30/06/2022
La requisitoria di Sahra Wagenknecht e i suoi limiti
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht – dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina.
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti. Per queste persone, le tradizioni e i legami comunitari passano in secondo piano, quando non sono oggetto di rifiuto e disprezzo, rispetto all’autonomia e all’autorealizzazione individuali (l’identità individuale è concepita come qualcosa che esiste indipendentemente dalla vita sociale). Trovare riconoscimento e conferma di sé viene prima di qualsiasi velleità di cambiare il mondo e la società, e in ogni caso si ritiene che il mondo e la società possano e debbano essere cambiati cambiando le parole con cui li si nomina e descrive (questa moda del politically correct, scrive Wagenknecht, è nata nelle università di élite angloamericane, imbevute delle idee dei maestri del postrutturalismo come Foucault e Derrida).
Alle lotte per l’uguaglianza subentra la santificazione della disuguaglianza, una mistica della differenza che fa sì che non ci si impegni più per ottenere l’equiparazione legale delle minoranze, bensì per rivendicare privilegi da concedere alle minoranze stesse. Di qui una svalutazione degli interessi della maggioranza che diventa un alibi per le classi benestanti, le quali che possono così astenersi dal finanziare la collettività, in quanto ai loro occhi non rappresenta più l’incarnazione di un interesse comune e condiviso. A fornire un altro alibi al liberismo economico e al suo progetto di smantellamento dello stato sociale è poi il concetto di società aperta e di cittadinanza globale, una dimensione astratta cui tutti possono accedere senza che ciò comporti coesione e aiuto reciproco. Infine, dietro le maschere dell’apertura e della tolleranza che questa gente indossa, si cela uno spirito intollerante degno della peggiore destra reazionaria: per esempio chi non condivide i valori e i dogmi della cultura Lgbt (a partire dalla negazione di ogni fondamento biologico delle differenze sessuali) non è fatto solo oggetto di disprezzo, ma di vero e proprio odio, sentimento che viene riservato a priori ai maschi bianchi della classe media.
Sinistra alla moda è definizione azzeccata: come le mode postmoderne cercano di illudere il consumatore di godere di prodotti e servizi “unici”, ritagliati su misura per le sue esigenze, che viceversa differiscono solo per qualche elemento marginale, allo stesso modo, dietro l’esaltazione delle differenze e delle singolarità individuali che sostanzia l’ideologia delle nuove sinistre, si nasconde una disarmante uniformità di gusti, idee e valori. Questo conformismo di massa, chiarisce Wagenknecht, non è un prodotto puramente culturale ma rispecchia precisi interessi di classe. Al posto di concetti come classe creativa o lavoratori della conoscenza, l’autrice usa la definizione di “nuovo ceto medio dei laureati”, ma la sostanza è la stessa: si tratta di quel 25/30% di lavoratori (1) – dipendenti, autonomi e liberi professionisti – che svolgono attività legate prevalentemente ai settori della finanza, dell’economia digitale e della comunicazione (media, pubblicità, marketing, ecc.). A marcare la distanza fra questo strato sociale da una parte e la classe operaia e le “vecchie” classi medie dall’altra, non sono solo le forti differenze salariali, sono anche differenze antropologiche (atteggiamenti, valori e stili di vita) che rispecchiano precise condizioni materiali di vita: gli uni vivono nei quartieri centrali delle metropoli, che qualcuno ha definito vetrine della globalizzazione felice (2), o nelle città universitarie, gli altri nelle periferie e/o nei piccoli centri di provincia. L’economia della conoscenza non conosce sindacati, stipendi – né tanto meno posti – fissi, percorsi di carriera predefiniti. I contratti di lavoro sono frutto di trattative individuali, mentre il rischio individuale associato a tale condizione viene esaltato come una virtù, in quanto, secondo la vulgata mainstream, questa spietata competizione di tutti contro tutti premierebbe i “giocatori” più meritevoli e coraggiosi.
