Nella serata di ieri un attacco aereo ha colpito diverse base
militari siriane tra le province di Aleppo e Hama. A due settimane dal
raid aereo congiunto di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, il governo
di Damasco ha denunciato ieri una nuova aggressione esterna, missili
“nemici” come riporta la tv di Stato.
L’attacco è avvenuto ieri sera alle 22.30 ora locale, numerose
esplosioni si sono sentite nelle zone rurali delle due province.
Diverse le versioni che da ieri vengono date così come diversa è la
conta degli eventuali feriti. Secondo l’Osservatorio Siriano
per i diritti umani, organizzazione basata a Londra e legata alle
opposizioni al presidente Assad, in almeno due delle basi colpite
sarebbero stati presenti soldati iraniani, nella città di Salhab, a
ovest di Hama. Colpite anche basi governative intorno all’aeroporto di
Aleppo.
L’agenzia russa Sputnik, citando fonti militari siriane,
indica nel deposito di armamenti della 47esima Brigata dell’esercito
siriano il target: le esplosioni, scrive, hanno provocato un incendio.
Il quotidiano Tishreen invece identifica i presunti
responsabili nella “coalizione” a guida Trump, ovvero Usa e Gran
Bretagna: i missili, aggiunge, sarebbero partiti da una base giordana.
Ma le voci più insistenti parlano di un nuovo attacco da parte
israeliana, dopo le ripetute incursioni e i ripetuti raid degli
ultimi anni, intensificati subito prima dell’operazione statunitense su
Damasco (pochi giorni prima jet israeliani hanno bombardato la base T4 a
Homs, uccidendo sette soldati, di cui almeno quattro erano consiglieri
militari iraniani).
Più di una fonte cita a riprova della responsabilità
israeliana le dichiarazioni di ieri mattina del ministro della Difesa di
Tel Aviv Avigdor Lieberman: “Non abbiamo intenzione di
attaccare la Russia o di interferire nelle questioni interne siriane –
ha detto durante la conferenza annuale del Jerusalem Post – ma se
qualcuno pensa che sia possibile lanciare missili o attaccare Israele o
anche la nostra aviazione, senza dubbio risponderemo e risponderemo con
grande forza”.
Il chiaro riferimento è all’Iran, contro cui Tel Aviv imbastisce da
anni una campagna diplomatica e militare che sta trovando in questi mesi
il sostegno della nuova amministrazione statunitense, oltre a quello
dell’Arabia Saudita. Sebbene Teheran non abbia mai attaccato il suolo
israeliano o compiuto operazioni contro gli alleati Usa nella regione,
la narrazione rimane la stessa e si radica nelle politiche mediorientali
della presidenza Trump, farcita di falchi anti-iraniani e ora diretta a
smantellare l’accordo sul nucleare siglato con il 5+1 nell’estate 2015.
Alta tensione anche a nord est, a Deir Ezzor, dove ieri scontri
significativi sono esplosi tra le Forze Democratiche Siriane
(federazione multietnica e multiconfessionale, guidata dalle Ypg curde è
sostenuta dagli Stati Uniti) e truppe governative. Le Sdf hanno
cacciato da quattro villaggi i soldati siriani che li avevano ripresi
per alcune ore nella giornata di ieri.
Secondo fonti delle Sdf, a
fermare l’avanzata governativa è stata la coalizione statunitense attraverso
non meglio precisati “canali di de-escalation”. Non è chiaro dunque se i
jet statunitensi o i Marines a terra abbiano preso parte a scontri
diretti con l’esercito siriano, una possibilità che metterebbe gli Usa
in prima linea contro il principale alleato della Russia.
AGGIORNAMENTO ore 14.45 – Colpiti depositi di armi. Morti degli iraniani, Teheran smentisce
Secondo le informazioni che arrivano dalla Siria, l’attacco
missilistico notturno su basi militari ad Aleppo e Hama ha avuto come
target alcuni depositi di armi, tra cui nuovi missili terra-terra che
l’Iran stava installando nel paese. L’esplosione avrebbe provocato un
terremoto di 2,6 gradi di magnitudo.
Ci sarebbero delle vittime, alcuni combattenti pro-governativi tra
cui – dicono alcune fonti – degli iraniani. Ma da Teheran giunge la
smentita: sono “prive di fondamento”, dicono fonti citate dall’agenzia Tasmin, le notizie che parlano dell’uccisione di combattenti iraniani nell’attacco della scorsa notte.
Fonte
30/04/2018
Ucraina: dal 2014 oltre 550 suicidi accertati nelle forze armate
Lugansk, 29 Aprile 2018 – La guerra civile ucraina, cominciata nel 2014 e costata ad oggi almeno diecimila vittime complessive, è tutt’altro che terminata. Il conflitto si sta infatti avviando verso una nuova fase: le operazioni delle forze armate ucraine saranno infatti regolate a giorni nel quadro della “Joint Venture Operation”, l’operazione militare con cui Kiev intende reintegrare le regioni orientali insorte ed autoproclamatesi indipendenti.
Presentando pubblicamente alcuni dati dell’operazione ATO (Anti-Terrorism Operation) – cornice nella quale fino ad oggi Kiev ha svolto le operazioni militari dirette contro gli insorti del Donbass – Anatolij Matios, il Procuratore Militare Capo di Kiev, ha ammesso che agli 8489 feriti e 3784 morti in combattimento delle VSU (Forze armate dell’Ucraina) devono sommarsi ufficialmente almeno 554 suicidi che hanno avuto luogo tra le fila dei militari ucraini.
A causa dei tagli alla spesa sociale varati dal governo Groisman e dalla presidenza di Poroshenko, sempre secondo lo stesso Matios dall’inizio del 2018 i militari ucraini sarebbero sostanzialmente privi di ogni sostegno psicologico da parte di specialisti e di ogni assistenza post-traumatica.
Dati inquietanti che esemplificano il dramma di una guerra civile dimenticata che si continua a combattere in Europa.
Fonte
Presentando pubblicamente alcuni dati dell’operazione ATO (Anti-Terrorism Operation) – cornice nella quale fino ad oggi Kiev ha svolto le operazioni militari dirette contro gli insorti del Donbass – Anatolij Matios, il Procuratore Militare Capo di Kiev, ha ammesso che agli 8489 feriti e 3784 morti in combattimento delle VSU (Forze armate dell’Ucraina) devono sommarsi ufficialmente almeno 554 suicidi che hanno avuto luogo tra le fila dei militari ucraini.
A causa dei tagli alla spesa sociale varati dal governo Groisman e dalla presidenza di Poroshenko, sempre secondo lo stesso Matios dall’inizio del 2018 i militari ucraini sarebbero sostanzialmente privi di ogni sostegno psicologico da parte di specialisti e di ogni assistenza post-traumatica.
Dati inquietanti che esemplificano il dramma di una guerra civile dimenticata che si continua a combattere in Europa.
Fonte
I colori neocoloniali del Sahel
Nel blu, dipinto di blu. Siamo allora nel 1958 al festival di Sanremo, vinto quell’anno da Domenico Modugno con la notissima canzone ‘Volare’. Il blu non è preso in considerazione nella recente cartina geografica delle zone a rischio, colorata dal Ministero degli Affari Esteri francese. Nel Sahel siamo dipinti di rosso, profondo rosso, pericolosamente rosso. Una carta ad uso dei viaggiatori occidentali aggiornata a marzo passato dopo gli attentati di Ouagadougou, nel Burkina Faso di Thomas Sankara. Colorato anch’egli di rosso ma per altri motivi, in quanto assassinato perché portatore sano di rivoluzione.
I viaggiatori sono messi in allerta dai colori e sono nel Sahel formalmente allontanati. Il colore rosso conferma l’esclusione dei popoli di questa zona dell’Africa. La diplomazia francese colora di rosso i paesi dove la minaccia di attentati è alta e forse probabile. Nessuna zona può considerarsi come sicura. Avrebbero fatto meglio a cominciare dal mare.
Dipinto, appunto di blu, non rappresenta nessun pericolo, per gli occidentali. Per chi viene dal Sahel, invece, non c’è nulla di più pericoloso al mondo. Dall’anno duemila fino ad oggi i morti nel mediterraneo superano le decine di migliaia. Solo dall’inizio dell’anno i morti in mare o i dispersi sono almeno 360, colorati dal sale e dalla vergogna delle carte marine. Nessun attentato, rapimento o guerriglia ha raggiunto nel Sahel questa cifra. Che il Ministero dipinga di rosso il mare, il deserto e le altre frontiere. Sono queste le vere zone a rischio ‘viaggiatori’.
Mentre la cartina diplomatica ci mette in rosso, ci trasforma in formalmente sconsigliati da frequentare, proprio come i migranti, che portano il colore della speranza. Segue il colore arancione per le zone ‘sconsigliate salvo per motivi imperativi’, adiacente al rosso in paesi confinanti. Per il giallo la ‘vigilanza rafforzata’ è di norma e infine le zone verdi che richiedono una ‘vigilanza normale’.
La zona del Sahel concentra l’essenziale dei primi due colori, con l’aggiunta della Nigeria, il nord del Cameroun e del Benin a complemento geografico. Nessuna di queste zone, pertanto, può essere considerata sicura per gli occidentali. I cittadini francesi che si trovino in queste zone dovrebbero sapere che la loro sicurezza e la loro vita sono direttamente minacciate.
Nessuna menzione, nella carta sopracitata, dei rischi mortali provocati da carestie, malattie endemiche, contaminazioni di uranio e inquinamenti petroliferi. Nessun colore è riservato alle miniere e alle foreste da anni oggetto di sfruttamento, come la pesca nel Golfo di Guinea, trai più ricchi di pesci al mondo, fino a qualche tempo fa. I turisti, incauti viaggiatori, ricercatori, associazioni e sportivi in cerca di emozioni, nessuna di queste categorie e altre non menzionate, può pretendere la sicurezza totale. I figli del Sahel, bambini, giovani, donne e adulti vivono da anni nell’insicurezza. Questo la carta per i viaggiatori non lo menziona.
Madame, Monsieur. L’ambasciata di Francia ricorda che gli spostamenti e, a fortiori i soggiorni nella regione di Tillabéri e nella zona frontaliera col Mali sono vivamente sconsigliati (vedi la carta e i consigli ai viaggiatori). Per i professionisti (ONG, esperti e consulenti), le vostre missioni devono essere compiute con una scorta armata. L’ambasciata è a vostra disposizione per tutti i consigli relativi all’accompagnamento securizzato. Cordialmente, Ambasciata di Francia.
Il colore del messaggio è in bianco e nero, tipico della posta elettronica, indirizzato ai cittadini europei sul posto. Un messaggio segnato con priorità alta tramite un punto esclamativo marcato di rosso. Per tutti gli altri, invece, la storia comincerà a cambiare quando a decidere il colore della cartina dell’occidente saranno i cittadini del Sahel. I viaggiatori africani saranno nel frattempo avvisati dal colore arcobaleno che, senza troppo pensarci, sarà stato scelto per dipingere il mondo.
Niamey, aprile 2018
Fonte
L’ultimo vaffanculo
Gli elettori erano stati chiari: basta inciuci, basta PD.
Cos’ha proposto il Movimento 5 Stelle? Un inciucio col PD.
Quel Demostelle che tutte le élite chiedono fin dal 5 marzo, perché il PD è il garante dell’establishment, di quel pilota automatico di cui parlava Mario Draghi. E ormai è chiaro che non gli è affatto necessario sopravvivere alle elezioni per restare al potere.
Così, dopo essersi insultati a vicenda per anni chiamandosi mafiosi, fascisti, assassini e zombie, grillini e piddini, se non fosse per Renzi, potrebbero allearsi, col PD che torna al governo dopo l’ennesima sconfitta alle urne, riuscendo ancora una volta a spacciarlo come un sacrificio per il Bene del Paese, e il Movimento 5 Stelle che si rimangia anche l’ultimo dei suoi distinguo, dei suoi principi “non negoziabili”.
Non c’è da stupirsi che parte della base grillina sia in rivolta, c’è da stupirsi che non lo sia tutta.
Dopo aver raccolto per anni il voto di protesta solo per congelarlo, il Movimento 5 Stelle adesso vorrebbe consegnarlo al PD. Adoperare milioni di voti anti-sistema per mantenere al governo il principale garante del Sistema. Ed è stizzito dal rifiuto di Renzi.
È lo sputtanamento del secolo, ed è già irreversibile, a prescindere dall’esito della trattativa, perché Casaleggio e Di Maio sono pronti, e se l’inciucio salterà, sarà soltanto a causa di Renzi che ancora spera nel Governissimo, e nella Controriforma.
È lo smascheramento definitivo di un’opposizione farlocca, completamente funzionale al sistema di potere che millanta di voler abbattere.
Pur d’insediarsi sul trono di Re Sòla, il M5S attraverso il preservativo bucato d’un ridicolo “contratto alla tedesca”, s’è prima offerto ai fascioleghisti alleati storici di Berlusconi, che dopo averlo definito “Il mafioso di Arcore”, da 24 anni ne controfirmano tutte le peggiori porcate. E poi al PD del Cazzaro, responsabile del Jobs Act, del Salva Banche, della Buona Scuola, della Dottrina Minniti, del tentativo di smantellare la Costituzione.
“Il giorno in cui il Movimento 5 Stelle si dovesse alleare coi partiti responsabili della distruzione dell’Italia, io lascerei il Movimento 5 Stelle”. Parola di Alessandro Di Battista.
Se una delle due profferte a Lega e PD alla fine sarà accettata, cosa farà l’ala “movimentista” del Movimento, Lascia o Raddoppia?
Il voto del 4 marzo era stato definito “un terremoto”. “Niente sarà più come prima” avevano vaticinato gli editorialisti.
In realtà, votare serve solo a scegliere quale maschera indosserà l’establishment.
Grillo lanciò la sua “rivoluzione” cercando inutilmente di candidarsi alle primarie del PD. Oggi il cerchio si chiude. “L’era del vaffanculo è finita”, Beppe dixit.
Affanculo ci andranno la “rivoluzione” grillina, e tutti quelli che ci avevano creduto.
Fonte
Cos’ha proposto il Movimento 5 Stelle? Un inciucio col PD.
Quel Demostelle che tutte le élite chiedono fin dal 5 marzo, perché il PD è il garante dell’establishment, di quel pilota automatico di cui parlava Mario Draghi. E ormai è chiaro che non gli è affatto necessario sopravvivere alle elezioni per restare al potere.
Così, dopo essersi insultati a vicenda per anni chiamandosi mafiosi, fascisti, assassini e zombie, grillini e piddini, se non fosse per Renzi, potrebbero allearsi, col PD che torna al governo dopo l’ennesima sconfitta alle urne, riuscendo ancora una volta a spacciarlo come un sacrificio per il Bene del Paese, e il Movimento 5 Stelle che si rimangia anche l’ultimo dei suoi distinguo, dei suoi principi “non negoziabili”.
Non c’è da stupirsi che parte della base grillina sia in rivolta, c’è da stupirsi che non lo sia tutta.
Dopo aver raccolto per anni il voto di protesta solo per congelarlo, il Movimento 5 Stelle adesso vorrebbe consegnarlo al PD. Adoperare milioni di voti anti-sistema per mantenere al governo il principale garante del Sistema. Ed è stizzito dal rifiuto di Renzi.
È lo sputtanamento del secolo, ed è già irreversibile, a prescindere dall’esito della trattativa, perché Casaleggio e Di Maio sono pronti, e se l’inciucio salterà, sarà soltanto a causa di Renzi che ancora spera nel Governissimo, e nella Controriforma.
È lo smascheramento definitivo di un’opposizione farlocca, completamente funzionale al sistema di potere che millanta di voler abbattere.
Pur d’insediarsi sul trono di Re Sòla, il M5S attraverso il preservativo bucato d’un ridicolo “contratto alla tedesca”, s’è prima offerto ai fascioleghisti alleati storici di Berlusconi, che dopo averlo definito “Il mafioso di Arcore”, da 24 anni ne controfirmano tutte le peggiori porcate. E poi al PD del Cazzaro, responsabile del Jobs Act, del Salva Banche, della Buona Scuola, della Dottrina Minniti, del tentativo di smantellare la Costituzione.
“Il giorno in cui il Movimento 5 Stelle si dovesse alleare coi partiti responsabili della distruzione dell’Italia, io lascerei il Movimento 5 Stelle”. Parola di Alessandro Di Battista.
Se una delle due profferte a Lega e PD alla fine sarà accettata, cosa farà l’ala “movimentista” del Movimento, Lascia o Raddoppia?
Il voto del 4 marzo era stato definito “un terremoto”. “Niente sarà più come prima” avevano vaticinato gli editorialisti.
In realtà, votare serve solo a scegliere quale maschera indosserà l’establishment.
