31/03/2024
La facoltà di “Scienze Repressive” della Hebrew University
«Le Università non possono schierarsi o entrare in guerra», ha detto giorni fa la ministra Anna Maria Bernini. «Ritengo ogni forma di esclusione o boicottaggio sbagliata ed estranea alla tradizione e alla cultura dei nostri Atenei da sempre ispirata all’apertura e all’inclusività».
È questo il mantra ripetuto e declinato da tutti i difensori degli accordi esistenti tra università italiane e israeliane. Che non sempre si fermano sul limite segnato dalla Costituzione, ossia l’autonomia garantita degli atenei.
Il loro obiettivo è stigmatizzare le mobilitazioni studentesche, che hanno convinto diversi atenei a sospendere alcuni progetti comuni con quelli israeliani, grazie anche alla pressione di un folto numero di docenti.
Fanno ovviamente molto peggio i sionisti da battaglia.
Stefano Parisi, presidente dell’Associazione «Setteottobre», afferma che è «una scelta gravissima ed inquietante che ci riporta ad un passato lontano che non avremmo mai voluto rivivere. Colpire il mondo dell’università e della ricerca di Israele che è all’avanguardia nel mondo ed impedire la collaborazione con un ateneo importante come quello di Torino, che potrebbe portare ricadute positive per il nostro Paese, è l’ennesima dimostrazione del clima di odio antisemita che dal 7 ottobre sta montando con furia in Italia».
Inutile far notare a gente con questa che proprio la riduzione dell’universo ebraico al solo Stato di Israele e la condanna di ogni critica nei suoi confronti sono in realtà la più potente spinta per eventuali rigurgiti antisemiti, al momento ancora molto sottotraccia visto che dovunque la destra nazifascista è compattamente al fianco di Netanyahu.
Assistere impassibili a un genocidio in diretta – o a un “semplice massacro”, come osa dire qualche giornalista che si improvvisa intellettuale – o addirittura “tifare” per i massacratori e aiutarli in molti modi, è possibile solo se si accantonano completamente i più elementari sentimenti umani e si accetta la condizione de La zona di interesse.
Parlare dell’università come “tempio del confronto” è ovviamente giustissimo e doveroso. Ma le parole debbono corrispondere ai fatti, altrimenti si condanna l’università e la sua millenaria storia a subire la squallida sorte della classe politica occidentale, ormai votata alla guerra mondiale – in posizione oltretutto servile – mentre quotidianamente si auto esalta come “democrazia” e “difensore dei diritti umani”.
Questo resoconto che ci illustra la realtà di una delle principali università israeliane documenta come quel “confronto” evocato qui all’unico scopo di prorogare rapporti di ricerca dual use, con ricadute sia civili che militari, sia da tempo stato seppellito – senza onore – proprio dagli atenei dello “Stato ebraico”.
Che, come ogni altro Stato non laico, assume la stessa logica di ogni altro “Stato confessionale”. Sia questo uno “Stato cristiano” oppure uno “Stato islamico”.
Dunque la mobilitazione degli studenti, non solo italiani come ha dovuto verificare anche Biden, non è solo “giustificata” ma è l’umanissima riaffermazione che non c’è possibilità di dialogo con chi considera gli altri esseri umani come “animali” da sterminare.
Buona lettura.
È questo il mantra ripetuto e declinato da tutti i difensori degli accordi esistenti tra università italiane e israeliane. Che non sempre si fermano sul limite segnato dalla Costituzione, ossia l’autonomia garantita degli atenei.
Il loro obiettivo è stigmatizzare le mobilitazioni studentesche, che hanno convinto diversi atenei a sospendere alcuni progetti comuni con quelli israeliani, grazie anche alla pressione di un folto numero di docenti.
Fanno ovviamente molto peggio i sionisti da battaglia.
Stefano Parisi, presidente dell’Associazione «Setteottobre», afferma che è «una scelta gravissima ed inquietante che ci riporta ad un passato lontano che non avremmo mai voluto rivivere. Colpire il mondo dell’università e della ricerca di Israele che è all’avanguardia nel mondo ed impedire la collaborazione con un ateneo importante come quello di Torino, che potrebbe portare ricadute positive per il nostro Paese, è l’ennesima dimostrazione del clima di odio antisemita che dal 7 ottobre sta montando con furia in Italia».
Inutile far notare a gente con questa che proprio la riduzione dell’universo ebraico al solo Stato di Israele e la condanna di ogni critica nei suoi confronti sono in realtà la più potente spinta per eventuali rigurgiti antisemiti, al momento ancora molto sottotraccia visto che dovunque la destra nazifascista è compattamente al fianco di Netanyahu.
Assistere impassibili a un genocidio in diretta – o a un “semplice massacro”, come osa dire qualche giornalista che si improvvisa intellettuale – o addirittura “tifare” per i massacratori e aiutarli in molti modi, è possibile solo se si accantonano completamente i più elementari sentimenti umani e si accetta la condizione de La zona di interesse.
Parlare dell’università come “tempio del confronto” è ovviamente giustissimo e doveroso. Ma le parole debbono corrispondere ai fatti, altrimenti si condanna l’università e la sua millenaria storia a subire la squallida sorte della classe politica occidentale, ormai votata alla guerra mondiale – in posizione oltretutto servile – mentre quotidianamente si auto esalta come “democrazia” e “difensore dei diritti umani”.
Questo resoconto che ci illustra la realtà di una delle principali università israeliane documenta come quel “confronto” evocato qui all’unico scopo di prorogare rapporti di ricerca dual use, con ricadute sia civili che militari, sia da tempo stato seppellito – senza onore – proprio dagli atenei dello “Stato ebraico”.
Che, come ogni altro Stato non laico, assume la stessa logica di ogni altro “Stato confessionale”. Sia questo uno “Stato cristiano” oppure uno “Stato islamico”.
Dunque la mobilitazione degli studenti, non solo italiani come ha dovuto verificare anche Biden, non è solo “giustificata” ma è l’umanissima riaffermazione che non c’è possibilità di dialogo con chi considera gli altri esseri umani come “animali” da sterminare.
Buona lettura.
*****
“Un’università che promuove la diversità e l’inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza”. Queste sono alcune delle parole usate dalla Hebrew University di Gerusalemme, una delle più importanti istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione.
La settimana scorsa, però, l’università ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’importante studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.
La scandalosa decisione, emessa senza una regolare udienza, è arrivata subito dopo la puntata del podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street, in cui esponeva le sue posizioni critiche nei confronti del sionismo e dell’assalto di Israele a Gaza.
Ma la studiosa è stata nel radar dell’università per mesi (e addirittura anni), dopo aver firmato una petizione a fine ottobre che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio”. La Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, dovrebbe “trovare un’altra sede accademica che corrisponda alle sue posizioni”.
La sospensione svuota certamente di significato alcuni dei corsi “illuminati” che l’università ha da offrire. Infatti, cosa può insegnare un’università, che sospende un membro anziano della facoltà senza un’udienza, ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato democratico”?
Cosa può insegnare un’istituzione accademica, che si allinea ai sentimenti più estremi e falsi della società, su “Libertà, cittadinanza e genere”? Cosa può insegnarci su “Diritti umani, femminismo e cambiamento sociale” un’istituzione che mette a tacere in modo crudele e prepotente la voce critica di una donna, di una docente e di un membro di una minoranza perseguitata?
In una dichiarazione che presentava la sua visione dell’istituzione accademica diversi anni fa, il presidente dell’università, il professor Asher Cohen – che insieme al rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian – ha affermato che l’università ha “guidato un processo di inclusione delle popolazioni che compongono la società israeliana. Crediamo in un campus eterogeneo, pluralista ed egualitario, dove il pubblico proveniente da contesti diversi si conosce e viene introdotto al valore della coesistenza”.
Sono queste le parole importanti di un uomo che sembra però incapace di ascoltare voci politiche critiche che differiscono dalle sue.
Nella stessa dichiarazione, Cohen si vanta della grande responsabilità dell’università “nei confronti della società israeliana, e in particolare di Gerusalemme”.
Quella stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove oltre 350.000 palestinesi sono oppressi ogni giorno, le loro case demolite e i loro figli tirati arbitrariamente giù dal letto e arrestati nel cuore della notte – senza che nessuno dei dirigenti della torre d’avorio di Cohen dica una parola su di loro.
C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus di Mount Scopus, che devono affrontare le espropriazioni di terre e proprietà da parte dei coloni sostenuti dallo Stato.
Ma è particolarmente grave che la Hebrew University non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione in atto nel villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza.
Possibile che nelle serate che Cohen trascorre nel suo ufficio non senta il rumore degli spari della polizia israeliana, che da tempo sono la colonna sonora del villaggio, proprio sotto la sua finestra?
Se solo il grande peccato dell’Hebrew University (ed è davvero un grande peccato) fosse l’oblio. La sospensione di Shalhoub-Kevorkian si aggiunge a una lunga lista di persecuzioni politiche e di indottrinamento militarista promossi dall’istituzione nel corso degli anni.
Dopo tutto, questa è la stessa università che, nel gennaio 2019, ha assecondato una brutta campagna di incitamento condotta da un gruppo studentesco di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che aveva rimproverato uno studente per essersi presentato al campus in uniforme militare.
Invece di difenderla dalle false accuse, l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente”.
Questa è la stessa università che, pochi mesi dopo, ha scelto di trasformare il campus in un piccolo campo militare, ospitando corsi per l’unità di intelligence dell’esercito israeliano – una di una lunga serie di proficue collaborazioni con l’esercito – nonostante le proteste di studenti e docenti.
Questa è la stessa università che, più volte, ha molestato e messo a tacere le associazioni studentesche palestinesi, concedendo al contempo crediti accademici agli studenti che fanno volontariato con il gruppo di estrema destra Im Tirtzu.
E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla su come Israele distrugge sistematicamente le scuole e gli istituti di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i loro colleghi assediati, bombardati e affamati a Gaza, ma i principi stessi del mondo accademico.
In una lettera al deputato Sharren Haskel per spiegare la loro decisione, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato la Shalhoub-Kevorkian di essersi espressa in modo “vergognoso, antisionista e incitante” dall’inizio della guerra, schernendola per aver definito la politica di Israele a Gaza un genocidio.
Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano la calamità di Gaza un genocidio, ma la stessa Corte Internazionale di Giustizia, il più alto tribunale del mondo, ha preso sul serio questa pesante accusa e ha stabilito che non può essere respinta a priori.
È come se Cohen e Sheafer non solo fossero sorpresi di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche – il cielo non voglia! – antisionista.
Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università, i suoi dirigenti avrebbero dovuto essere obbligati a informare ogni docente e studente prima di varcare i cancelli.
È lecito affermare che uno dei motivi principali per cui non lo fanno, a parte le restrizioni legali, è che la Hebrew University beneficia della presenza di palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, liberalismo e inclusione. Nel frattempo, può continuare a perseguitare i palestinesi in patria, lontano dagli occhi del mondo.
Questo atto vergognoso si sta già ripercuotendo con forza nel mondo accademico e nei media di tutto il mondo, marchiando la Hebrew University con la vergogna che merita.
Fino ad allora, l’unico corso che posso trovare nei moduli dell’università che sembra appropriato da insegnare agli studenti è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Machiavelli, il filosofo del governo tirannico.
Fonte
Guerra in Ucraina - Torna in campo il piano cinese di pace
In una lunga intervista concessa alle Izvestija, il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov si è soffermato particolarmente sul piano di pace proposto dalla Cina per il conflitto in Ucraina, dandone un’altissima valutazione.
Nonostante che tale proposta sia stata avanzata oltre un anno fa, a parere di Lavrov è tuttora attuale, proprio perché è inquadrata nel complesso della sicurezza collettiva mondiale, il cui rifiuto da parte occidentale, nel dicembre 2021, aveva condotto alla crisi attuale.
Sul sito REX, il politologo Vladimir Pavlenko afferma che l’attualità della proposta cinese è riconducibile a tre aspetti.
Essa apparve nel momento in cui in Occidente, puntando tutto sulla “controffensiva ucraina di primavera”, ci si illudeva su un presunto isolamento internazionale della Russia. Allora, Washington, Londra e Bruxelles, dopo aver fatto saltare i colloqui di Istanbul, puntavano a tutt’altro che a una soluzione pacifica.
Tutte le sortite su “tregua”, “soluzione coreana”, ecc., afferma Pavlenko, erano venute più tardi, per le disfatte militari di Kiev; mentre il piano di Pechino era stato precedente a quelle e aveva significato l’apertura di una breccia nel muro della propaganda occidentale a senso unico sul conflitto.
Ricoperto di anatemi a Ovest, il piano cinese aveva riscosso una diversa accoglienza nell’Est e nel Sud del mondo: era apparso un punto di vista alternativo a quello euroatlantico.
L’inviato cinese Li Hui cominciò a girare per l’Europa per illustrare la proposta ed ebbe larga risonanza l’intervento del Ministro degli esteri Wang Yi alla Conferenza di Monaco.
Tra i punti del piano cinese, che ora Pechino intende riproporre, si prevede il rispetto di sovranità, garanzie di indipendenza, integrità territoriale e sicurezza di tutti i paesi; rigetto della mentalità da guerra fredda e dell’espansione dei blocchi militari; cessate il fuoco e avvio dei colloqui di pace; garanzie di sicurezza delle centrali atomiche.
Inoltre: riduzione dei rischi strategici, rifiuto dell’uso di armi chimiche, biologiche o nucleari; garanzie per l’esportazione di grano e rinuncia a sanzioni unilaterali; ricostruzione postbellica dell’Ucraina.
Il “Piano di pace della Cina“, afferma il politologo ucraino Vladimir Skachkò su Ukraina.ru, è, come la “formula Zelenskij”, non un piano, ma una raccolta di desideri e tesi che riflettono la visione cinese sulla conclusione pacifica del conflitto: non contiene misure e tempi concreti per la realizzazione di quanto proposto.
Di più: vari punti ripetono le considerazioni di Zelenskij. E, però, il piano cinese si basa sul diritto internazionale, e non su formule raffazzonate da Washington e Kiev; tiene conto degli interessi della Russia, che non viene accusata di aver “scatenato la guerra”.
Quando venne presentato, nel febbraio 2023, gli atlantisti si videro costretti a parare il colpo, soprattutto nei confronti del Sud globale, ricorrendo prima alla commedia del “formato Copenhagen”, poi a quella di Gedda, con la presenza di Vladimir Zelenskij: l’arrivo però di Li Hui mandò a monte il piano di un fronte anti-russo secondo la cosiddetta “formula Zelenskij”.
Fu l’Occidente, e non Mosca, a trovarsi isolato di fronte alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo, ricorda Pavlenko. E dopo Gedda vennero Malta e Riyad. Non casualmente, però, proprio negli stessi giorni era arrivato a Mosca il Ministro degli esteri indiano Subramanyam Jaishankar, a riprova delle scelte del Sud del mondo e del presunto “isolamento di Mosca”.
La commedia occidentale era quindi proseguita a Davos, col tentativo di bypassare la Cina. Fu così che, mentre il Ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, che presiedeva Davos, aveva chiesto di invitare la Russia, Zelenskij sentenziò che a Mosca si dovessero solamente dettare le volontà di Kiev, riproponendo la “formula Zelenskij” travestita da “piano svizzero” di ultimatum alla Russia.
Allora, dato che la Cina aveva disertato Davos, fu Cassis ad andare a Pechino per promuovere la “nuova” formula occidentale. L’unico punto su cui però Pechino concordava, era che si dovesse invitare la Russia, oltre a tenere sul tavolo tutte le proposte e non farne ingoiare una esclusiva agli altri.
Pechino, secondo le migliori tradizioni della sottile diplomazia orientale, dice Lavrov alle Izvestija, ha battuto l’Occidente: Wang Yi di nuovo a Monaco e Li Hui in un nuovo tour europeo, completato a Mosca a capo della missione cinese tra gli osservatori delle elezioni presidenziali russe.
Un gesto, sottolinea Pavlenko, eloquente, che ha messo in ridicolo le speculazioni occidentali sulla “non democraticità” del voto. Così che Zelenskij rimane beffato ancora una volta, lamentandosi della scarsa partecipazione alla conferenza svizzera perché, dice, i più avrebbero paura di Mosca.
Non hanno paura, dice Pavlenko: semplicemente hanno capito che la versione occidentale del conflitto, puramente accusatoria nei confronti della Russia, non è più “obbligatoria” per tutti, ma è l’opinione del solo Occidente, e che a essa ci sono delle alternative e ognuno è libero di sceglierle e anche di proporne altre, perché non c’è il monopolio della “verità” occidentale.
C’è anche un’alternativa organizzativa: prima ancora che Li Hui facesse il suo tour europeo, il rappresentante permanente della Cina all’ONU Zhang Jun, proponendo che l’Occidente “lasciasse l’Ucraina” e non interferisse con il processo di pace, aveva annunciato la disponibilità di Pechino a creare tutte le condizioni per negoziati tra Mosca e Kiev.
Quale era stata la risposta occidentale? Quella del consueto linguaggio dei golpisti di Kiev: le insolenze di Danilov (ormai ex) verso Li Hui e le ingiurie di Zelenskij all’indirizzo di Putin.
Ora però, afferma Vladimir Skachkò, si potrebbe addirittura scorgere una mezza “collusione” Mosca-Pechino-Washington sul destino del conflitto. In ogni caso, Russia e Cina sarebbero pronte a proporre agli USA una strada di regolazione, nel caso la Casa Bianca intenda ridurre alla ragione il suo “cane a catena” neonazista, che sfugge spesso al controllo.
Nello specifico, Skachkò ha in mente l’ennesimo “summit della pace” di Zelenskij in Svizzera, coi famigerati 10 punti da lui proposti già nell’autunno 2022 e respinti da Mosca e Pechino, ma sostenuti dall’Occidente, perché sottintendevano la sconfitta della Russia.
L’idea di Zelenskij di una nuova “Davos” ha fatto ovviamente da paravento all’ennesima richiesta di artiglierie, munizionamento e, soprattutto, soldi; il tutto condito con la minaccia che, sconfitta l’Ucraina, Putin si darebbe a realizzare la «sua idea nazionale: il risorgere dell’URSS, e anche di più: l’impero russo».
Zelenskij si è dunque lamentato che non tutti i partner occidentali «hanno intenzione di partecipare al summit in Svizzera, perché intrattengono normali rapporti con la Russia»: cosa in larga parte vera, dato che, a questo punto, molti vedrebbero di buon occhio colloqui di pace o, quantomeno, un cessate il fuoco.
Al summit svizzero, però, scrive Skachkò, sarebbe disposta a partecipare la Cina, non per aderire alla “formula Zelenskij”, bensì per riproporre il proprio piano di pace.
Li Hui ha anche reso noti i due punti-requisiti di Mosca per l’inizio dei negoziati, con cui è d’accordo Pechino: cessazione delle forniture di armi occidentali all’Ucraina e denuncia del decreto di Zelenskij sul divieto dei negoziati con Putin.
Combinati con gli altri punti del piano cinese, ciò per Kiev significherebbe la fine della guerra e la fine del regime neonazista di Zelenskij: semplicemente, egli diverrebbe inutile e, nel migliore dei casi, verrebbe messo alla porta.
Ora la Svizzera, afferma Sergej Lavrov, tenta di attirare il maggior numero di partecipanti al “summit di pace”, proponendo di esaminare i punti “più innocenti e comprensibili” della formula Zelenskij, come la sicurezza alimentare ed energetica: si tratta però del solito “formato Copenaghen”, secondo cui «tutti devono per forza accettare la “formula Zelenskij“, sostenerla, o quantomeno dichiarare di volerne discuterne una parte... si fa per attirare le persone con il pretesto dell’innocenza di quegli specifici punti», ha detto Lavrov. Così che, in caso di fallimento, si possa accusare Mosca e tacciarla di “aggressore”.