Nel concetto di nuovo ceto medio dei laureati, più del termine laureati pesa l’attributo nuovo. La semplice laurea, infatti, non garantisce più di poter salire sull’ascensore sociale, in quanto le professioni meglio pagate richiedono ormai capacità che i percorsi formativi pubblici non sono in grado di trasmettere. Di conseguenza, l’istruzione superiore torna a essere quel privilegio che la massificazione degli accessi all’università sembrava avere cancellato nella seconda metà del secolo scorso, dal momento che sono solo le famiglie benestanti a poter offrire ai figli la possibilità di frequentare università di élite. Ma la selezione comincia prima, su base socio territoriale, dal momento che, come ricordato sopra, il nuovo ceto medio vive nei centri gentrificati delle metropoli, cioè in quartieri dove le scuole, dalle elementari ai licei, offrono chance ben superiori di quelle degli istituti periferici. In poche parole, il privilegio sociale è una spirale che si autoalimenta e si rafforza continuamente, aumentando costantemente la distanza fra alto e basso.
Queste distanze si rispecchiano nelle scelte elettorali: come tutte le ricerche sulla composizione sociale dei flussi elettorali confermano, oggi a votare a sinistra sono gli individui benestanti di cultura elevata, tutti gli altri votano a destra o – in misura crescente – si astengono. Wagenknecht cita il caso dei Verdi tedeschi, che hanno superato da tempo i Liberali come partito più votato dai ricchi, ma ammette che anche il suo partito, la Linke, un tempo sostenuto da un elettorato di cultura medio-bassa prevalentemente operaio, è diventato un “partito dei laureati”. Ma soprattutto si rispecchiano negli stili di vita, nei linguaggi e nelle posture ideologico-culturali. Le élite della nuova sinistra guardano dall’alto in basso “quelli che non hanno frequentato l’università, vivono in provincia e comprano da LIDL i prodotti per la grigliata per risparmiare”. Questi “sdentati” (3) usano parole che l’etichetta politicamente corretta considera intollerabili, per cui, nelle redazioni dei media, nelle istituzioni pubbliche e nelle aziende sono sottoposte a dure sanzioni sociali, al punto che “più della metà dei cittadini tedeschi non osano esprimere liberamente le proprie opinioni“ (4).
Quando questa “marmaglia”, ribellandosi contro le politiche neoliberali e le condizioni di vita che esse impongono alle classi subalterne, scende in piazza dando vita a spettacoli “indecorosi”, come le manifestazioni dei gilet gialli in Francia, degli elettori di Trump negli Stati Uniti e dei No Vax in tutto il mondo, viene bollata con accuse di neofascismo. Le sole manifestazioni accettabili sono quelle per i diritti delle minoranze Lgbt, dei migranti o per la tutela dell’ambiente, e devono essere pacifiche, allegre e variopinte come quelle di movimenti come MeTo e Friday for Future. Per inciso, nota Wagenknecht, a queste ultime non hanno partecipato più dell’80% dei giovani, mentre i due terzi dei partecipanti hanno ammesso di appartenere a un ceto sociale elevato.