Grillo lanciò la sua “rivoluzione” cercando inutilmente di candidarsi alle primarie del PD. Oggi il cerchio si chiude. “L’era del vaffanculo è finita”, Beppe dixit.
Affanculo ci andranno la “rivoluzione” grillina, e tutti quelli che ci avevano creduto.
Fonte
La “ricostruzione” a Castelluccio è... un centro commerciale
Allora, so benissimo che ormai del terremoto e dei terremotati non gliene frega più niente a nessuno, quindi qui, adesso, potrò tranquillamente essere palloso – tanto non vi disturbo – e magari nei prossimi giorni tornerò a scriverne ancora, anche se ormai l’impatto del giornalismo sulla società è pari a zero e quindi gli eventuali articoli saranno soltanto un modo per alimentare la mia futura spocchia (sto già preparando la migliore faccia da stronzo per l’inevitabile «ve l’avevo detto» che servirò a chiunque verrà a parlarmi della schifezza del centro commerciale di Castelluccio).
Comunque.
Parliamo, appunto, del centro commerciale a forma di deltaplano la cui costruzione è cominciata da qualche giorno in quel di Castelluccio di Norcia: una struttura da 11.000 metri quadrati nel bel mezzo della piana. Dovrà ospitare un totale di 10 ristoranti e 18 attività commerciali e di servizio.
Quando dalle montagne di carte relative al dopo-sisma emerse questa storia – luglio 2017 –, i vertici della Regione Umbria e i privati interessati alla costruzione del centro commerciale hanno prima bollato le voci come «fake news» (strategia ormai un po’ patetica, usata a vari livelli, per scavalcare le obiezioni senza discuterne) e poi hanno cominciato a rassicurare: non ci sarà cemento, sarà una struttura a impatto zero, ci sarà anche una copertura in verde che non disturberà il paesaggio e così via.
Adesso scopriamo che una colata di cemento in realtà c’è già stata («Solo pochi centimetri», si giustificano), che quindi il famoso «impatto zero» se n’è già andato a farsi benedire e che della copertura in verde non ne parla più nessuno, tanto che sui prospetti del progetto è anche sparito il nome dell’architetto originario, tal Francesco Cellini.
Questo per limitarci ai fatti. I puri, semplici e incontrovertibili fatti: dicevano una cosa, ne stanno facendo un’altra. Pace.
Poi ci sono altre cose che servono a rendere l’idea. Ad esempio: chi ha contestato il progetto sin da subito è stato additato come nemico della comunità di Castelluccio. Sapete quanti abitanti fa Castelluccio? Secondo il censimento del 2011, centoventi, ma l’ultima rilevazione statistica parla di appena otto persone che ci vivono stabilmente, estate e inverno.
Siete svegli e avete capito: i 10 ristoranti e le 18 attività commerciali, per lo più, non appartengono alla gente di Castelluccio. Quindi sarebbe stato più corretto parlare di «torto ai commercianti» più che di odio verso gli abitanti del borgo.
[Tra l’altro, questa retorica del «taci, tu non ci vivi» ha stancato: fatemi capire, se domani buttano giù il Colosseo per farci un parcheggio, io dovrei stare zitto perché non vivo a Roma?]
E ancora: con una spocchia che persino io ho ritenuto eccessiva, ricordo che, durante un dibattito su questa vicenda, la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini mi corresse quando parlai di «centro commerciale». Disse: «È una struttura per negozi e servizi». Che a me parve una splendida prova di retorica, ma forse, ora che ci ripenso, in realtà era una vaga presa in giro.
Una nota tecnica: il progetto, stando alla determina del dirigente, avrebbe carattere temporaneo, quindi, almeno in teoria, prima o poi demoliranno tutto. Sapete che c’è, però? I soldi per la distruzione del complesso non sono stati stanziati. Quindi quel «temporaneo» è solo un bell’aggettivo su un documento ufficiale, che potrà essere modificato in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo, senza tante spiegazioni.
Alla fine butteranno giù quel che resta di Castelluccio e rimarrà solo il centro commerciale.
Non vi lamentate: le lenticchie ci saranno lo stesso.
Mario di Vito da Facebook
Fonte
Francia, il grande maggio di lotta contro Macron
Ricorre quest’anno il 50esimo anniversario del Maggio ’68 francese, quando le proteste di studenti, giovani e lavoratori animarono lo scontro tra le vie del Quartier Latin di Parigi, con l’occupazione storica dell’università Sorbonne e la repressione della polizia.
A 50 anni di distanza, la situazione che si sta prospettando per il prossimo mese di maggio è abbastanza simile. Ovviamente, in cinquanta anni il contesto è cambiato in maniera profonda e irreversibile; la storia non si ripete mai con le medesime caratteristiche, anche se “qualche volta fa rima”. Lo scenario attuale che sta attraversando l’intera Francia è quello di una mobilitazione generale, che investe molti settori, dall’istruzione al mondo del lavoro, con gli studenti e i ferrovieri nella stessa piazza, dalle imprese nazionali alle multinazionali, dagli scioperi del servizio pubblico alle proteste dei migranti.
Oggi, lunedì 30 aprile, gli studenti medi e universitari hanno lanciato l’ennesima mobilitazione generale contro la riforma dell’istruzione pubblica voluta dal governo Macron, articolata tra la riforma del bac (l’equivalente della nostra maturità) prevista dal Parcoursup e la Loi Orientation et Reussite che introduce un vero e proprio processo di selezione sociale, di matrice elitaria e classista, all’università.
A una settimana dal violento sgombero dell’occupazione della Commune de Tolbiac (dipartimento dell’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne) da parte della polizia, durante il quale diversi studenti sono rimasti feriti e contusi e un ragazzo è stato ricoverato in stato di coma, le organizzazioni studentesche chiamano nuovamente all’azione. Nonostante gli sgomberi e le aggressioni da parte di gruppi neo-fascisti nei confronti delle università occupate, gli studenti non sono disposti a cedere nulla di fronte a un governo che ormai da diverse mesi ha rifiutato qualsiasi forma di dialogo e di mediazione.
La determinazione del movimento studentesco sta creando un sostrato favorevole a quella convergenza delle lotte che spesso si è potuta intravedere nelle manifestazioni del mese di aprile, durante le quali i lavoratori della SNCF e gli studenti si sono trovati a camminare insieme per le strade e ad organizzare banchetti e proteste selvagge di fronte alle principali stazioni ferroviarie.
Proprio per alimentare questa tendenza e per organizzare un fronte sociale e politico unitario, l’invito delle organizzazioni studentesche è quello di mobilitarsi e di partecipare attivamente alle azioni anche al di fuori delle università e dei licei. Organizzarsi e mobilitarsi nel proprio contesto quotidiano e nella dimensione più vicina alla propria situazione di lotta – ovvero dentro le occupazioni dei licei e delle università – deve poi portare a creare delle connessioni all’esterno, con il resto dei fronti di lotta antagonista contro le politiche ultraliberiste imposte dal governo Macron.
Con questo obiettivo, si terrà nel pomeriggio di lunedì 30 aprile una assemblea generale, in cui dare voce a tutte le lotte, a Place de la République a Paris, già teatro nel 2016 delle numerose mobilitazioni di massa contro la Loi Travail (il Jobs Act alla francese). Di fronte all’attacco diretto e multilaterale condotto dal governo Macron contro i diritti dei lavoratori e i pilastri dello stato sociale, si tratta si creare un momento di partecipazione e di solidarietà attiva, in cui confrontarsi e discutere delle lotte in campo in questo momento in tanti settori e frangenti. Studenti, ferrovieri, personale ospedaliero e dell’EHPAD (case di cura per anziani), lavoratori di Carrefour e di La Poste presenteranno e prenderanno parola sulle loro lotte contro una spirale ultra-liberista che sta devastando i servizi pubblici e l’intero welfare state.
Tutto ciò alla vigilia di un Primo Maggio che si annuncia di fuoco, per l’elevata tensione politica e sociale in crescita dopo l’intensificarsi della repressione della polizia. L’appello alla partecipazione alla giornata di mobilitazione è stato lanciato forte e chiaro: “Contro Macron e le sue politiche, prendiamo la piazza tutti insieme per far vivere la convergenza della rabbia e l’unità delle lotte. Prepariamoci, attrezziamoci, organizziamoci per contrastarli in una journée en enfer!”. Un clima di tensione che risente ed è alimentato anche dal percorso concordato dalla prefettura e dai sindacati, ritenuto troppo breve e soggetto ad un dispositivo di militarizzazione eccessiva. Il rischio è che si cerchi volontariamente di aizzare “lo scontro”, fornendo così ai media di regime tutte le immagini e i video che si vogliono intenzionalmente produrre, ovvero di facinorosi e violenti manifestanti che assediano il centro di Parigi.
Ben consapevoli di questo rischio, molte delle organizzazioni che parteciperanno alla mobilitazione hanno deciso di creare un momento di incontro e di confronto nel cuore di Quartiere Latino, proprio per aprire le celebrazioni del Maggio ’68. L’invito è quello di unire e aggregare le componenti del movimento antagonista che altrimenti rischierebbero di disperdersi e frammentarsi ulteriormente, riducendo il potenziale della protesta e rendendosi più vulnerabili di fronte alla repressione.
All’interno di questa giornata del Primo Maggio, due appuntamenti in particolare meritano di essere riportati all’attenzione: il presidio a Place de la Bastille in sostegno alla ZAD di Notre Dame des Lands e lo spezzone del corteo dei migranti e delle associazioni che si battono per i loro diritti.
L’occupazione militante e resistente della ZAD contro l’opera inutile e devastante di un aeroporto a Notre Dame des Lands (a nord di Nantes) è stata sgomberata violentemente il 9 aprile scorso, quando i gendarmi hanno fatto irruzione alle 3 del mattino cacciando circa 200 occupanti dagli edifici in cui regolarmente si svolgono attività politiche e sociali.
Dall’altra parte, dopo la manifestazione generale contro la Loi Asile-Immigration promossa dalla BAAM lo scorso 15 aprile a Parigi, la riforma è ora in discussione all’Assemblée Nationale. Il progetto di legge introduce un rafforzamento dei controlli nei confronti dei migranti e dei sans papiers, riducendo le loro condizioni di accesso e i loro diritti attraverso meccanismi discriminatori e razzisti. Con il crescere delle misure di espulsione, la riduzione del termine per la presentazione della domanda d’asilo, il raddoppiamento della durata massima di fermo nei Centri di Detenzione Amministrativa, i migranti e i sans papiers parteciperanno al Primo Maggio per contestare la politica migratoria messa in atto dalla Francia e dall’Unione Europea.
È per questo motivo che la Giornata Internazionale dei Lavoratori è un momento fondamentale per lottare insieme: in un contesto di politiche di austerità, di riduzione delle libertà fondamentali, di persistenza dello stato d’urgenza, la strategia del governo francese è di dividere la popolazione e di puntare il dito contro i migranti, alimentando un sentimento generalizzato di razzismo e xenofobia.
Dopo l’ulteriore giornata di sciopero dei ferrovieri e dei macchinisti della SNCF (l’impresa nazionale del trasporto ferroviario in Francia) prevista per il 3 maggio, questa settimana inaugurale del 50esimo anniversario del Maggio ’68 francese si concluderà con una grande manifestazione per “fare la festa a Macron”.
A un anno dalla sua elezione a Presidente della Repubblica, Macron ha già messo in campo una serie di provvedimenti e di riforme che ne hanno smascherato (per chi non se fosse reso conto prima...) la natura di un “Robin Hood al contrario”, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Un governo che è forte con i deboli, inasprendo una serie di misure di austerità e di taglio alla spesa sociale, e al tempo stesso che è accondiscendente con gli interessi delle multinazionali e dei poteri finanziari. Mentre riduce l’Aide Personnalisée au Logement (assegno a copertura parziale dei costi di affitto di un alloggio per individui e categorie specifici) e aumenta la Contribution Sociale Généralisée (ovvero gli oneri sociali a carico dei lavoratori dipendenti), il governo Macron si prepara a varare un nuovo piano di privatizzazioni che interesserebbe numerose imprese nazionali (dai trasporti alle telecomunicazioni al settore energetico).
Tra gli organizzatori e i promotori della manifestazione, spicca su tutti il nome di Francois Ruffin, giornalista e attivista sociale, particolarmente noto in Francia per essere il fondatore ed editore del giornale satirico Fakir e il regista del film Merci patron!. Oltre ad aver partecipato attivamente alla costituzione del movimento Nuit Debout nella primavera 2016, contro il progetto di legge El Kohmri (ovvero la famigerata Loi Travail), è stato eletto deputato all’Assemblée Nationale tra le fila della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon.
E questa è soltanto la prima settimana...
C’est ne qu’un debut, continuons le combat!
Fonte
Rivedere il Revisionismo
Pier Luigi Bellini delle Stelle “Pedro”, comandante della 52a Brigata Garibaldi, al centro con barba e baffi [9] |
In questi giorni ricorre l’anniversario della cattura ed esecuzione di Benito Mussolini e dei gerarchi repubblichini. Si tratta di un episodio fra i più dibattuti e trattati nella storiografia recente, e non su questo ci soffermeremo in questa nota, rimandando eventualmente alle molte opere che trattano di quei giorni, ultima delle quali in ordine di merito anche la nostra [1].
Gli ultimi giorni di Mussolini sono una vicenda emblematica di come sia necessaria, a volte, una cronaca “momento per momento”, un dettaglio quasi pedante anche sui particolari, da inserire in un’operazione più ampia, che crediamo sia – in futuro – da estendere necessariamente anche ad altri episodi della Guerra di Liberazione. Abbiamo scelto di usare lo stesso approccio della memorialistica revisionista, ovvero l’insistenza sul dettaglio, con lo scopo – però – di superare il revisionismo, cioè di “Rivedere (o revisionare) il revisionismo“.
È infatti indubbio che alcune delle versioni di questi fatti che per prime uscirono – e vennero adottate come ufficiali nel dopoguerra e fino ai ’70 – fossero talvolta imprecise o romanzate: la lotta partigiana, d’altronde, si meritava un’epopea, e l’ebbe. Negli anni 60/70, tuttavia, vennero pubblicate ricostruzioni complete del periodo della lotta di Liberazione, adeguatamente integranti la memorialistica di dettaglio in precedenza uscita: si fa riferimento qui per semplicità ai testi in [2-5]. A questa si aggiunge l’ulteriore opera di Giorgio Bocca sulla Repubblica di Mussolini [6], che costituisce, già nel 1995, un esempio di storiografia che tenne anche in conto delle testimonianze di parte repubblichina.
Il luogo comune che “la storia la scrivono i vincitori” è qui fuori luogo. I partigiani furono dei vinti – anzi dei traditi – quando nel dopoguerra si ritrovarono in un’Italia democristiana, erede di quella dei notabili di inizio secolo, nella quale gli ex fascisti si trovavano a loro pieno agio, dimenticato il loro passato e pienamente accolti fra i moderati al potere; per i più estremisti, che al fascismo continuavano a richiamarsi esplicitamente, c’era il MSI, diretto erede della RSI, con una forte rappresentanza in Parlamento. Dopo tre anni dalla Liberazione, non vi era, fra i fascisti sopravvissuti alla Resa dei Conti, praticamente più nessuno in galera.
Non era quella l’Italia nuova sperata dai partigiani e per la quale essi avevano combattuto: tuttavia ebbero riconosciuta la loro eredità ideale nella Costituzione, sebbene essa sia stata in parte disattesa negli anni. I partigiani poterono perlomeno raccontare, e lo fecero ampiamente. A partire dagli anni ’80, però, le versioni ufficiali vennero pian piano erose e smentite da nuova memorialistica e storiografia, in parte revisionista, il cui contributo iniziale fu talvolta utile per far emergere particolari e fatti nuovi.
Purtroppo, queste rivelazioni non vennero fatte da chi aveva partecipato alla lotta di liberazione fra i partigiani ed era rimasto fedele agli ideali di allora, inquadrandole in un racconto corretto, come venne fatto ad esempio in [6], ma spesso da revisionisti di vario genere, mentre troppo raramente da storici professionisti e “non di parte”, ad esempio [7]; il risultato ultimo è stato di mescolare l’analisi di nuovi particolari e fatti utili con interpretazioni discutibili, fino ad arrivare ad un quasi capovolgimento delle versioni originali, in favore di un’altra – nuova – vulgata.
Quest’ultima nuova versione revisionista della guerra di Liberazione ha trovato un certo spazio specialmente fra i giovani, e non soltanto più fra i pochi neofascisti, anche per la popolarità di opere non appartenenti secondo noi alla storiografia, ma al romanzetto storico ed alla propaganda politica mal mascherata, ed alle quali non si concede qui neppure il riconoscimento di una citazione: ci Pansi qualcun altro, non noi. La vulgata che ne risultò si può riassumere così: “Quello che ci ha raccontato la storiografia ufficiale sulla lotta di liberazione è in buona parte falso, e ciò è stato fatto per coprire la realtà vera dei fatti. Fra partigiani e fascisti fu una guerra civile e gli uni non erano molto meglio degli altri. Ci sono poi molti misteri insoluti.”
