, un riferimento fortissimo per la scuola democratica. In questo caso non occorrono mezze parole: quando la politica decide di colpire il pensiero o prova a mettere al bando un pedagogo siamo di fronte a un processo di fascistizzazione della formazione. Non lo attestano solo operazioni apertamente repressive. Ne sono testimoni gli interventi esterni di agenzie che fanno capo ai governi nei processi di valutazione, l’imposizione di test che non tengono conto delle differenti realtà territoriali e sociali in cui operano i docenti, le ore di lavoro gratuito regalate alle aziende e imposte agli studenti come strumento di formazione, l’ingresso dei privati nella scuola pubblica in veste di finanziatori. È in questo modo che sostanzialmente in Italia si stanno privatizzando la scuola e l’università.
Non so come funziona in Brasile la valutazione della ricerca. In Italia è stata creata un’Agenzia, l’Anvur, che non chiede alle Commissione di leggere i lavori degli studiosi, ma li classifica in base all’importanza dell’editore e alle citazioni di studiosi stranieri, soprattutto anglosassoni. Citazioni che si ottengono solo se si partecipa ai congressi internazionali; congressi ai quali si può accedere solo se si è in buoni rapporti con i cosiddetti «baroni»; buoni rapporti che si costruiscono solo seguendo la via del più assoluto servilismo. Inutile dire che un editore che conta non pubblica una storia degli anarchici e dei socialisti, sicché allo studioso che vuol fare carriera non resta che abbandonare rami di ricerca invisi al potere. Ciò che, in pratica, significa imporre un controllo ferreo sulla ricerca.
A proposito della lotta politica. Lei è stato un candidato di sinistra nelle ultime elezioni per Potere al Popolo. Qual è il panorama della sinistra italiana e quali sono state le sue proposte?
La sinistra in Italia è estremamente frammentata. Prima delle elezioni politiche del 2018 in Parlamento il maggior partito di «sinistra» era il PD, nato da una fusione a freddo tra cattolici ed ex comunisti e attestato da anni su posizioni neoliberiste. Considerato di sinistra, è stato il Partito che in realtà ha realizzato nei fatti tutto quanto non aveva saputo o potuto fare la destra berlusconiana in tema di privatizzazioni, ambiente, grandi opere, attacchi ai diritti dei lavoratori e stravolgimento della Costituzione antifascista. Il PD ha creato così una frattura profonda con il popolo di sinistra e con i valori nei quali quel popolo si riconosce. Dal PD sono usciti, dando vita a effimeri soggetti politici, piccoli gruppi di dirigenti e deputati che non hanno però mai veramente rotto con il neoliberismo e non hanno assunto una posizione chiara sul tema dell’Unione Europea. Tra queste formazioni ha avuto un qualche peso la «Sinistra», guidata da Fratoianni, che si è dimostrata però sostanzialmente subalterna al PD. Fuori dal Parlamento, ci sono piccole formazioni comuniste prive di seguito tra la popolazione; un peso ha avuto fino alle recenti elezioni politiche il «Partito della Rifondazione Comunista», che contava su una minima rappresentanza nel Parlamento Europeo ma, sclerotizzato nei gruppi dirigenti, era perennemente diviso sul tema decisivo dei rapporti col PD. A tutte queste formazioni politiche va addebitato il discredito della sinistra presso la popolazione.
In questo clima è nato Potere al Popolo, del quale sono stato prima candidato e oggi Presidente della Commissione di Garanzia. È nato per creare un movimento in cui tutti avessero davvero diritto di parola e di scelta, per dare un riferimento a chi non si sentiva rappresentato, per far passare finalmente un programma autenticamente anticapitalista e creare una rete di rapporti internazionali che oggi esiste e ha un suo spessore. Non siamo entrati in Parlamento, ma non siamo spariti dalla vita politica perché un progetto politico ha un futuro quando risponde a una necessità della storia. Non avevamo torto: l’esistenza di una sinistra di classe, alternativa al pensiero unico, è oggi una profonda necessità della storia. Il nostro programma era semplice, ma conteneva scelte davvero alternative. Noi proponemmo l’abolizione dalla Costituzione del «fiscal compact» e del pareggio di bilancio, che stravolgono i principi su cui nasce e poggia la Repubblica; il ripristino dello Statuto dei Lavoratori e la cancellazione del Jobs Act, che consente di licenziare quando e come si vuole. Proponemmo anche una seria lotta all’evasione, una imposta patrimoniale progressiva, una politica di edilizia popolare finanziata con le immense risorse assegnate alle spese militari, il ritorno alla scuola statale, l’abolizione dell’Anvur e dell’Invalsi, che stanno distruggendo il nostro sistema formativo e infine una grande battaglia di resistenza per la tutela dell’ambiente. Ci fermò purtroppo l’onda effimera ma travolgente del qualunquismo grillino.
Perché cade il governo e qual è la via attuale delle resistenza in Italia davanti alla crisi?
Dopo 14 mesi di vita, in Italia il Governo è caduto. L’ha annunciato ieri, 20 agosto, al Senato, il premier Giuseppe Conte. La crisi si trascinava dall’8 agosto, quando il Segretario della Lega e Ministro dell’Interno, Salvini aveva sfiduciato Conte e attaccato duramente gli alleati. Bisognava vederlo. L’uomo forte della politica italiana, che voleva pieni poteri, sfidava l’Europa e faceva sognare l’estrema destra, esce ridimensionato dalla vicenda, ma ha fatto emergere la stanchezza enorme del Paese, la gravissima crisi istituzionale che lo indebolisce e la fortuna che trova ormai, in un popolo sfiduciato, il mito dell’uomo solo al comando. Un mito che, è bene ricordarlo, qui da noi conduce direttamente alla crisi dello Stato liberale e alla nascita del fascismo.