Pochi dubbi, quindi, che gli euro-atlantisti intendano servirsi dei negoziati per guadagnare tempo, riorganizzare le vecchie forze e accumularne di nuove per la guerra.
È così che a Ovest ci si muove su tre direttrici: si parla di negoziati, ma parallelamente si spinge Kiev alla guerra e, direttamente in Russia, si alimenta il terrorismo.
L’Occidente è sicuro, scrive Skachkò, che «portando il fardello dell’uomo civilizzato tra i barbari, gli sia consentito di tutto: inganni e tradimenti. Ma ora sembra contrapporglisi con sempre maggior successo la posizione congiunta di Russia e Cina, che possono presentare agli USA (leggi: Occidente) un’offerta che non possono rifiutare. I fautori del nuovo ordine multipolare stanno guadagnando forza e il vecchio egemone si sta indebolendo: in questa ineluttabilità dell’inevitabile si basano le speranze».
Si vorrebbe poter nutrire la stessa speranza. Il linguaggio, gli atteggiamenti bellicisti e, più importante, le scelte militariste degli “europeisti” più convinti (cosa hanno da dire oggi, per esempio, i “sinistrati” che prima del 15 ottobre sostenevano il candidato “europeista” Donald Tusk, che oggi galoppa verso il riarmo polacco e evoca apertamente la guerra?) lasciano però ben poche speranze.
E lo stesso linguaggio con cui si vuole inculcare nelle persone l’inevitabilità della guerra contro la Russia ci dice che, oggi, non si intende nemmeno perder tempo con la melliflua formula usata da Napoleone verso Alessandro I dopo il sacco di Mosca: «Conduco la guerra contro Vostra Maestà senza sentimenti ostili».
Oggi quei sentimenti campeggiano sulle tessere di partito di tutte le formazioni euroliberali, o guerrafondaie che dir si voglia.
Fonte
Nonostante che tale proposta sia stata avanzata oltre un anno fa, a parere di Lavrov è tuttora attuale, proprio perché è inquadrata nel complesso della sicurezza collettiva mondiale, il cui rifiuto da parte occidentale, nel dicembre 2021, aveva condotto alla crisi attuale.
Sul sito REX, il politologo Vladimir Pavlenko afferma che l’attualità della proposta cinese è riconducibile a tre aspetti.
Essa apparve nel momento in cui in Occidente, puntando tutto sulla “controffensiva ucraina di primavera”, ci si illudeva su un presunto isolamento internazionale della Russia. Allora, Washington, Londra e Bruxelles, dopo aver fatto saltare i colloqui di Istanbul, puntavano a tutt’altro che a una soluzione pacifica.
Tutte le sortite su “tregua”, “soluzione coreana”, ecc., afferma Pavlenko, erano venute più tardi, per le disfatte militari di Kiev; mentre il piano di Pechino era stato precedente a quelle e aveva significato l’apertura di una breccia nel muro della propaganda occidentale a senso unico sul conflitto.
Ricoperto di anatemi a Ovest, il piano cinese aveva riscosso una diversa accoglienza nell’Est e nel Sud del mondo: era apparso un punto di vista alternativo a quello euroatlantico.
L’inviato cinese Li Hui cominciò a girare per l’Europa per illustrare la proposta ed ebbe larga risonanza l’intervento del Ministro degli esteri Wang Yi alla Conferenza di Monaco.
Tra i punti del piano cinese, che ora Pechino intende riproporre, si prevede il rispetto di sovranità, garanzie di indipendenza, integrità territoriale e sicurezza di tutti i paesi; rigetto della mentalità da guerra fredda e dell’espansione dei blocchi militari; cessate il fuoco e avvio dei colloqui di pace; garanzie di sicurezza delle centrali atomiche.
Inoltre: riduzione dei rischi strategici, rifiuto dell’uso di armi chimiche, biologiche o nucleari; garanzie per l’esportazione di grano e rinuncia a sanzioni unilaterali; ricostruzione postbellica dell’Ucraina.
Il “Piano di pace della Cina“, afferma il politologo ucraino Vladimir Skachkò su Ukraina.ru, è, come la “formula Zelenskij”, non un piano, ma una raccolta di desideri e tesi che riflettono la visione cinese sulla conclusione pacifica del conflitto: non contiene misure e tempi concreti per la realizzazione di quanto proposto.
Di più: vari punti ripetono le considerazioni di Zelenskij. E, però, il piano cinese si basa sul diritto internazionale, e non su formule raffazzonate da Washington e Kiev; tiene conto degli interessi della Russia, che non viene accusata di aver “scatenato la guerra”.
Quando venne presentato, nel febbraio 2023, gli atlantisti si videro costretti a parare il colpo, soprattutto nei confronti del Sud globale, ricorrendo prima alla commedia del “formato Copenhagen”, poi a quella di Gedda, con la presenza di Vladimir Zelenskij: l’arrivo però di Li Hui mandò a monte il piano di un fronte anti-russo secondo la cosiddetta “formula Zelenskij”.
Fu l’Occidente, e non Mosca, a trovarsi isolato di fronte alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo, ricorda Pavlenko. E dopo Gedda vennero Malta e Riyad. Non casualmente, però, proprio negli stessi giorni era arrivato a Mosca il Ministro degli esteri indiano Subramanyam Jaishankar, a riprova delle scelte del Sud del mondo e del presunto “isolamento di Mosca”.
La commedia occidentale era quindi proseguita a Davos, col tentativo di bypassare la Cina. Fu così che, mentre il Ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, che presiedeva Davos, aveva chiesto di invitare la Russia, Zelenskij sentenziò che a Mosca si dovessero solamente dettare le volontà di Kiev, riproponendo la “formula Zelenskij” travestita da “piano svizzero” di ultimatum alla Russia.
Allora, dato che la Cina aveva disertato Davos, fu Cassis ad andare a Pechino per promuovere la “nuova” formula occidentale. L’unico punto su cui però Pechino concordava, era che si dovesse invitare la Russia, oltre a tenere sul tavolo tutte le proposte e non farne ingoiare una esclusiva agli altri.
Pechino, secondo le migliori tradizioni della sottile diplomazia orientale, dice Lavrov alle Izvestija, ha battuto l’Occidente: Wang Yi di nuovo a Monaco e Li Hui in un nuovo tour europeo, completato a Mosca a capo della missione cinese tra gli osservatori delle elezioni presidenziali russe.
Un gesto, sottolinea Pavlenko, eloquente, che ha messo in ridicolo le speculazioni occidentali sulla “non democraticità” del voto. Così che Zelenskij rimane beffato ancora una volta, lamentandosi della scarsa partecipazione alla conferenza svizzera perché, dice, i più avrebbero paura di Mosca.
Non hanno paura, dice Pavlenko: semplicemente hanno capito che la versione occidentale del conflitto, puramente accusatoria nei confronti della Russia, non è più “obbligatoria” per tutti, ma è l’opinione del solo Occidente, e che a essa ci sono delle alternative e ognuno è libero di sceglierle e anche di proporne altre, perché non c’è il monopolio della “verità” occidentale.
C’è anche un’alternativa organizzativa: prima ancora che Li Hui facesse il suo tour europeo, il rappresentante permanente della Cina all’ONU Zhang Jun, proponendo che l’Occidente “lasciasse l’Ucraina” e non interferisse con il processo di pace, aveva annunciato la disponibilità di Pechino a creare tutte le condizioni per negoziati tra Mosca e Kiev.
Quale era stata la risposta occidentale? Quella del consueto linguaggio dei golpisti di Kiev: le insolenze di Danilov (ormai ex) verso Li Hui e le ingiurie di Zelenskij all’indirizzo di Putin.
Ora però, afferma Vladimir Skachkò, si potrebbe addirittura scorgere una mezza “collusione” Mosca-Pechino-Washington sul destino del conflitto. In ogni caso, Russia e Cina sarebbero pronte a proporre agli USA una strada di regolazione, nel caso la Casa Bianca intenda ridurre alla ragione il suo “cane a catena” neonazista, che sfugge spesso al controllo.
Nello specifico, Skachkò ha in mente l’ennesimo “summit della pace” di Zelenskij in Svizzera, coi famigerati 10 punti da lui proposti già nell’autunno 2022 e respinti da Mosca e Pechino, ma sostenuti dall’Occidente, perché sottintendevano la sconfitta della Russia.
L’idea di Zelenskij di una nuova “Davos” ha fatto ovviamente da paravento all’ennesima richiesta di artiglierie, munizionamento e, soprattutto, soldi; il tutto condito con la minaccia che, sconfitta l’Ucraina, Putin si darebbe a realizzare la «sua idea nazionale: il risorgere dell’URSS, e anche di più: l’impero russo».
Zelenskij si è dunque lamentato che non tutti i partner occidentali «hanno intenzione di partecipare al summit in Svizzera, perché intrattengono normali rapporti con la Russia»: cosa in larga parte vera, dato che, a questo punto, molti vedrebbero di buon occhio colloqui di pace o, quantomeno, un cessate il fuoco.
Al summit svizzero, però, scrive Skachkò, sarebbe disposta a partecipare la Cina, non per aderire alla “formula Zelenskij”, bensì per riproporre il proprio piano di pace.
Li Hui ha anche reso noti i due punti-requisiti di Mosca per l’inizio dei negoziati, con cui è d’accordo Pechino: cessazione delle forniture di armi occidentali all’Ucraina e denuncia del decreto di Zelenskij sul divieto dei negoziati con Putin.
Combinati con gli altri punti del piano cinese, ciò per Kiev significherebbe la fine della guerra e la fine del regime neonazista di Zelenskij: semplicemente, egli diverrebbe inutile e, nel migliore dei casi, verrebbe messo alla porta.
Ora la Svizzera, afferma Sergej Lavrov, tenta di attirare il maggior numero di partecipanti al “summit di pace”, proponendo di esaminare i punti “più innocenti e comprensibili” della formula Zelenskij, come la sicurezza alimentare ed energetica: si tratta però del solito “formato Copenaghen”, secondo cui «tutti devono per forza accettare la “formula Zelenskij“, sostenerla, o quantomeno dichiarare di volerne discuterne una parte... si fa per attirare le persone con il pretesto dell’innocenza di quegli specifici punti», ha detto Lavrov. Così che, in caso di fallimento, si possa accusare Mosca e tacciarla di “aggressore”.
Pochi dubbi, quindi, che gli euro-atlantisti intendano servirsi dei negoziati per guadagnare tempo, riorganizzare le vecchie forze e accumularne di nuove per la guerra.
È così che a Ovest ci si muove su tre direttrici: si parla di negoziati, ma parallelamente si spinge Kiev alla guerra e, direttamente in Russia, si alimenta il terrorismo.
L’Occidente è sicuro, scrive Skachkò, che «portando il fardello dell’uomo civilizzato tra i barbari, gli sia consentito di tutto: inganni e tradimenti. Ma ora sembra contrapporglisi con sempre maggior successo la posizione congiunta di Russia e Cina, che possono presentare agli USA (leggi: Occidente) un’offerta che non possono rifiutare. I fautori del nuovo ordine multipolare stanno guadagnando forza e il vecchio egemone si sta indebolendo: in questa ineluttabilità dell’inevitabile si basano le speranze».
Si vorrebbe poter nutrire la stessa speranza. Il linguaggio, gli atteggiamenti bellicisti e, più importante, le scelte militariste degli “europeisti” più convinti (cosa hanno da dire oggi, per esempio, i “sinistrati” che prima del 15 ottobre sostenevano il candidato “europeista” Donald Tusk, che oggi galoppa verso il riarmo polacco e evoca apertamente la guerra?) lasciano però ben poche speranze.
E lo stesso linguaggio con cui si vuole inculcare nelle persone l’inevitabilità della guerra contro la Russia ci dice che, oggi, non si intende nemmeno perder tempo con la melliflua formula usata da Napoleone verso Alessandro I dopo il sacco di Mosca: «Conduco la guerra contro Vostra Maestà senza sentimenti ostili».
Oggi quei sentimenti campeggiano sulle tessere di partito di tutte le formazioni euroliberali, o guerrafondaie che dir si voglia.
Fonte
Il riarmo europeo tra contrasti fra paesi e crescita delle imprese belliche
di Domenico Moro
Sembra passato molto tempo da quando la transizione ecologica era al centro del dibattito della UE, oggi le preoccupazioni green hanno lasciato il passo alla spinta a potenziare la difesa europea. Nel recente Consiglio europeo – il consesso che riunisce i capi di governo europei – l’attenzione è andata tutta alla questione militare e alla guerra.
Tuttavia, le spaccature sono evidenti tra i 27 Paesi che compongono la UE, e che faticano a trovare una posizione unitaria specialmente sul finanziamento del riarmo ritenuto necessario per affrontare la Russia di Putin. Tale difficoltà è dovuta alla disomogeneità degli interessi nazionali, sui quali pesa la posizione geografica, più o meno vicina all’epicentro della crisi bellica, cioè all’Ucraina, ma anche l’orientamento politico generale. Ad esempio mentre Pedro Sanchez, primo ministro spagnolo, afferma che “non bisogna spaventare troppo i cittadini con discorsi di guerra”, l’omologa estone, Kaja Kallas, sostiene che “occorre prepararsi anche ad una guerra sul terreno”, riecheggiando le recenti dichiarazioni del presidente francese, Macron, secondo il quale non è da escludere l’invio di truppe di terra in Ucraina.
La spaccatura non è solo sulla percezione della imminenza della guerra. Anche se quasi tutti i Paesi sono più o meno d’accordo sul potenziamento dei loro apparati bellici, sono però spaccati in due sulle modalità di finanziamento del riarmo. La spaccatura esiste anche tra la Commissione europea, guidata da Ursula von der Leyen, che propone di istituire un centro di spesa comune per acquisire munizioni e armi da inviare all’Ucraina, e Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, che lo ritiene inutile.
Quindi, il contendere è tutto incentrato sul finanziamento europeo o nazionale del riarmo europeo. Su questo si confrontano due gruppi contrapposti di Paesi. Da una parte c’è un gruppo di Paesi del Nord, i cosiddetti “frugali”, che sostengono che la difesa è una competenza nazionale e che pertanto deve essere finanziata con risorse nazionali. La proposta della Commissione europea di creare un programma comune con cui sostenere le politiche industriali legate alla difesa è stata considerata una inaccettabile invadenza delle scelte nazionali. Fa parte di questo gruppo la Germania, che si è opposta alla costituzione di una industria europea della difesa e il cui ministro dell’Economia, Christian Lindner, ha affermato che “L’Europa deve investire di più in difesa, ma ciò non significa che debba farlo l’Unione Europea”. La Germania non a caso ha stanziato, a livello nazionale, un budget di 100 miliardi di euro per rafforzare le proprie Forze Armate.
Dall’altra parte, invece, troviamo un altro gruppo di Paesi, capeggiato dalla Francia, e nel quale è presente anche l’Italia, secondo cui la difesa europea non può fare il salto richiesto senza massicce risorse che solo un debito comune può fornire. Infatti, il problema è che, a differenza dei frugali, i Paesi del sud della UE hanno debiti pubblici elevati e non possono dislocare risorse ingenti sulla spesa bellica, anche perché sempre i frugali sono fautori della disciplina di bilancio, sancita dai Trattati europei, che impone controllo e riduzione progressiva dei debiti dei Paesi del Sud. Secondo questi ultimi, invece, il debito pubblico europeo, con l’emissione di eurobond, si è dimostrato molto utile per fronteggiare le conseguenze della pandemia di Covid-19 e potrebbe essere replicato per il rafforzamento degli eserciti continentali.
Quindi, la discussione prosegue sul nuovo debito in comune per finanziare la difesa. Intanto, Zelensky è intervenuto al Consiglio europeo per chiedere un aumento nella fornitura di nuove armi, che sarebbe da finanziare con i profitti generati dai fondi russi che sono stati congelati in Occidente dal momento dello scoppio della guerra. I 27 hanno dato il loro consenso di massima all’operazione, con la sola riserva dell’Ungheria, che creerà ulteriore sfiducia nella collocazione di fondi dai Paesi emergenti in Europa. Inoltre, la UE al Consiglio europeo ha fatto proprio l’obiettivo di rilanciare e integrare l’industria della difesa, e i capi di governo e di Stato hanno chiesto uno studio di fattibilità sulle varie possibili opzioni di finanziamento per le spese militari. In una lettera congiunta Francia, Estonia, Lettonia, Lituania, Portogallo e Romania hanno affermato che ci sono diverse strade possibili da esplorare, tra cui un prestito europeo. La Germania, come abbiamo detto è contraria a un nuovo debito in comune, anche perché i finanziamenti del NextGenerationEU, il fondo stabilito per la transizione ecologica e digitale e la resilienza delle economie europee, in gran parte non sono stati ancora utilizzati. La Germania, inoltre, è stretta in una contraddizione: da una parte ha bisogno di fondi per la transizione ambientale e la difesa, dall’altra si è imposta un freno al debito, che si sta rivelando una pericolosa costrizione. Infine, la Germania è contraria anche all’unione europea del mercato dei capitali, che potrebbe mobilitare risorse private anche sul riarmo.
Intanto per quanto riguarda l’Italia, Meloni, a margine del Consiglio europeo, ha avuto un incontro con Macron in cui si è discusso anche di difesa comune, sulla quale i due si sono trovati in sintonia, in particolare sull’alimentare la spesa bellica mediante iniziative finanziarie che non escludono il ricorso all’emissione di debito comune. Anche il coinvolgimento nella questione del finanziamento della spesa bellica della Bei – la banca europea per gli investimenti – è considerato dalla Meloni “un passo in avanti”.
Mentre i vertici dei governi europei discutono sull’integrazione dell’industria bellica europea e sul modo di reperire gli ingentissimi fondi necessari a finanziare il riarmo europeo, la tendenza al riarmo ha avuto un impatto favorevole sulle imprese europee della difesa quotate in borsa. Solo nell’ultimo anno, l’indice in euro Stoxx Europe Total Market Aerospace & Defence ha guadagnato una crescita del 50% in borsa. Tutte le più importanti imprese belliche europee hanno beneficiato di una forte crescita del loro valore azionario. La francese Safran è aumentata del 57%, la tedesca Rheinmetall del 64%, la franco-tedesca Airbus del 43%, la britannica Bae Systems del 41% e l’italiana Leonardo del 100%.
La crescita delle imprese del settore bellico in Europa è molto più forte di quella delle imprese omologhe statunitensi, che comunque hanno una capitalizzazione di borsa molto maggiore. Qual è la ragione? Questa risiede nel fatto che molti Paesi europei risultano indietro rispetto alla richiesta della Nato di portare al 2% del Pil la spesa militare, mentre gli Usa spendono circa il 3,5% del loro Pil in armi e equipaggiamenti. Le azioni delle imprese militari Usa sono state sostenute da una spesa elevata e costante, che non è stata aumentata in maniera significativa a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina. Viceversa l’Europa non ha mai apprezzato i titoli delle imprese belliche, anche a causa della decisione della Bei di escludere dai suoi finanziamenti le imprese belliche, decisione su cui, come abbiamo visto sopra, la banca è tornata indietro. Tuttavia, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina molti Paesi – soprattutto i Paesi baltici e la Polonia, che hanno superato ampiamente il 2% di spesa sul Pil – hanno aumentato la spesa militare. Il connesso aumento degli investimenti e degli acquisti di armamenti ha reso più appetibili i titoli di borsa delle imprese belliche europee. La situazione di Leonardo riflette questo contesto. L’azienda italiana ha beneficiato di maxi commesse come quella polacca per gli elicotteri AW149 nel 2022. Inoltre, le banche d’affari come la Deutsche Bank e Bofa ritengono che le azioni di Leonardo abbiano ancora molto spazio di crescita, proprio a causa del riarmo in corso.