Ebbene, è proprio questa nuova vulgata revisionista che va, appunto, smontata: ma non a parole, bensì con il lavoro sui fatti e anche sui particolari, proprio quello dal quale è partito il revisionismo, per arrivare però velocemente alla fantasia, fino ad una vera e propria distorsione della realtà, assai peggiore della precedente parziale “reticenza” della storiografia e memorialistica ufficiale.
Riesaminando invece i fatti, ci si accorge che il grosso delle versioni iniziali di parte alleata o partigiana era rispondente alla realtà, nella sostanza: farebbe specie che – uscendo dal ghetto delle fonti neofasciste – il revisionismo arrivasse a velare la realtà fattuale con una tal cortina fumogena di illazioni da ridurla a mitologia, nella quale partigiani e fascisti sono messi sullo stesso piano. Invece – pur nella realtà di un feroce fine guerra – il comportamento degli antifascisti fu lineare e del tutto spiegabile ed adatto alle circostanze. Con qualche punto nero, che non mancheremo mai di rimarcare: ma furono pochi, a fronte di un nero quasi totale che c’era stato dall’altra parte per oltre un ventennio.
Se è pur vero che i morti meritano, di qualunque parte siano, rispetto, non si può però astenersi dal diritto di critica e condanna delle loro scelte, azioni, crimini commessi da vivi. Da vivi, non si era tutti uguali, durante la guerra di Liberazione. E questo va detto e fermamente mantenuto.
Il tempo passa non invano. Se, per fare soltanto un esempio Walter Audisio (il “Colonnello Valerio”, l’esecutore “ufficiale” di Mussolini) non poté o non volle – 60 o 70 anni fa – raccontare certi dettagli riguardo quei giorni [8], ciò non vuol dire che Audisio abbia raccontato solo una bella favola. Riesaminata, la sua versione è molto aderente ai fatti. Dire questo, al giorno d’oggi, è così poco di moda, da esser ormai divenuto politically incorrect ed impopolare. Così come era vero il contrario sessant’anni fa: Giorgio Bocca [6] fece giustamente notare il fatto che – per almeno un trentennio – la storia della guerra di Liberazione sia stata scritta puntando l’attenzione su una parte sola. Certamente, perché l’altra parte faceva così ribrezzo che il suo ricordo voleva essere seppellito nella coscienza collettiva della nuova Italia. Ma quanto questa Italia “nuova” era davvero nuova?
Se consultiamo, nei secondi anni quaranta, i ruolini delle forze dell’ordine e degli amministratori dello Stato, vediamo come essi siano ripieni di ex-fascisti, riammessi in ruolo dopo un brevissimo oblio, silenziosamente. Anzi, ricercati – per quanto riguarda le forze dell’ordine – e preferiti agli altri. Mentre gli ex-partigiani che, finita la guerra di Liberazione, videro nell’esercito o nelle forze dell’ordine un possibile sbocco lavorativo, vennero – sempre silenziosamente – cacciati pian piano quasi totalmente.
Solo negli alti gradi della classe politica – ma dal 1948 all’opposizione – rimasero. Al Governo, ci andarono quelli che nella Resistenza avevano avuto una parte minima: i democristiani, i socialdemocratici, i liberali. L’ambiguità, l’attendismo, l’opportunismo trionfarono ancora una volta.
Il Governo Italiano, con sede a Roma, ebbe lo stesso spirito della cosiddetta “resistenza” romana, fatta di grandi stuoli di attendisti che fecero di Roma l’unica città italiana che non insorse contro il tedesco. Con l’eccezione di pochi eroi come i gappisti romani, che anzi dovettero, negli anni del dopoguerra, fronteggiare accuse e processi, cosa che capitò a molti protagonisti reali della Guerra di Liberazione. Il “vento del Nord” non prevalse, fu spazzato via dalla calma piatta degli eredi di Badoglio.
Resistenza tradita? Giorgio Bocca concluse con un salomonico ma giusto “Resistenza incompiuta” la sua analisi storiografica del periodo. Noi, si parva licet, ci permettiamo di proporre un più aderente ai fatti “Resistenza tollerata”. La tollerarono obtorto collo gli anglo-americani, la tollerò nel dopoguerra chi stava al Governo d’Italia, cioè in sostanza i democristiani, la tollerarono ancora gli Stati Uniti dopo il 1945. L’Italia democristiana è riuscita pian piano a dimenticare e far dimenticare la Resistenza, e successivamente l’ha appiattita ed annacquata in un abbraccio generale all’insegna del “siamo tutti fratelli”.
Proprio per questo è importante, anche a distanza di ormai oltre sette decenni, documentare. Insistere sui particolari e sull’insieme. Chiarire. Dirimere. Specialmente con i giovani, che sono le vittime di questa pluridecennale campagna di disinformazione strisciante. Ed è proprio per questo motivo che ora va fatta chiarezza: i “misteri” di quel periodo non sono poi così insolubili, e la loro persistenza, al giorno d’oggi, non fa più il comodo dei vincitori, ma dei revisionisti. Ai quali va ribadito quanto abbiamo già scritto: se pure i morti meritano rispetto, essi – da vivi – non erano tutti uguali. C’era chi – di ogni colore politico tranne il nero – lottava contro l’invasore e per la libertà, e c’era invece chi si schierava con una ideologia che – se predicava la “bella morte” per i propri adepti – procurò invece a milioni di vittime innocenti la “morte orribile”: quella dei campi di sterminio.
Riferimenti
1. Massimo Zucchetti, Mussolini ultimi giorni, Smashwords editore, ebook 2018.
2. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966.
3. Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964.
4. Paolo Emilio Taviani, Breve storia della Resistenza italiana, Museo storico della Liberazione, Edizioni Civitas, Roma 1995.
5. Piero Calamandrei, Uomini e città della resistenza, Laterza, Bari 1955, 1977, 2006.
6. Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Mondadori, Milano, 1995.
7. Gianni Oliva, I vinti e i liberati 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Mondadori, Milano 1994.
8. Walter Audisio, In nome del popolo italiano, Teti, Milano, 1975.
9. Fonte iconografica: Plus Minus, articolo del 24.4.2015, http://www.rp.pl/galeria/1195863.html (aperto il 27/4/2018).
Fonte
La guerra dei dazi. La Ue minaccia, ma spera di non doverla fare
Ci avevano provato tutti e tre, separatamente. La Gran Bretagna contando sulla comune matrice anglosassone e la recente decisioni di uscire dall’Unione Europea. La Francia del fanfarone Macron, stretto in patria da un’opposizione popolare crescente e bisognoso di risultati tangibili in politica estera (oltre al facile neocolonialismo nell’Africa del Sahel). La Germania della misurata Angela Merkel, a sua volta con grossi problemi interni e dubbiosa sulle modalità di “riforma autoritaria” della Ue, per trasformarla in un’area di libero scambio ma a”due velocità” senza però rischiare di condividere alcunché con i paesi più deboli e indeboliti dalle sue scelte.
Tutti e tra sono tornati da Washington con le pive nel sacco: Donand Trump non ha dato alcuna rassicurazione sull’esenzione dei loro paesi e dell’intera Unione Europea dai dazi che domani il presidente col ciuffo firmerà; intanto su alluminio e acciaio, poi si vedrà.
Messi di fronte all’evidenza – l’America di Trump ritiene di poter fare accordi più vantaggiosi trattando su basi di forza e separatamente con i singoli paesi – i tre, senza neanche perdere tempo a convocare “istituzioni europee” che contano soltanto quando c’è da bastonare i paesi minori, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui minacciano “reazioni proporzionate” all’introduzione di dazi sulle merci europee: «Gli Usa non devono prendere alcuna misura commerciale contro l’Ue, altrimenti l’Ue sarà pronta a difendere i propri interessi nel quadro delle regole del commercio multilaterale».
Ma ha poche frecce al proprio arco. Costruita – grazie alla leadership tedesca – come una macchina mercantilistica classica (salari interni bloccati o ridotti per acquisire un grosso vantaggio competitivo sulle esportazioni industriali di livello medio-alto verso i mercati Usa e cinesi), la Ue è quella che più ha da perdere in una vera guerra commerciale. Perché il grosso del suo mercato interno è stato nel frattempo pauperizzato e sfamato con merci asiatiche dai prezzi imbattibili. Cambiare modello in corsa è quasi impossibile, se c’è ancora chi ci guadagna molto (Berlino).
Finiti, e da un pezzo, i fasti della globalizzazione a guida Usa, ora è la fase delle guerre: commerciali, monetarie, militari. In cui le alleanze sono labili, occasionali, rivedibili.
L’Unione Europea non è l’attore principale del grande gioco geopolitico in atto. Costruita come un mercato unico senza uno Stato propriamente detto, capace di sanzionare i membri che disattendono le sue indicazioni (sta per scattare una nuova modalità che consente di bloccare i fondi europei a quegli Stati che non “riformano il mercato del lavoro” nel modo richiesto), senza un esercito né una volontà comune, tantomeno con un qualsiasi consenso popolare, la UE è una potenza impotente verso l’esterno.
Gli attori principali sono tre, e a quelli pensano gli Stati Uniti quando fanno i calcoli globali: Russia e Cina sono i competitor dell’immediato futuro, tutti gli altri sono pedine aggiuntive – non tanto “alleati” – che possono essere usate per determinati obiettivi (attaccare la Siria o chiunque altro) e sacrificate per altri (difendere a colpi di dazi protezionistici la residua capacità produttiva yankee).
Anche sul piano dell’innovazione hi-tech, infatti, gli Usa hanno scoperto di recente di essere vicini al sorpasso da parte di aziende cinesi, specie sulla frontiera del 5G (nuovo protocollo di comunicazione telefonica che dovrebbe superare di molto l’ormai “vecchio” 4G) e dei processori, fino a poco tempo fa appannaggio pressoché esclusivo di multinazionali Usa.
Anche la supremazia tuttora vantata nei social network e dintorni è fortemente a rischio. Nuove piattaforme – anche qui russe e cinesi – si vanno affermando nei mercati “nazionali” o di area, con decine di milioni di utenti che non hanno più bisogno di passare per Facebook, Google o Whatsapp. E’ solo questione di tempo, e altre decine di milioni potrebbero fare lo stesso se si aggraverà la “guerra commerciale” di tutti contro tutti.
La reazione di May, Macron e Merkel è dunque la classica faccia arrabbiata obbligata, ma ben poco convinta. Un alzare la voce sperando che il cane feroce si fermi, ma senza grossi strumenti per affrontarlo, se dovesse venire ancora avanti.
Fonte
Tutti e tra sono tornati da Washington con le pive nel sacco: Donand Trump non ha dato alcuna rassicurazione sull’esenzione dei loro paesi e dell’intera Unione Europea dai dazi che domani il presidente col ciuffo firmerà; intanto su alluminio e acciaio, poi si vedrà.
Messi di fronte all’evidenza – l’America di Trump ritiene di poter fare accordi più vantaggiosi trattando su basi di forza e separatamente con i singoli paesi – i tre, senza neanche perdere tempo a convocare “istituzioni europee” che contano soltanto quando c’è da bastonare i paesi minori, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui minacciano “reazioni proporzionate” all’introduzione di dazi sulle merci europee: «Gli Usa non devono prendere alcuna misura commerciale contro l’Ue, altrimenti l’Ue sarà pronta a difendere i propri interessi nel quadro delle regole del commercio multilaterale».
Ma ha poche frecce al proprio arco. Costruita – grazie alla leadership tedesca – come una macchina mercantilistica classica (salari interni bloccati o ridotti per acquisire un grosso vantaggio competitivo sulle esportazioni industriali di livello medio-alto verso i mercati Usa e cinesi), la Ue è quella che più ha da perdere in una vera guerra commerciale. Perché il grosso del suo mercato interno è stato nel frattempo pauperizzato e sfamato con merci asiatiche dai prezzi imbattibili. Cambiare modello in corsa è quasi impossibile, se c’è ancora chi ci guadagna molto (Berlino).
Finiti, e da un pezzo, i fasti della globalizzazione a guida Usa, ora è la fase delle guerre: commerciali, monetarie, militari. In cui le alleanze sono labili, occasionali, rivedibili.
L’Unione Europea non è l’attore principale del grande gioco geopolitico in atto. Costruita come un mercato unico senza uno Stato propriamente detto, capace di sanzionare i membri che disattendono le sue indicazioni (sta per scattare una nuova modalità che consente di bloccare i fondi europei a quegli Stati che non “riformano il mercato del lavoro” nel modo richiesto), senza un esercito né una volontà comune, tantomeno con un qualsiasi consenso popolare, la UE è una potenza impotente verso l’esterno.
Gli attori principali sono tre, e a quelli pensano gli Stati Uniti quando fanno i calcoli globali: Russia e Cina sono i competitor dell’immediato futuro, tutti gli altri sono pedine aggiuntive – non tanto “alleati” – che possono essere usate per determinati obiettivi (attaccare la Siria o chiunque altro) e sacrificate per altri (difendere a colpi di dazi protezionistici la residua capacità produttiva yankee).
Anche sul piano dell’innovazione hi-tech, infatti, gli Usa hanno scoperto di recente di essere vicini al sorpasso da parte di aziende cinesi, specie sulla frontiera del 5G (nuovo protocollo di comunicazione telefonica che dovrebbe superare di molto l’ormai “vecchio” 4G) e dei processori, fino a poco tempo fa appannaggio pressoché esclusivo di multinazionali Usa.
Anche la supremazia tuttora vantata nei social network e dintorni è fortemente a rischio. Nuove piattaforme – anche qui russe e cinesi – si vanno affermando nei mercati “nazionali” o di area, con decine di milioni di utenti che non hanno più bisogno di passare per Facebook, Google o Whatsapp. E’ solo questione di tempo, e altre decine di milioni potrebbero fare lo stesso se si aggraverà la “guerra commerciale” di tutti contro tutti.
La reazione di May, Macron e Merkel è dunque la classica faccia arrabbiata obbligata, ma ben poco convinta. Un alzare la voce sperando che il cane feroce si fermi, ma senza grossi strumenti per affrontarlo, se dovesse venire ancora avanti.
Fonte
29/04/2018
"Gioventù ribelle" e cecchini. Israele Bombarda Gaza
di Michele Giorgio – il Manifesto
Il venerdì della “Gioventù ribelle”, chiamato così per «onorare», hanno spiegato gli organizzatori, «le migliaia di giovani che protestano ogni settimana lungo la barriera di confine», è terminato con un nuovo bagno di sangue. Tre palestinesi – Bakr Abdel Salam, 29 anni, Mohammed al Muqid, 21 anni e un terzo ieri sera non ancora identificato – sono stati uccisi e altre centinaia feriti dai colpi di arma da fuoco e dai gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani schierati lungo le linee di demarcazione con Gaza. Si sono vissute le stesse scene drammatiche dei venerdì precedenti. Con i morti e feriti portati via di corsa da giovani con la disperazione dipinta sul volto e le ambulanze che hanno fatto la spola tra gli accampamenti della “Grande Marcia del Ritorno” e gli ospedali. Tra i feriti ci sono anche una donna di 50 anni colpita alla testa e due giornalisti.
Appena qualche ora prima Nikolai Mladenov, inviato speciale dell’Onu per il Medio Oriente, aveva lanciato un avvertimento. «Gaza sta per esplodere» ha detto, sottolineando che il blocco israeliano da dieci anni strangola Gaza e i suoi due milioni di abitanti. «Quello che sta accadendo a Gaza è una ingiustizia con cui nessun uomo, nessuna donna e nessun bambino dovrebbe fare i conti – ha denunciato l’inviato dell’Onu –. Le persone non dovrebbero essere condannate a vivere circondate da barriere che non gli è permesso attraversare o acque che non possono navigare».
Mladenov non ha rivolto critiche solo a Israele. Ha esortato Hamas a tenere conto di più dei bisogni della popolazione sotto il suo controllo. Ieri i leader del movimento islamico erano negli accampamenti della “Grande Marcia del Ritorno”, per il rituale bagno di folla e si sono tenuti ben lontani dalle barriere con Israele. Il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, nei giorni scorsi aveva assicurato che le proteste, diversamente da quanto annunciato in precedenza, continueranno dopo il 15 maggio, il giorno in cui i palestinesi commemorano la Nakba che quest’anno coincide con l’inizio del Ramadan islamico.