Passiamo all'altra faccia dello specchio. I proletari votano a destra perché si sono convertiti in massa al fascismo, o solo perché l’assoluta assenza di empatia del nuovo ceto medio nei confronti delle loro esigenze e dei loro timori non lascia a queste persone altre alternative per esprimere la propria rabbia? Questa per Wagenknecht è ovviamente una domanda retorica che ammette solo la seconda risposta. Le radici della rabbia affondano nel venir meno di ogni senso di sicurezza e continuità. La mistica del cambiamento e del rischio che esalta il nuovo ceto medio, per i membri delle classi subalterne, che hanno bisogno di sapere che cosa accadrà domani, è viceversa associato a un angosciante senso di precarietà e insicurezza esistenziali. Nel trentennio postbellico lo Stato aveva imposto limitazioni alla corsa al profitto privato, alla cui logica aveva sottratto la sanità, l’educazione, il diritto alla casa, le comunicazioni e alcuni servizi fondamentali come elettricità, acqua e trasporti pubblici. La rivoluzione neoliberale ha spazzato via in tempi brevissimi questi presidi che garantivano sicurezza e protezione. Nei primi cinque anni del governo Thatcher è andato in fumo un terzo dei posti di lavoro industriali. Globalizzazione, decentramento produttivo nei Paesi a basso costo del lavoro, outsourcing dei servizi interni alle imprese hanno fatto il resto. Il nocciolo duro del proletariato industriale, caratterizzato da una cultura del lavoro fondata anche sull’orgoglio professionale (non si lavorava “solo per denaro ma per fare qualcosa di utile di cui andare fieri, non si voleva solo fare un lavoro ma farlo bene”), è stato rimpiazzato da un coacervo di mestieri dislocati nella logistica, nella grande distribuzione, nei servizi di cura e assistenza, tutti lavori precari, mal retribuiti e lontani dal garantire una qualche forma di soddisfazione professionale. Un capitalismo finanziarizzato, in cui il reddito proviene dalle rendite patrimoniali più che dal lavoro, ha alimentato disuguaglianze, aumento dei debiti pubblici e privati e immiserimento di massa, al punto che le aspettative di vita della classe media di un Paese ricco come gli Stati Uniti si sono drasticamente ridotte a causa del diffondersi dell’alcolismo, dei suicidi e dell’abuso di psicofarmaci.
La divaricazione alto/basso si evidenzia con particolare nettezza a proposito di temi come l’ambiente e l’immigrazione. In entrambi i casi il nuovo ceto medio e le forze politiche che lo rappresentano propongono un’analisi irrealistica del problema e soluzioni che non tengono in alcun conto gli interessi delle classi subalterne. Partiamo dall’ambiente. Le analisi dei Verdi non vanno alla radice delle cause del degrado ambientale – la logica del profitto capitalistico – ma puntano il dito contro i comportamenti individuali, alimentando l’illusione secondo cui basterebbe cambiare stile di vita per salvare il pianeta. Ovviamente a cambiare stile di vita dovrebbero essere soprattutto i poveri le cui pratiche antiecologiche vengono addebitate a ignoranza e incuria e non alla necessità di risparmiare, per cui si propone di penalizzare determinati consumi di massa (per esempio il carburante diesel) con rincari che “renderebbero nuovamente beni di lusso molti oggetti di consumo e servizi comuni cui grandi fette di popolazione non avrebbero più accesso”.
Veniamo all’immigrazione. L’ideologia delle sinistre cosmopolite che predicano l’accoglienza indiscriminata e senza limiti non fa distinzione fra chi è costretto a emigrare dai disastri provocati dall’imperialismo occidentale e chi lo fa per scelta, rimuovendo il fatto che questi ultimi non sono affatto i più poveri, che non hanno i mezzi per farlo per farlo, bensì i corrispettivi dei ceti medi emergenti dei Paesi occidentali. Così aumentano ovunque i medici del terzo mondo e i paesi poveri finanziano la formazione di specialisti che verranno sfruttati dai paesi ricchi, assistiamo cioè a un sovvenzionamento del Nord da parte del Sud che viene depauperato di forza lavoro qualificata (venti milioni di lavoratori dell’Est sono venuti in Germania dopo l’ingresso dei loro Paesi nella UE). I padroni ottengono così il duplice obiettivo di usufruire di forza lavoro a basso costo e di dividere i lavoratori, ma anche il ceto medio dei laureati ha il suo tornaconto: la disponibilità di servizi di cura alla persona garantisce infatti un aumento del loro potere d’acquisto. A pagare per tutti questi vantaggi sono i quartieri poveri in termini di concorrenza per le abitazioni, degrado delle scuole e dei servizi locali. Il fatto poi che le nuove ondate migratorie giunte in Germania negli ultimi anni dalla Siria e altri Paesi del Medio Oriente abbiano faticato a trovare lavoro e vivano di sussidi, alimenta nei ceti subalterni l’idea che questi soldi vanno a persone che non c’entrano nulla con noi né hanno lavorato per meritarsele.