Secondo alcuni analisti l’Europa ha necessità di pianificare l’intervento di spesa militare per sostenere le imprese belliche europee che devono soddisfare ordini in crescita. In particolare bisogna aumentare in tempi stretti una capacità produttiva che si era strutturata per i tempi di pace. La verità è che gli ultimi decenni non sono stati tempi di pace. Tuttavia, le guerre intraprese dalle potenze europee e dagli Usa erano dirette contro avversari di basso profilo tecnologico e scarsi sul piano dell’armamento pesante (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria), per contrastare i quali l’industria bellica europea era più che sufficiente. Ora, invece, si prospetta la possibilità di scontrarsi con apparati bellici moderni e potenti, tipici di Stati grandi e strutturati, come la Russia.
Ciò che appare evidente è una forte tendenza al riarmo connessa a una forte tendenza alla guerra. Tuttavia, bisognerà vedere come evolverà la questione dei finanziamenti e soprattutto la questione delle modalità di finanziamento. Anche perché tra i 27 ci sono interessi differenziati. A spingere per la militarizzazione del continente sono soprattutto la Francia, i paesi baltici, la Finlandia e la Polonia. L’attivismo francese e le parole di Macron sull’invio di truppe europee in Ucraina sono una sorta di rivalsa nei confronti della Russia che ha sostituito recentemente la Francia come partner economico, militare e politico in diversi Paesi africani ex colonie francesi. Altri Paesi europei, come ad esempio la Spagna, non sono interessati a farsi coinvolgere dagli interessi francesi.
Senza un piano del tipo di NextGenerationEu, cioè senza l’emissione di debito europeo in comune, appare molto difficile che bilanci statali già gravati da molte uscite e costretti nei vincoli del Patto di stabilità possano sostenere le spese necessarie a confrontarsi con avversari di un certo livello. A meno di non ridurre altre voci di spesa. Ciò che appare chiaro è che la guerra ormai la fa da padrona e che a pagarne le conseguenze saranno, come al solito, i lavoratori e le classi subalterne, che saranno chiamati a combattere una eventuale guerra. Inoltre, le risorse preziose che dovrebbero andare alla sanità, all’istruzione e al sostegno sociale ai settori più disagiati della popolazione rischiano con tutta evidenza di prendere la strada della spesa bellica. Anche la proposta dell’uso del debito pubblico europeo, che potrebbe fare molto per lo sviluppo del continente e per la sua popolazione, viene circoscritto alla spesa bellica.
Concludendo, appare evidente quanto dicevamo in un precedente articolo e cioè che una più stretta unione europea – in particolare su un piano decisivo come quello delle Forze Armate e dell’industria bellica – sarebbe o impossibile o reazionaria.
Fonte
Sembra passato molto tempo da quando la transizione ecologica era al centro del dibattito della UE, oggi le preoccupazioni green hanno lasciato il passo alla spinta a potenziare la difesa europea. Nel recente Consiglio europeo – il consesso che riunisce i capi di governo europei – l’attenzione è andata tutta alla questione militare e alla guerra.
Tuttavia, le spaccature sono evidenti tra i 27 Paesi che compongono la UE, e che faticano a trovare una posizione unitaria specialmente sul finanziamento del riarmo ritenuto necessario per affrontare la Russia di Putin. Tale difficoltà è dovuta alla disomogeneità degli interessi nazionali, sui quali pesa la posizione geografica, più o meno vicina all’epicentro della crisi bellica, cioè all’Ucraina, ma anche l’orientamento politico generale. Ad esempio mentre Pedro Sanchez, primo ministro spagnolo, afferma che “non bisogna spaventare troppo i cittadini con discorsi di guerra”, l’omologa estone, Kaja Kallas, sostiene che “occorre prepararsi anche ad una guerra sul terreno”, riecheggiando le recenti dichiarazioni del presidente francese, Macron, secondo il quale non è da escludere l’invio di truppe di terra in Ucraina.
La spaccatura non è solo sulla percezione della imminenza della guerra. Anche se quasi tutti i Paesi sono più o meno d’accordo sul potenziamento dei loro apparati bellici, sono però spaccati in due sulle modalità di finanziamento del riarmo. La spaccatura esiste anche tra la Commissione europea, guidata da Ursula von der Leyen, che propone di istituire un centro di spesa comune per acquisire munizioni e armi da inviare all’Ucraina, e Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, che lo ritiene inutile.
Quindi, il contendere è tutto incentrato sul finanziamento europeo o nazionale del riarmo europeo. Su questo si confrontano due gruppi contrapposti di Paesi. Da una parte c’è un gruppo di Paesi del Nord, i cosiddetti “frugali”, che sostengono che la difesa è una competenza nazionale e che pertanto deve essere finanziata con risorse nazionali. La proposta della Commissione europea di creare un programma comune con cui sostenere le politiche industriali legate alla difesa è stata considerata una inaccettabile invadenza delle scelte nazionali. Fa parte di questo gruppo la Germania, che si è opposta alla costituzione di una industria europea della difesa e il cui ministro dell’Economia, Christian Lindner, ha affermato che “L’Europa deve investire di più in difesa, ma ciò non significa che debba farlo l’Unione Europea”. La Germania non a caso ha stanziato, a livello nazionale, un budget di 100 miliardi di euro per rafforzare le proprie Forze Armate.
Dall’altra parte, invece, troviamo un altro gruppo di Paesi, capeggiato dalla Francia, e nel quale è presente anche l’Italia, secondo cui la difesa europea non può fare il salto richiesto senza massicce risorse che solo un debito comune può fornire. Infatti, il problema è che, a differenza dei frugali, i Paesi del sud della UE hanno debiti pubblici elevati e non possono dislocare risorse ingenti sulla spesa bellica, anche perché sempre i frugali sono fautori della disciplina di bilancio, sancita dai Trattati europei, che impone controllo e riduzione progressiva dei debiti dei Paesi del Sud. Secondo questi ultimi, invece, il debito pubblico europeo, con l’emissione di eurobond, si è dimostrato molto utile per fronteggiare le conseguenze della pandemia di Covid-19 e potrebbe essere replicato per il rafforzamento degli eserciti continentali.
Quindi, la discussione prosegue sul nuovo debito in comune per finanziare la difesa. Intanto, Zelensky è intervenuto al Consiglio europeo per chiedere un aumento nella fornitura di nuove armi, che sarebbe da finanziare con i profitti generati dai fondi russi che sono stati congelati in Occidente dal momento dello scoppio della guerra. I 27 hanno dato il loro consenso di massima all’operazione, con la sola riserva dell’Ungheria, che creerà ulteriore sfiducia nella collocazione di fondi dai Paesi emergenti in Europa. Inoltre, la UE al Consiglio europeo ha fatto proprio l’obiettivo di rilanciare e integrare l’industria della difesa, e i capi di governo e di Stato hanno chiesto uno studio di fattibilità sulle varie possibili opzioni di finanziamento per le spese militari. In una lettera congiunta Francia, Estonia, Lettonia, Lituania, Portogallo e Romania hanno affermato che ci sono diverse strade possibili da esplorare, tra cui un prestito europeo. La Germania, come abbiamo detto è contraria a un nuovo debito in comune, anche perché i finanziamenti del NextGenerationEU, il fondo stabilito per la transizione ecologica e digitale e la resilienza delle economie europee, in gran parte non sono stati ancora utilizzati. La Germania, inoltre, è stretta in una contraddizione: da una parte ha bisogno di fondi per la transizione ambientale e la difesa, dall’altra si è imposta un freno al debito, che si sta rivelando una pericolosa costrizione. Infine, la Germania è contraria anche all’unione europea del mercato dei capitali, che potrebbe mobilitare risorse private anche sul riarmo.
Intanto per quanto riguarda l’Italia, Meloni, a margine del Consiglio europeo, ha avuto un incontro con Macron in cui si è discusso anche di difesa comune, sulla quale i due si sono trovati in sintonia, in particolare sull’alimentare la spesa bellica mediante iniziative finanziarie che non escludono il ricorso all’emissione di debito comune. Anche il coinvolgimento nella questione del finanziamento della spesa bellica della Bei – la banca europea per gli investimenti – è considerato dalla Meloni “un passo in avanti”.
Mentre i vertici dei governi europei discutono sull’integrazione dell’industria bellica europea e sul modo di reperire gli ingentissimi fondi necessari a finanziare il riarmo europeo, la tendenza al riarmo ha avuto un impatto favorevole sulle imprese europee della difesa quotate in borsa. Solo nell’ultimo anno, l’indice in euro Stoxx Europe Total Market Aerospace & Defence ha guadagnato una crescita del 50% in borsa. Tutte le più importanti imprese belliche europee hanno beneficiato di una forte crescita del loro valore azionario. La francese Safran è aumentata del 57%, la tedesca Rheinmetall del 64%, la franco-tedesca Airbus del 43%, la britannica Bae Systems del 41% e l’italiana Leonardo del 100%.
La crescita delle imprese del settore bellico in Europa è molto più forte di quella delle imprese omologhe statunitensi, che comunque hanno una capitalizzazione di borsa molto maggiore. Qual è la ragione? Questa risiede nel fatto che molti Paesi europei risultano indietro rispetto alla richiesta della Nato di portare al 2% del Pil la spesa militare, mentre gli Usa spendono circa il 3,5% del loro Pil in armi e equipaggiamenti. Le azioni delle imprese militari Usa sono state sostenute da una spesa elevata e costante, che non è stata aumentata in maniera significativa a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina. Viceversa l’Europa non ha mai apprezzato i titoli delle imprese belliche, anche a causa della decisione della Bei di escludere dai suoi finanziamenti le imprese belliche, decisione su cui, come abbiamo visto sopra, la banca è tornata indietro. Tuttavia, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina molti Paesi – soprattutto i Paesi baltici e la Polonia, che hanno superato ampiamente il 2% di spesa sul Pil – hanno aumentato la spesa militare. Il connesso aumento degli investimenti e degli acquisti di armamenti ha reso più appetibili i titoli di borsa delle imprese belliche europee. La situazione di Leonardo riflette questo contesto. L’azienda italiana ha beneficiato di maxi commesse come quella polacca per gli elicotteri AW149 nel 2022. Inoltre, le banche d’affari come la Deutsche Bank e Bofa ritengono che le azioni di Leonardo abbiano ancora molto spazio di crescita, proprio a causa del riarmo in corso.
Secondo alcuni analisti l’Europa ha necessità di pianificare l’intervento di spesa militare per sostenere le imprese belliche europee che devono soddisfare ordini in crescita. In particolare bisogna aumentare in tempi stretti una capacità produttiva che si era strutturata per i tempi di pace. La verità è che gli ultimi decenni non sono stati tempi di pace. Tuttavia, le guerre intraprese dalle potenze europee e dagli Usa erano dirette contro avversari di basso profilo tecnologico e scarsi sul piano dell’armamento pesante (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria), per contrastare i quali l’industria bellica europea era più che sufficiente. Ora, invece, si prospetta la possibilità di scontrarsi con apparati bellici moderni e potenti, tipici di Stati grandi e strutturati, come la Russia.
Ciò che appare evidente è una forte tendenza al riarmo connessa a una forte tendenza alla guerra. Tuttavia, bisognerà vedere come evolverà la questione dei finanziamenti e soprattutto la questione delle modalità di finanziamento. Anche perché tra i 27 ci sono interessi differenziati. A spingere per la militarizzazione del continente sono soprattutto la Francia, i paesi baltici, la Finlandia e la Polonia. L’attivismo francese e le parole di Macron sull’invio di truppe europee in Ucraina sono una sorta di rivalsa nei confronti della Russia che ha sostituito recentemente la Francia come partner economico, militare e politico in diversi Paesi africani ex colonie francesi. Altri Paesi europei, come ad esempio la Spagna, non sono interessati a farsi coinvolgere dagli interessi francesi.
Senza un piano del tipo di NextGenerationEu, cioè senza l’emissione di debito europeo in comune, appare molto difficile che bilanci statali già gravati da molte uscite e costretti nei vincoli del Patto di stabilità possano sostenere le spese necessarie a confrontarsi con avversari di un certo livello. A meno di non ridurre altre voci di spesa. Ciò che appare chiaro è che la guerra ormai la fa da padrona e che a pagarne le conseguenze saranno, come al solito, i lavoratori e le classi subalterne, che saranno chiamati a combattere una eventuale guerra. Inoltre, le risorse preziose che dovrebbero andare alla sanità, all’istruzione e al sostegno sociale ai settori più disagiati della popolazione rischiano con tutta evidenza di prendere la strada della spesa bellica. Anche la proposta dell’uso del debito pubblico europeo, che potrebbe fare molto per lo sviluppo del continente e per la sua popolazione, viene circoscritto alla spesa bellica.
Concludendo, appare evidente quanto dicevamo in un precedente articolo e cioè che una più stretta unione europea – in particolare su un piano decisivo come quello delle Forze Armate e dell’industria bellica – sarebbe o impossibile o reazionaria.
Fonte
Il regalo Usa a Netanyahu in marcia su Rafah: 2mila bombe e 25 jet
Cinquecento bombe Mk82 da 230 chili e oltre 1.800 Mk84 da più di 900 chili: è il pacchetto di aiuti militari di cui, secondo il Washington Post, l’amministrazione Biden ha appena autorizzato l’invio a Israele.
Le Mk84 non sono bombe qualsiasi: sono quelle accusate di aver causato le peggiori stragi a Gaza. «Abbiamo continuato a sostenere il diritto di Israele a difendersi – ha commentato un funzionario anonimo della Casa bianca al quotidiano – Gli aiuti condizionati non sono mai stati la nostra politica».
La scorsa settimana il Dipartimento di Stato aveva autorizzato l’invio di 25 jet F35, per un valore totale di 2,5 miliardi di dollari. Nei giorni in cui si preparava ad astenersi, con una decisione storica, nella risoluzione 2728 che ha chiesto il cessate il fuoco immediato nei giorni che restano di Ramadan (sempre meno, l’Eid cade il 10 aprile) e mentre insisteva con Tel Aviv per farsi dire come usa le armi statunitensi, Washington continuava a inviarne.
Consapevole che il premier israeliano non intende fare un passo indietro: Rafah, la città considerata dagli Usa una «linea rossa», vedrà presto l’arrivo delle truppe israeliane.
È probabile che l’approvazione finale alle mega fornitura sia arrivata durante la visita del ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a Washington della scorsa settimana. È in quell’occasione, ha scritto Axios, che avrebbe presentato la sua ultima idea: una forza multinazionale per assicurare la consegna di aiuti umanitari a Gaza.
A comporla, secondo Axios, sarebbero tre paesi arabi «amici» (tra cui l’Egitto) che resterebbero per un periodo limitato di tempo a fare la guardia al porto che gli Stati Uniti stanno costruendo lungo le coste gazawi. Negoziati sarebbero già in corso – continua Axios – ma i paesi coinvolti non intenderebbero mandare truppe adesso. Forse in futuro, dopo la guerra, con compiti di peacekeeping.
Ai boots on the ground arabi spetterebbe anche il compito di scortare i convogli in partenza dal porto. Di nuovo, l’ennesimo modo per bypassare le agenzie delle Nazioni unite attive sul campo, soprattutto alla luce della denuncia di Ocha, l’agenzia per gli affari umanitari, secondo cui Israele ha negato l’autorizzazione a otto delle 19 missioni di consegna degli aiuti al nord di Gaza programmate tra il 23 e il 29 marzo. Da inizio marzo il diniego ha riguardato 18 missioni, il 30% del totale.
«Tale mossa – ha commentato un funzionario israeliano ad Axios – costruirà un ente governativo nell’enclave che non è Hamas e che permetterà di risolvere i crescenti problemi con gli Usa quando si parla di situazione umanitaria».
L’idea di Gallant fa il paio con quella di un altro membro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot: supervisione araba e statunitense su una fantomatica nuova leadership palestinese che si occupi di «garantire la sicurezza di Israele e di modificare il sistema scolastico». Difficile che avvenga: Israele non ha mai autorizzato nessuna forza multinazionale, nemmeno sotto il cappello Onu, a svolgere ruolo di interposizione dentro Gaza.
Anzi, a sentire il quotidiano israeliano Haaretz, le autorità israeliano stanno allargando la zona cuscinetto, da anni unilateralmente imposta nell’est della Striscia e inutilizzabile dai palestinesi: una volta completata, la buffer zone arriverà a occupare il 16% di Gaza e si accompagnerà alla costruzione di un corridoio controllato dall’esercito israeliano che dividerà la Striscia in due. Israele, insomma, è rientrato fisicamente a Gaza per restarci.
A quattro giorni dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, a Gaza si muore comunque. Il più colpito è stato il quartiere orientale di Shujaiyah, a Gaza City: sono stati presi di mira un centro sportivo diventato rifugio per gli sfollati (15 uccisi), una stazione di polizia (17 vittime, di cui un agente), una pattuglia che accompagnava un convoglio di aiuti e la casa del giornalista Mahmoud Aliwa (tre uccisi).
E poi di nuovo Rafah: colpita una casa privata, 12 uccisi, per lo più donne e bambini. A Gaza city è stata centrata un’auto che viaggiava su Salah al-Din Street, otto morti (cinque bambini, due donne e un uomo), mentre il raid sulla moschea Saad Abi Waqqas di Jabaliya ha provocato due feriti.
Resta nel mirino l’ospedale al-Shifa, sotto assedio da dieci giorni: alla distruzione sistematica degli edifici intorno, ieri si è aggiunta l’uccisione di un giornalista di Al Quds Radio, Muhammad Abu Sakhl, abbattuto da un cecchino israeliano.
È il 137esimo reporter ammazzato in quasi sei mesi di offensiva. Il bilancio si è così attestato sui 32.623 palestinesi uccisi dal 7 ottobre e oltre 75mila feriti.
C’è anche un altro bilancio, quello della distruzione della vita sociale ed economica, una devastazione di strutture e infrastrutture che impedirà per anni la vivibilità di quel pezzo di terra.
Ieri Forensic Architecture, dopo l’analisi di immagini satellitari, ha denunciato la distruzione da parte dell’esercito israeliano di oltre 2mila siti agricoli, tra fattorie e serre, un terzo del totale: «La distruzione è stata più intensa nel nord di Gaza, dove il 90% delle serre è stato colpito nelle prime fasi dell’invasione via terra» iniziata a fine ottobre, scrive Forensic Architecture.
Nelle stesse ore usciva l’ultimo rapporto di Ocha: il 67% delle scuole è distrutto o danneggiato, il 38% (212 istituti) è stato deliberatamente preso di mira e una parte «usata per operazioni militari, come centri di detenzione e interrogatorio e basi militari».
Fonte
Le Mk84 non sono bombe qualsiasi: sono quelle accusate di aver causato le peggiori stragi a Gaza. «Abbiamo continuato a sostenere il diritto di Israele a difendersi – ha commentato un funzionario anonimo della Casa bianca al quotidiano – Gli aiuti condizionati non sono mai stati la nostra politica».
La scorsa settimana il Dipartimento di Stato aveva autorizzato l’invio di 25 jet F35, per un valore totale di 2,5 miliardi di dollari. Nei giorni in cui si preparava ad astenersi, con una decisione storica, nella risoluzione 2728 che ha chiesto il cessate il fuoco immediato nei giorni che restano di Ramadan (sempre meno, l’Eid cade il 10 aprile) e mentre insisteva con Tel Aviv per farsi dire come usa le armi statunitensi, Washington continuava a inviarne.