Il momento più critico ieri si è vissuto lungo le recinzioni a est di Gaza city. Un nutrito gruppo di giovani ha raggiunto le barriere provando a superarle. «Non è chiaro se alcuni di loro siano effettivamente passati sull’altro versante, quattro di loro potrebbero averlo fatto. La reazione dei soldati israeliani è stata durissima. Hanno fatto fuoco a volontà su quei ragazzi disarmati, uccidendone alcuni e ferendone tanti altri» riferiva ieri al manifesto il giornalista Safwat Kahlout che si trovava in quella zona.
Quei giovani palestinesi per il portavoce militare israeliano, Jonathan Conricus, erano soltanto dei «facinorosi» che «hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie con l’intenzione di sfondare i reticolati di confine e appiccare il fuoco ma sono stati respinti». Ha precisato che i soldati hanno aperto il fuoco «secondo le regole di ingaggio» che, evidentemente, prevedono l’apertura del fuoco contro i palestinesi anche se sono disarmati. Ieri sera l’Egitto, che con le sue politiche di chiusura contribuisce al blocco di Gaza, ha annunciato – qualcuno sostiene per stemperare la tensione – l’apertura del valico di Rafah, in entrambe le direzioni, per tre giorni a partire da oggi.
Negli ultimi tre anni, il transito di Rafah, l’unica porta di Gaza sul mondo arabo, è rimasto chiuso per la gran parte del tempo per presunte ragioni di sicurezza.
Intanto la questione di Gerusalemme e del suo riconoscimento come capitale di Israele in violazione delle risoluzioni internazionali, sta provocando una profonda crisi politica in Romania. Il capo dello stato, Klaus Iohannis, ha invitato alle dimissioni il primo ministro, Viorica Dancila, dopo la decisione del premier di spostare a Gerusalemme l’ambasciata ora a Tel Aviv. «La signora Dancila non è all’altezza del compito di primo ministro della Romania e di conseguenza il governo sta diventando un peso per la Romania», ha detto Iohannis denunciando di non essere stato informato del memorandum segreto con cui il governo si prepara a seguire i passi di Donald Trump su Gerusalemme.
Mercoledì Dancila era volata in Israele su invito del premier Netanyahu informando solo all’ultimo momento il presidente che invece resta fedele alla linea dell’Ue su Gerusalemme contraria all’annessione di tutta la città a Israele.
Aggiornamenti
Ore 7 Israele bombarda Gaza, 4 feriti
L’aviazione israeliana ha colpito nella zona del porto di Gaza presunte imbarcazioni della “Marina militare” di Hamas perché ieri i manifestanti palestinesi hanno cercato di superare le barriere di demarcazione tra Gaza e Israele. Fonti non ufficiali riferiscono di 4 feriti.
Ore 7.45 Deceduto un 15enne ferito ieri dai soldati israeliani
Con la morte durante la notte del ferito Hilal Ewida, 15 anni, sale a 4 il numero dei palestinesi uccisi dall’esercito israeliano lungo le linee di demarcazione con la Striscia di Gaza nel quinto venerdì della Grande Marcia del Ritorno. Dal 30 marzo sono stati uccisi almeno 45 palestinesi. I feriti sono migliaia.
Fonte
Il venerdì della “Gioventù ribelle”, chiamato così per «onorare», hanno spiegato gli organizzatori, «le migliaia di giovani che protestano ogni settimana lungo la barriera di confine», è terminato con un nuovo bagno di sangue. Tre palestinesi – Bakr Abdel Salam, 29 anni, Mohammed al Muqid, 21 anni e un terzo ieri sera non ancora identificato – sono stati uccisi e altre centinaia feriti dai colpi di arma da fuoco e dai gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani schierati lungo le linee di demarcazione con Gaza. Si sono vissute le stesse scene drammatiche dei venerdì precedenti. Con i morti e feriti portati via di corsa da giovani con la disperazione dipinta sul volto e le ambulanze che hanno fatto la spola tra gli accampamenti della “Grande Marcia del Ritorno” e gli ospedali. Tra i feriti ci sono anche una donna di 50 anni colpita alla testa e due giornalisti.
Appena qualche ora prima Nikolai Mladenov, inviato speciale dell’Onu per il Medio Oriente, aveva lanciato un avvertimento. «Gaza sta per esplodere» ha detto, sottolineando che il blocco israeliano da dieci anni strangola Gaza e i suoi due milioni di abitanti. «Quello che sta accadendo a Gaza è una ingiustizia con cui nessun uomo, nessuna donna e nessun bambino dovrebbe fare i conti – ha denunciato l’inviato dell’Onu –. Le persone non dovrebbero essere condannate a vivere circondate da barriere che non gli è permesso attraversare o acque che non possono navigare».
Mladenov non ha rivolto critiche solo a Israele. Ha esortato Hamas a tenere conto di più dei bisogni della popolazione sotto il suo controllo. Ieri i leader del movimento islamico erano negli accampamenti della “Grande Marcia del Ritorno”, per il rituale bagno di folla e si sono tenuti ben lontani dalle barriere con Israele. Il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, nei giorni scorsi aveva assicurato che le proteste, diversamente da quanto annunciato in precedenza, continueranno dopo il 15 maggio, il giorno in cui i palestinesi commemorano la Nakba che quest’anno coincide con l’inizio del Ramadan islamico.
Il momento più critico ieri si è vissuto lungo le recinzioni a est di Gaza city. Un nutrito gruppo di giovani ha raggiunto le barriere provando a superarle. «Non è chiaro se alcuni di loro siano effettivamente passati sull’altro versante, quattro di loro potrebbero averlo fatto. La reazione dei soldati israeliani è stata durissima. Hanno fatto fuoco a volontà su quei ragazzi disarmati, uccidendone alcuni e ferendone tanti altri» riferiva ieri al manifesto il giornalista Safwat Kahlout che si trovava in quella zona.
Quei giovani palestinesi per il portavoce militare israeliano, Jonathan Conricus, erano soltanto dei «facinorosi» che «hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie con l’intenzione di sfondare i reticolati di confine e appiccare il fuoco ma sono stati respinti». Ha precisato che i soldati hanno aperto il fuoco «secondo le regole di ingaggio» che, evidentemente, prevedono l’apertura del fuoco contro i palestinesi anche se sono disarmati. Ieri sera l’Egitto, che con le sue politiche di chiusura contribuisce al blocco di Gaza, ha annunciato – qualcuno sostiene per stemperare la tensione – l’apertura del valico di Rafah, in entrambe le direzioni, per tre giorni a partire da oggi.
Negli ultimi tre anni, il transito di Rafah, l’unica porta di Gaza sul mondo arabo, è rimasto chiuso per la gran parte del tempo per presunte ragioni di sicurezza.
Intanto la questione di Gerusalemme e del suo riconoscimento come capitale di Israele in violazione delle risoluzioni internazionali, sta provocando una profonda crisi politica in Romania. Il capo dello stato, Klaus Iohannis, ha invitato alle dimissioni il primo ministro, Viorica Dancila, dopo la decisione del premier di spostare a Gerusalemme l’ambasciata ora a Tel Aviv. «La signora Dancila non è all’altezza del compito di primo ministro della Romania e di conseguenza il governo sta diventando un peso per la Romania», ha detto Iohannis denunciando di non essere stato informato del memorandum segreto con cui il governo si prepara a seguire i passi di Donald Trump su Gerusalemme.
Mercoledì Dancila era volata in Israele su invito del premier Netanyahu informando solo all’ultimo momento il presidente che invece resta fedele alla linea dell’Ue su Gerusalemme contraria all’annessione di tutta la città a Israele.
Aggiornamenti
Ore 7 Israele bombarda Gaza, 4 feriti
L’aviazione israeliana ha colpito nella zona del porto di Gaza presunte imbarcazioni della “Marina militare” di Hamas perché ieri i manifestanti palestinesi hanno cercato di superare le barriere di demarcazione tra Gaza e Israele. Fonti non ufficiali riferiscono di 4 feriti.
Ore 7.45 Deceduto un 15enne ferito ieri dai soldati israeliani
Con la morte durante la notte del ferito Hilal Ewida, 15 anni, sale a 4 il numero dei palestinesi uccisi dall’esercito israeliano lungo le linee di demarcazione con la Striscia di Gaza nel quinto venerdì della Grande Marcia del Ritorno. Dal 30 marzo sono stati uccisi almeno 45 palestinesi. I feriti sono migliaia.
Fonte
Italia: oltre 300 000 donne madri, sole e a rischio di povertà
È uscito qualche giorno fa sul Sole 24 ore un report che fa il punto sulla condizione di una particolare categoria di lavoratrici, quella delle “mamme che vivono da sole”.
Il rapporto segnala che sono un milione e 34 mila in Italia le famiglie monogenitoriali, e di queste, quasi un milione sono donne, che vivono con almeno un minore a carico (quasi il 40% con 2 figli a carico e il 9% con ben 3 figli). Una condizione, secondo l’ISTAT, che è in crescita esponenziale dagli ultimi decenni.
Rispetto al passato aumentano le madri single, anche se diminuisce il numero di figli a loro carico, in continuità con il dato generale per cui “la gente non fa più figli”.
Rispetto agli anni '80 probabilmente la consapevolezza dell’emancipazione, ma anche la consapevolezza della maternità, e le difficoltà economiche che si affrontano per crescere un figlio, fa gioco forza nella diminuzione del numero di minori a carico, ma i dati sulla condizione sociale che le donne madri sole si ritrovano a vivere è abbastanza allarmante. Oggi avere un figlio, e non avere un welfare adeguato per sostenere la sua crescita in modo dignitoso, non è più un dovere dello Stato, anzi, per il libero mercato sta diventando un peso, un “costo” da ridurre.
Come vivono queste donne? Secondo l’ISTAT almeno due terzi di esse lavorano, ma il dato interessante è che rispetto a 10 anni fa, questa percentuale si è abbassata, mentre è in aumento quella delle donne madri single in cerca di lavoro e che non riescono a trovarlo. Di certo, la recente sentenza della Corte di giustizia europea che avalla la possibilità per le aziende di licenziare donne in gravidanza non aiuta la situazione, già difficile, di una donna madre che può contare solo su se stessa, anzi. La donna-madre-lavoratrice diventa un peso morto che si può e si deve sacrificare in nome del profitto.
Alle donne disoccupate o casalinghe, o a quelle in cerca di lavoro, lo Stato offre sperimentalmente un “premio alla nascita”, che per quest’anno è di 800 euro, un bonus natalità per due anni (di 80 o 160 euro al mese a secondo dell’Isee), un bonus asilo nido, i cui fondi però vengono rinnovati ogni anno... finché ci sono.
E’ facile capire che con un welfare pressoché inesistente, in cui tutto si paga, dalla maternità, all’asilo, alla scuola alle attività sportive e di doposcuola, molte di queste donne preferiscano (o siano portate a preferire) un lavoro part-time, per dividersi tra la necessità di avere un reddito e di accudire anche un figlio.
Il risultato allarmante riportato anche dal Sole 24 ore, è che il 43,7% di queste donne (e di conseguenza pure la prole) è a rischio di povertà o di esclusione sociale (contro il 29.3% delle donne che vivono in coppia), e ben l’11.8% vive in condizioni di povertà assoluta. Si tratta di più di 300.000 donne nel primo caso, e di quasi 100.000 nel secondo.
Tutto ciò esprime una condizione sociale che è ben più che allarmante e che nel prossimo futuro potrebbe rischiare di peggiorare. Una condizione assai lontana dall’essere una questione di autodeterminazione della donna, che decida consciamente o inconsciamente come vivere la sua vita e la sua funzione riproduttiva. L’abbandono di qualsiasi forma di sostegno alla famiglia da parte dello Stato, tanto più se monogenitoriale, sta creando delle sacche di povertà sempre maggiori, ma soprattutto è destinata a creare un vortice che coinvolgerà con larghe possibilità anche le generazioni future. Dietro questi dati, quello che si sta esprimendo è un altro lato oscuro della guerra di classe in atto (dall’alto) in questa fase storica, in cui se sei povero o sei in difficoltà, non potrai che diventare più povero e più in difficoltà.
Fonte
Il rapporto segnala che sono un milione e 34 mila in Italia le famiglie monogenitoriali, e di queste, quasi un milione sono donne, che vivono con almeno un minore a carico (quasi il 40% con 2 figli a carico e il 9% con ben 3 figli). Una condizione, secondo l’ISTAT, che è in crescita esponenziale dagli ultimi decenni.
Rispetto al passato aumentano le madri single, anche se diminuisce il numero di figli a loro carico, in continuità con il dato generale per cui “la gente non fa più figli”.
Rispetto agli anni '80 probabilmente la consapevolezza dell’emancipazione, ma anche la consapevolezza della maternità, e le difficoltà economiche che si affrontano per crescere un figlio, fa gioco forza nella diminuzione del numero di minori a carico, ma i dati sulla condizione sociale che le donne madri sole si ritrovano a vivere è abbastanza allarmante. Oggi avere un figlio, e non avere un welfare adeguato per sostenere la sua crescita in modo dignitoso, non è più un dovere dello Stato, anzi, per il libero mercato sta diventando un peso, un “costo” da ridurre.
Come vivono queste donne? Secondo l’ISTAT almeno due terzi di esse lavorano, ma il dato interessante è che rispetto a 10 anni fa, questa percentuale si è abbassata, mentre è in aumento quella delle donne madri single in cerca di lavoro e che non riescono a trovarlo. Di certo, la recente sentenza della Corte di giustizia europea che avalla la possibilità per le aziende di licenziare donne in gravidanza non aiuta la situazione, già difficile, di una donna madre che può contare solo su se stessa, anzi. La donna-madre-lavoratrice diventa un peso morto che si può e si deve sacrificare in nome del profitto.
Alle donne disoccupate o casalinghe, o a quelle in cerca di lavoro, lo Stato offre sperimentalmente un “premio alla nascita”, che per quest’anno è di 800 euro, un bonus natalità per due anni (di 80 o 160 euro al mese a secondo dell’Isee), un bonus asilo nido, i cui fondi però vengono rinnovati ogni anno... finché ci sono.
E’ facile capire che con un welfare pressoché inesistente, in cui tutto si paga, dalla maternità, all’asilo, alla scuola alle attività sportive e di doposcuola, molte di queste donne preferiscano (o siano portate a preferire) un lavoro part-time, per dividersi tra la necessità di avere un reddito e di accudire anche un figlio.
Il risultato allarmante riportato anche dal Sole 24 ore, è che il 43,7% di queste donne (e di conseguenza pure la prole) è a rischio di povertà o di esclusione sociale (contro il 29.3% delle donne che vivono in coppia), e ben l’11.8% vive in condizioni di povertà assoluta. Si tratta di più di 300.000 donne nel primo caso, e di quasi 100.000 nel secondo.
Tutto ciò esprime una condizione sociale che è ben più che allarmante e che nel prossimo futuro potrebbe rischiare di peggiorare. Una condizione assai lontana dall’essere una questione di autodeterminazione della donna, che decida consciamente o inconsciamente come vivere la sua vita e la sua funzione riproduttiva. L’abbandono di qualsiasi forma di sostegno alla famiglia da parte dello Stato, tanto più se monogenitoriale, sta creando delle sacche di povertà sempre maggiori, ma soprattutto è destinata a creare un vortice che coinvolgerà con larghe possibilità anche le generazioni future. Dietro questi dati, quello che si sta esprimendo è un altro lato oscuro della guerra di classe in atto (dall’alto) in questa fase storica, in cui se sei povero o sei in difficoltà, non potrai che diventare più povero e più in difficoltà.
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Quasi 3500 morti sul lavoro all’anno nella Ue, più di un terzo in Italia
Un dossier dell’Eurostat ha reso noti i dati sugli incidenti mortali sul lavoro nell’Unione europea. Nel 2015, si legge nel rapporto, gli incidenti fatali sul lavoro sono stati 3.497, di questi ben 1247 sono avvenuti nel nostro paese, più di un terzo. L’Italia supera la media Ue con oltre 3 morti ogni 100mila lavoratori contro la media Ue di 2,4 morti sul lavoro su 100mila. Il 2015 è stato un anno in cui in Italia si è assistito ad un brusco aumento delle morti sul lavoro rispetto all’anno precedente.
A rendere ancora più pesante la situazione c’è il fatto che le statistiche dell’INAIL non tengono conto, ad esempio, dei lavoratori assicurati con altri istituti, delle partite IVA individuali e, ovviamente, dell’economia sommersa, che soprattutto nell’edilizia e in agricoltura rappresenta un fenomeno non certo marginale.
Nella desolante classifica, il tasso stabilizzato di infortuni mortali è più basso in Norvegia (0,8 su 100mila lavoratori), Svezia (1,2), Germania (1,3), Danimarca (1,4), Cipro (1,5) e Gran Bretagna (1,6); mentre la maglia nera va a Romania (7,5), seguita da Portogallo (4,6), Lussemburgo (4,4), Bulgaria e Lituania (4,3 ciascuno).