Fin qui il discorso fila e, pur non apportando sostanziali novità a quanto già argomentato da altri autori, ha il merito di approfondire la situazione tedesca evidenziandone la sostanziale convergenza con quella degli altri Paesi dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Le perplessità nascono laddove, come anticipato in sede introduttiva, la Wagenknecht si sforza di riscattare il concetto di sinistra, sia riagganciandolo – acriticamente – alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, sia temperando il giudizio sulla sinistra neoliberale nel tentativo di distinguerla dal neoliberismo economico, il che la induce a imboccare una strada che conduce a un pasticcio ideologico che ha scarse chance di contribuire alla costruzione di un’alternativa al dominio neoliberale.
Sulla conversione delle sinistre al neoliberalismo disponiamo già del contributo, fra gli altri, di autori come Nancy Fraser che ha coniato la formula neoliberismo progressista per denotare l’alleanza fra liberalismo di sinistra e liberismo economico (5), o di Wolfgang Streeck, che nei suoi lavori parla della fine della liberal democrazia dovuta al definitivo divorzio fra liberalismo e democrazia (6), ma l’approccio di Wagenknecht, forse perché è più lontana dalla cultura marxista degli autori appena citati, è decisamente meno radicale. Pur riconoscendo che fra liberalismo di sinistra e neoliberismo economico esistono molte convergenze, in quanto riflettono entrambi la visione di strati sociali che sono stati premiati dai grandi mutamenti socioeconomici degli ultimi decenni, continua a coltivare l’illusione che esista un liberalismo di sinistra non ispirato al liberismo economico. È vero che questa differenza si riduce alla disponibilità a tenere in vita un welfare “riformato”, fondato su provvedimenti come l’istituzione di un reddito di base incondizionato che, invece di promuovere politiche finalizzate al conseguimento di uno stato di piena e buona occupazione, si limitano a offrire ai poveri un’assistenza di tipo umanitario, ciò non toglie, secondo Wagenknecht, che queste differenze conservino traccia della sinistra liberale “classica”, che nulla avrebbe a che fare con l’attuale neoliberismo “progressista”.
Per sinistra liberale “classica”, Wagenknecht intende movimenti come la sinistra laburista di Corbyn e quella democratica di Sanders o, per restare in Germania, le ali di sinistra di SPD e Linke. Il che implica, secondo lei, che per rianimare una sinistra degna di questo nome, basterebbe restituire centralità al ruolo dello Stato (di questo Stato) in economia, senza che ciò debba essere necessariamente associato a un progetto di trasformazione sistemica; progetto che del resto, a partire dalla svolta di Bad Godesberg, non fa più parte della cultura socialdemocratica tedesca. La “sua” sinistra dovrebbe essere “liberale e tollerante” e collocarsi nella tradizione dell’illuminismo occidentale che l’autrice assume come un complesso di valori universali privi di connotazioni storiche e politiche (7).
Insomma Wagenknecht è una liberale (“classica”) senza se e senza ma, al punto che si compiace nello scrivere che “oggi la maggioranza dei cittadini pensa in maniera molto più liberale rispetto a pochi decenni fa, lo spirito dei tempi è solidamente liberale” e che “il nostro sistema politico è ancora liberale e bisogna sperare che continui ad esserlo”. Di più: da buona tedesca, Wagenknecht non si rifà semplicemente alla tradizione liberale bensì a quella dell’ordoliberalismo, un pensiero che esalta in quanto impegnato a limitare il potere dei monopoli e garantire le condizioni di una “sana” concorrenza e che, a suo avviso, fino agli anni Novanta, avrebbe premiato “il merito, gli sforzi per migliorarsi e l’operosità individuale”. Non una parola sul fatto che la “libera” concorrenza (Marx docet) genera monopolio, che il merito e la competizione individuale per migliorarsi sono stati la base ideologica su cui è venuta crescendo quella sinistra alla moda che giustamente le sta sui nervi. Non una parola sul fatto che la potenza e il benessere del suo Paese si fonda su un modello di sviluppo mercantilista che ha potuto sfruttare, grazie all’egemonia tedesca sulla UE, il lavoro a basso costo degli operai del Sud e dell’Est Europa. Infine rammarico per un industria tedesca che sarebbe in crisi non a causa delle contraddizioni interne al suo modello di sviluppo bensì delle “importazioni cinesi basate sul dumping”, puntando il dito contro quella Cina “che intrattiene con la democrazia e con i diritti civili un rapporto quale non ci augureremmo mai in Europa”.