Consapevole che il premier israeliano non intende fare un passo indietro: Rafah, la città considerata dagli Usa una «linea rossa», vedrà presto l’arrivo delle truppe israeliane.
È probabile che l’approvazione finale alle mega fornitura sia arrivata durante la visita del ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a Washington della scorsa settimana. È in quell’occasione, ha scritto Axios, che avrebbe presentato la sua ultima idea: una forza multinazionale per assicurare la consegna di aiuti umanitari a Gaza.
A comporla, secondo Axios, sarebbero tre paesi arabi «amici» (tra cui l’Egitto) che resterebbero per un periodo limitato di tempo a fare la guardia al porto che gli Stati Uniti stanno costruendo lungo le coste gazawi. Negoziati sarebbero già in corso – continua Axios – ma i paesi coinvolti non intenderebbero mandare truppe adesso. Forse in futuro, dopo la guerra, con compiti di peacekeeping.
Ai boots on the ground arabi spetterebbe anche il compito di scortare i convogli in partenza dal porto. Di nuovo, l’ennesimo modo per bypassare le agenzie delle Nazioni unite attive sul campo, soprattutto alla luce della denuncia di Ocha, l’agenzia per gli affari umanitari, secondo cui Israele ha negato l’autorizzazione a otto delle 19 missioni di consegna degli aiuti al nord di Gaza programmate tra il 23 e il 29 marzo. Da inizio marzo il diniego ha riguardato 18 missioni, il 30% del totale.
«Tale mossa – ha commentato un funzionario israeliano ad Axios – costruirà un ente governativo nell’enclave che non è Hamas e che permetterà di risolvere i crescenti problemi con gli Usa quando si parla di situazione umanitaria».
L’idea di Gallant fa il paio con quella di un altro membro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot: supervisione araba e statunitense su una fantomatica nuova leadership palestinese che si occupi di «garantire la sicurezza di Israele e di modificare il sistema scolastico». Difficile che avvenga: Israele non ha mai autorizzato nessuna forza multinazionale, nemmeno sotto il cappello Onu, a svolgere ruolo di interposizione dentro Gaza.
Anzi, a sentire il quotidiano israeliano Haaretz, le autorità israeliano stanno allargando la zona cuscinetto, da anni unilateralmente imposta nell’est della Striscia e inutilizzabile dai palestinesi: una volta completata, la buffer zone arriverà a occupare il 16% di Gaza e si accompagnerà alla costruzione di un corridoio controllato dall’esercito israeliano che dividerà la Striscia in due. Israele, insomma, è rientrato fisicamente a Gaza per restarci.
A quattro giorni dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, a Gaza si muore comunque. Il più colpito è stato il quartiere orientale di Shujaiyah, a Gaza City: sono stati presi di mira un centro sportivo diventato rifugio per gli sfollati (15 uccisi), una stazione di polizia (17 vittime, di cui un agente), una pattuglia che accompagnava un convoglio di aiuti e la casa del giornalista Mahmoud Aliwa (tre uccisi).
E poi di nuovo Rafah: colpita una casa privata, 12 uccisi, per lo più donne e bambini. A Gaza city è stata centrata un’auto che viaggiava su Salah al-Din Street, otto morti (cinque bambini, due donne e un uomo), mentre il raid sulla moschea Saad Abi Waqqas di Jabaliya ha provocato due feriti.
Resta nel mirino l’ospedale al-Shifa, sotto assedio da dieci giorni: alla distruzione sistematica degli edifici intorno, ieri si è aggiunta l’uccisione di un giornalista di Al Quds Radio, Muhammad Abu Sakhl, abbattuto da un cecchino israeliano.
È il 137esimo reporter ammazzato in quasi sei mesi di offensiva. Il bilancio si è così attestato sui 32.623 palestinesi uccisi dal 7 ottobre e oltre 75mila feriti.
C’è anche un altro bilancio, quello della distruzione della vita sociale ed economica, una devastazione di strutture e infrastrutture che impedirà per anni la vivibilità di quel pezzo di terra.
Ieri Forensic Architecture, dopo l’analisi di immagini satellitari, ha denunciato la distruzione da parte dell’esercito israeliano di oltre 2mila siti agricoli, tra fattorie e serre, un terzo del totale: «La distruzione è stata più intensa nel nord di Gaza, dove il 90% delle serre è stato colpito nelle prime fasi dell’invasione via terra» iniziata a fine ottobre, scrive Forensic Architecture.
Nelle stesse ore usciva l’ultimo rapporto di Ocha: il 67% delle scuole è distrutto o danneggiato, il 38% (212 istituti) è stato deliberatamente preso di mira e una parte «usata per operazioni militari, come centri di detenzione e interrogatorio e basi militari».
Fonte
Meloni mette in competizione gli alluvionati della Romagna e quelli della Toscana
A inizio di questa settimana il Governo ha annunciato un emendamento governativo, depositato nei giorni scorsi, con cui si stanziano 66 milioni per emergenza alluvione in Toscana (il riferimento è all’alluvione di novembre/dicembre 2023).
Leggendo bene il testo, ci si può rendere conto come questi 66 milioni provengano dal fondo per la ricostruzione nei territori dell’Emilia-Romagna, della Toscana e delle Marche colpite dall’alluvione di maggio 2023.
In buona sostanza, l’emendamento del Governo non fa altro che spostare risorse da un fondo destinato agli alluvionati del maggio ‘23 di tre regioni ad un fondo per gli alluvionati del novembre/dicembre ’23 della sola Toscana (a cui già spettavano, dato che la Toscana era una di quelle tre Regioni).
Nessuna nuova risorsa per gli alluvionati toscani, dunque, ma al tempo stesso si riducono i fondi per gli alluvionati di Emilia e Marche, per i quali i rallentamenti degli stanziamenti per le famiglie e i piccoli produttori e la sostanziale inazione rispetto alla manutenzione delle reti infrastrutturali (soprattutto per l’Appennino) rappresentano una vergogna ai danni di delle popolazioni locali, che nessun comunicato roboante del Governo e dei Presidenti di Regione può sanare nella continua campagna elettorale in cui siamo immersi.
Come Potere al Popolo denunciamo questo maquillage cui fa ricorso in prima persona la Presidente del Consiglio, mentendo spudoratamente ai cittadini di tutte le regioni colpite dalle alluvioni di maggio e di questo autunno.
Il cambiamento climatico richiede un’inversione completa delle priorità del Governo e delle amministrazioni regionali: invece di dirottare miliardi di euro per l’invio di armi negli scenari di guerra e per la missione Aspides nel Mar Rosso nel tentativo di indebolire la resistenza palestinese e dei popoli solidali, abbiamo bisogno di investimenti strutturali nelle vere emergenze del nostro Paese, e sicuramente la cura e la manutenzioni dei nostri territori rivestono un ruolo di primo piano in questo senso.
Fonte
Leggendo bene il testo, ci si può rendere conto come questi 66 milioni provengano dal fondo per la ricostruzione nei territori dell’Emilia-Romagna, della Toscana e delle Marche colpite dall’alluvione di maggio 2023.
In buona sostanza, l’emendamento del Governo non fa altro che spostare risorse da un fondo destinato agli alluvionati del maggio ‘23 di tre regioni ad un fondo per gli alluvionati del novembre/dicembre ’23 della sola Toscana (a cui già spettavano, dato che la Toscana era una di quelle tre Regioni).
Nessuna nuova risorsa per gli alluvionati toscani, dunque, ma al tempo stesso si riducono i fondi per gli alluvionati di Emilia e Marche, per i quali i rallentamenti degli stanziamenti per le famiglie e i piccoli produttori e la sostanziale inazione rispetto alla manutenzione delle reti infrastrutturali (soprattutto per l’Appennino) rappresentano una vergogna ai danni di delle popolazioni locali, che nessun comunicato roboante del Governo e dei Presidenti di Regione può sanare nella continua campagna elettorale in cui siamo immersi.
Come Potere al Popolo denunciamo questo maquillage cui fa ricorso in prima persona la Presidente del Consiglio, mentendo spudoratamente ai cittadini di tutte le regioni colpite dalle alluvioni di maggio e di questo autunno.
Il cambiamento climatico richiede un’inversione completa delle priorità del Governo e delle amministrazioni regionali: invece di dirottare miliardi di euro per l’invio di armi negli scenari di guerra e per la missione Aspides nel Mar Rosso nel tentativo di indebolire la resistenza palestinese e dei popoli solidali, abbiamo bisogno di investimenti strutturali nelle vere emergenze del nostro Paese, e sicuramente la cura e la manutenzioni dei nostri territori rivestono un ruolo di primo piano in questo senso.
Fonte
Non c’è domani per il cinema italiano
di Vincenzo Morvillo
Dopo aver finalmente visto “C’è ancora domani”, il film di Paola Cortellesi uscito lo scorso anno nelle sale e presentato alla Festa del Cinema di Roma, tre sono le convinzioni che s’impongono alla mia riflessione.
La prima, purtroppo molto pessimistica, è che non c’è alcun domani per il cinema italiano. La motivazione di quest’affermazione scorata e perentoria si chiarirà nel corso dell’articolo.
La seconda è che se il movimento per la liberazione della donna ha come riferimenti culturali pellicole come quella dell’attrice romana o anche “Povere Creature” – opera del greco Yorgos Lanthimos volontaristica, esperienziale e soggettivistica, che oserei definire ispirata al Nietzsche della “Trasvalutazione dei valori” e del “fardello della morale”, in bilico tra la filosofia di “La Genealogia” e quella della “Volontà di potenza”; certo pellicola di ben altra caratura sul piano visivo, drammaturgico e narrativo, ma decisamente irrisolta sul versante “ideologico” e in tal senso ambigua sul piano della scrittura anche per quel che riguarda la riflessione sulla scienza positivistica; che esita in un femminismo ammiccante e di maniera, liberista e in versione statunitense, viaggiando astutamente e a vele spiegate sulla rotta degli Oscar; in direzione tuttavia opposta rispetto al romanzo di Alasdair Gray, che viceversa possiede una chiara impronta socialista che determina nella trasposizione cinematografica la summenzionata ambiguità e irrisolutezza – se il movimento per la liberazione della donna, dicevamo, percepisce in simili pellicole forme di rappresentazione a sostegno delle profonde problematiche di genere, non credo potrà trovare terreno fertile per un dibattito proficuo e risolutore delle discriminazioni e delle disuguaglianze.
Sia ben chiaro, non ho certo la pretesa di spiegare alle signore come e da chi farsi rappresentare sul terreno dell’arte. È solo l’umile impressione di un osservatore critico delle cose del mondo e della cultura, per giunta maschio.
La terza considerazione infine a farsi largo è che proprio la “critica”, in questo sciagurato paese e in questo tetro passaggio storico, non ha più alcun senso.
Leggere sui maggiori quotidiani e siti di cinema recensioni entusiastiche per il film della Cortellesi obbliga, a mio modesto avviso, ad una duplice considerazione consequenziale.
La subalternità dei critici alle logiche produttive e distributive, dunque alle ragioni del mercato; l’inevitabile abbassamento delle qualità analitiche dei suddetti critici e la loro progressiva incapacità argomentativa, derivante da un ridimensionamento della complessità culturale e dell’indagine dell’oggetto artistico, cui far riferimento.
Un deserto di ricerca e di studio che diventa inesorabilmente propedeutico alla oramai acclarata mediocrità del cinema (e del teatro) italiano.
Un cinema costruito per lo più su nepotismo e caste. Sul botteghino e sugli incassi. Sulla moderazione tematica e sugli equilibri politici. Su codici liberal e sintassi postmoderne.
Fatte or dunque queste doverose premesse, veniamo più precisamente al film della Cortellesi.
L'”opera prima“ dell’attrice romana risulta, sin dai primissimi quadri, un irritante concentrato di cliché senza alcuna potenza espressiva.
Enfatico nella proposizione delle scene topiche, prontamente appesantite da sottolineature recitative e registiche, finisce coll’apparire stucchevole nel suo quasi arrogante didascalismo “di sinistra”. Un film banale sul versante drammaturgico e slabbrato su quello stilistico.
Incapace di dosare commedia, cifra grottesca e dramma sociale, la regista/attrice romana sbanda paurosamente nell’impostazione linguistica, mandando fuori giri la pellicola anche sul terreno recitativo.
Dalla palude della mediocre caratterizzazione e dell’enfasi mimico-gestuale che coinvolge un po’ tutti i protagonisti, si salvano solo alcune figure comprimarie e Romana Maggiora Vergano (la figlia Marcella).
Valerio Mastandrea dal suo canto oscilla tra l’incoerenza dei registri mentre la stessa Cortellesi è costantemente sopra le righe. Ma il problema, come dicevamo, sta nel manico che imposta la regia.
Mescola – la Cortellesi – stilemi neorealistici e registri onirico/surreali; tuttavia, non essendo né Rossellini né Buñuel, sortisce effetti destabilizzanti se non addirittura ridicoli.
Emblematica, in tal senso, è la scena fuori dalla carrozzeria di Vinicio Marconi quando, colta da improvvisa pulsione, Delia – il personaggio della Cortellesi – fa dono, al suo vecchio innamorato, di una tavoletta di cioccolata americana.
La regista cala tutta l’inquadratura in un’insopportabile atmosfera di rarefazione trasognata che risulta involontariamente grottesca e simile ad uno spot dei Baci Perugina.
Si aggiunga poi, a tutto ciò, un bianco e nero ineffettuale e pleonastico nel suo intento puramente calligrafico e il melange indigesto è servito.
Attesa pertanto tale imbastitura linguistica, il tema centrale del lavoro autoriale della Cortellesi, ovvero il patriarcato e la conseguente violenza di genere, si smarrisce e depotenzia proprio tra i rivoli dell’incertezza stilistica.
Le scene di violenza fisica e verbale – che pur si preannunciano con il loro carico di brutalità maschilista – tra squinternati balletti, incursioni buñuelliane sul terreno del surreale, dialoghi sul filo di un grottesco che non riesce mai a risolversi in una chirurgica critica del patriarcato – sottoproletario, borghese o piccolo-borghese che dir si voglia – naufragano malamente tra le onde del pedagogismo di basso profilo, dell’insensatezza e, purtroppo, del macchiettismo.
Ancor più grave, poi, si rivela l’ambientazione sociale scelta dalla Cortellesi.
Una famiglia del sottoproletariato urbano post bellico, con immancabili aspirazioni piccolo-borghesi, dove la violenza sembra albergare quasi per endemica necessità di classe. Mentre, tra gli strati sociali più benestanti, seppur imperi il patriarcato, quella prepotenza si risolve in mere declinazioni verbali ed anche notevolmente smussate.
Uno stigma classista che non fa certo onore ad un’attrice che ha sempre voluto distinguersi per le sue idee progressiste.
In tal senso, ancor più sconcertante risulta il finale. Laddove lo spettatore si attenderebbe una fuga d’amore con l’innamorato dei tempi giovanili per sottrarsi alle violenze domestiche, Delia fugge sì, ma... al seggio elettorale.
Per votare, nel Giugno del 1946 – quando finalmente le donne ottennero per la prima volta in Italia il diritto di voto – e scegliere tra Monarchia e Repubblica.
Un gesto che dovrebbe simboleggiare, nelle intenzioni dell’autrice, la presa di coscienza politica ed esistenziale delle donne italiane. Nonché un gesto di ribellione, emancipazione e liberazione.
Se non fosse una tragica ingenuità ci sarebbe da ridere. Una simile illusione poteva darsi nell’immediato dopoguerra, all’indomani della dittatura fascista. Oggi, nel presente del film, il voto, declinato al maschile o al femminile, è un’irrimediabile truffa. Poco democratica e molto oligarchica.
Ma soprattutto ancora inserito in una dimensione patriarcale e immancabilmente di classe. Da cui sono tenuti significativamente ai margini proprio i ceti subalterni e le categorie socialmente ed economicamente più deboli. Come appunto le donne.
Insomma, un film sbagliato e sconcertante dal punto di vista linguistico, formale e ideologico. Cui però il pubblico e la critica plaudono come a un capolavoro di Godard.
Forse dovrei rivedere le mie coordinate critiche e interpretative. O forse no. È solo, il mio, un mantenere ferme alcune basilari chiavi di lettura attinenti ad un’estetica marxista.
Sarò inattuale, sarò vetero-comunista. Ma sempre meglio che venduto al mercato o narcotizzato dall’ideologia dominante.
Fonte
Dopo aver finalmente visto “C’è ancora domani”, il film di Paola Cortellesi uscito lo scorso anno nelle sale e presentato alla Festa del Cinema di Roma, tre sono le convinzioni che s’impongono alla mia riflessione.
La prima, purtroppo molto pessimistica, è che non c’è alcun domani per il cinema italiano. La motivazione di quest’affermazione scorata e perentoria si chiarirà nel corso dell’articolo.
La seconda è che se il movimento per la liberazione della donna ha come riferimenti culturali pellicole come quella dell’attrice romana o anche “Povere Creature” – opera del greco Yorgos Lanthimos volontaristica, esperienziale e soggettivistica, che oserei definire ispirata al Nietzsche della “Trasvalutazione dei valori” e del “fardello della morale”, in bilico tra la filosofia di “La Genealogia” e quella della “Volontà di potenza”; certo pellicola di ben altra caratura sul piano visivo, drammaturgico e narrativo, ma decisamente irrisolta sul versante “ideologico” e in tal senso ambigua sul piano della scrittura anche per quel che riguarda la riflessione sulla scienza positivistica; che esita in un femminismo ammiccante e di maniera, liberista e in versione statunitense, viaggiando astutamente e a vele spiegate sulla rotta degli Oscar; in direzione tuttavia opposta rispetto al romanzo di Alasdair Gray, che viceversa possiede una chiara impronta socialista che determina nella trasposizione cinematografica la summenzionata ambiguità e irrisolutezza – se il movimento per la liberazione della donna, dicevamo, percepisce in simili pellicole forme di rappresentazione a sostegno delle profonde problematiche di genere, non credo potrà trovare terreno fertile per un dibattito proficuo e risolutore delle discriminazioni e delle disuguaglianze.
Sia ben chiaro, non ho certo la pretesa di spiegare alle signore come e da chi farsi rappresentare sul terreno dell’arte. È solo l’umile impressione di un osservatore critico delle cose del mondo e della cultura, per giunta maschio.
La terza considerazione infine a farsi largo è che proprio la “critica”, in questo sciagurato paese e in questo tetro passaggio storico, non ha più alcun senso.
Leggere sui maggiori quotidiani e siti di cinema recensioni entusiastiche per il film della Cortellesi obbliga, a mio modesto avviso, ad una duplice considerazione consequenziale.
La subalternità dei critici alle logiche produttive e distributive, dunque alle ragioni del mercato; l’inevitabile abbassamento delle qualità analitiche dei suddetti critici e la loro progressiva incapacità argomentativa, derivante da un ridimensionamento della complessità culturale e dell’indagine dell’oggetto artistico, cui far riferimento.
Un deserto di ricerca e di studio che diventa inesorabilmente propedeutico alla oramai acclarata mediocrità del cinema (e del teatro) italiano.
Un cinema costruito per lo più su nepotismo e caste. Sul botteghino e sugli incassi. Sulla moderazione tematica e sugli equilibri politici. Su codici liberal e sintassi postmoderne.
Fatte or dunque queste doverose premesse, veniamo più precisamente al film della Cortellesi.
L'”opera prima“ dell’attrice romana risulta, sin dai primissimi quadri, un irritante concentrato di cliché senza alcuna potenza espressiva.
Enfatico nella proposizione delle scene topiche, prontamente appesantite da sottolineature recitative e registiche, finisce coll’apparire stucchevole nel suo quasi arrogante didascalismo “di sinistra”. Un film banale sul versante drammaturgico e slabbrato su quello stilistico.