Secondo le statistiche europee sugli infortuni sul lavoro (ESAW), spiega Eurostat, “incidenti mortali” sono definiti come quelli che portano alla morte della vittima entro un anno dopo che l’incidente ha avuto luogo. In termini più generali, un infortunio sul lavoro è definito come un evento nel corso del lavoro, che causa un danno fisico o mentale della persona interessata.
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A rendere ancora più pesante la situazione c’è il fatto che le statistiche dell’INAIL non tengono conto, ad esempio, dei lavoratori assicurati con altri istituti, delle partite IVA individuali e, ovviamente, dell’economia sommersa, che soprattutto nell’edilizia e in agricoltura rappresenta un fenomeno non certo marginale.
Nella desolante classifica, il tasso stabilizzato di infortuni mortali è più basso in Norvegia (0,8 su 100mila lavoratori), Svezia (1,2), Germania (1,3), Danimarca (1,4), Cipro (1,5) e Gran Bretagna (1,6); mentre la maglia nera va a Romania (7,5), seguita da Portogallo (4,6), Lussemburgo (4,4), Bulgaria e Lituania (4,3 ciascuno).
Secondo le statistiche europee sugli infortuni sul lavoro (ESAW), spiega Eurostat, “incidenti mortali” sono definiti come quelli che portano alla morte della vittima entro un anno dopo che l’incidente ha avuto luogo. In termini più generali, un infortunio sul lavoro è definito come un evento nel corso del lavoro, che causa un danno fisico o mentale della persona interessata.
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I comunisti tornino ad essere “movimento reale”
Qualche volta occorre partire dalle domande e il forum tenutosi sabato a Roma, promosso dalla Rete dei Comunisti, ne ha proposte alla discussione almeno cinque: Il partito comunista di massa ha ancora senso ed efficacia? Le profonde modifiche della composizione di classe che conseguenze hanno prodotto nella società e nel blocco sociale antagonista? Quale funzione ed impegno dei comunisti nella rappresentanza politica? Quale movimento sindacale opponiamo al patto sociale neocorporativo? Quali conflitti, quali movimenti e quali organizzazioni sociali/sindacali sono più efficaci nella dimensione metropolitana?
Intorno a tali questioni si è sviluppata la discussione che ha visto diversi interventi misurarcisi in modo pertinente. I lavori del forum sono stati introdotti da due comunicazioni di Giampiero Simonetto e Michele Franco della Rete dei Comunisti.
La prima ha riassunto l’elaborazione della RdC intorno ai tre fronti (strategico, politico, sociale) su cui concepire una organizzazione comunista nel XXI Secolo e in un paese a capitalismo avanzato, una ipotesi per recuperare la sintesi che la crisi del movimento comunista apertasi nel ’91 e il logoramento dell’esperienza dei partiti comunisti di massa ha via via perduto. “Occorre riaprire il dibattito su quale deve essere l’approccio dei comunisti affinché la battaglia strategica per la rottura si relazioni con la rappresentanza politica dei settori sociali, con il momento elettorale e con le vertenze e le lotte che attraversano il blocco sociale, è fondamentale per non riprodurre modelli e ipotesi politiche e organizzative che crediamo siano state superate nei fatti”. Simonetto ha anche sottolineato come la partecipazione della RdC attraverso la Piattaforma Eurostop alla lista Potere al Popolo abbia permesso di fare un passaggio nello sviluppo pratico della strategia dei tre fronti, anche durante la campagna elettorale.
La seconda comunicazione ha presentato l’ultimo numero della rivista Contropiano appena uscito. Questo numero è dedicato a “La Ragione e la Forza” come sintesi dialettica tra un punto di vista strategico dei comunisti e la loro capacità di renderlo organizzazione concreta, politica e sociale. In esso sono contenute le relazioni di un seminario della Rete dei Comunisti sulle questioni attinenti questa ambizione a ricomporre una sintesi possibile, e un documento sulla questione sindacale, decisiva nella funzione di massa dei comunisti.
L’ultimo numero di Contropiano in realtà è la prosecuzione di un percorso di elaborazione prodotto nei due numeri precedenti, uno dedicato alla questione che Gramsci inquadrava come “Il vecchio che muore ma un nuovo che stenta a nascere” e l’altro alla competizione globale interimperialista in corso e al posizionamento dei comunisti sulla “questione nazionale”.
Dare conto del serrato dibattito svolto è complicato in un report sintetico, per cui ci limiteremo ad evidenziare alcuni incipit dei compagni che hanno animato la discussione e rimandiamo alle relazioni che i compagni ci faranno avere e che pubblicheremo sul nostro giornale.
Il primo intervento è stato di Giorgio Cremaschi, il quale ha sostenuto che, di fronte all’evidente crisi di via d’uscita del capitalismo, il bisogno di comunismo sia più forte che in passato ma come esso stenti a ridiventare “movimento reale che supera e distrugge lo stato delle cose presenti”. In tal senso ha confermato la necessità di svolgere una “funzione utile” nelle pieghe del conflitto anche attraverso esperienze e sperimentazioni come Eurostop e l’aggregazione di Potere al Popolo.
Sono poi intervenuti Alessandro Hobel, della segreteria del PCI, il quale è entrato nel merito degli interrogativi che la RdC ha posto nel documento di convocazione di questo appuntamento di discussione registrando molti punti di assonanza politica non solo sugli svolti immediati attinenti le dinamiche di lotta e di mobilitazione ma anche sul versante dei punti identitari e programmatici necessari per ricostruire e riqualificare una moderna opzione comunista nel nostro paese.
Guido Lutrario, dell’esecutivo nazionale dell’USB, nel denunciare l’ulteriore stretta repressiva che si sta profilando sul terreno della contrattazione sociale e sindacale ha sottolineato la nuova dimensione “politica” che – di fatto – assumono questioni e temi che fino a pochi anni fa erano interpretate come “puramente sindacali”. Da qui la necessità di un approccio più compiutamente generale all’intero arco delle contraddizioni che afferiscono alla variegata gamma con cui si profilano le attuali forme dello sfruttamento in tutti i luoghi della produzione e della circolazione. In tale contesto i comunisti possono e devono offrire il loro contributo politico/pratico per far avanzare questa nuova dimensione politica che deve rappresentare la cornice analitica dentro cui collocare la forma sindacale che serve e tutte le esperienze di confederalità sociale.
Francesco Tirro, dell’ ex Opg di Napoli, ha interloquito con i ragionamenti avanzati dalla RdC partendo dall’esperienza concreta che, da anni, l’Opg mette in campo nell’area partenopea ma anche con quanto elaborato e vissuto nella recente campagna elettorale di Potere al Popolo. Temi come il mutualismo e come le inedite forme di aggregazione di lavoratori dispersi nei circuiti produttivi metropolitani intrecciate a momenti di condivisone culturale, aggregativa e comunitaria sono un cimento concreto con cui l’Opg si sta misurando e che, a detta di questi compagni, sono una pratica utile per una soggettività comunista che è spesso stata separata dal blocco sociale.
Massimo Amore, del Laboratorio Comunista Casamatta, nel ripercorrere la storia recente ed il dibattito sulle forme di organizzazione dei comunisti ha messo in guardia da ogni suggestione gradualistica che potrebbe inficiare il processo di costruzione del Partito Comunista.
Jacopo Renda, di Sinistra Classe Rivoluzione, nel delineare un quadro della catastrofe del riformismo nell’intero spazio europeo ha voluto evidenziare alcune oscillazioni politiche che, a suo dire, Potere al Popolo ha incarnato nel corso della campagna elettorale le quali deriverebbero da un bilancio dell’operato dell’Unione Europea ancora ambiguo su aspetti come la sua accertata irriformabilità. In questo quadro per Renda esperienze come Podemos o come France Insoumise rappresenterebbero il precipitato di suggestioni populiste sganciate da un ancoraggio di classe.
Francesco Piccioni (Contropiano) si è soffermato sui concetti di senso ed efficacia quando si affronta la questione dell’organizzazione comunista adeguata alla sfide che si trovano davanti “qui ed ora”.
Mauro Casadio della RdC, ha tirato in qualche modo le conclusioni valorizzando la discussione sviluppata la quale, se affrontata con metodo e sistematicità, serve ad una esigenza collettiva di inquadramento analitico e di orientamento politico per i compagni e gli attivisti tutti. Un compito, questo, che la RdC svolge da anni anche attraverso momenti specifici di dibattito e con la costruzione unitaria di ambiti di ricerca e confronto collettivo (vedi il Forum della primavera scorsa “Fattore K” e l’omonima rubrica aperta sul quotidiano on line Contropiano.Org).
Non essendo un Convegno ma un Forum la discussione svolta non è approdata a sintesi definitive ma, a detta di tutti i convenuti, ha espresso un buon livello di approfondimento delle questioni e, soprattutto, ha registrato un afflato unitario e sereno il quale, alla luce degli immani compiti teorici e politici che i comunisti hanno di fronte, è un buon viatico per il prossimo futuro.
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Intorno a tali questioni si è sviluppata la discussione che ha visto diversi interventi misurarcisi in modo pertinente. I lavori del forum sono stati introdotti da due comunicazioni di Giampiero Simonetto e Michele Franco della Rete dei Comunisti.
La prima ha riassunto l’elaborazione della RdC intorno ai tre fronti (strategico, politico, sociale) su cui concepire una organizzazione comunista nel XXI Secolo e in un paese a capitalismo avanzato, una ipotesi per recuperare la sintesi che la crisi del movimento comunista apertasi nel ’91 e il logoramento dell’esperienza dei partiti comunisti di massa ha via via perduto. “Occorre riaprire il dibattito su quale deve essere l’approccio dei comunisti affinché la battaglia strategica per la rottura si relazioni con la rappresentanza politica dei settori sociali, con il momento elettorale e con le vertenze e le lotte che attraversano il blocco sociale, è fondamentale per non riprodurre modelli e ipotesi politiche e organizzative che crediamo siano state superate nei fatti”. Simonetto ha anche sottolineato come la partecipazione della RdC attraverso la Piattaforma Eurostop alla lista Potere al Popolo abbia permesso di fare un passaggio nello sviluppo pratico della strategia dei tre fronti, anche durante la campagna elettorale.
La seconda comunicazione ha presentato l’ultimo numero della rivista Contropiano appena uscito. Questo numero è dedicato a “La Ragione e la Forza” come sintesi dialettica tra un punto di vista strategico dei comunisti e la loro capacità di renderlo organizzazione concreta, politica e sociale. In esso sono contenute le relazioni di un seminario della Rete dei Comunisti sulle questioni attinenti questa ambizione a ricomporre una sintesi possibile, e un documento sulla questione sindacale, decisiva nella funzione di massa dei comunisti.
L’ultimo numero di Contropiano in realtà è la prosecuzione di un percorso di elaborazione prodotto nei due numeri precedenti, uno dedicato alla questione che Gramsci inquadrava come “Il vecchio che muore ma un nuovo che stenta a nascere” e l’altro alla competizione globale interimperialista in corso e al posizionamento dei comunisti sulla “questione nazionale”.
Dare conto del serrato dibattito svolto è complicato in un report sintetico, per cui ci limiteremo ad evidenziare alcuni incipit dei compagni che hanno animato la discussione e rimandiamo alle relazioni che i compagni ci faranno avere e che pubblicheremo sul nostro giornale.
Il primo intervento è stato di Giorgio Cremaschi, il quale ha sostenuto che, di fronte all’evidente crisi di via d’uscita del capitalismo, il bisogno di comunismo sia più forte che in passato ma come esso stenti a ridiventare “movimento reale che supera e distrugge lo stato delle cose presenti”. In tal senso ha confermato la necessità di svolgere una “funzione utile” nelle pieghe del conflitto anche attraverso esperienze e sperimentazioni come Eurostop e l’aggregazione di Potere al Popolo.
Sono poi intervenuti Alessandro Hobel, della segreteria del PCI, il quale è entrato nel merito degli interrogativi che la RdC ha posto nel documento di convocazione di questo appuntamento di discussione registrando molti punti di assonanza politica non solo sugli svolti immediati attinenti le dinamiche di lotta e di mobilitazione ma anche sul versante dei punti identitari e programmatici necessari per ricostruire e riqualificare una moderna opzione comunista nel nostro paese.
Guido Lutrario, dell’esecutivo nazionale dell’USB, nel denunciare l’ulteriore stretta repressiva che si sta profilando sul terreno della contrattazione sociale e sindacale ha sottolineato la nuova dimensione “politica” che – di fatto – assumono questioni e temi che fino a pochi anni fa erano interpretate come “puramente sindacali”. Da qui la necessità di un approccio più compiutamente generale all’intero arco delle contraddizioni che afferiscono alla variegata gamma con cui si profilano le attuali forme dello sfruttamento in tutti i luoghi della produzione e della circolazione. In tale contesto i comunisti possono e devono offrire il loro contributo politico/pratico per far avanzare questa nuova dimensione politica che deve rappresentare la cornice analitica dentro cui collocare la forma sindacale che serve e tutte le esperienze di confederalità sociale.
Francesco Tirro, dell’ ex Opg di Napoli, ha interloquito con i ragionamenti avanzati dalla RdC partendo dall’esperienza concreta che, da anni, l’Opg mette in campo nell’area partenopea ma anche con quanto elaborato e vissuto nella recente campagna elettorale di Potere al Popolo. Temi come il mutualismo e come le inedite forme di aggregazione di lavoratori dispersi nei circuiti produttivi metropolitani intrecciate a momenti di condivisone culturale, aggregativa e comunitaria sono un cimento concreto con cui l’Opg si sta misurando e che, a detta di questi compagni, sono una pratica utile per una soggettività comunista che è spesso stata separata dal blocco sociale.
Massimo Amore, del Laboratorio Comunista Casamatta, nel ripercorrere la storia recente ed il dibattito sulle forme di organizzazione dei comunisti ha messo in guardia da ogni suggestione gradualistica che potrebbe inficiare il processo di costruzione del Partito Comunista.
Jacopo Renda, di Sinistra Classe Rivoluzione, nel delineare un quadro della catastrofe del riformismo nell’intero spazio europeo ha voluto evidenziare alcune oscillazioni politiche che, a suo dire, Potere al Popolo ha incarnato nel corso della campagna elettorale le quali deriverebbero da un bilancio dell’operato dell’Unione Europea ancora ambiguo su aspetti come la sua accertata irriformabilità. In questo quadro per Renda esperienze come Podemos o come France Insoumise rappresenterebbero il precipitato di suggestioni populiste sganciate da un ancoraggio di classe.
Francesco Piccioni (Contropiano) si è soffermato sui concetti di senso ed efficacia quando si affronta la questione dell’organizzazione comunista adeguata alla sfide che si trovano davanti “qui ed ora”.
Mauro Casadio della RdC, ha tirato in qualche modo le conclusioni valorizzando la discussione sviluppata la quale, se affrontata con metodo e sistematicità, serve ad una esigenza collettiva di inquadramento analitico e di orientamento politico per i compagni e gli attivisti tutti. Un compito, questo, che la RdC svolge da anni anche attraverso momenti specifici di dibattito e con la costruzione unitaria di ambiti di ricerca e confronto collettivo (vedi il Forum della primavera scorsa “Fattore K” e l’omonima rubrica aperta sul quotidiano on line Contropiano.Org).
Non essendo un Convegno ma un Forum la discussione svolta non è approdata a sintesi definitive ma, a detta di tutti i convenuti, ha espresso un buon livello di approfondimento delle questioni e, soprattutto, ha registrato un afflato unitario e sereno il quale, alla luce degli immani compiti teorici e politici che i comunisti hanno di fronte, è un buon viatico per il prossimo futuro.
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28/04/2018
Il 25 aprile che ci vuole, ogni giorno
In piazza. Questa mattina. Il mio pippone del venticinque aprile.
Commemorare la Resistenza, nel 2018, senza cadere nella retorica celebrativa è piuttosto difficile.
Intendiamoci, non c’è nulla di male nella retorica celebrativa, ma quando ho chiesto al nostro Presidente ANPI di avere l’onere, per quest’anno, di tenere il discorso ufficiale in occasione del 25 aprile, l’ho fatto con l’obiettivo di non salire qua sopra solo per recitare l’agonia dei buoni sentimenti e dei valori astratti che hanno ispirato i nostri padri costituenti eccetera eccetera.
Non vi parlerò neppure dei fascisti cattivi con le svastiche tatuate, il culto del corpo e la scarpe alla moda.
Certo, faremmo bene a fare attenzione a non assuefarci alle dosi neppure troppo omeopatiche di aggressioni, intimidazioni e provocazioni diluite ormai nella quotidianità delle nostre tranquille esistenze.