Perché Salvini abbia aperto la crisi in fondo non è difficile capire. Guidava tre leghe: quella voluta da Bossi nel 1991, che mira all’indipendenza della Padania (le regioni ricche del Nord), la Lega per Salvini premier e la Lega-simbolo elettorale, che promette ponti d’oro agli odiati meridionali in cambio del voto, mentre pensa a una secessione travestita dalla foglia di fico dell’autonomia differenziata. Scoperto il trucco e contestato vivamente in ogni piazza meridionale – Potere al Popolo ci ha messo del suo – Salvini, troppo piccolo nel governo per portare al Nord l’autonomia, troppo screditato al Sud per sperare nello sfondamento, ha perso la testa e rovesciato il tavolo. Costretto dagli eventi, il redivivo Presidente della Repubblica, Mattarella, che per 14 mesi ha firmato ogni infamia leghista, compresa una politica della sicurezza di marca fascista, condivisa da Conte, che si è svegliato solo ad agosto, ha aperto le consultazioni per verificare se in Parlamento c’è una maggioranza che sostenga un nuovo governo.
Troverà da un lato i Cinque Stelle, terrorizzati dal voto dopo il disastro delle europee e pronti ad allearsi anche col diavolo, per conservare potere e poltrone, dall’altro le destre, decise ad andare al voto perché convinte di avere in pugno il Paese. Ago della bilancia il PD, un partito di destra, servo sciocco dell’Unione Europea e reduce dai disastri di Renzi, autentico nemico dei lavoratori e della povera gente. Diviso al suo interno, ma forte di un’etichetta di sinistra inventata da una stampa che da noi è quasi tutta padronale, potrà vender fumo e ricorrere all’arte tutta italiana di cambiare tutto per non cambiare nulla.
Se si voterà, metà paese, privo di rappresentanza, diserterà le urne. Vinca la destra parafascista, il qualunquismo di Di Maio o il PD di Renzi, parafascista quanto e a volte più dei salviniani, la povera gente sarà massacrata del neoliberismo, che viaggerà su tappeti rossi. Nel migliore dei casi, se ci sarà, potrà tutt’al più difendere con un nuovo referendum quanto resta della Costituzione. Il solo possibile vantaggio potrebbe venire dal tempo che avrà a disposizione ciò che a sinistra del Pd va nascendo per rafforzarsi e creare un’alternativa. Parliamo di tempi stretti e forze deboli come Potere al Popolo e ciò che ruota attorno a De Magistris. La crisi istituzionale e quella economica, però, potrebbero fare da forte acceleratore. Se, com’è evidente, la rinascita della sinistra è una necessità della storia, in fondo all’orribile buio che ci avvolge, c’è una piccola luce. Bisogna andare a tutti i costi in quella direzione, ricordando che c’è una costante nella vicenda umana: dopo ogni gelido inverno della storia, le ragioni della forza bruta hanno sempre ceduto il campo alla forza delle giuste ragioni.
Abbiamo visto gli ultimi partigiani italiani partire da questa terra come Liliana Pacini, Ugo Morchi ed Emma Fighetti, quest’ultima la “sarta della Resistenza” che ha trasformato il suo studio in una base per attività antifascista. Come pensa Lei che l’attuale generazione possa essere antifascista? Quali sono le lezioni principali che possiamo imparare dai partigiani della Resistenza? E come non essere indifferenti in questi giorni?
Credo che nel profondo della persona umana trovino un posto decisivo l’amore per la libertà e il senso della dignità. Non ne siamo consapevoli, finché le circostanze della vita non ci spingono a scoprirlo. Quanto accade attorno a noi in questi giorni è di fatto un continuo e forse irresistibile invito a lottare per la libertà e per la dignità, che si difende anzitutto grazie a un minimo di indipendenza economica. Ho un’altra convinzione profonda: credo che la storia delle lotte operaie, dell’antifascismo e della Resistenza facciano parte ormai del nostro DNA. Perché i giovani escano dall’apatia della sconfitta e si ribellino contro l’ingiustizia occorre che gli anziani diventino esempi viventi di quello che è stato, delle lotte che hanno vissuto, dei sogni per cui hanno lottato. È loro compito collegare il filo della memoria del passato a quello che conduce al futuro. La conoscenza è di per sé strumento di lotta e seme di rivoluzione. In nome di questa convinzione, vorrei chiudere questa intervista e rispondere alla sua ultima domanda, ricorrendo alle parole scritte agli amici da Giacomo Ulivi, un giovane partigiano italiano, prima di affrontare il plotone di esecuzione. Per me non sono solo un testamento, ma un programma di lotta:
Amici,Note:
[…] vorrei che, […] impreparati e gravati di recenti errori, pensassimo al fatto che noi dobbiamo rifare tutto. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano; quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma […] in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, […] risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. […] Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di «specialisti». Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica […] ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: […] ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più «roseo», io credo; il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalità di molti di noi. […] Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica siamo noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? […]
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché […] se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. […] No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!
[1] La parola lazzaro è di origine spagnola e indicò inizialmente il giovane plebeo napoletano che popolava il quartiere Mercato. I lazzari ebbero un ruolo nella sollevazione capitanata nel 1647 da Masaniello. In senso lato indicò la plebe miserabile, che si schierò contro i rivoluzionari nell’attacco sanfedista alla Repubblica Partenopea nata nel 1799.
* Esquerda online, 28 agosto 2019
Fonte
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