Incapace di dosare commedia, cifra grottesca e dramma sociale, la regista/attrice romana sbanda paurosamente nell’impostazione linguistica, mandando fuori giri la pellicola anche sul terreno recitativo.
Dalla palude della mediocre caratterizzazione e dell’enfasi mimico-gestuale che coinvolge un po’ tutti i protagonisti, si salvano solo alcune figure comprimarie e Romana Maggiora Vergano (la figlia Marcella).
Valerio Mastandrea dal suo canto oscilla tra l’incoerenza dei registri mentre la stessa Cortellesi è costantemente sopra le righe. Ma il problema, come dicevamo, sta nel manico che imposta la regia.
Mescola – la Cortellesi – stilemi neorealistici e registri onirico/surreali; tuttavia, non essendo né Rossellini né Buñuel, sortisce effetti destabilizzanti se non addirittura ridicoli.
Emblematica, in tal senso, è la scena fuori dalla carrozzeria di Vinicio Marconi quando, colta da improvvisa pulsione, Delia – il personaggio della Cortellesi – fa dono, al suo vecchio innamorato, di una tavoletta di cioccolata americana.
La regista cala tutta l’inquadratura in un’insopportabile atmosfera di rarefazione trasognata che risulta involontariamente grottesca e simile ad uno spot dei Baci Perugina.
Si aggiunga poi, a tutto ciò, un bianco e nero ineffettuale e pleonastico nel suo intento puramente calligrafico e il melange indigesto è servito.
Attesa pertanto tale imbastitura linguistica, il tema centrale del lavoro autoriale della Cortellesi, ovvero il patriarcato e la conseguente violenza di genere, si smarrisce e depotenzia proprio tra i rivoli dell’incertezza stilistica.
Le scene di violenza fisica e verbale – che pur si preannunciano con il loro carico di brutalità maschilista – tra squinternati balletti, incursioni buñuelliane sul terreno del surreale, dialoghi sul filo di un grottesco che non riesce mai a risolversi in una chirurgica critica del patriarcato – sottoproletario, borghese o piccolo-borghese che dir si voglia – naufragano malamente tra le onde del pedagogismo di basso profilo, dell’insensatezza e, purtroppo, del macchiettismo.
Ancor più grave, poi, si rivela l’ambientazione sociale scelta dalla Cortellesi.
Una famiglia del sottoproletariato urbano post bellico, con immancabili aspirazioni piccolo-borghesi, dove la violenza sembra albergare quasi per endemica necessità di classe. Mentre, tra gli strati sociali più benestanti, seppur imperi il patriarcato, quella prepotenza si risolve in mere declinazioni verbali ed anche notevolmente smussate.
Uno stigma classista che non fa certo onore ad un’attrice che ha sempre voluto distinguersi per le sue idee progressiste.
In tal senso, ancor più sconcertante risulta il finale. Laddove lo spettatore si attenderebbe una fuga d’amore con l’innamorato dei tempi giovanili per sottrarsi alle violenze domestiche, Delia fugge sì, ma... al seggio elettorale.
Per votare, nel Giugno del 1946 – quando finalmente le donne ottennero per la prima volta in Italia il diritto di voto – e scegliere tra Monarchia e Repubblica.
Un gesto che dovrebbe simboleggiare, nelle intenzioni dell’autrice, la presa di coscienza politica ed esistenziale delle donne italiane. Nonché un gesto di ribellione, emancipazione e liberazione.
Se non fosse una tragica ingenuità ci sarebbe da ridere. Una simile illusione poteva darsi nell’immediato dopoguerra, all’indomani della dittatura fascista. Oggi, nel presente del film, il voto, declinato al maschile o al femminile, è un’irrimediabile truffa. Poco democratica e molto oligarchica.
Ma soprattutto ancora inserito in una dimensione patriarcale e immancabilmente di classe. Da cui sono tenuti significativamente ai margini proprio i ceti subalterni e le categorie socialmente ed economicamente più deboli. Come appunto le donne.
Insomma, un film sbagliato e sconcertante dal punto di vista linguistico, formale e ideologico. Cui però il pubblico e la critica plaudono come a un capolavoro di Godard.
Forse dovrei rivedere le mie coordinate critiche e interpretative. O forse no. È solo, il mio, un mantenere ferme alcune basilari chiavi di lettura attinenti ad un’estetica marxista.
Sarò inattuale, sarò vetero-comunista. Ma sempre meglio che venduto al mercato o narcotizzato dall’ideologia dominante.
Fonte
Quattro italiani su dieci rinunciano a curarsi. Siamo alla sanità “per censo”
L’Italia rischia ormai una sanità sulla base del “censo”, dove chi ha i mezzi economici potrà garantirsi le cure mentre chi non dispone di un reddito adeguato non potrà curarsi. Il ventunesimo Rapporto ‘Ospedali e salute’ redatto dall’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata) e dal Censis lancia un segnale allarmante che da tempo non è certo una novità.
Attualmente, già il 42% dei cittadini meno abbienti è costretto a rinunciare alle cure poiché, non riuscendo ad ottenerle nell’ambito del sistema pubblico, non ha i mezzi per rivolgersi alla sanità a pagamento. Anche le fasce economicamente più deboli sono spinte verso il privato non avendo accesso al Servizio Sanitario Nazionale a causa delle lunghe liste di attesa.
Il primo dato che emerge da un sondaggio Censis condotto su 2mila cittadini, è che il 47,7% degli utenti ha una percezione positiva del Servizio sanitario della propria regione: l’8,7% e il 39% ritiene che la sanità locale sia di un livello qualitativo ottimo o buono.
Il 28,1% esprime invece un giudizio di sufficienza e il 22,4% ritiene che il servizio sanitario nella propria regione sia ‘insufficiente’. Ma scomponendo il dato su basi geografica le valutazioni cambiano sensibilmente.
L’insufficienza del proprio Sistema sanitario regionale è rilevata solo dal 9,4% dei residenti nel Nord-Est contro addirittura il 35,2% degli utenti che vivono nelle aree del Mezzogiorno. Uno dei problemi maggiori restano le lunghe liste di attesa.
Di conseguenza negli ultimi 12 mesi, secondo il Rapporto Censis, il 16,3% delle persone che hanno avuto bisogno di rivolgersi ai servizi sanitari si è recato in un’altra regione, nell’ambito delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario.
La motivazione più ricorrente della mobilità sono appunto le lunghe liste di attesa nella Regione di appartenenza, afferma il 31% dei migranti sanitari. Ma c’è anche una quota del 34,9% che rinuncia e si rivolge alla sanità a pagamento (intesa come privato puro e intramoenia).
Nel 2023, il dato più grave riguarda però quel 42% di pazienti con redditi più bassi, fino a 15mila euro, che è stato costretto a procrastinare o a rinunciare alle cure sanitarie perchè è nell’impossibilità sia di accedere al Sistema Sanitario Nazionale sia di sostenere i costi della sanità a pagamento.
Il 36,9% degli italiani ha invece rinunciato ad altre spese per sostenere quelle sanitarie. Questo è avvenuto per il 50,4% tra i redditi bassi e per il 22,6% tra quelli alti. In audizione ieri alla Camera, il ministro della Salute Schillaci ha sottolineato che “I dati Istat del 2017 indicano che in Italia chi ha un titolo di studio superiore, e quindi guadagna di più, vive di più di chi ha un titolo di studio inferiore. Questo è inaccettabile“, ha detto, assicurando che “entro l’anno, dopo 17 anni, riusciremo a superare il tetto di spesa sulle assunzioni“.
Il rischio di una sanità ‘per censo’, ormai si va palesando piuttosto pesantemente nel nostro paese. Il segretario generale del Censis Giorgio De Rita ha sollecitato a trovare risposta più rapidamente: “È necessaria una accelerazione perché le tensioni sociali si stanno accumulando e questo non è un lusso che ci possiamo permettere“.
Fonte
Attualmente, già il 42% dei cittadini meno abbienti è costretto a rinunciare alle cure poiché, non riuscendo ad ottenerle nell’ambito del sistema pubblico, non ha i mezzi per rivolgersi alla sanità a pagamento. Anche le fasce economicamente più deboli sono spinte verso il privato non avendo accesso al Servizio Sanitario Nazionale a causa delle lunghe liste di attesa.
Il primo dato che emerge da un sondaggio Censis condotto su 2mila cittadini, è che il 47,7% degli utenti ha una percezione positiva del Servizio sanitario della propria regione: l’8,7% e il 39% ritiene che la sanità locale sia di un livello qualitativo ottimo o buono.
Il 28,1% esprime invece un giudizio di sufficienza e il 22,4% ritiene che il servizio sanitario nella propria regione sia ‘insufficiente’. Ma scomponendo il dato su basi geografica le valutazioni cambiano sensibilmente.
L’insufficienza del proprio Sistema sanitario regionale è rilevata solo dal 9,4% dei residenti nel Nord-Est contro addirittura il 35,2% degli utenti che vivono nelle aree del Mezzogiorno. Uno dei problemi maggiori restano le lunghe liste di attesa.
Di conseguenza negli ultimi 12 mesi, secondo il Rapporto Censis, il 16,3% delle persone che hanno avuto bisogno di rivolgersi ai servizi sanitari si è recato in un’altra regione, nell’ambito delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario.
La motivazione più ricorrente della mobilità sono appunto le lunghe liste di attesa nella Regione di appartenenza, afferma il 31% dei migranti sanitari. Ma c’è anche una quota del 34,9% che rinuncia e si rivolge alla sanità a pagamento (intesa come privato puro e intramoenia).
Nel 2023, il dato più grave riguarda però quel 42% di pazienti con redditi più bassi, fino a 15mila euro, che è stato costretto a procrastinare o a rinunciare alle cure sanitarie perchè è nell’impossibilità sia di accedere al Sistema Sanitario Nazionale sia di sostenere i costi della sanità a pagamento.
Il 36,9% degli italiani ha invece rinunciato ad altre spese per sostenere quelle sanitarie. Questo è avvenuto per il 50,4% tra i redditi bassi e per il 22,6% tra quelli alti. In audizione ieri alla Camera, il ministro della Salute Schillaci ha sottolineato che “I dati Istat del 2017 indicano che in Italia chi ha un titolo di studio superiore, e quindi guadagna di più, vive di più di chi ha un titolo di studio inferiore. Questo è inaccettabile“, ha detto, assicurando che “entro l’anno, dopo 17 anni, riusciremo a superare il tetto di spesa sulle assunzioni“.
Il rischio di una sanità ‘per censo’, ormai si va palesando piuttosto pesantemente nel nostro paese. Il segretario generale del Censis Giorgio De Rita ha sollecitato a trovare risposta più rapidamente: “È necessaria una accelerazione perché le tensioni sociali si stanno accumulando e questo non è un lusso che ci possiamo permettere“.
Fonte
30/03/2024
Quali motivazioni dietro alla recrudescenza militarista della Francia?
di Francesco Dall'Aglio
Qualche considerazione forse oziosa.
L'improvvisa aggressività, soltanto verbale naturalmente, della Francia (che fino a qualche tempo fa continuava a proporsi come una potenziale sponda negoziale e ha inviato in Ucraina materiale militare anche di ottima qualità, come i CAESAR e i missili SCALP-EG, ma non ha partecipato, e non ci sono indizi che lo faccia in futuro, alla raccolta di carri armati lasciando in patria i suoi Leclerc) non può ovviamente essere ascritta a un'improvvisa follia che ha colto Macron, causata magari dalla rabbia per aver perso l'Africa Centrale (un processo partito anni fa, sicuramente grave per la Francia ma che comunque non giustifica il rischio di una guerra nucleare).
I motivi, trattandosi di attori razionali, devono essere diversi, e in effetti lo sono e hanno a che vedere con un problema di politica interno all'UE nel momento in cui l'Unione sembrerebbe intenzionata a costituire un sistema di difesa comune, o quantomeno a stanziare un bel po' di soldi per il riarmo dei paesi membri. Se questo esercito europeo dovesse essere costituito, o quantomeno si andasse in direzione di una maggiore integrazione degli eserciti europei (soprattutto se i timori di un ritiro o di un ridimensionamento dell'impegno statunitense nella NATO fossero giustificati) si potrebbe un problema non semplice: chi lo comanderebbe?
È ovvio che nel quadro politico attuale, con una opposizione nei confronti della Russia che non sembra di immediata risoluzione, l'esercito in questione dovrebbe essere rivolto alla difesa del "fianco est" dell'Unione: ma è possibile ipotizzare che venga diretto dai paesi che finora si sono dimostrati, a parole ma anche con i fatti, i più battaglieri, come la Polonia e i baltici? Ovviamente no. La Polonia ha un cospicuo esercito di terra, e progetta di ampliarlo ulteriormente, anche se i progetti grandiosi di un anno fa sembrerebbero essere stati ridimensionati, e parrebbe essere un candidato serio (la Polonia ovviamente, non certo i baltici). Però non ha una flotta, e quindi non ha capacità di proiezione; e non è una grande potenza, tutt'al più è una potenza regionale, e deve ancora dimostrare capacità di leadership.
La Germania non sa cosa fare di sé stessa, non solo dal punto di vista militare, e non ha nessun interesse a peggiorare ulteriormente i suoi rapporti con la Russia. Spagna e Italia, lasciamo stare – non per incapacità, ma per tradizione politica: né noi né gli spagnoli ci siamo mai messi a capo di coalizioni, il nostro ruolo è sempre stato un altro, anche se ultimamente pare che ce ne siamo dimenticati (ma Tajani e Crosetto pare invece di no). Gli altri non sono in grado e non sono interessati, la Turchia lasciamo stare per ovvi motivi.
Resta la Francia che tra l'altro, e non è un dettaglio trascurabile, con l'uscita della Gran Bretagna dall'UE è rimasta l'unica potenza nucleare dell'Unione, e la cosa ha un peso non indifferente nei rapporti di forza: e questo oltre alla sua capacità di proiezione e alle basi militari al di fuori del continente europeo (ha basi o presenza militare, lo ricordo, in tutti i continenti, anche se ne ha persa qualcuna recentemente. Piccole ma le ha, anche se nessuna utile contro la Russia). E questo la obbliga ad assumersi determinate responsabilità.
Macron non ha nessuna intenzione di mandare soldati a farsi bombardare a Odessa, sta facendo un power grab cercando di superare sul terreno dei proclami l'unico altro candidato possibile, cioè la Polonia (possibile ma poco praticabile, come abbiamo detto) per la guida dell'esercito e per la gestione dei finanziamenti. Dal suo punto di vista (e dal punto di vista di un potenziale esercito europeo) fa benissimo.
Fonte
Qualche considerazione forse oziosa.
L'improvvisa aggressività, soltanto verbale naturalmente, della Francia (che fino a qualche tempo fa continuava a proporsi come una potenziale sponda negoziale e ha inviato in Ucraina materiale militare anche di ottima qualità, come i CAESAR e i missili SCALP-EG, ma non ha partecipato, e non ci sono indizi che lo faccia in futuro, alla raccolta di carri armati lasciando in patria i suoi Leclerc) non può ovviamente essere ascritta a un'improvvisa follia che ha colto Macron, causata magari dalla rabbia per aver perso l'Africa Centrale (un processo partito anni fa, sicuramente grave per la Francia ma che comunque non giustifica il rischio di una guerra nucleare).
I motivi, trattandosi di attori razionali, devono essere diversi, e in effetti lo sono e hanno a che vedere con un problema di politica interno all'UE nel momento in cui l'Unione sembrerebbe intenzionata a costituire un sistema di difesa comune, o quantomeno a stanziare un bel po' di soldi per il riarmo dei paesi membri. Se questo esercito europeo dovesse essere costituito, o quantomeno si andasse in direzione di una maggiore integrazione degli eserciti europei (soprattutto se i timori di un ritiro o di un ridimensionamento dell'impegno statunitense nella NATO fossero giustificati) si potrebbe un problema non semplice: chi lo comanderebbe?
È ovvio che nel quadro politico attuale, con una opposizione nei confronti della Russia che non sembra di immediata risoluzione, l'esercito in questione dovrebbe essere rivolto alla difesa del "fianco est" dell'Unione: ma è possibile ipotizzare che venga diretto dai paesi che finora si sono dimostrati, a parole ma anche con i fatti, i più battaglieri, come la Polonia e i baltici? Ovviamente no. La Polonia ha un cospicuo esercito di terra, e progetta di ampliarlo ulteriormente, anche se i progetti grandiosi di un anno fa sembrerebbero essere stati ridimensionati, e parrebbe essere un candidato serio (la Polonia ovviamente, non certo i baltici). Però non ha una flotta, e quindi non ha capacità di proiezione; e non è una grande potenza, tutt'al più è una potenza regionale, e deve ancora dimostrare capacità di leadership.
La Germania non sa cosa fare di sé stessa, non solo dal punto di vista militare, e non ha nessun interesse a peggiorare ulteriormente i suoi rapporti con la Russia. Spagna e Italia, lasciamo stare – non per incapacità, ma per tradizione politica: né noi né gli spagnoli ci siamo mai messi a capo di coalizioni, il nostro ruolo è sempre stato un altro, anche se ultimamente pare che ce ne siamo dimenticati (ma Tajani e Crosetto pare invece di no). Gli altri non sono in grado e non sono interessati, la Turchia lasciamo stare per ovvi motivi.
Resta la Francia che tra l'altro, e non è un dettaglio trascurabile, con l'uscita della Gran Bretagna dall'UE è rimasta l'unica potenza nucleare dell'Unione, e la cosa ha un peso non indifferente nei rapporti di forza: e questo oltre alla sua capacità di proiezione e alle basi militari al di fuori del continente europeo (ha basi o presenza militare, lo ricordo, in tutti i continenti, anche se ne ha persa qualcuna recentemente. Piccole ma le ha, anche se nessuna utile contro la Russia). E questo la obbliga ad assumersi determinate responsabilità.
Macron non ha nessuna intenzione di mandare soldati a farsi bombardare a Odessa, sta facendo un power grab cercando di superare sul terreno dei proclami l'unico altro candidato possibile, cioè la Polonia (possibile ma poco praticabile, come abbiamo detto) per la guida dell'esercito e per la gestione dei finanziamenti. Dal suo punto di vista (e dal punto di vista di un potenziale esercito europeo) fa benissimo.
Fonte
Sanguinoso raid israeliano su Aleppo in Siria. Hezbollah colpisce siti israeliani al confine con il Libano
Si estende a nord il fronte del conflitto in Medio Oriente. Questa notte Israele ha bombardato la città siriana settentrionale di Aleppo. Sono rimaste uccise 38 persone, tra cui cinque militanti di Hezbollah: lo affermano fonti della sicurezza locale, citate dall’agenzia di stampa britannica Reuters. Il Ministero della Difesa siriano afferma che diversi civili e militari sono stati uccisi in seguito ad attacchi dell’esercito israeliano e di un gruppo militante nella città settentrionale di Aleppo.
Il governo siriano non ha fornito al momento cifre sul numero delle vittime. Una fonte militare ha detto all’agenzia di stampa ufficiale Sana che “verso l’1:45 il nemico israeliano ha lanciato un attacco aereo dalla direzione di Athriya, a sudest di Aleppo”, aggiungendo che “civili e personale militare” sono stati uccisi e feriti nell’attacco.
A sostegno del popolo e della resistenza palestinese a Gaza e alla luce dell’aggressione israeliana a diversi villaggi del Libano meridionale, Hezbollah ha continuato a colpire postazioni e città israeliane al confine libanese.
I media di Hezbollah hanno rilasciato una serie di dichiarazioni consecutive per illustrare gli attacchi e i loro risultati.
Un comunicato diffuso dalla televisione Al Manar menziona che la Resistenza islamica ha bombardato giovedì mattina gli insediamenti israeliani di “Goren” e “Shlomi” e la sede del comando del battaglione Liman, appena costituito, con proiettili di artiglieria.