Di questi coglioni che inneggiano al duce, all’autarchia ed al becero nazionalismo ce ne sono, ce ne saranno ancora e, soprattutto, ce ne sono sempre stati.
E sono anche facili da riconoscere.
Quando si vestono da fascisti.
Quando parlano da fascisti.
Quando ci raccontano come si campasse alla grande durante il ventennio.
Con i figli al fronte a fare la guerra, il cibo razionato, le bombe sulle città e nemmeno un podio dal quale potersene lamentare.
Che bello che era il fascismo, ci spiegano oggi.
Con i treni che arrivavano in orario, ma con i vagoni piombati dall’esterno.
Ma anche questo, sono certo, ve lo siete già sentito dire e se c’è una cosa che vorrei evitare è contribuire a rendere il ricordo dei valori fondamentali una litania che stanca chi è confuso e assopisce chi è distratto.
Dunque che senso può avere, nel 2018, parlare di fascismo?
Vi proporrei di parlare del piccolo fascista che è in noi, nelle nostre abitudini, nella nostra ignavia, nel nostro essere distratti e nella nostra pancia.
In tutti i piccoli compromessi che accettiamo sul lavoro, a scuola e facendo politica.
Quando ci voltiamo dall’altra parte perché un problema non ci riguarda.
Quando ci lamentiamo dello sciopero degli autobus perché non siamo conducenti ma passeggeri.
Quando neghiamo un diritto perché contrasta con le nostre convinzioni religiose.
Quando decidiamo con tanto di carta bollata che un barbone è meglio che dorma nelle strade di periferia e lasci in pace il salotto del centro.
Quando puniamo uno studente perché ho osato criticare il sistema educativo mentre frigge patatine in un fastfood durante l’orario scolastico.
Quando stringiamo accordi con regimi sanguinari per diminuire gli sbarchi sulle nostre coste, fregandocene delle condanne delle organizzazioni internazionali e vantandocene, addirittura, in campagna elettorale.
Mi è capitato, di recente, di leggere il romanzo “Ognuno muore solo”, dello scrittore tedesco sopravvissuto al nazismo Hans Fallada: era già abbastanza vecchio, malato, rinchiuso in manicomio e dedito alle droghe. E così se l’è cavata.
Ma poi, finita la guerra, caduto il regime, gli hanno consegnato le carte della Gestapo e gli hanno chiesto di narrare la storia di un gesto isolato di ribellione che vi era raccontato, insieme alle vite di un pugno di famiglie, di persone normali.
Una coppia di coniugi, Anna e Otto Quangel, dopo avere ricevuto la notizia della morte del figlio al fronte, si svegliano improvvisamente dal torpore del sostegno incondizionato al fuhrer, comprendono l’assurdità del nazismo e della guerra e cominciano a disseminare nei caseggiati di una Berlino ancora viva e pulsante una serie di cartoline sulle quali sono vergate frasi di ribellione.
Verranno ovviamente catturati ed uccisi, nonostante l’approssimarsi della fine del conflitto e del crepuscolo del regime nazista.
Moriranno ma ancora prima vivranno accettando il rischio concreto di morire.
E soprattutto decideranno che non ha senso vivere senza compiere quegli atti eroici e al tempo stesso semplici, pazzeschi e al tempo stesso doverosi.
Ma la cosa che più colpisce di tutta la storia è l’assoluta inutilità del gesto.
Tanto eroico e rischioso quanto vano.
Quasi nessuno raccoglie le cartoline.
Non appena i bravi cittadini scoprono le frasi compromettenti che vi sono incise vengono colti dal panico: sarà più rischioso ignorarle oppure correre a consegnarle all’autorità?
E allora ci chiedo: e noi?
Siamo come i passanti berlinesi?
Quando sentiamo qualcuno alzare la voce per rivendicare un diritto, cosa facciamo? Cerchiamo una comoda via di fuga?
Cerchiamo una soluzione onorevole per sentirci in pace con la coscienza?
Cerchiamo di capire se quel diritto potrà mai configgere con qualche nostro interesse?
Siccome erano domande retoriche, risponderò io per voi.
Si, la maggior parte delle volte, tutti noi, sceglieremo di lasciare per terra le cartoline e, quando andrà bene, cambieremo strada sperando di non essere stati visti, di non esserci compromessi.
Ed è proprio la somma di questi nostri comportamenti individuali che nasconde le aggressioni fasciste, sempre più spesso ispirate da una violenza misogina o omofoba, in un brodo di indifferenza ed egoismo: sono azioni visibili e riconoscibili ma al tempo stesso offuscate dall’abitudine a lasciar correre e dalla rassegnazione di doverle accettare.
Per questo, tuttavia, sono ancora più pericolose.
E per questo, l’unica strada che l’ANPI e le nostre coscienze possono intraprendere è quella di non limitarci alla testimonianza. Occorre agire.
È ovvio: non viviamo nella Berlino del 1940.
Ma nemmeno i berlinesi del 1930 vivevano sotto il regime nazista. L’hanno visto arrivare, l’hanno annusato e l’hanno scelto. Hanno sentito l’odore della violenza, il rumore dei cori che esaltavano la patria, la razza, la stirpe e l’uomo forte.
Un altro splendido libro che vorrei fosse letto nelle scuole si chiama “Come si diventa nazisti” e l’ha scritto nel 1965 un tale, William Sheridan Allen, uno storico americano che ha studiato e insegnato tra gli Stati Uniti e la Germania: ci racconta la storia di una tranquilla cittadina di nome Nordheim, nel land dell’Hannover, nel periodo di tempo, dal 1930 al 1935, in cui muore la Repubblica di Weimar e si afferma il nazismo.
L’autore ci spiega in poche efficaci frasi il senso di cosa fosse successo:
“non c’era stato un colpo di stato nazista; ci fu, invece, una serie di azioni quasi legali, lungo un periodo di almeno sei mesi, nessuna delle quali costituì di per sé stessa una rivoluzione, ma il complesso delle quali trasformò la Germania da una repubblica a una dittatura. Il problema era dove tracciare la linea di divisione: ma allorché la linea poté essere tracciata con chiarezza, la rivoluzione era un fatto compiuto, i potenziali organi di resistenza erano stati distrutti uno per uno, ed una resistenza organizzata non era più possibile”.
E allora lo ribadisco. Non viviamo nella Germania degli anni '30 o '40.
Ma nemmeno, ahimè, nella Germania o nell’Italia degli anni '50.
Quel nazismo e quel fascismo ce li siamo lasciati alle spalle.
Forse. Insomma, speriamo di esserceli lasciati alle spalle.
Quel fascismo e quel nazismo li sappiamo ancora riconoscere. Sappiamo già come indignarci, cosa dire, quali mozioni votare, quali bandiere sventolare e in quali piazze darci appuntamento con la nostra indignazione, le nostre mozioni e le nostre bandiere.
Intendiamoci: è necessario continuare a farlo. Ad ogni minima avvisaglia e coinvolgendo sempre più gente possibile, finché non finiremo per manifestare tutti insieme.
Ma siccome siamo nel 2018 e l’anno prossimo, qualunque sia il governo in carica, la squadra che ha vinto lo scudetto e il colore alla moda nelle vetrine, sarà il 2019, vi invito a riflettere su quale sia il fascismo da combattere.
Quello che alza il braccio teso o quello che nega i diritti? Quello fuori da noi o quello che dentro di noi sale dalla pancia alla testa?
A me fa paura il secondo. Perché si nutre delle nostre abitudini e riposa sui nostri animi addormentati e disabituati all’indignazione, assuefatti al quieto vivere e disillusi sulla possibilità di rimettere in discussione le diseguaglianze, le ingiustizie e le miserie del mondo.
E per questo, lo ribadisco, l’unica strada che l’ANPI e le nostre coscienze possono intraprendere è quella di non limitarci alla testimonianza. Occorre agire.
Essere nelle piazze e nelle strade sempre. Non per leggere comunicati ma per mettere i nostri corpi davanti a quelli dei fascisti e non solo quando indossano la camicia nera e marciano al passo dell’oca.
Essere nelle piazze e nelle strade sempre. Non a centinaia di chilometri e settimane di distanza ma nell’immediatezza dei fatti. Anche se può dare fastidio. Anche se qualcuno storcerà il naso.
Essere nelle piazze e nelle strade sempre. Non solo di fianco alle fasce tricolori ma anche accanto alle ragazze ed ai ragazzi dei centri sociali e dei collettivi universitari.
Essere nelle piazze e nelle strade sempre. A ricordare ai razzisti che le razze non esistono ed alla classe dirigente di questo paese che i confini producono solo morte.
W la Resistenza.
di Mattia Zucchini
Grazie
Perchè la sinistra continua a perdere consenso?
Il responso elettorale del 4 Marzo costringe la sinistra non identificabile con il Partito democratico a cercare di indagare le cause della sconfitta senza limitarsi ai dati, per così dire, epifenomenici.
Quando si subisce una sconfitta sul piano elettorale, si fanno solitamente i conti con la qualità dei leader, con i punti programmatici presentati, con eventuali errori di comunicazione che possono essere stati commessi. Dopodiché si ricomincia a discutere, ci si aggiorna e ci si organizza per la tornata elettorale successiva. Ma la sconfitta patita dalla sinistra il 4 marzo 2018, avendo assunto i caratteri di un’obliterazione, dice qualcosa d’altro, costringendoci a cercare di osservare cosa è accaduto negli ultimi decenni all’interno della società nazionale e, possibilmente, con un occhio attento anche al contesto globale.
Non ci si può infatti esimere, alla luce della risposta popolare alle tradizionali proposte della sinistra, dall’interrogativo se le categorie valoriali del ‘900 possano tuttora ricoprire un ruolo di discrimine e di guida dell’agire politico oppure se, come scrive Ezio Mauro, abbiamo assistito a un generale processo di ‘sostituzione’ che ha visto l’irruzione sulla scena di uno spontaneismo movimentista privo di solide basi culturali e ideologiche. Questa seconda proposizione mi pare fondata, ma essa lascia comunque aleggiare l’interrogativo se il violento incedere di tale processo possa rappresentare una parentesi nella storia del paese o se esso è, invece, destinato a farsi carne e sostanza. Ci troviamo al punto di dover constatare il sostanziale rifiuto della tipica idea di società cara alla sinistra?
Il percorso era segnato. Prima delle elezioni italiane, il neoliberismo globalizzato aveva già prodotto l’elezione di Donald Trump (e di altri ‘omologhi’). Un dato è incontrovertibilmente sotto gli occhi di chiunque: il neoliberismo globalizzato occidentale (del quale il Pd con il dimissionario Renzi è rappresentante in Italia), porta le peggiori responsabilità dello stato di crisi attuale. Crisi non solo economica, ma altresì politica, culturale, assiologica e soprattutto sociale. Con essa, e con l’ottusa ostinatezza dei rappresentanti politici liberisti a volerla gestire senza rivedere lo squilibrio di interessi e risultati sottesi alla globalizzazione, è stato ridisegnato l’assetto delle relazioni sociali. Il corollario è stato l’incremento dell’emarginazione e della frustrazione, soprattutto nei ceti popolari. Coloro che aspiravano allo status di appartenenza al cosiddetto ‘ceto medio’ hanno subito una cocente delusione e coloro che ritenevano di avere acquisito in modo permanente una condizione di relativo benessere, hanno cominciato a scivolare verso il basso. Così, si sono tutti trovati in competizione con i loro pari ed hanno istintivamente iniziato a invocare protezione e risposte immediate, auspicate in forme e modi anche ‘irrazionali’, sbrigativi e fisici, purché risolutivi (fino alla tolleranza per movimenti di destra che aggettano al fascismo). La crisi ha rideterminato priorità, problemi e percezione dei bisogni. Tutti quelli che avevano fatto affidamento sul liberismo globalizzato (concorrenziale ed individualistico) si sono ritrovati smarriti, in solitudine e impotenti davanti a fenomeni che, all’apparenza, soltanto una mano decisa e persino incline a fare ‘tabula rasa’ di quanto ereditato sarebbe in grado di addomesticare.
Al momento, la contesa non è più fra il liberismo e lo ‘stato sociale’. Siamo entrati in un territorio inesplorato. La paura del futuro richiama reazioni anche irrazionali. E’ emerso un fenomeno nuovo, informe e deideologizzato. Esso è tratteggiabile per un verso, nella percezione che il ‘pericolo’ e l’insoddisfazione possano trovare soluzione in atteggiamenti politici decisi a scagliarsi contro il sistema; per un altro verso, nella percezione che la politica sia screditata a tal punto dall’aver trascinato in basso il concetto stesso del ruolo dello stato quale erogatore di provvidenze e attuatore di interventi per la sicurezza sociale (ruolo già messo a dura prova dalla pregressa egemonia liberista); nonché, infine, nell’idea invalsa che il percepito bisogno di sicurezza possa trovare ricetto in un identitarismo nazionale e/o comunitario, edificabile grazie a una risposta protettiva rispetto al rischio di contaminazioni con altre culture (qui, il vessillo da abbattere è il cosmopolitismo globale).
Il liberismo globalizzato era uscito trionfante dalla contesa novecentesca con lo stato sociale ma ora, nelle sue crepe, si insinua rabbiosamente un fenomeno protestatario astorico e, come detto, privo di solide basi ideologiche.
Tuttavia, la crisi della sinistra è piuttosto risalente nel tempo. Durante la fase espansiva della globalizzazione liberista la speranza in un futuro migliore aveva animato anche i non proprietari (i lavoratori) i quali, proiettati nel magma individualistico indistinto di un mondo neutrale e connotato da grandi promesse, si erano contestualmente allontanati dalle tradizionali formazioni di rappresentanza della sinistra. Si è trattato di un processo che andava di pari passo con la trasformazione in senso liberista dei partiti socialisti occidentali, i quali si erano spinti ad interiorizzare, del liberismo, i fondamenti teorici, culturali e programmatici. Tengo a ribadire che su tale trasformazione ricade, in gran misura, il processo sociale degenerativo di cui siamo spettatori.
Ma l’interrogativo dal quale ero partito permane: perchè, conclamati nell’ultimo decennio gli effetti perversi della globalizzazione, ossia salari declinanti e precarietà, basi pubbliche dello stato sociale ormai minate e uguaglianza sostanziale ridotta a miraggio, ad ogni occasione elettorale i lavoratori si rivolgono sempre meno ai movimenti e ai partiti politici che più autenticamente si richiamano alla sinistra?
Temo, purtroppo, che la globalizzazione neoliberista abbia scavato così a fondo da rendere il futuro compito della sinistra molto più arduo di quanto esso già non fosse quindici o venti anni orsono. Perché la globalizzazione neoliberista, nel contempo del suo agire, andava altresì ridefinendo ruoli sociali e identità. Complice la sopravvenienza dei mutamenti tecnologici che il ceto proprietario ha saputo volgere ai suoi fini, il transito dalla forma di lavoro organizzativa ‘fordista/taylorista’ (che riuniva in ampie unità produttive ‘masse’ di lavoratori che potevano riconoscersi e condividere rivendicazioni e destini) alla forma organizzativa di lavoro ‘flessibile’ (atomizzata e disancorata rispetto a un ruolo sociale definito) ha compiuto l’opera.
Oggi il lavoro non è più l’elemento centrale dell’avanzamento sociale e dell’identificazione di sé. Il lavoro è un fattore ridotto a pura merce, spesso limitato alla garanzia della sopravvivenza. Ciò nonostante, vige ormai una netta dissociazione fra le prospettive di miglioramento individuale attese da forme di ausilio (e di protezione) ‘esterne’ al lavoro e quelle esperibili e rivendicabili nell’ambito del proprio rapporto di lavoro (ormai frustrate). E’ rinvenibile una sorta di stato di necessità, uno sfondo di ineludibilità entro il quale, in nome di compatibilità ‘superiori’, il lavoro è destinato a un rassegnato sacrificio. Sconfitto, frammentato e marginalizzato il movimento dei lavoratori, vince le competizioni elettorali chi, semplicisticamente, promette redditi di cittadinanza, meno tasse e un irrigidimento rispetto alla concorrenza da parte degli immigrati. Tutto questo in costanza di un sistema ‘istituzionale’ che da anni pretende di beneficiare i lavoratori tramite il meccanismo della concorrenza, dal quale attendersi un rigido controllo su prezzi e tariffe relative ai beni e ai servizi (come il ‘discount’ e il ‘low cost’) ma che implica, in realtà, una concorrenza ‘ascosa’ fra lavoratori salariati.
Se ci trovassimo a chiedere oggi a un qualsiasi lavoratore, anche non garantito, cosa egli si aspetta dal governo, la risposta più probabile sarebbe: meno tasse, meno immigrati, minori stipendi ai politici.
Analoga replica verrebbe da parte di un pensionato.