In conclusione mi scappa da dire: cara Sahra non capisci che quella sinistra alla moda che giustamente ti irrita è l’erede della tradizione liberal socialista del tuo Paese che oggi ti ispira tanta nostalgia?
Note
(1) Questa percentuale ricorre in tutte le analisi della composizione sociale delle società occidentali, anche se i criteri di ricerca variano. Piketty, ad esempio, si riferisce a quegli strati sociali che più di altri hanno beneficiato delle politiche redistributive del “trentennio glorioso”, ciò che ha loro permesso di integrare il reddito da lavoro con rendite derivanti dal possesso di beni immobili e titoli di stato.
(2) A usare questa definizione è, fra gli altri, il geografo francese Christophe Guilluy, autore di una serie di opere in cui descrive la dimensione territoriale del conflitto di classe.
(3) A usare questa sprezzante definizione nei confronti delle classi inferiori è stato l’ex presidente socialista francese François Hollande.
(4) Questo fenomeno di autocensura indotto dalla pressione del discorso delle élite sull’opinione pubblica è stato analizzato dalla sociologa tedesca Noelle Neumann che lo definisce “la spirale del silenzio” (La spirale del silenzio, Meltemi, Milano 2017).
(5) Cfr. N. Fraser, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.
(6) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
(7) La Wagenknecht respinge l’accusa che il pensiero postcoloniale rivolge alla razionalità occidentale, definendola eurocentrica e colonialista, ma se all’ideologia postcoloniale si possono rivolgere molte critiche, questa accusa è invece, piaccia o meno ai paladini dell’ideologia occidentale, un suo merito indiscusso.
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Draghi, il “commissario euro-atlantico” che si mangia i partiti
Il secondo – certamente più grave – è quello di non vedere la realtà dei rapporti di potere che sovrintendono alle dinamiche politiche nazionali.
Bisogna perciò in qualche misura ringraziare il sociologo Domenico De Masi che, intervistato da Il Fatto, ha reso nota la pressione di Mario Draghi su Beppe Grillo affinché facesse in qualche modo fuori Giuseppe Conte da “capo politico” dei Cinque Stelle.
Per la cronaca, la smentita di Draghi è arrivata solo 12 ore dopo, quando lo “scandalo” era ormai esploso. Il che, per le abitudini di qualsiasi governo o partito, equivale ad un’ammissione, più che a una smentita. “Atto dovuto”, insomma, ma non convincente...
Come i nostri lettori sanno non siamo mai stati teneri né con i Cinque Stelle, né con Giuseppe Conte, né con Beppe Grillo. Ma certo quel movimento aveva raccolto – in modo deviato e banale, “populista” nel senso più deteriore – una domanda di rappresentanza politica di interessi sociali che gli altri partiti non potevano coprire.
E quel pochissimo che erano riusciti a fare nei due governi presieduti da Conte – un reddito di cittadinanza ampiamente al di sotto delle necessità, un “decreto dignità” che non ha neanche sfiorato lo strapotere delle imprese sui lavoratori, ecc. – è stato comunque vissuto con un fastidio immenso dal mondo delle imprese e dai poteri europei.