Presi di mira anche i siti di Al-Sammaqa e il sito di Al-Ramtha, nelle colline libanesi occupate di Kfarshouba, con missili, colpendo direttamente l’obiettivo.
Mercoledì in Libano sette persone sono state uccise dai raid israeliani, inclusi alcuni paramedici, in due incursioni nelle città meridionali di Naqoura e Teir Harfa
Fonte
Il governo siriano non ha fornito al momento cifre sul numero delle vittime. Una fonte militare ha detto all’agenzia di stampa ufficiale Sana che “verso l’1:45 il nemico israeliano ha lanciato un attacco aereo dalla direzione di Athriya, a sudest di Aleppo”, aggiungendo che “civili e personale militare” sono stati uccisi e feriti nell’attacco.
A sostegno del popolo e della resistenza palestinese a Gaza e alla luce dell’aggressione israeliana a diversi villaggi del Libano meridionale, Hezbollah ha continuato a colpire postazioni e città israeliane al confine libanese.
I media di Hezbollah hanno rilasciato una serie di dichiarazioni consecutive per illustrare gli attacchi e i loro risultati.
Un comunicato diffuso dalla televisione Al Manar menziona che la Resistenza islamica ha bombardato giovedì mattina gli insediamenti israeliani di “Goren” e “Shlomi” e la sede del comando del battaglione Liman, appena costituito, con proiettili di artiglieria.
Presi di mira anche i siti di Al-Sammaqa e il sito di Al-Ramtha, nelle colline libanesi occupate di Kfarshouba, con missili, colpendo direttamente l’obiettivo.
Mercoledì in Libano sette persone sono state uccise dai raid israeliani, inclusi alcuni paramedici, in due incursioni nelle città meridionali di Naqoura e Teir Harfa
Fonte
Senegal - Il significato della vittoria dell'opposizione panafricanista
Secondo i risultati ufficiali provvisori, Bassirou Diomaye Faye avrebbe ottenuto la vittoria al primo turno delle elezioni presidenziali con il 54,28% dei consensi.
L’annuncio è stato dato mercoledì dalla Commissione nazionale di censimento dei voti, confermando ciò che era chiaro già nella giornata di lunedì, riconosciuto da tutti i candidati alla presidenza.
Non si tratta di una vittoria di stretta misura considerando che il candidato espresso dalla coalizione che governava il paese ha ottenuto solo il 35,79% dei voti.
Le due figure politiche, la prima esplicitamente “di rottura” mentre l’altra “di continuità”, hanno monopolizzato il voto come era da attendersi, con il terzo candidato – Aliou Mamadou Dia, del Parti de l’unité et du rassemblent – che ha ottenuto appena il 2,8% dei suffragi.
Una vittoria “straordinaria” considerando che una decina di giorni prima delle elezioni, Faye era ancora un prigioniero politico detenuto nelle carceri di Dakar.
Una vittoria “storica” tenendo conto che per la prima volta dall’indipendenza, il candidato dell’opposizione vince al primo turno.
Se, come sembra, nessun candidato depositerà presso il Consiglio costituzionale alcun ricorso – entro 72 ore dopo l’annuncio della Commissione nazionale – i risultati “provvisori” diventano “definitivi” secondo la Costituzione ed il passaggio di poteri tra il vecchio presidente Macky Sall e Faye dovrebbe essere lineare.
Se invece ci sarà un ricorso, entro 5 giorni il Consiglio dovrà esprimersi, ed il passaggio entro il 2 aprile potrebbe essere rimesso in causa.
A complicare infatti il quadro è stato, a febbraio, il maldestro tentativo di “golpe istituzionale” tentato da Sall stesso – che “stranamente” non aveva fatto “strappare le vesti” alla cosiddetta comunità internazionale – e che ad un certo punto sembrava volersi presentare per un “terzo mandato” non previsto dalla Costituzione.
Faye, 44 enne, è il più giovane presidente della storia del Senegal e non ha mai avuto un incarico nazionale in precedenza. Ha di fronte un compito certo non facile, ma ha idee chiare e grande determinazione nel far cambiare il corso politico complessivo del Paese.
Dovrà al più presto comporre il governo e con ogni probabilità sciogliere l’Assemblea nazionale, proclamando nuove elezioni, forte di un consenso che gli darebbe la maggioranza assoluta.
Nel suo primo discorso pubblico ha confermato sostanzialmente le priorità già enunciate, in primis la lotta alla “corruzione” e la necessità di una “riconciliazione nazionale”, dopo la frattura provocata dalla torsione autoritaria che il presidente uscente ha imposto al paese da alcuni anni a questa parte, nel tentativo di annichilire ogni alternativa politica, a colpi di repressione di piazza e di “messa al bando” dell’opposizione.
Era la forma politica di un modello di sviluppo fatto per soddisfare le esigenze delle multinazionali straniere – in particolari francesi – e di una élite che viveva delle prebende di questo sistema.
Un modello fatto di accumulazione per esproprio delle maggiori risorse nazionali (pesca ed idrocarburi) e di dipendenza dalle importazioni – anche per ciò che concerne il proprio fabbisogno alimentare – come tratti peculiari. Mentre sullo sfondo pesava il signoraggio economico del Franco CFA e una sovranità amputata dalla presenza militare francese a Dakar.
Faye ha cercato di rassicurare il partner internazionali che vorranno “impegnarsi con noi in una cooperazione virtuosa, rispettosa e mutuamente proficua”.
Un Senegal che proietta quindi il suo profilo nel mondo multipolare senza che vi siano primus inter pares.
Il campo ex-presidenziale – sia la coalizione BBY che il partito di Sall, l’APR – esce dalle consultazioni con le ossa rotte, così come i suoi padrini internazionali. Lì sta incominciando una poco velata resa dei conti, in specie nei confronti dell’ex presidente, mettendone in discussione le scelte scellerate e lo scarso sostegno a Ba.
La redde rationem nelle fila degli ex-governanti del paese potrebbe portare ad un processo di decomposizione di quell’espressione politica di interessi tenuti insieme dalla prospettiva di potere, e da null’altro.
Le élite filo-occidentali africane hanno un chiaro problema di riproduzione di “propri” rappresentanti politici all’altezza, ossia capaci di essere qualcosa di più di obbedienti tecnocrati ben visti dalla cosiddetta “comunità internazionale”, nonostante gli ingenti mezzi a loro disposizione.
Una fonte anonima negli alti ranghi del partito presidenziale spiega al corrispondente del quotidiano francese Le Monde: “Sulla carta erano elezioni imperdibili. Noi avevamo l’apparato di Stato, i soldi, il rullo compressore della nostra coalizione ed un bilancio materiale da elogiare”.
Non avevano fatto i conti con una variabile determinante: la volontà popolare e le capacità politica di una opposizione ridotta stricto sensu alla clandestinità ed al carcere, ma non alla marginalità politica.
È chiaro che il voto popolare ha espresso il rigetto per questi ultimi 12 anni di presidenza – in specie gli ultimi 3 – e ha voluto punire coloro i quali hanno ordito un colpo di stato istituzionale non andato in porto solo grazie alla mobilitazione popolare.
La frattura infatti tra il presidente e l’opposizione – che aveva esordito alle scorse presidenziali con il 19% dei consensi, con la leadership di Sonko – si era definitivamente consumata nel 2021, con l’uso politico del potere giudiziario nei confronti di Sonko e le manifestazioni represse nel sangue.
Una frattura tra “centro” e periferia”, tra il vecchio establishment politico e le nuove generazioni senegalesi, tra la narrazione auto-compiacente del potere – “il bilancio materiale da elogiare” – ed una realtà sociale impoverita e costretta all’immigrazione, che agognava un cambiamento radicale.
Faye ha fatto il pieno di voti nelle periferie di Dakar, come a Pikine o Guédiawaye, importanti bacini di voto della gioventù senegalese.
Nell’area metropolitana della capitale, dove vive circa il 26% degli elettori totali, con un milione di aventi diritto, Faye ha ottenuto più di 286 mila voti contro i 118 circa di Ba; cioè molto più del doppio.
Senza sorpresa, Faye ha polverizzato i concorrenti nei bastioni dell’opposizione, come nella regione di Ziguinchor; e non solo a Casamance dove Sonko è sindaco, ma anche a Bignona e Oussouye.
Nel Nord ha vinto a Saint-Louis, nell’ovest a Mbour.
Di fatto Ba ha vinto solo nei bastioni tradizionali della coalizione al potere, cioè a Metam e Podor.
Faye si appresta a cambiare il “paradigma economico”, promuovendo la sovranità alimentare con la creazione di otto poli agro-industriali regionali, diversificando le colture, per invertire l’indebitamento causato dalle importazioni; vuole inoltre aumentare l’interdizione dello sfruttamento ittico da parte delle navi straniere fino a 20 km dalla costa favorendo i pescatori locali; e infine decentrare gli investimenti, considerato che l’80% di questi sono indirizzati verso la capitale.
Vuole rinegoziare il debito e avviare una politica fiscale progressiva, e soprattutto rinegoziare i contratti per lo sfruttamento del petrolio e del gas.
Sulla sovranità monetaria è stato più cauto e sembra deciso a intraprendere una strada più graduale, ma comunque risoluta.
In sintesi: se la CEDEAO/ECOWAS non deciderà di dar seguito al progetto di nuova valuta della Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest nel 2027 – l’éco – il Senegal adotterà una divisa nazionale che subentri al Franco CFA dopo avere aumentato le sue riserve auree e appianato il suo bilancio.
Se il compito è arduo, rimane chiaro che un altro “pezzetto di mondo” ha visto la caduta dell’egemonia politica di chi aveva adottato un profilo di “modernizzazione” – frutto della globalizzazione neo-liberista per la “periferia integrata” – che non ha dato risultati tangibili per la maggioranza della popolazione.
Ora i desiderata dell’Occidente non detteranno più l’agenda politica del paese, che dovrà comunque faticare non poco per recuperare credibilità agli occhi di chi ha conosciuto la schiavitù, la colonizzazione ed il neo-colonialismo e che oggi vuole riacquistare la propria indipendenza reale dentro un riscatto continentale.
Fonte
L’annuncio è stato dato mercoledì dalla Commissione nazionale di censimento dei voti, confermando ciò che era chiaro già nella giornata di lunedì, riconosciuto da tutti i candidati alla presidenza.
Non si tratta di una vittoria di stretta misura considerando che il candidato espresso dalla coalizione che governava il paese ha ottenuto solo il 35,79% dei voti.
Le due figure politiche, la prima esplicitamente “di rottura” mentre l’altra “di continuità”, hanno monopolizzato il voto come era da attendersi, con il terzo candidato – Aliou Mamadou Dia, del Parti de l’unité et du rassemblent – che ha ottenuto appena il 2,8% dei suffragi.
Una vittoria “straordinaria” considerando che una decina di giorni prima delle elezioni, Faye era ancora un prigioniero politico detenuto nelle carceri di Dakar.
Una vittoria “storica” tenendo conto che per la prima volta dall’indipendenza, il candidato dell’opposizione vince al primo turno.
Se, come sembra, nessun candidato depositerà presso il Consiglio costituzionale alcun ricorso – entro 72 ore dopo l’annuncio della Commissione nazionale – i risultati “provvisori” diventano “definitivi” secondo la Costituzione ed il passaggio di poteri tra il vecchio presidente Macky Sall e Faye dovrebbe essere lineare.
Se invece ci sarà un ricorso, entro 5 giorni il Consiglio dovrà esprimersi, ed il passaggio entro il 2 aprile potrebbe essere rimesso in causa.
A complicare infatti il quadro è stato, a febbraio, il maldestro tentativo di “golpe istituzionale” tentato da Sall stesso – che “stranamente” non aveva fatto “strappare le vesti” alla cosiddetta comunità internazionale – e che ad un certo punto sembrava volersi presentare per un “terzo mandato” non previsto dalla Costituzione.
Faye, 44 enne, è il più giovane presidente della storia del Senegal e non ha mai avuto un incarico nazionale in precedenza. Ha di fronte un compito certo non facile, ma ha idee chiare e grande determinazione nel far cambiare il corso politico complessivo del Paese.
Dovrà al più presto comporre il governo e con ogni probabilità sciogliere l’Assemblea nazionale, proclamando nuove elezioni, forte di un consenso che gli darebbe la maggioranza assoluta.
Nel suo primo discorso pubblico ha confermato sostanzialmente le priorità già enunciate, in primis la lotta alla “corruzione” e la necessità di una “riconciliazione nazionale”, dopo la frattura provocata dalla torsione autoritaria che il presidente uscente ha imposto al paese da alcuni anni a questa parte, nel tentativo di annichilire ogni alternativa politica, a colpi di repressione di piazza e di “messa al bando” dell’opposizione.
Era la forma politica di un modello di sviluppo fatto per soddisfare le esigenze delle multinazionali straniere – in particolari francesi – e di una élite che viveva delle prebende di questo sistema.
Un modello fatto di accumulazione per esproprio delle maggiori risorse nazionali (pesca ed idrocarburi) e di dipendenza dalle importazioni – anche per ciò che concerne il proprio fabbisogno alimentare – come tratti peculiari. Mentre sullo sfondo pesava il signoraggio economico del Franco CFA e una sovranità amputata dalla presenza militare francese a Dakar.
Faye ha cercato di rassicurare il partner internazionali che vorranno “impegnarsi con noi in una cooperazione virtuosa, rispettosa e mutuamente proficua”.
Un Senegal che proietta quindi il suo profilo nel mondo multipolare senza che vi siano primus inter pares.
Il campo ex-presidenziale – sia la coalizione BBY che il partito di Sall, l’APR – esce dalle consultazioni con le ossa rotte, così come i suoi padrini internazionali. Lì sta incominciando una poco velata resa dei conti, in specie nei confronti dell’ex presidente, mettendone in discussione le scelte scellerate e lo scarso sostegno a Ba.
La redde rationem nelle fila degli ex-governanti del paese potrebbe portare ad un processo di decomposizione di quell’espressione politica di interessi tenuti insieme dalla prospettiva di potere, e da null’altro.
Le élite filo-occidentali africane hanno un chiaro problema di riproduzione di “propri” rappresentanti politici all’altezza, ossia capaci di essere qualcosa di più di obbedienti tecnocrati ben visti dalla cosiddetta “comunità internazionale”, nonostante gli ingenti mezzi a loro disposizione.
Una fonte anonima negli alti ranghi del partito presidenziale spiega al corrispondente del quotidiano francese Le Monde: “Sulla carta erano elezioni imperdibili. Noi avevamo l’apparato di Stato, i soldi, il rullo compressore della nostra coalizione ed un bilancio materiale da elogiare”.
Non avevano fatto i conti con una variabile determinante: la volontà popolare e le capacità politica di una opposizione ridotta stricto sensu alla clandestinità ed al carcere, ma non alla marginalità politica.
È chiaro che il voto popolare ha espresso il rigetto per questi ultimi 12 anni di presidenza – in specie gli ultimi 3 – e ha voluto punire coloro i quali hanno ordito un colpo di stato istituzionale non andato in porto solo grazie alla mobilitazione popolare.
La frattura infatti tra il presidente e l’opposizione – che aveva esordito alle scorse presidenziali con il 19% dei consensi, con la leadership di Sonko – si era definitivamente consumata nel 2021, con l’uso politico del potere giudiziario nei confronti di Sonko e le manifestazioni represse nel sangue.
Una frattura tra “centro” e periferia”, tra il vecchio establishment politico e le nuove generazioni senegalesi, tra la narrazione auto-compiacente del potere – “il bilancio materiale da elogiare” – ed una realtà sociale impoverita e costretta all’immigrazione, che agognava un cambiamento radicale.
Faye ha fatto il pieno di voti nelle periferie di Dakar, come a Pikine o Guédiawaye, importanti bacini di voto della gioventù senegalese.
Nell’area metropolitana della capitale, dove vive circa il 26% degli elettori totali, con un milione di aventi diritto, Faye ha ottenuto più di 286 mila voti contro i 118 circa di Ba; cioè molto più del doppio.
Senza sorpresa, Faye ha polverizzato i concorrenti nei bastioni dell’opposizione, come nella regione di Ziguinchor; e non solo a Casamance dove Sonko è sindaco, ma anche a Bignona e Oussouye.
Nel Nord ha vinto a Saint-Louis, nell’ovest a Mbour.
Di fatto Ba ha vinto solo nei bastioni tradizionali della coalizione al potere, cioè a Metam e Podor.
Faye si appresta a cambiare il “paradigma economico”, promuovendo la sovranità alimentare con la creazione di otto poli agro-industriali regionali, diversificando le colture, per invertire l’indebitamento causato dalle importazioni; vuole inoltre aumentare l’interdizione dello sfruttamento ittico da parte delle navi straniere fino a 20 km dalla costa favorendo i pescatori locali; e infine decentrare gli investimenti, considerato che l’80% di questi sono indirizzati verso la capitale.
Vuole rinegoziare il debito e avviare una politica fiscale progressiva, e soprattutto rinegoziare i contratti per lo sfruttamento del petrolio e del gas.
Sulla sovranità monetaria è stato più cauto e sembra deciso a intraprendere una strada più graduale, ma comunque risoluta.
In sintesi: se la CEDEAO/ECOWAS non deciderà di dar seguito al progetto di nuova valuta della Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest nel 2027 – l’éco – il Senegal adotterà una divisa nazionale che subentri al Franco CFA dopo avere aumentato le sue riserve auree e appianato il suo bilancio.
Se il compito è arduo, rimane chiaro che un altro “pezzetto di mondo” ha visto la caduta dell’egemonia politica di chi aveva adottato un profilo di “modernizzazione” – frutto della globalizzazione neo-liberista per la “periferia integrata” – che non ha dato risultati tangibili per la maggioranza della popolazione.
Ora i desiderata dell’Occidente non detteranno più l’agenda politica del paese, che dovrà comunque faticare non poco per recuperare credibilità agli occhi di chi ha conosciuto la schiavitù, la colonizzazione ed il neo-colonialismo e che oggi vuole riacquistare la propria indipendenza reale dentro un riscatto continentale.
Fonte
“Il tramonto dell’Occidente”: in quale parte della notte abitiamo?
Vi sono sette parti della notte: il vespro, il crepuscolo, il conticinio, l’intempesto, il gallicinio, il mattutino e il dilucolo.
Isidoro di Siviglia, Etimologie.
Isidoro di Siviglia, Etimologie.
Nel 1918 e nel 1922 apparvero i due tomi del Tramonto dell’Occidente, opera principale non meno che monumentale (si tratta infatti di un testo di oltre 1500 pagine) del filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936): uno studioso che, muovendo da posizioni conservatrici, sarà un critico severo della repubblica di Weimar (1918-1933) e giudicherà positivamente, almeno all’inizio, salvo poi prenderne le distanze, il nazionalsocialismo.
Tuttavia, poche opere hanno ottenuto un successo di pubblico paragonabile a quello che arrise a questo libro e poche opere hanno fissato in modo durevole i fondamenti di quella “critica della notte” cui, da allora fino ad oggi, deve il suo enorme successo di pubblico, perlomeno fra le persone colte, questa opera geniale.
Dalla storia alla natura: ‘Kultur’ e ‘Zivilisation’
Nel Tramonto dell’Occidente Spengler si propone di scoprire la forma che ogni civiltà incarna nel suo svolgersi, laddove proprio il termine di civiltà è quello con cui in italiano conviene tradurre il pregnante vocabolo tedesco ‘Kultur’. Ed è in tal senso che l’autore parla di una morfologia della storia universale.