Come detto, la struttura sociale è stata profondamente mutata dalla globalizzazione. Il vento odierno non fuoriesce dall’otre dei sistemi di pensiero novecenteschi. Scaturisce dall’insicurezza e dalle fobie che il mercato sregolato immancabilmente produce.
Allora è definitivo il rigetto dell’idea di mondo tipica della sinistra? Forse no.
Forse vi è ancora una speranza. La penultima grande crisi del capitalismo aveva portato in auge i movimenti di destra estrema, fascisti e nazisti, che pescavano consenso dai bacini degli scontenti e degli esclusi. Di recente, il ceto sociale che ha diretto la globalizzazione neoliberista è riuscito nell’intento di depotenziare e ridurre all’irrilevanza il suo avversario storico, il movimento operaio, il che è particolarmente avvertibile in Italia. Ne è venuta la reazione che ho descritto. Ma come i movimenti di destra saliti al potere in Europa negli anni fra la prima e la seconda guerra mondiale non sono stati, a lungo andare, in grado di assicurare benessere e pace, potrebbe darsi che le attuali forze politiche sorte o rafforzatesi in reazione all’ultima crisi globale non saranno, a loro volta, in grado di mantenere le aspettative che suscitano o, magari, se lo faranno, gli effetti dello loro scelte non porteranno sollievo genuino e diuturno ai disagiati. Le forze fresche di successo elettorale, ad esempio, non parlano mai di privilegi dei ‘managers’ di impresa o di questione salariale, che pure sono alla radice delle diseguaglianze. Il loro carattere di improvvisazione, di spontaneismo qualunquista, fatto di ricette troppo semplici rispetto alla complessità dei (veri) problemi che attanagliano il Paese, se è da un lato consono all’eccitazione degli animi già esasperati dalla crisi, potrebbe dall’altro rivelare un punto di debolezza. Chi ha a cuore l’idea di genuina uguaglianza tipica della sinistra (quella di ‘alternativa’), dovrà allora tenersi pronto a chiamare il ‘bluff’.
Non accadrà, probabilmente, nell’immediato futuro. I mutamenti culturali e sociali sono lenti. Comunque, particolari criticità saranno senz’altro, anche nell’immediato, qui da noi ineludibili. Mi riferisco alla continuazione delle politiche che la Commissione europea non manca di raccomandarci. Se i vincitori del 4 Marzo dovessero riuscire a costituire una compagine governativa, si troveranno di fronte i medesimi vincoli con cui, chi li ha preceduti, ha dovuto confrontarsi (senza, peraltro, discuterli). Le contraddizioni del sistema attuale non verranno risolte dai protagonisti della nuova fase (ora in corso) e il problema delle disuguaglianze sociali, oggi ‘distratto’ e ctonio, potrebbe in futuro erompere.
Frattanto, è d’obbligo la continuazione della traversata nel deserto della sinistra italiana. La missione (titanica) resta quella di riunificare il mondo del lavoro che è stato diviso in mille rivoli. La sinistra dovrà essere cosciente del fatto che il lavorio culturale (mirato a far sì che le ‘masse’ tornino a riconoscere le vere cause dei loro problemi) e il lavoro organizzativo ai quali dovrà attendere, saranno di necessità molto più intensi di quanto fino a non molto tempo fa era prevedibile. E’ una conclusione tautologica ma obbligata, se si vuole restare immuni da contaminazioni con le posizioni degli avversari. La vera sinistra (quella, ovviamente, non liberista) dovrà cercare di riprendere il filo che potrà ricondurla alla connessione sentimentale con quello che è stato il suo popolo. Per riuscirci dovrà, naturalmente, essere in grado di concepire un’elaborazione politica aggiornata e di costruire un progetto collettivo capace di suscitare interesse e speranza. Ripetiamolo: le contraddizioni del sistema attuale non verranno risolte dai protagonisti della nuova fase, ora in corso. Perché i veri mutamenti storici sono sempre promanati dall’autentico pensiero critico, inteso come disamina e diagnosi della struttura sociale.
Fonte
Quando si subisce una sconfitta sul piano elettorale, si fanno solitamente i conti con la qualità dei leader, con i punti programmatici presentati, con eventuali errori di comunicazione che possono essere stati commessi. Dopodiché si ricomincia a discutere, ci si aggiorna e ci si organizza per la tornata elettorale successiva. Ma la sconfitta patita dalla sinistra il 4 marzo 2018, avendo assunto i caratteri di un’obliterazione, dice qualcosa d’altro, costringendoci a cercare di osservare cosa è accaduto negli ultimi decenni all’interno della società nazionale e, possibilmente, con un occhio attento anche al contesto globale.
Non ci si può infatti esimere, alla luce della risposta popolare alle tradizionali proposte della sinistra, dall’interrogativo se le categorie valoriali del ‘900 possano tuttora ricoprire un ruolo di discrimine e di guida dell’agire politico oppure se, come scrive Ezio Mauro, abbiamo assistito a un generale processo di ‘sostituzione’ che ha visto l’irruzione sulla scena di uno spontaneismo movimentista privo di solide basi culturali e ideologiche. Questa seconda proposizione mi pare fondata, ma essa lascia comunque aleggiare l’interrogativo se il violento incedere di tale processo possa rappresentare una parentesi nella storia del paese o se esso è, invece, destinato a farsi carne e sostanza. Ci troviamo al punto di dover constatare il sostanziale rifiuto della tipica idea di società cara alla sinistra?
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Il percorso era segnato. Prima delle elezioni italiane, il neoliberismo globalizzato aveva già prodotto l’elezione di Donald Trump (e di altri ‘omologhi’). Un dato è incontrovertibilmente sotto gli occhi di chiunque: il neoliberismo globalizzato occidentale (del quale il Pd con il dimissionario Renzi è rappresentante in Italia), porta le peggiori responsabilità dello stato di crisi attuale. Crisi non solo economica, ma altresì politica, culturale, assiologica e soprattutto sociale. Con essa, e con l’ottusa ostinatezza dei rappresentanti politici liberisti a volerla gestire senza rivedere lo squilibrio di interessi e risultati sottesi alla globalizzazione, è stato ridisegnato l’assetto delle relazioni sociali. Il corollario è stato l’incremento dell’emarginazione e della frustrazione, soprattutto nei ceti popolari. Coloro che aspiravano allo status di appartenenza al cosiddetto ‘ceto medio’ hanno subito una cocente delusione e coloro che ritenevano di avere acquisito in modo permanente una condizione di relativo benessere, hanno cominciato a scivolare verso il basso. Così, si sono tutti trovati in competizione con i loro pari ed hanno istintivamente iniziato a invocare protezione e risposte immediate, auspicate in forme e modi anche ‘irrazionali’, sbrigativi e fisici, purché risolutivi (fino alla tolleranza per movimenti di destra che aggettano al fascismo). La crisi ha rideterminato priorità, problemi e percezione dei bisogni. Tutti quelli che avevano fatto affidamento sul liberismo globalizzato (concorrenziale ed individualistico) si sono ritrovati smarriti, in solitudine e impotenti davanti a fenomeni che, all’apparenza, soltanto una mano decisa e persino incline a fare ‘tabula rasa’ di quanto ereditato sarebbe in grado di addomesticare.
Al momento, la contesa non è più fra il liberismo e lo ‘stato sociale’. Siamo entrati in un territorio inesplorato. La paura del futuro richiama reazioni anche irrazionali. E’ emerso un fenomeno nuovo, informe e deideologizzato. Esso è tratteggiabile per un verso, nella percezione che il ‘pericolo’ e l’insoddisfazione possano trovare soluzione in atteggiamenti politici decisi a scagliarsi contro il sistema; per un altro verso, nella percezione che la politica sia screditata a tal punto dall’aver trascinato in basso il concetto stesso del ruolo dello stato quale erogatore di provvidenze e attuatore di interventi per la sicurezza sociale (ruolo già messo a dura prova dalla pregressa egemonia liberista); nonché, infine, nell’idea invalsa che il percepito bisogno di sicurezza possa trovare ricetto in un identitarismo nazionale e/o comunitario, edificabile grazie a una risposta protettiva rispetto al rischio di contaminazioni con altre culture (qui, il vessillo da abbattere è il cosmopolitismo globale).
Il liberismo globalizzato era uscito trionfante dalla contesa novecentesca con lo stato sociale ma ora, nelle sue crepe, si insinua rabbiosamente un fenomeno protestatario astorico e, come detto, privo di solide basi ideologiche.
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Tuttavia, la crisi della sinistra è piuttosto risalente nel tempo. Durante la fase espansiva della globalizzazione liberista la speranza in un futuro migliore aveva animato anche i non proprietari (i lavoratori) i quali, proiettati nel magma individualistico indistinto di un mondo neutrale e connotato da grandi promesse, si erano contestualmente allontanati dalle tradizionali formazioni di rappresentanza della sinistra. Si è trattato di un processo che andava di pari passo con la trasformazione in senso liberista dei partiti socialisti occidentali, i quali si erano spinti ad interiorizzare, del liberismo, i fondamenti teorici, culturali e programmatici. Tengo a ribadire che su tale trasformazione ricade, in gran misura, il processo sociale degenerativo di cui siamo spettatori.
Ma l’interrogativo dal quale ero partito permane: perchè, conclamati nell’ultimo decennio gli effetti perversi della globalizzazione, ossia salari declinanti e precarietà, basi pubbliche dello stato sociale ormai minate e uguaglianza sostanziale ridotta a miraggio, ad ogni occasione elettorale i lavoratori si rivolgono sempre meno ai movimenti e ai partiti politici che più autenticamente si richiamano alla sinistra?
Temo, purtroppo, che la globalizzazione neoliberista abbia scavato così a fondo da rendere il futuro compito della sinistra molto più arduo di quanto esso già non fosse quindici o venti anni orsono. Perché la globalizzazione neoliberista, nel contempo del suo agire, andava altresì ridefinendo ruoli sociali e identità. Complice la sopravvenienza dei mutamenti tecnologici che il ceto proprietario ha saputo volgere ai suoi fini, il transito dalla forma di lavoro organizzativa ‘fordista/taylorista’ (che riuniva in ampie unità produttive ‘masse’ di lavoratori che potevano riconoscersi e condividere rivendicazioni e destini) alla forma organizzativa di lavoro ‘flessibile’ (atomizzata e disancorata rispetto a un ruolo sociale definito) ha compiuto l’opera.
Oggi il lavoro non è più l’elemento centrale dell’avanzamento sociale e dell’identificazione di sé. Il lavoro è un fattore ridotto a pura merce, spesso limitato alla garanzia della sopravvivenza. Ciò nonostante, vige ormai una netta dissociazione fra le prospettive di miglioramento individuale attese da forme di ausilio (e di protezione) ‘esterne’ al lavoro e quelle esperibili e rivendicabili nell’ambito del proprio rapporto di lavoro (ormai frustrate). E’ rinvenibile una sorta di stato di necessità, uno sfondo di ineludibilità entro il quale, in nome di compatibilità ‘superiori’, il lavoro è destinato a un rassegnato sacrificio. Sconfitto, frammentato e marginalizzato il movimento dei lavoratori, vince le competizioni elettorali chi, semplicisticamente, promette redditi di cittadinanza, meno tasse e un irrigidimento rispetto alla concorrenza da parte degli immigrati. Tutto questo in costanza di un sistema ‘istituzionale’ che da anni pretende di beneficiare i lavoratori tramite il meccanismo della concorrenza, dal quale attendersi un rigido controllo su prezzi e tariffe relative ai beni e ai servizi (come il ‘discount’ e il ‘low cost’) ma che implica, in realtà, una concorrenza ‘ascosa’ fra lavoratori salariati.
Se ci trovassimo a chiedere oggi a un qualsiasi lavoratore, anche non garantito, cosa egli si aspetta dal governo, la risposta più probabile sarebbe: meno tasse, meno immigrati, minori stipendi ai politici.
Analoga replica verrebbe da parte di un pensionato.
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Come detto, la struttura sociale è stata profondamente mutata dalla globalizzazione. Il vento odierno non fuoriesce dall’otre dei sistemi di pensiero novecenteschi. Scaturisce dall’insicurezza e dalle fobie che il mercato sregolato immancabilmente produce.
Allora è definitivo il rigetto dell’idea di mondo tipica della sinistra? Forse no.
Forse vi è ancora una speranza. La penultima grande crisi del capitalismo aveva portato in auge i movimenti di destra estrema, fascisti e nazisti, che pescavano consenso dai bacini degli scontenti e degli esclusi. Di recente, il ceto sociale che ha diretto la globalizzazione neoliberista è riuscito nell’intento di depotenziare e ridurre all’irrilevanza il suo avversario storico, il movimento operaio, il che è particolarmente avvertibile in Italia. Ne è venuta la reazione che ho descritto. Ma come i movimenti di destra saliti al potere in Europa negli anni fra la prima e la seconda guerra mondiale non sono stati, a lungo andare, in grado di assicurare benessere e pace, potrebbe darsi che le attuali forze politiche sorte o rafforzatesi in reazione all’ultima crisi globale non saranno, a loro volta, in grado di mantenere le aspettative che suscitano o, magari, se lo faranno, gli effetti dello loro scelte non porteranno sollievo genuino e diuturno ai disagiati. Le forze fresche di successo elettorale, ad esempio, non parlano mai di privilegi dei ‘managers’ di impresa o di questione salariale, che pure sono alla radice delle diseguaglianze. Il loro carattere di improvvisazione, di spontaneismo qualunquista, fatto di ricette troppo semplici rispetto alla complessità dei (veri) problemi che attanagliano il Paese, se è da un lato consono all’eccitazione degli animi già esasperati dalla crisi, potrebbe dall’altro rivelare un punto di debolezza. Chi ha a cuore l’idea di genuina uguaglianza tipica della sinistra (quella di ‘alternativa’), dovrà allora tenersi pronto a chiamare il ‘bluff’.
Non accadrà, probabilmente, nell’immediato futuro. I mutamenti culturali e sociali sono lenti. Comunque, particolari criticità saranno senz’altro, anche nell’immediato, qui da noi ineludibili. Mi riferisco alla continuazione delle politiche che la Commissione europea non manca di raccomandarci. Se i vincitori del 4 Marzo dovessero riuscire a costituire una compagine governativa, si troveranno di fronte i medesimi vincoli con cui, chi li ha preceduti, ha dovuto confrontarsi (senza, peraltro, discuterli). Le contraddizioni del sistema attuale non verranno risolte dai protagonisti della nuova fase (ora in corso) e il problema delle disuguaglianze sociali, oggi ‘distratto’ e ctonio, potrebbe in futuro erompere.
Frattanto, è d’obbligo la continuazione della traversata nel deserto della sinistra italiana. La missione (titanica) resta quella di riunificare il mondo del lavoro che è stato diviso in mille rivoli. La sinistra dovrà essere cosciente del fatto che il lavorio culturale (mirato a far sì che le ‘masse’ tornino a riconoscere le vere cause dei loro problemi) e il lavoro organizzativo ai quali dovrà attendere, saranno di necessità molto più intensi di quanto fino a non molto tempo fa era prevedibile. E’ una conclusione tautologica ma obbligata, se si vuole restare immuni da contaminazioni con le posizioni degli avversari. La vera sinistra (quella, ovviamente, non liberista) dovrà cercare di riprendere il filo che potrà ricondurla alla connessione sentimentale con quello che è stato il suo popolo. Per riuscirci dovrà, naturalmente, essere in grado di concepire un’elaborazione politica aggiornata e di costruire un progetto collettivo capace di suscitare interesse e speranza. Ripetiamolo: le contraddizioni del sistema attuale non verranno risolte dai protagonisti della nuova fase, ora in corso. Perché i veri mutamenti storici sono sempre promanati dall’autentico pensiero critico, inteso come disamina e diagnosi della struttura sociale.
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Colpo di mano contro il diritto di sciopero nei trasporti
In Francia i ferrovieri hanno convocato scioperi articolati fino a giugno. In Italia vogliono impedire qualsiasi sciopero nei trasporti. Eppure sono due paesi “europei” che si vantano in giro per l’uguaglianza e i diritti tra i propri cittadini. Nel nostro paese solo il fascismo arrivò a varare una legge che non consentiva lo sciopero e consegnava la rappresentanza dei lavoratori al sindacato unico fascista. Oggi i tecnocrati della Commissione di Garanzia non hanno la camicia nera e il fez ma giacca e cravatta, ma stanno producendo gli stessi effetti e animano lo stesso “spirito” dell’epoca. Questa situazione si è aggravata in queste ore. Pubblichiamo a seguito un allarmato comunicato dell’Usb.