Nel nostro piccolo, avevamo visto subito che “l’ascesa di Draghi a Palazzo Chigi” era il suggello di un’operazione di restaurazione condotta dalla borghesia europea – che comprende anche la fascia più “elevata e internazionalizzata” di quella italiana – con l’obiettivo esplicito di “ridisegnare” il modello produttivo italiano in funzione delle filiere produttive continentali.
Nonché di revisionare pesantemente la struttura istituzionale dello Stato a suon “riforme” collegate agli obiettivi del PNRR.
Era stato quindi abbastanza facile vedere in Draghi un “commissario” che avrebbe cercato fra l’altro di selezionare una nuova classe politica, pescando tra i più “affidabili” e “disponibili” delle varie formazioni in sfacelo, cui affidare il compito di mantenere la nave sulla rotta fissata.
La stessa ricostruzione che fa oggi Marco Travaglio di quest’ultimo anno e mezzo parla giustamente di “operazione golpista”, elencando come e quando PD, Lega e Cinque Stelle sono stati smontati e rimontati nel modo più adatto allo scopo.
Per questi ultimi, in particolare, lo smontaggio deve arrivare fino all’eliminazione. Facile capire che Luigi Di Maio è stato “convinto” piuttosto rapidamente, e che anche Grillo – in crisi di idee – oscilla continuamente tra continuità e liquidazione di un’esperienza troppo “tenera” per reggere nel mare infestato di squali.
I punti che ci sembrano rilevanti, per un’opposizione popolare degna di questo nome, sono almeno due.
Il primo è come funziona il potere, in questo continente. Telefonare a Grillo perché si liberi di un suo “collaboratore” prestigioso (due volte presidente del consiglio, comunque lo si giudichi) rivela un metodo. Che consiste nel rovesciamento completo tra poteri esecutivi, decisionisti, e dialettica politica, quella che dovrebbe esistere tra popolazione e Parlamento, per il tramite di partiti, ecc.
La frase agghiacciante con cui Draghi si è rifiutato di subordinare le sue scelte sull’invio delle armi in Ucraina al voto dell’aula, né ora né in futuro («Impossibile: vorrebbe dire che il governo è commissariato dal Parlamento»), è l’esplicitazione di una cultura tecnicamente golpista. Che esclude categoricamente che possano esser fatti valere interessi diversi da quelli dominanti.
È la dichiarazione di morte per quella “democrazia parlamentare” di cui ci si riempie la bocca ogni volta che, non a caso, bisogna fare la guerra a un nemico.
Il secondo punto, fondamentale nei prossimi mesi, è che non ci può essere nessuna contaminazione possibile tra qualcuno dei “partiti” che si riconoscono nell’”euro-atlantismo” capitanato da Draghi (tutti quelli presenti in Parlamento, a parte alcune frange sparse dell’ex galassia grillina) e il movimento sociale-politico che va componendosi faticosamente per creare un’alternativa pacifista, ambientalista, di giustizia sociale.
E se, a sinistra, è per tutti scontato che non si possa né debba interloquire con il fascioleghismo, è meno chiaro – per alcuni – che questo non può avvenire neanche con il PD. Ossia con il comitato elettorale che più di tutti è profondamente sintonizzato sull’euro-atlantismo guerrafondaio.
Siamo in tempi di guerra, il potere che sorride lo fa per nascondere la dentatura da predatore.
È ora di liberarsi delle subculture dei decenni passati. Quelle fermentate sull’illusione che la Storia fosse finita e che restasse solo da “aggiustare” le storture più evidenti.
Chi si illude, non ha futuro.
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La Nato “in guerra” con Russia e Cina. In Italia missili e altre bombe nucleari
È stato superato il veto della Turchia all’adesione di Svezia e Finlandia, in cambio dell’estradizione dei rifugiati politici curdi e la fine del blocco sulle forniture di armi. Il vertice della Nato di Madrid ha approvato un altro sostanzioso piano di aiuti militari all’Ucraina per la guerra in corso, ed ha varato la dichiarazione di Madrid e il nuovo Concetto Strategico, due documenti che fissano la prospettiva dell’Alleanza sull’attuale congiuntura globale e le politiche per i prossimi dieci anni.