Alla logica delle scienze naturali, che egli definisce meccanica, Spengler contrappone allora una logica organica che coglie il complesso delle manifestazioni di una ‘Kultur’ come un organismo biologico. Il mondo “come natura”, che risponde alla logica meccanica delle scienze naturali, è per tali scienze un insieme di fenomeni sparsi nello spazio e legati fra loro da nessi causali: è ciò che Spengler chiama sistematica.
Il “mondo della storia”, invece, si manifesta nella ‘Kultur’ attraverso fenomeni unici e irripetibili, capaci di indicare una certa direzione nel tempo, cioè un destino: è ciò che il filosofo tedesco chiama fisiognomica.
Questi due diversi atteggiamenti di fronte al mondo non stanno sullo stesso piano: il mondo appare infatti come natura, ossia come oggetto di spiegazione scientifica, solo in quella maturità di una ‘Kultur’ che Spengler definisce ‘Zivilisation’, mentre originariamente il mondo appariva come storia.
Orbene, è in questa fase terminale della ‘Zivilisation’ – vocabolo che in italiano si può tradurre con il termine di civilizzazione – che il filosofo tedesco ravvisa l’inizio della degenerazione senile di una civiltà.
Con una mossa filosofica che lo apparenta al pensatore neoidealista Giovanni Gentile e che è ispirata probabilmente dalla concezione vitalistica del pensatore francese Henri Bergson, Spengler giunge ad affermare che la logica meccanica cui mira la scienza con le sue osservazioni nasce in ultima analisi dalla logica organica, poiché ogni divenuto ha sempre come presupposto un divenire.
Si tratta di una visione in cui si intrecciano, oltre agli influssi testé indicati, la concezione di una “natura vivente”, propria del poeta e filosofo Johann Wolfgang Goethe, e la concezione, propria di Friedrich Nietzsche, dell’assenza di una razionalità nello sviluppo della storia.
Ogni civiltà passa dunque attraverso un ciclo vitale e la vecchiaia di una civiltà è il momento in cui si trasforma in civilizzazione. «La civilizzazione è il destino inevitabile di una civiltà… Le civilizzazioni sono gli stadi più esteriori e più artificiosi di cui è capace una specie umana superiore. Esse sono una conclusione: il divenire degrada nel divenuto, la vita cede alla morte, lo sviluppo alla rigidità».[1]
La civilizzazione, in altri termini, è lo sfruttamento di un’eredità storica morta. «Nel mondo classico il passaggio dalla civiltà alla civilizzazione si compie nel quarto secolo, nel mondo occidentale nel diciannovesimo secolo».[2]
Rifiuto della causalità e del progresso, civiltà autoreferenziali, analogia come canone della ricerca storica
Spengler rifiuta la causalità e le leggi, considerandole solo come fenomeni storici di determinate epoche e privandole di ogni validità generale (per lui esistono una geometria e una matematica egizia, una geometria e una matematica greca, una geometria e una matematica occidentale, e così via).
Al posto di questi nessi egli mette l’analogia, della quale fa il canone di una ricerca che, come si è visto, mira a creare, partendo dalla storia, una scienza universale. Non bisogna peraltro dimenticare che alla problematica, in virtù della quale Spengler storicizza radicalmente la conoscenza della natura facendone una semplice funzione delle caratteristiche di ciascun “ciclo di civiltà”, è sottesa una questione importante, e cioè come e fino a che punto l’evoluzione storica della società influisca sulla estensione e sul modo della nostra conoscenza della natura.
Fra le molteplici illustrazioni di tale problematica si può citare almeno questo passo della fondamentale Introduzione:[3]
«Non conosco ancora nessuno che si sia misurato in modo serio con lo studio dell’affinità morfologica che connette intimamente il linguaggio formale di ogni ambito di civiltà...Ma l’originalità di Spengler non consiste nella visione ciclica della storia, che deriva dall’antichissima dottrina greca dei cicli storici e che, con ben altra genialità e profondità, Giambattista Vico aveva ripresa e ripensata nel secolo XVIII.
Chi sospetta del profondo legame formale tra il calcolo differenziale e il principio dinastico-statuale del tempo di Luigi XIV, tra l’antica forma statuale della polis e la geometria euclidea, tra la prospettiva spaziale della pittura a olio occidentale e il superamento dello spazio mediante le ferrovie, i telefoni e le armi da fuoco a lunga gittata, tra la musica strumentale contrappuntistica e il sistema economico dei crediti?
Persino i fatti più sobri della politica assumono in questa prospettiva un carattere simbolico, addirittura metafisico, e qui, forse, succede che cose come il sistema amministrativo egizio, la numismatica antica, la geometria analitica, l’assegno, il canale di Suez, l’arte cinese della stampa, l’esercito prussiano e la tecnica stradale romana vengano simmetricamente concepite alla stregua di simboli e come tali interpretate».[4]
In effetti, all’idea evolutiva di un progresso che, partendo dall’antichità, giunge sino alla nostra epoca, Spengler sostituisce una forma della storia che riproduce la ciclicità dell’organismo biologico: nascita, fanciullezza, gioventù, maturità, vecchiaia, morte.
Questo, scandito dai millenni, è il ritmo che la vita impone ad ogni civiltà, laddove ogni civiltà è concepita come un organismo indipendente, completamente chiuso nel suo specifico orizzonte. Infatti, esaurito lo slancio creativo derivante da una “grande anima”, non vi è ‘Kultur’ che non si riduca a ‘Zivilisation’, ossia ad un organismo irrigidito, espressione dello stato che precede il tramonto della ‘Kultur’ e il ritorno alla condizione primitiva.
Per lo studioso tedesco i grandi personaggi della storia sono, per l’appunto, le civiltà (ne distingue otto principali: egiziana, babilonese, indiana, cinese, messicana, araba, antica, occidentale). Del resto, le civiltà non si sviluppano le une dalle altre, ma si sviluppano ciascuna riferendosi a uno stato originario, a una razza e a un determinato ambiente geografico: fattori che determinano l’eredità, per l’appunto biologica, che ogni civiltà deve realizzare.
Donde consegue che il pluralismo culturale proposto da Spengler esclude ogni possibilità di comunicazione tra le civiltà: ogni ‘Kultur’ ha un suo proprio mondo simbolico che non può essere trasferito in un’altra ‘Kultur’.
L’analisi contenuta nel Tramonto dell’Occidente è quindi generalizzante da una parte, in quanto scopre una morfologia della storia universale, e individualizzante dall’altra, in quanto riconduce ogni manifestazione storica all’organizzazione interna di una ‘Kultur’.
Non è allora difficile constatare che i concetti filosofici che reggono l’interpretazione e la visione della storia presenti nel Tramonto dell’Occidente sono filiazioni, dirette o indirette, dello storicismo tedesco, quale si era svolto da Dilthey a Simmel.
Un testo complesso, originale e ricco di provocazioni
Ciò nondimeno, il Tramonto dell’Occidente è, contrariamente a quanto spingerebbe a pensare lo schematismo del binomio ‘Kultur’/’Zivilisation’ su cui esso si incardina, un testo complesso.
Come fa notare Giuseppe Raciti, al quale si deve l’ultima, e più rigorosa, traduzione del Tramonto pubblicata presso l’editore torinese Nino Aragno nel 2017, un motivo concettuale importante dell’opera spengleriana è quello che emerge dal modo in cui viene interpretato il rapporto tra la nostra civiltà, qualificata come faustiana con un chiaro riferimento al poema di Goethe, e la civiltà greco-romana, vista quale espressione della ‘Zivilisation’.
In questa veste la romanità non è solo una propaggine della ‘Kultur’ greca, ma anche lo specchio della nostra modernità, che è quanto dire lo specchio della nostra inconsistenza culturale e politica. Spengler ridimensiona perfino il mito della forza invincibile dell’esercito romano e, in netto anticipo sulle tesi del Todd di Dopo l’impero [5] sembra alludere, in realtà, all’ambigua consistenza del moderno esercito nordamericano.
Un altro motivo che caratterizza il Tramonto è quello del socialismo, che viene interpretato come una singolare religione politica da cui dipendono le sorti del mondo occidentale, una forza che, lungi dall’essere una manifestazione della ‘Zivilisation’ e quindi della decadenza di tale mondo, può fare di quest’ultimo una ‘Kultur’.
Meritano, inoltre, di essere segnalate per la loro originalità le riflessioni sulla statistica e sull’entropia, che chiudono il primo volume del Tramonto, nel mentre la nozione di pseudomorfosi, che Spengler mutua dalla geologia, diventa nelle sue mani un dispositivo straordinario per spiegare il mancato sviluppo di alcune civiltà.
L’idea, infine, che il cristianesimo sia una propaggine dell’islàm e non viceversa, che la sua natura era e resti orientale, è un paradosso molto fecondo e può spiegare più cose di quante riesca a spiegarne la tradizionale rappresentazione storica. Il fascino dell’opera dipende anche da queste provocazioni.
Dalla civilizzazione alla barbarie: l’analogia all’opera
Il libro di Spengler non contiene soltanto la profezia apocalittica di una “lunga notte” che incombe sulla decadente civiltà occidentale, ma di tale decadenza specifica, con la precisione di un entomologo, i caratteri, scandisce le fasi, fissa i tempi, i modi, le date.
Così, il lettore europeo degli anni Venti del secolo scorso, poteva trovarvi enunciata l’inquietante previsione, confermata ampiamente dalla realtà storica e da quella attuale, che il periodo dal 1900 al 2000 avrebbe corrisposto a quello degli Hyksos in Egitto, all’ellenismo, al regno dei diadochi e al periodo romano da Scipione a Mario, e sarebbe stato contrassegnato dal cesarismo, dal crescente naturalizzarsi delle forme politiche, dalla decadenza degli organismi nazionali che si ridurranno a masse amorfe internazionali, e dal riassorbimento di esse in un impero di tipo primitivo-dispotico.
E però la previsione assume il tono apocalittico della profezia, giacché Spengler preconizza che dopo il 2200 prevarranno in tutta l’Europa tendenze degenerative che egli, sempre ricorrendo alle analogie, definisce come egittismo, mandarinismo e bizantinismo; la macchina politico-burocratica diventerà sempre più rigida e si dissolverà; l’Europa sarà preda di popoli giovani o di conquistatori stranieri; e via via si riformeranno condizioni preistoriche, e – come scrisse Benedetto Croce in una famosa stroncatura del Tramonto, che il filosofo abruzzese pubblicò nel 1920 sulla propria rivista – si tornerà alla selva, “a una selva, per quel che sembra, con scarsi alberi”.[6]
Applicato alla civiltà occidentale, lo schema interpretativo di Spengler mostra che lo slancio iniziale di questa civiltà si è esaurito. Così, alle grandi visioni del mondo, quali il cristianesimo, il liberalismo e lo scientismo, succede l’irreligione, l’economia non è più diretta dalla politica, mentre il denaro è diventato il criterio di riferimento per ogni attività.
Intanto la vita si concentra in poche metropoli, facendo del resto della terra una sconfinata provincia. La tecnica stessa, espressione tipica dell’uomo “faustiano”, cessa di essere il privilegio di uomini superiori, mentre la rivolta delle masse e dei “popoli di colore” riduce la tecnica a bruta strumentalità, privandola del suo carattere aristocratico.
Alla civiltà occidentale dovrà quindi succedere una civiltà russa (si tenga presente che Spengler elabora la sua concezione filosofica all’indomani della rivoluzione sovietica del 1917).
Ma prima della ricaduta nella barbarie deve ancora subentrare la fase autoritaria del cesarismo: e come non pensare, attualizzando, sia pure all’ingrosso, il discorso spengleriano, a personaggi o personalità quali Trump, Biden, Milei, Meloni, Orbán oppure, in tutt’altro quadro geopolitico, quali Putin, Lukashenko, Xi Jin-ping, Kim Jong-un?
Di fronte a tutto questo l’individuo, a giudizio di Spengler, può soltanto accettare il destino che la necessità storica gli impone, mentre alla nostra ricerca, resa più fruttuosa ma anche più ansiosa dal numero crescente di conferme dell’ipotesi di partenza, non resta che domandare quale sia oggi, fra quelle enumerate con didascalica esattezza dal dottore della Chiesa citato nell’epigrafe e commentate con rara finezza dal filosofo Giorgio Agamben[7], la parte della “notte” in cui abitiamo.
Note
1) O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia universale, Prima parte, Forma e realtà, Introduzione, Nino Aragno Editore, Torino 2017, p. 67.
2) Ivi, p. 68.
3) Ivi, pp. 17-108.
4) Ivi, pp. 25-26.
5) E. Todd, Dopo l’impero, Marco Tropea Editore, Milano 2005 (ed. or. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, Paris 2002).
6) Cfr. «La Critica – Rivista di letteratura, storia e filosofia diretta da B. Croce», vol. XVIII (1920), Laterza, Bari, p. 238.
7) Cfr. https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-le-sette-parti-della-notte
Fonte
Salvini non poteva precettare: il TAR dà ragione ad USB sullo sciopero del Tpl, importante risultato dei lavoratori
Salvini non poteva precettare! Il TAR dà ragione a USB sullo sciopero del trasporto pubblico locale e condanna il MIT al pagamento delle spese processuali.
Un importante risultato dei lavoratori che hanno comunque respinto le minacce del Ministro.
Il TAR del Lazio ha accolto in pieno il ricorso promosso da USB, contro la riduzione a 4 ore attraverso la precettazione messa in atto dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Salvini. Questo atto era stato portato avanti dal Ministro nei confronti dello sciopero nazionale del trasporto pubblico locale dell’intera giornata promosso da USB e altre sigle sindacali per il 15 dicembre 2023 nel pieno rispetto delle regole, già fortemente restrittive, previste dalla normativa sullo sciopero.
L'USB respinse il diktat, sfidando la precettazione e disobbedendo alla riduzione a sole quattro ore della durata dello sciopero imposta dall’ordinanza del Ministro. Questa, infatti, era arrivata senza neppure l’avallo dovuto per legge da parte della Commissione di Garanzia sugli scioperi, che ritenne non esserci il “fondato pericolo di pregiudizio grave ed imminente” che solo avrebbe reso legittimo l’intervento del Ministro: la proclamazione era rispettosa delle previsioni di legge ed era assolutamente legittima.
Il Ministro Salvini, che si era presentato a favore di telecamere gonfiando il petto ed affermando che era suo diritto utilizzare ogni mezzo per garantire il diritto alla mobilità dei cittadini, questa volta come molte altre, si è comportato più da Napoleone in miniatura e non da Ministro della Repubblica in cui valgono le leggi e non i fuochi d’artificio a favore di telecamere per raggranellare qualche voto e qualche consenso in più.
La USB esprime piena soddisfazione per la sentenza che ha sconfessato l’operato del Ministro Salvini e ringrazia tutti quei delegati e lavoratori del Trasporto Pubblico Locale che hanno accolto l’invito di USB a scioperare, rischiando anche sanzioni economiche e amministrative, difendendo il diritto di sciopero con la loro disponibilità a lottare per affermare i propri diritti.
Uniti siamo imbattibili!
Unione Sindacale di Base
Fonte
Un importante risultato dei lavoratori che hanno comunque respinto le minacce del Ministro.
Il TAR del Lazio ha accolto in pieno il ricorso promosso da USB, contro la riduzione a 4 ore attraverso la precettazione messa in atto dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Salvini. Questo atto era stato portato avanti dal Ministro nei confronti dello sciopero nazionale del trasporto pubblico locale dell’intera giornata promosso da USB e altre sigle sindacali per il 15 dicembre 2023 nel pieno rispetto delle regole, già fortemente restrittive, previste dalla normativa sullo sciopero.
L'USB respinse il diktat, sfidando la precettazione e disobbedendo alla riduzione a sole quattro ore della durata dello sciopero imposta dall’ordinanza del Ministro. Questa, infatti, era arrivata senza neppure l’avallo dovuto per legge da parte della Commissione di Garanzia sugli scioperi, che ritenne non esserci il “fondato pericolo di pregiudizio grave ed imminente” che solo avrebbe reso legittimo l’intervento del Ministro: la proclamazione era rispettosa delle previsioni di legge ed era assolutamente legittima.
Il Ministro Salvini, che si era presentato a favore di telecamere gonfiando il petto ed affermando che era suo diritto utilizzare ogni mezzo per garantire il diritto alla mobilità dei cittadini, questa volta come molte altre, si è comportato più da Napoleone in miniatura e non da Ministro della Repubblica in cui valgono le leggi e non i fuochi d’artificio a favore di telecamere per raggranellare qualche voto e qualche consenso in più.
La USB esprime piena soddisfazione per la sentenza che ha sconfessato l’operato del Ministro Salvini e ringrazia tutti quei delegati e lavoratori del Trasporto Pubblico Locale che hanno accolto l’invito di USB a scioperare, rischiando anche sanzioni economiche e amministrative, difendendo il diritto di sciopero con la loro disponibilità a lottare per affermare i propri diritti.
Uniti siamo imbattibili!
Unione Sindacale di Base
Fonte
La crisi economica morde Germania e Francia. Sta in questo la spinta verso l’economia di guerra?
La tentazione di puntare sull’economia di guerra per uscire dal fondo della crisi economica si affaccia con prepotenza negli scenari di due delle maggiori potenze economiche europee.
Mercoledì 27 marzo, i principali istituti economici tedeschi hanno abbassato significativamente le loro previsioni di crescita del Pil della Germania per il 2024, ora previsto allo 0,1%. Gli istituti prevedevano una crescita dell’1,3% quest’autunno, ma ora sono più pessimisti, a causa della lenta ripresa dei consumi.
I principali istituti ritengono che l’economia tedesca raggiungerà solo una mini-crescita quest’anno, ma prevedono una ripresa per il 2025. Secondo il quotidiano economico tedesco Handesblatt, il Pil dovrebbe crescere solo dello 0,1% nel 2024, almeno stando alle previsioni congiunte pubblicate mercoledì.
In autunno ci si aspettava un aumento dell’1,3 per cento. Per il prossimo anno, gli istituti hanno abbassato le loro previsioni dall’1,5 all’1,4 per cento. La produzione economica sarebbe comunque inferiore di oltre 30 miliardi di euro a causa del ritardo nella ripresa. L’anno scorso, la più grande economia europea si era contratta già dello 0,3%.
“L’economia in Germania è in difficoltà”, dice il documento diagnostico degli istituti economici tedeschi “Anche se è probabile che una ripresa inizi in primavera, è improbabile che lo slancio sia nel complesso ampio”. Attualmente, la produzione economica è a un livello appena superiore ai livelli pre-pandemia. La produttività sta annaspando. “In termini di economia estera e interna, di recente ci sono stati più venti contrari che venti favorevoli”, affermano i ricercatori.
Ciò è dovuto a “fattori ciclici e strutturali” che si sovrappongono, spiegando “la lentezza dello sviluppo economico globale”, ha sottolineato Stefan Kooths, direttore della ricerca economica presso l’Istituto di Kiel. “Mentre una ripresa è probabile dalla primavera, lo slancio complessivo non sarà molto forte”.
Nel 2023 l’economia tedesca è andata in rosso, con un calo del PIL dello 0,3%, appesantito dalla crisi del settore industriale.
La Germania, a lungo forza trainante dell’economia europea, sta affrontando una crisi del suo settore industriale causata dall’aumento dei prezzi dell’energia dovuto al venir meno del gas russo a prezzi vantaggiosi e al calo della domanda globale.
Se Berlino piange Parigi non ride
Secondo i dati pubblicati martedì 26 marzo dall’INSEE il deficit pubblico francese per il 2023 ammonta al 5,5% del prodotto interno lordo (PIL), ovvero 154 miliardi di euro. Si tratta di una cifra molto superiore al 4,9% fissato nella legge finanziaria 2024, adottata alla fine dello scorso anno. Il debito pubblico si è attestato al 110,6% del PIL.
