L’Istat ha l’ingrato compito di «informarci» sull’andamento di molte variabili macroeconomiche, e quella sull’occupazione è in genere una delle più «sensibili» sul piano politico. Ci deve dare per forza notizie positive e l’Unione Europea, stabilendo i criteri validi per l’istituto comunitario – Eurostat – ha fissato anche quelli che ogni istituto nazionale deve adottare.
La premessa era indispensabile per districarsi nella notizia del giorno, decisamente contraddittoria: aumentano gli occupati, ma anche il tasso di disoccupazione. A un osservatore profano la cosa sembra impossibili, sul piano pratico. Ma nel mondo matematico astratto della statistica l’impossibile diventa possibile.
Il dato, innanzitutto: a luglio gli occupati sono aumentati dello 0,3% (59.000 in più) rispetto al mese precedente, superando la soglia dei 23 milioni, raggiunta solo nel 2008 (quando stava scoppiando la crisi ancora in corso). Per capire come possa aumentare l’occupazione in presenza di una stagnazione economica evidente, e mentre le prime forme di automazione vanno prendendo piede (l’«industria 4.0»), bisogna ricordare che per le statistiche europee viene considerata occupata una persona che – nella settimana in cui è stata effettuata la rilevazione – abbia lavorato almeno un’ora (1 ora). Un criterio decisamente «inflazionistico», perché se – in astratto – un datore di lavoro licenzia un dipendente a tempo pieno (8 ore) e ne assume otto per un’ora ciascuno, statisticamente ne risultano sette «occupati» in più.
Nonostante le forme di lavoro precario sia quelle dominanti nell'”aumento" degli occupati, questo non riguarda comunque la fascia di età più delicata – i 35-49enni – quelli che stanno formando o mantenendo una famiglia con figli minori.
Per di più, questo aumento riguarda soltanto i maschi, mentre l’occupazione femminile risulta addirittura in calo. Non è difficile capire perché: in una situazione di difficoltà, e con servizi sociali in progressiva riduzione, le donne vengono «spontaneamente» spinte verso il lavoro di cura domestico (figli minori o familiari anziani), rinunciando per ora al lavoro retribuito.
Ciò nonostante aumentano anche i disoccupati. Sono 65.000 in più, anche qui in crescita dello 0,3%. In questo caso, però, l’incremento riguarda anche le donne (a conferma della spiegazione intuitiva appena esposta) e quasi esclusivamente gli over 50 (quelli dallo stipendio più pesante, se occupati da molti anni). La ragione, anche qui intuitiva ma realistica, è che le aziende licenziano più facilmente i lavoratori anziani (specie se non specializzati), sfruttando a fondo l’abolizione dell’art. 18, per sostituirli con manodopera più giovane e a salario inferiore. Persino Dario Di Vico, ultraliberista vicedirettore del Corriere della Sera, trova curioso «l’accentuato ricorso delle imprese ai contratti a termine negli ultimi trimestri», segno che la nostra spiegazione (verificata sui posti di lavoro) coglie il punto.
Il tasso di disoccupazione, in questo bailamme, cresce comunque dello 0,2%, tornando all’11,3%. Quella giovanile riprende a sua volta a salire, attestandosi al 35,5%.
Com’è possibile?
Il segreto statistico sta tutto nella categoria degli invisibili, ovvero gli «inattivi», gente che non lavora e ha smesso anche di cercarlo. A tutti gli effetti pratici si tratta di disoccupati, ma non entrano nel calcolo fino a quando non si presentano a qualche agenzia di collocamento per dichiararsi ufficialmente in cerca di occupazione.
In questo modo tutti i paesi occidentali riescono a contenere la disoccupazione reale entro limiti «accettabili» per i discorsi dei governanti e le critiche delle opposizioni moderate. Negli Usa, per esempio, dichiarano una disoccupazione ufficiale inferiore al 5% anche se i senza lavoro veri arrivano all’astronomica cifra di 100 milioni. Ossia una persona su due (negli Stati Uniti ci sono circa 320 milioni di abitanti, sottraendo un terzo tra minorenni e pensionati...).
La forte diminuzione degli «inattivi» italiani (-0,9%. -115mila) ha anch’essa una spiegazione intuitiva e verificabile in ogni famiglia: la generalizzazione della precarietà ha abbassato i livelli salariali anche al di sotto della sopravvivenza, dunque in ogni nucleo familiare in cui siano presenti «braccia buone per il lavoro» aumenta la pressione per abbandonare la condizione di «neet» e «darsi da fare».
Una condizione del genere, nella retorica volgare del giornalismo mainstream, viene spesso – ancora! – definita come «conflitto generazionale». E qui arriva l’allucinante proposta del solito Di Vico per «riavvicinare le generazioni», che merita di essere letta per intero:
«la trasmissione delle eredità oggi troppo spesso arrivano dai nonni e dai padri ai figli con un timing sbagliato, quando cioè questi ultimi hanno già implementato le scelte decisive della loro vita e magari, non avendo le risorse necessarie, hanno rinunciato a frequentare un corso di alta istruzione, a fare un figlio in più, ad aprire un ristorante oppure a lanciare una startup tecnologica. Siccome una larga fetta della ricchezza dei seniores è di tipo immobiliare, non è impossibile renderla liquida e favorire così la trasmissione ai giovani».Non serve una traduzione, ma la facciamo lo stesso: voi vecchiacci che siete proprietari di una casa, in qualche caso due, vendetela e date i soldi ai figli subito – prima di morire e lasciarle in eredità – così quelli hanno il capitale di rischio necessario per provare a mettersi in proprio; poi ci penserà «il mercato» a toglierglieli, nella maggior parte dei casi (i fallimenti sono sempre più numerosi dei successi).
La «proposta Di Vico» è una forma diversa del «dovete morire prima», ma ancora più precisa: se proprio riuscite a campare a lungo, dateci subito almeno i vostri averi, di modo che la «maggiore liquidità» che ne deriva potrà essere allocata in modo più «efficiente» dal capitale finanziario multinazionale. Pardon, «dal mercato».
Fatelo per i vostri figli e nipoti, dai...
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