Con un nuovo colpo di mano la Commissione di Garanzia di fatto cancella il diritto di sciopero nel Trasporto Pubblico Locale. Come se non bastassero le attuali regole, che già oggi prevedevano periodi in cui non si poteva scioperare nel TPL (periodi di Agosto, Natale, Pasqua ecc.), le fasce di garanzia durante le quali i lavoratori devono assicurare il servizio, la possibilità di poter fare il primo sciopero di sole 4 ore e solo successivamente poterne fare uno di 24 ore, della cosiddetta rarefazione oggettiva, ossia l’arco temporale di 10 giorni prima e di 10 giorni dopo in cui vi sia stato uno sciopero nel settore, durante i quali non si può scioperare, oggi la Commissione di garanzia decreta che questa franchigia è elevata a 20 giorni prima e 20 giorni dopo.
Di fatto, seguendo queste norme, se va bene, ai lavoratori del TPL restano praticabili una decina di giorni l’anno in cui poter effettuare uno sciopero, lottando con il calendario e con la Commissione.
Questo vuol dire che, anche in caso di gravissime motivazioni che necessiterebbero di una risposta immediata, i lavoratori potrebbero scioperare solo dopo 20 giorni, per lo sciopero di 4 ore, poi aspettare alcuni giorni prima di poter proclamare quello di 8 ore che a sua volta potrà essere effettuato solo dopo altri 20 giorni.
La nuova regolamentazione, in materia dell’esercizio del diritto di sciopero nel Trasporto Pubblico Locale, emanata dalla Commissione di Garanzia, azzera quindi la possibilità di sciopero per tutti i lavoratori e le lavoratrici del settore.
È evidente che, complessivamente e ormai da molto tempo, il sistema che governa realmente i processi economici stia tentando di ridurre drasticamente qualsiasi forma di conflitto sociale, spesso giocando mediaticamente e strumentalmente su luoghi comuni e generalizzazioni ormai inculcate in gran parte della popolazione, nel lessico e nel pensiero comune che in questa fase storica del paese sembra aver vinto, anche culturalmente.
Con questa regolamentazione la Commissione di Garanzia vuole fermare le lotte praticate in questi anni dai lavoratori del Trasporto Pubblico Locale, costretti a scioperare per rivendicare il salario, spesso non corrisposto dalle aziende, per avere autobus funzionanti e a norma, per la difesa della salute e per la sicurezza, per un vero servizio pubblico rivolto agli utenti, vere vittime, insieme ai lavoratori, della privatizazione del servizio pubblico.
Ciò che a noi appare gravissimo è che i tre fondamentali poteri dello Stato, quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario, sembrano tutti concentrati in un attacco ai lavoratori e al diritto di sciopero.
Chi adoperandosi in provvedimenti e iniziative sempre più restrittive rispetto al diritto del lavoro e al diritto di sciopero.
Chi legiferando le normative antisciopero e al tempo stesso sottraendosi però dall’obbligo di decidere su una legge democratica sulla rappresentanza.
Chi giudicando troppo spesso in modo approssimativo, riprendendo pedissequamente le decisioni e le posizioni della Commissione di garanzia che di fatto è diventata la detentrice e l’interprete unica di una legge che dalla sua nascita è stata ancor più appesantita e peggiorata.
Siamo al paradosso che una commissione tecnica, la Commissione di Garanzia per il diritto di sciopero, che dovrebbe svolgere semplicemente il compito di evitare che vi siano abusi da parte delle aziende e dei lavoratori in tema di esercizio del diritto di sciopero, si sostituisca al Parlamento con sistematiche modifiche di una legge dello Stato, la 146 del 1992, e che lo faccia sempre e solo nei confronti dei lavoratori, infischiandosene del fatto che gli scioperi vengono sempre proclamati perché le aziende non rispettano i contratti, la sicurezza ecc.
Queste ulteriori restrizioni al diritto di sciopero hanno però una motivazione concreta, ossia impedire che i lavoratori possano reagire alle privatizzazioni selvagge che producono solo disservizi per l’utenza, peggioramento delle condizioni economiche e lavorative per gli addetti, maggiori costi per lo Stato e le casse pubbliche e, al tempo stesso, accumulazione di ricchezza da parte delle società che prendono i servizi in appalto.
D’altra parte l’attacco non è rivolto al solo diritto di sciopero: siamo di fronte, e non solo da oggi, a un depotenziamento continuo e progressivo dei principi e di gran parte della stessa Costituzione.
Il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione e tanti altri principi della nostra carta fondamentale, vengono disattesi, rimangono inapplicati, sono ignorati, sono spesso interpretati in modo errato. Tutto in nome del “sacro principio della supremazia dei mercati” sul lavoro, dell’imprenditoria sui beni comuni e sui diritti sociali, dell’economia e della finanza sull’umanità stessa che dovrebbe essere alla base di ogni società civile.
Noi preferiamo rimanere umani, legati alla gente comune, ai suoi diritti e non alla borsa, alle esigenze della BCE e dell’Unione Europea che un giorno sì e l’altro pure ci “ricorda” che siamo soltanto numeri e che i bilanci sono più importanti della vita dei cittadini di questo continente.
Per questo difendiamo e difenderemo il diritto di sciopero, ovunque venga attaccato, in qualsiasi modo tale attacco si manifesti. E per difendere il diritto di sciopero l’arma principale che abbiamo è proprio il suo esercizio. Quindi sciopereremo di nuovo, tra gli autoferrotranvieri e in tutte le circostanze e tutte le realtà di lavoro dove è e sarà necessario contrapporsi alle aziende, pubbliche o private che siano.
E insieme continueremo a costruire quel sindacato indipendente e conflittuale che è USB, alternativo a Cgil, Cisl e Uil che per prime, nei primi anni ’90, ispirarono e chiesero a gran voce quella legge contro lo sciopero che oggi colpisce anche loro, ma soprattutto che tenta di disarmare i lavoratori.
Difendere il diritto di sciopero significa difendere la Costituzione: su questo obiettivo chiamiamo a raccolta tutte le lavoratrici e i lavoratori, tutti coloro che il 4 dicembre del 2016 dissero NO al Referendum che intendeva stravolgere definitivamente la nostra Carta Fondamentale.
L’Unione Sindacale di Base convocherà nei prossimi giorni le assemblee generali dei lavoratori in tutte le aziende del Trasporto Pubblico Locale per discuterne con i lavoratori e decidere le iniziative di contrasto a questo vero e proprio esproprio del diritto di sciopero.
Fonte
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Con un nuovo colpo di mano la Commissione di Garanzia di fatto cancella il diritto di sciopero nel Trasporto Pubblico Locale. Come se non bastassero le attuali regole, che già oggi prevedevano periodi in cui non si poteva scioperare nel TPL (periodi di Agosto, Natale, Pasqua ecc.), le fasce di garanzia durante le quali i lavoratori devono assicurare il servizio, la possibilità di poter fare il primo sciopero di sole 4 ore e solo successivamente poterne fare uno di 24 ore, della cosiddetta rarefazione oggettiva, ossia l’arco temporale di 10 giorni prima e di 10 giorni dopo in cui vi sia stato uno sciopero nel settore, durante i quali non si può scioperare, oggi la Commissione di garanzia decreta che questa franchigia è elevata a 20 giorni prima e 20 giorni dopo.
Di fatto, seguendo queste norme, se va bene, ai lavoratori del TPL restano praticabili una decina di giorni l’anno in cui poter effettuare uno sciopero, lottando con il calendario e con la Commissione.
Questo vuol dire che, anche in caso di gravissime motivazioni che necessiterebbero di una risposta immediata, i lavoratori potrebbero scioperare solo dopo 20 giorni, per lo sciopero di 4 ore, poi aspettare alcuni giorni prima di poter proclamare quello di 8 ore che a sua volta potrà essere effettuato solo dopo altri 20 giorni.
La nuova regolamentazione, in materia dell’esercizio del diritto di sciopero nel Trasporto Pubblico Locale, emanata dalla Commissione di Garanzia, azzera quindi la possibilità di sciopero per tutti i lavoratori e le lavoratrici del settore.
È evidente che, complessivamente e ormai da molto tempo, il sistema che governa realmente i processi economici stia tentando di ridurre drasticamente qualsiasi forma di conflitto sociale, spesso giocando mediaticamente e strumentalmente su luoghi comuni e generalizzazioni ormai inculcate in gran parte della popolazione, nel lessico e nel pensiero comune che in questa fase storica del paese sembra aver vinto, anche culturalmente.
Con questa regolamentazione la Commissione di Garanzia vuole fermare le lotte praticate in questi anni dai lavoratori del Trasporto Pubblico Locale, costretti a scioperare per rivendicare il salario, spesso non corrisposto dalle aziende, per avere autobus funzionanti e a norma, per la difesa della salute e per la sicurezza, per un vero servizio pubblico rivolto agli utenti, vere vittime, insieme ai lavoratori, della privatizazione del servizio pubblico.
Ciò che a noi appare gravissimo è che i tre fondamentali poteri dello Stato, quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario, sembrano tutti concentrati in un attacco ai lavoratori e al diritto di sciopero.
Chi adoperandosi in provvedimenti e iniziative sempre più restrittive rispetto al diritto del lavoro e al diritto di sciopero.
Chi legiferando le normative antisciopero e al tempo stesso sottraendosi però dall’obbligo di decidere su una legge democratica sulla rappresentanza.
Chi giudicando troppo spesso in modo approssimativo, riprendendo pedissequamente le decisioni e le posizioni della Commissione di garanzia che di fatto è diventata la detentrice e l’interprete unica di una legge che dalla sua nascita è stata ancor più appesantita e peggiorata.
Siamo al paradosso che una commissione tecnica, la Commissione di Garanzia per il diritto di sciopero, che dovrebbe svolgere semplicemente il compito di evitare che vi siano abusi da parte delle aziende e dei lavoratori in tema di esercizio del diritto di sciopero, si sostituisca al Parlamento con sistematiche modifiche di una legge dello Stato, la 146 del 1992, e che lo faccia sempre e solo nei confronti dei lavoratori, infischiandosene del fatto che gli scioperi vengono sempre proclamati perché le aziende non rispettano i contratti, la sicurezza ecc.
Queste ulteriori restrizioni al diritto di sciopero hanno però una motivazione concreta, ossia impedire che i lavoratori possano reagire alle privatizzazioni selvagge che producono solo disservizi per l’utenza, peggioramento delle condizioni economiche e lavorative per gli addetti, maggiori costi per lo Stato e le casse pubbliche e, al tempo stesso, accumulazione di ricchezza da parte delle società che prendono i servizi in appalto.
D’altra parte l’attacco non è rivolto al solo diritto di sciopero: siamo di fronte, e non solo da oggi, a un depotenziamento continuo e progressivo dei principi e di gran parte della stessa Costituzione.
Il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione e tanti altri principi della nostra carta fondamentale, vengono disattesi, rimangono inapplicati, sono ignorati, sono spesso interpretati in modo errato. Tutto in nome del “sacro principio della supremazia dei mercati” sul lavoro, dell’imprenditoria sui beni comuni e sui diritti sociali, dell’economia e della finanza sull’umanità stessa che dovrebbe essere alla base di ogni società civile.
Noi preferiamo rimanere umani, legati alla gente comune, ai suoi diritti e non alla borsa, alle esigenze della BCE e dell’Unione Europea che un giorno sì e l’altro pure ci “ricorda” che siamo soltanto numeri e che i bilanci sono più importanti della vita dei cittadini di questo continente.
Per questo difendiamo e difenderemo il diritto di sciopero, ovunque venga attaccato, in qualsiasi modo tale attacco si manifesti. E per difendere il diritto di sciopero l’arma principale che abbiamo è proprio il suo esercizio. Quindi sciopereremo di nuovo, tra gli autoferrotranvieri e in tutte le circostanze e tutte le realtà di lavoro dove è e sarà necessario contrapporsi alle aziende, pubbliche o private che siano.
E insieme continueremo a costruire quel sindacato indipendente e conflittuale che è USB, alternativo a Cgil, Cisl e Uil che per prime, nei primi anni ’90, ispirarono e chiesero a gran voce quella legge contro lo sciopero che oggi colpisce anche loro, ma soprattutto che tenta di disarmare i lavoratori.
Difendere il diritto di sciopero significa difendere la Costituzione: su questo obiettivo chiamiamo a raccolta tutte le lavoratrici e i lavoratori, tutti coloro che il 4 dicembre del 2016 dissero NO al Referendum che intendeva stravolgere definitivamente la nostra Carta Fondamentale.
L’Unione Sindacale di Base convocherà nei prossimi giorni le assemblee generali dei lavoratori in tutte le aziende del Trasporto Pubblico Locale per discuterne con i lavoratori e decidere le iniziative di contrasto a questo vero e proprio esproprio del diritto di sciopero.
Fonte
Pogrom neonazista a Kiev, con la complicità di polizia e governo
Il gruppo neonazista ucraino C14, che si richiama apertamente all’esperienza dei collaborazionisti con i nazisti durante l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale, ha scelto l’anniversario della nascita di Adolf Hitler per realizzare un violentissimo blitz nel campo Rom sulla collina di Lysa Hora (Monte Calvo) a Kiev. Gli estremisti di destra, armati di pistole, spranghe, coltelli e spray urticanti hanno saccheggiato e distrutto il campo, bruciando le tende, pestando e accoltellando decine tra uomini, donne e bambini, alcuni dei quali sono stati ricoverati in ospedale.
I neonazisti hanno potuto contare sulla attiva complicità della polizia di Kiev il cui capo, Andrey Krishchenko, ha dichiarato che «alcuni cittadini si sono semplicemente assunti il compito di bruciare la spazzatura nel campo rom (...). I rom presenti in città per festeggiare la Resurrezione sono stati poi accompagnati alla stazione per far rientro nelle loro realtà».
Ma un video di 41 secondi pubblicato dal sito Lb.ua smentisce le autorità ucraine mostrando i neonazisti, molti dei quali con un passamontagna, intenti nel vero e proprio pogrom.
Mentre i media parlavano di un intervento dei “nazionalisti” per ripulire l’accampamento dai rifiuti, i 150 rom che vivevano nel campo ormai distrutto e che si erano rifugiati in una vicina stazione ferroviaria sono stati deportati dalle autorità in alcune località della regione dei Carpazi, a circa 500 km di distanza dalla capitale ucraina.
C14 ha rivendicato pubblicamente il pogrom ed ha annunciato sulla sua pagina facebook ulteriori aggressioni contro «gay, femministe e militanti di sinistra». La sigla neonazista, che si richiama al movimento collaborazionista di Stepan Bandera, lo scorso 8 marzo ha attaccato la manifestazione femminista nella capitale ucraina e minacciato di morte Elena Shevcenko, leader del locale movimento Lgbt.
Questo mentre centinaia di militanti del gruppo neonazista NazKorp, composto da componenti del famigerato Battaglione Azov attivo nell’aggressione militare contro le popolazioni del Donbass, pattugliano le strade di alcune città ucraine con il consenso del Ministero degli Interni del governo Poroshenko. Un governo sostenuto politicamente, economicamente e militarmente da una Unione Europea che vanta di essere un argine contro il risorgere dei nazionalismi e delle ideologie xenofobe.
Fonte
I neonazisti hanno potuto contare sulla attiva complicità della polizia di Kiev il cui capo, Andrey Krishchenko, ha dichiarato che «alcuni cittadini si sono semplicemente assunti il compito di bruciare la spazzatura nel campo rom (...). I rom presenti in città per festeggiare la Resurrezione sono stati poi accompagnati alla stazione per far rientro nelle loro realtà».
Ma un video di 41 secondi pubblicato dal sito Lb.ua smentisce le autorità ucraine mostrando i neonazisti, molti dei quali con un passamontagna, intenti nel vero e proprio pogrom.
Mentre i media parlavano di un intervento dei “nazionalisti” per ripulire l’accampamento dai rifiuti, i 150 rom che vivevano nel campo ormai distrutto e che si erano rifugiati in una vicina stazione ferroviaria sono stati deportati dalle autorità in alcune località della regione dei Carpazi, a circa 500 km di distanza dalla capitale ucraina.
C14 ha rivendicato pubblicamente il pogrom ed ha annunciato sulla sua pagina facebook ulteriori aggressioni contro «gay, femministe e militanti di sinistra». La sigla neonazista, che si richiama al movimento collaborazionista di Stepan Bandera, lo scorso 8 marzo ha attaccato la manifestazione femminista nella capitale ucraina e minacciato di morte Elena Shevcenko, leader del locale movimento Lgbt.
Questo mentre centinaia di militanti del gruppo neonazista NazKorp, composto da componenti del famigerato Battaglione Azov attivo nell’aggressione militare contro le popolazioni del Donbass, pattugliano le strade di alcune città ucraine con il consenso del Ministero degli Interni del governo Poroshenko. Un governo sostenuto politicamente, economicamente e militarmente da una Unione Europea che vanta di essere un argine contro il risorgere dei nazionalismi e delle ideologie xenofobe.
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