Il governo si stava preparando a cattive notizie da diverse settimane. In una intervista a Le Monde ai primi di marzo il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, ha dichiarato che “a causa della perdita di gettito fiscale nel 2023” la cifra sarebbe stata “significativamente superiore al 4,9%”. Quest’ultimo è diminuito di 21 miliardi di euro l’anno scorso, ha detto martedì il ministro su RTL, sottolineando l’effetto del rallentamento dell’inflazione, che tradizionalmente aumenta le entrate fiscali. “Non c’è stata più spesa pubblica di quanto abbiamo detto, ci sono state meno entrate del previsto”, ha insistito.
Le Monde riferisce che mercoledì 20 marzo, Macron ha riunito d’emergenza il suo primo ministro, Gabriel Attal e una schiera di ministri nella sala degli ambasciatori dell’Eliseo. Attorno al tavolo c’erano Bruno Le Maire (Economia), Gérald Darmanin (Interni), Catherine Vautrin (Lavoro, Salute e Solidarietà), Stéphane Séjourné (Affari esteri), Christophe Béchu (Transizione ecologica) e Thomas Cazenave (Conti pubblici).
“Il tavolo, che sembra un’unità di crisi assemblata in fretta e furia, ha lo scopo di affrontare la disastrosa situazione finanziaria del paese e il pericoloso contesto politico” commenta Le Monde.
Tutto questo a meno di tre mesi dalle elezioni europee del 9 giugno dove il partito di Macron – Renaissance – appare sotto di dieci punti a quello della Le Pen. “Questo non è il momento per i commenti, ma per la mobilitazione”, ha detto Macron ai suoi seguaci. “Nel 2019 il contesto era peggiore, abbiamo la responsabilità storica di riuscirci. È in gioco la civiltà europea”.
Il boom delle spese militari in Francia e Germania
A luglio dello scorso anno il Parlamento francese ha approvato un aumento di svariati miliardi di euro delle spese militari fino al 2030, sulla spinta della guerra con la Russia in Ucraina e delle minacce globali in rapida crescita.
Il presidente francese Macron, ha spinto per questo aumento di bilancio, che prevede una spesa di 41,3 miliardi di euro, l’aumento più significativo in mezzo secolo. Il denaro dovrà servire a modernizzare l’arsenale nucleare francese, ad aumentare la spesa per l’intelligence e a sviluppare un maggior numero di armi controllate da remoto. Per Macron, l’aumento delle spese militari è necessario per garantire «la nostra libertà, la nostra sicurezza, la nostra prosperità, il nostro posto nel mondo»
In Germania nel 2024 la spesa militare prevista arriverà a 51,95 miliardi di euro, con un aumento di 1,83 mld di Euro rispetto il 2023.
A questi 51,95 miliardi di euro si aggiungeranno però i 19,8 miliardi di euro dal fondo speciale dedicato alla Bundeswehr, portando il totale delle spese militari a 71,75 miliardi di euro, una cifra mai raggiunta finora dalla Germania e che le farà raggiungere e superare il tetto del 2% delle spese militari rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL), richiesto dalla NATO.
Parte del finanziamento dei programmi previsti sarà sostenuto dal fondo speciale della Bundeswehr, un finanziamento da circa 100 miliardi di Euro deliberato dal Governo del Cancelliere Scholz ed approvato a larghissima maggioranza dal Bundestag nel 2022, come “misura per fronteggiare le necessità di rinnovamento, ammodernamento e potenziamento delle forze armate tedesche” alla luce della guerra in Ucraina.
Fonte
Mercoledì 27 marzo, i principali istituti economici tedeschi hanno abbassato significativamente le loro previsioni di crescita del Pil della Germania per il 2024, ora previsto allo 0,1%. Gli istituti prevedevano una crescita dell’1,3% quest’autunno, ma ora sono più pessimisti, a causa della lenta ripresa dei consumi.
I principali istituti ritengono che l’economia tedesca raggiungerà solo una mini-crescita quest’anno, ma prevedono una ripresa per il 2025. Secondo il quotidiano economico tedesco Handesblatt, il Pil dovrebbe crescere solo dello 0,1% nel 2024, almeno stando alle previsioni congiunte pubblicate mercoledì.
In autunno ci si aspettava un aumento dell’1,3 per cento. Per il prossimo anno, gli istituti hanno abbassato le loro previsioni dall’1,5 all’1,4 per cento. La produzione economica sarebbe comunque inferiore di oltre 30 miliardi di euro a causa del ritardo nella ripresa. L’anno scorso, la più grande economia europea si era contratta già dello 0,3%.
“L’economia in Germania è in difficoltà”, dice il documento diagnostico degli istituti economici tedeschi “Anche se è probabile che una ripresa inizi in primavera, è improbabile che lo slancio sia nel complesso ampio”. Attualmente, la produzione economica è a un livello appena superiore ai livelli pre-pandemia. La produttività sta annaspando. “In termini di economia estera e interna, di recente ci sono stati più venti contrari che venti favorevoli”, affermano i ricercatori.
Ciò è dovuto a “fattori ciclici e strutturali” che si sovrappongono, spiegando “la lentezza dello sviluppo economico globale”, ha sottolineato Stefan Kooths, direttore della ricerca economica presso l’Istituto di Kiel. “Mentre una ripresa è probabile dalla primavera, lo slancio complessivo non sarà molto forte”.
Nel 2023 l’economia tedesca è andata in rosso, con un calo del PIL dello 0,3%, appesantito dalla crisi del settore industriale.
La Germania, a lungo forza trainante dell’economia europea, sta affrontando una crisi del suo settore industriale causata dall’aumento dei prezzi dell’energia dovuto al venir meno del gas russo a prezzi vantaggiosi e al calo della domanda globale.
Se Berlino piange Parigi non ride
Secondo i dati pubblicati martedì 26 marzo dall’INSEE il deficit pubblico francese per il 2023 ammonta al 5,5% del prodotto interno lordo (PIL), ovvero 154 miliardi di euro. Si tratta di una cifra molto superiore al 4,9% fissato nella legge finanziaria 2024, adottata alla fine dello scorso anno. Il debito pubblico si è attestato al 110,6% del PIL.
Il governo si stava preparando a cattive notizie da diverse settimane. In una intervista a Le Monde ai primi di marzo il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, ha dichiarato che “a causa della perdita di gettito fiscale nel 2023” la cifra sarebbe stata “significativamente superiore al 4,9%”. Quest’ultimo è diminuito di 21 miliardi di euro l’anno scorso, ha detto martedì il ministro su RTL, sottolineando l’effetto del rallentamento dell’inflazione, che tradizionalmente aumenta le entrate fiscali. “Non c’è stata più spesa pubblica di quanto abbiamo detto, ci sono state meno entrate del previsto”, ha insistito.
Le Monde riferisce che mercoledì 20 marzo, Macron ha riunito d’emergenza il suo primo ministro, Gabriel Attal e una schiera di ministri nella sala degli ambasciatori dell’Eliseo. Attorno al tavolo c’erano Bruno Le Maire (Economia), Gérald Darmanin (Interni), Catherine Vautrin (Lavoro, Salute e Solidarietà), Stéphane Séjourné (Affari esteri), Christophe Béchu (Transizione ecologica) e Thomas Cazenave (Conti pubblici).
“Il tavolo, che sembra un’unità di crisi assemblata in fretta e furia, ha lo scopo di affrontare la disastrosa situazione finanziaria del paese e il pericoloso contesto politico” commenta Le Monde.
Tutto questo a meno di tre mesi dalle elezioni europee del 9 giugno dove il partito di Macron – Renaissance – appare sotto di dieci punti a quello della Le Pen. “Questo non è il momento per i commenti, ma per la mobilitazione”, ha detto Macron ai suoi seguaci. “Nel 2019 il contesto era peggiore, abbiamo la responsabilità storica di riuscirci. È in gioco la civiltà europea”.
Il boom delle spese militari in Francia e Germania
A luglio dello scorso anno il Parlamento francese ha approvato un aumento di svariati miliardi di euro delle spese militari fino al 2030, sulla spinta della guerra con la Russia in Ucraina e delle minacce globali in rapida crescita.
Il presidente francese Macron, ha spinto per questo aumento di bilancio, che prevede una spesa di 41,3 miliardi di euro, l’aumento più significativo in mezzo secolo. Il denaro dovrà servire a modernizzare l’arsenale nucleare francese, ad aumentare la spesa per l’intelligence e a sviluppare un maggior numero di armi controllate da remoto. Per Macron, l’aumento delle spese militari è necessario per garantire «la nostra libertà, la nostra sicurezza, la nostra prosperità, il nostro posto nel mondo»
In Germania nel 2024 la spesa militare prevista arriverà a 51,95 miliardi di euro, con un aumento di 1,83 mld di Euro rispetto il 2023.
A questi 51,95 miliardi di euro si aggiungeranno però i 19,8 miliardi di euro dal fondo speciale dedicato alla Bundeswehr, portando il totale delle spese militari a 71,75 miliardi di euro, una cifra mai raggiunta finora dalla Germania e che le farà raggiungere e superare il tetto del 2% delle spese militari rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL), richiesto dalla NATO.
Parte del finanziamento dei programmi previsti sarà sostenuto dal fondo speciale della Bundeswehr, un finanziamento da circa 100 miliardi di Euro deliberato dal Governo del Cancelliere Scholz ed approvato a larghissima maggioranza dal Bundestag nel 2022, come “misura per fronteggiare le necessità di rinnovamento, ammodernamento e potenziamento delle forze armate tedesche” alla luce della guerra in Ucraina.
Fonte
Le mani sulla città alias il Secolo di Aponte
Gianluigi Aponte, l’armatore che, se potesse, farebbe volentieri a meno della stampa e della comunicazione, ha deciso di acquistare il quotidiano genovese Il Secolo XIX. Lo ha annunciato nei giorni scorsi il Gruppo Gedi spiegando che le parti hanno “raggiunto un’intesa preliminare per la cessione” e dunque “entreranno ora in negoziazioni in esclusiva per consentire lo svolgimento della due diligence e, parallelamente, procederanno alla predisposizione e discussione dei documenti contrattuali che disciplineranno l’operazione”.
Me sa i giornali sono stati spesso visti come fumo negli occhi per il proprio business perché il patron di Mediterranean Shipping Company (Msc), gruppo numero 1 al mondo nel business del trasporto container e numero 3 nelle crociere, ha deciso di investire ed entrare nell’editoria? Le ragioni possono essere molteplici; completamente da escludere qualsiasi ragionamento di convenienza economica legate al core business dell’editoria. Più facile semmai pensare ad altri tipi di convenienze: politica, commerciale, di consenso pubblico e altro.
D’altronde gli interessi di Msc a Genova e in Italia sono sempre maggiori e spaziano dal trasporto marittimo di container, alle crociere, ai porti, ai traghetti, ai camion, ai treni, alla logistica terrestre e ora anche all’industria. Solo per rimanere nel capoluogo ligure l’azienda fondata e presieduta da Gianluigi Aponte è proprietaria di due grattacieli (le Torri Msc) a pochi passi dalla Lanterna, della Stazione Marittima del porto (terminal crociere e traghetti), di Grandi Navi Veloci, di Rimorchiatori Riuniti, del 49% della Ignazio Messina & C., del Terminal Bettolo che movimenta container ed è il secondo cliente del porto di Genova in termini di traffico container imbarcato e sbarcato mentre è largamente al primo posto per i crocieristi. Il maxi-appalto da 1 miliardo di euro della nuova diga di Genova serve anche e soprattutto alle sue maxi navi portacontainer e passeggeri perché possano approdare in sicurezza alle banchine del bacino portuale di Sampierdarena. Msc sponsorizza entrambe le squadre di calcio della città (Sampdoria e Genoa), sotto la Lanterna rifornisce le proprie navi, muove camion, treni, vorrebbe rilevare in cordata l’aeroporto Cristoforo Colombo e mantiene stretti e proficui rapporti con la classe politica locale (a partire dal viceministro ai trasporti Edoardo Rixi, passando per il governatore Giovanni toti fino al sindaco e super commissario Marco Bucci). Per dare l’idea del peso che Aponte ha in città il ridisegno del futuro Piano Regolatore Portuale del porto di Genova e Savona è stato mostrato e condiviso prima con lui che con la locale Confindustria.
Dato questo quadro complessivo non sorprende che, alla proposta di rilevare il quotidiano locale Il Secolo XIX, nonostante qualche iniziale incertezza e ritrosia l’esperto armatore abbia infine risposto affermativamente segnando in questo modo il suo sorprendente debutto nell’editoria e acquisendo un altro pezzo di potere in Liguria.
D’altronde avere il controllo di un giornale, tanto più con risorse interne specializzate sull’economia marittimo-portuale, non può che fare comodo a chi negli ultimi anni (grazie a profitti da decine di miliardi di dollari accumulati nel triennio Covid 2021-2023, 36 miliardi solo nel 2022) ha messo a segno una serie di investimenti e acquisizioni che fatica a riepilogare con completezza e precisione.
Andando a ritroso, oltre all’imminente operazione sul Secolo XIX e il subingresso nello stabilimento Warstila a Trieste (dove Msc intende avviare la produzione di vagoni ferroviari merci), il colosso armatoriale ginevrino starebbe trattando l’acquisizione della società di logistica e spedizioni Mvn Industrial Solutions, così come viene dato per imminente l’ingresso in Rail Hub Europa, la società che gestisce il retroporto di Rivalta Scrivia (Alessandria). L’elenco degli ultimi affari conclusi include invece la società di spedizioni francese Clasquin, il 50% di Italo in Italia, il 49,9% della società tedesca Hhla che gestisce i terminal container del porto di Amburgo, almeno il 50% dell’impresa ferroviaria spagnola Renfe Mercancias, il 100% di Bollorè Africa Logistics, la società brasiliana di spedizioni e terminal portuali Log-In e a Malta il 50% del cantiere navale Palumbo.
In Italia lo shopping degli ultimi anni ha visto Msc salire dal 50% al 80% del terminal container Trieste Marine Terminal, rilevare il 100% di Rimorchiatori Mediterranei da Rimorchiatori Riuniti, salvare dalla ristrutturazione finanziaria con banche e creditori la compagnia di traghetti Moby e la società armatoriale Ignazio Messina & C. (in entrambe i casi entrando al 49%) e più recentemente acquisendo la AlisCargo per arricchire la neonata Msc Air Cargo entrata da un anno nel business del trasporto aereo merci.
Prima di Aponte, anche il collega armatore francese Rodolphe Saadé, patron della compagnia di navigazione Cma Cgm, si è messo in mostra per aver rilevato ed essere oggi proprietario dei giornali La Provence, Corse-Matin e La Tribune tramite Cma Cgm Médias. Se il modus operandi fosse lo stesso potrebbe non essere da escludere che Il Secolo XIX sia solo il primo di una più ampia serie di investimenti nell’editoria da parte di Msc.
Fonte
Me sa i giornali sono stati spesso visti come fumo negli occhi per il proprio business perché il patron di Mediterranean Shipping Company (Msc), gruppo numero 1 al mondo nel business del trasporto container e numero 3 nelle crociere, ha deciso di investire ed entrare nell’editoria? Le ragioni possono essere molteplici; completamente da escludere qualsiasi ragionamento di convenienza economica legate al core business dell’editoria. Più facile semmai pensare ad altri tipi di convenienze: politica, commerciale, di consenso pubblico e altro.
D’altronde gli interessi di Msc a Genova e in Italia sono sempre maggiori e spaziano dal trasporto marittimo di container, alle crociere, ai porti, ai traghetti, ai camion, ai treni, alla logistica terrestre e ora anche all’industria. Solo per rimanere nel capoluogo ligure l’azienda fondata e presieduta da Gianluigi Aponte è proprietaria di due grattacieli (le Torri Msc) a pochi passi dalla Lanterna, della Stazione Marittima del porto (terminal crociere e traghetti), di Grandi Navi Veloci, di Rimorchiatori Riuniti, del 49% della Ignazio Messina & C., del Terminal Bettolo che movimenta container ed è il secondo cliente del porto di Genova in termini di traffico container imbarcato e sbarcato mentre è largamente al primo posto per i crocieristi. Il maxi-appalto da 1 miliardo di euro della nuova diga di Genova serve anche e soprattutto alle sue maxi navi portacontainer e passeggeri perché possano approdare in sicurezza alle banchine del bacino portuale di Sampierdarena. Msc sponsorizza entrambe le squadre di calcio della città (Sampdoria e Genoa), sotto la Lanterna rifornisce le proprie navi, muove camion, treni, vorrebbe rilevare in cordata l’aeroporto Cristoforo Colombo e mantiene stretti e proficui rapporti con la classe politica locale (a partire dal viceministro ai trasporti Edoardo Rixi, passando per il governatore Giovanni toti fino al sindaco e super commissario Marco Bucci). Per dare l’idea del peso che Aponte ha in città il ridisegno del futuro Piano Regolatore Portuale del porto di Genova e Savona è stato mostrato e condiviso prima con lui che con la locale Confindustria.
Dato questo quadro complessivo non sorprende che, alla proposta di rilevare il quotidiano locale Il Secolo XIX, nonostante qualche iniziale incertezza e ritrosia l’esperto armatore abbia infine risposto affermativamente segnando in questo modo il suo sorprendente debutto nell’editoria e acquisendo un altro pezzo di potere in Liguria.
D’altronde avere il controllo di un giornale, tanto più con risorse interne specializzate sull’economia marittimo-portuale, non può che fare comodo a chi negli ultimi anni (grazie a profitti da decine di miliardi di dollari accumulati nel triennio Covid 2021-2023, 36 miliardi solo nel 2022) ha messo a segno una serie di investimenti e acquisizioni che fatica a riepilogare con completezza e precisione.
Andando a ritroso, oltre all’imminente operazione sul Secolo XIX e il subingresso nello stabilimento Warstila a Trieste (dove Msc intende avviare la produzione di vagoni ferroviari merci), il colosso armatoriale ginevrino starebbe trattando l’acquisizione della società di logistica e spedizioni Mvn Industrial Solutions, così come viene dato per imminente l’ingresso in Rail Hub Europa, la società che gestisce il retroporto di Rivalta Scrivia (Alessandria). L’elenco degli ultimi affari conclusi include invece la società di spedizioni francese Clasquin, il 50% di Italo in Italia, il 49,9% della società tedesca Hhla che gestisce i terminal container del porto di Amburgo, almeno il 50% dell’impresa ferroviaria spagnola Renfe Mercancias, il 100% di Bollorè Africa Logistics, la società brasiliana di spedizioni e terminal portuali Log-In e a Malta il 50% del cantiere navale Palumbo.
In Italia lo shopping degli ultimi anni ha visto Msc salire dal 50% al 80% del terminal container Trieste Marine Terminal, rilevare il 100% di Rimorchiatori Mediterranei da Rimorchiatori Riuniti, salvare dalla ristrutturazione finanziaria con banche e creditori la compagnia di traghetti Moby e la società armatoriale Ignazio Messina & C. (in entrambe i casi entrando al 49%) e più recentemente acquisendo la AlisCargo per arricchire la neonata Msc Air Cargo entrata da un anno nel business del trasporto aereo merci.
Prima di Aponte, anche il collega armatore francese Rodolphe Saadé, patron della compagnia di navigazione Cma Cgm, si è messo in mostra per aver rilevato ed essere oggi proprietario dei giornali La Provence, Corse-Matin e La Tribune tramite Cma Cgm Médias. Se il modus operandi fosse lo stesso potrebbe non essere da escludere che Il Secolo XIX sia solo il primo di una più ampia serie di investimenti nell’editoria da parte di Msc.
Fonte
Iscriviti a:
Post (Atom)