La Russia ha già fatto sapere che risponderà in caso di schieramento di basi Nato in Svezia e Finlandia. Secondo l’agenzia Ria Novosti, il presidente russo Putin ha affermato che “Non abbiamo problemi con Svezia e Finlandia, come ne abbiamo con l’Ucraina. Ma in caso di posizionamento di infrastrutture militari Nato in Finlandia e Svezia, saremo costretti a rispondere in maniera speculare”.
Per quanto riguarda la già pesante e invasiva presenza di basi militari Usa/Nato in Italia, nel nostro paese arriverà una batteria di missili antimissili e altre bombe nucleari statunitensi sarebbero stoccate nell’aeroporto militare di Ghedi, 25 km a sud di Brescia.
In un lungo articolo dedicato al nuovo Strategic Compact sulla rivista della Nato – la Nato Review– così ne viene descritta la sintesi: “l’attuale guerra conferma l’idea che viviamo in un mondo sempre più competitivo e che le minacce interstatali sono tornate. D’altra parte, la natura palese e diretta dell’invasione russa mette in discussione alcune delle ipotesi prevalenti su come il conflitto futuro si sarebbe probabilmente svolto in modi indiretti e ibridi”. Dunque se il vecchio Strategic Concept era tarato sostanzialmente su una contrapposizione con Russia e Cina da giocarsi in modo meno contundente sul terreno delle “guerre ibride”, il nuovo concetto alla luce della guerra in Ucraina rimette in campo l’opzione della guerra a tutto campo anche con strumenti direttamente bellici.
Indubbiamente la “mossa” della Russia, con l’intervento militare in Ucraina, ha sconquassato non poco i precedenti orientamenti strategici della Nato. Non solo. Il fatto che la Cina non abbia seguito le potenze occidentali contro Mosca ha aggiunto ad esso un ulteriore fattore di agitazione e di rimessa a fuoco allargando il raggio della Nato all’area del Pacifico. “L’incertezza sul destino delle operazioni russe in Ucraina o su come queste possano influire sul potere e sulla posizione strategica della Russia lungo il confine orientale dell’Alleanza, significa che qualsiasi riflessione sulla strategia della NATO a est dovrà andare oltre il Concetto strategico” – scrive la Nato Review – “Più in generale, il Concetto strategico deve guardare oltre le sfide immediate in Europa e fare il punto sul più ampio spostamento del potere globale dall’area euro-atlantica a quella indo-pacifica”.
Emerge poi il rammarico per i bei tempi dell’unipolarismo Usa dopo la fine della Guerra Fredda: egemonia globale, facili guerre asimmetriche da vincere, nessuna potenza rivale. “Il surplus di potere di cui godevano gli Stati Uniti e i loro alleati dava all’Occidente mano libera (sia politicamente che militarmente) per impegnarsi in ambiziosi sforzi fuori area e per sfruttare le operazioni di gestione delle crisi e le iniziative di sicurezza collettiva per espandere il raggio d’azione del cosiddetto ordine internazionale aperto e basato sulle regole, non solo nel più ampio vicinato euro-atlantico, ma anche al di fuori” sottolinea la rivista della Nato.
Il succo del nuovo Strategic Compact della Nato è leggibile in questa analisi della nuova fase della situazione internazionale: “I concorrenti di pari livello stanno nuovamente sfidando la sicurezza e l’architettura geopolitica e di sicurezza nelle importanti regioni dell’Europa e dell’Asia orientale, ma anche il tessuto istituzionale e normativo che sostiene l’ordine internazionale aperto e basato sulle regole. Adattare l’Alleanza a questa nuova ondata di competizione tra grandi potenze è probabilmente la sfida principale del prossimo decennio”.
In pratica l’incubo peggiore che i neocons statunitensi avevano ravvisato fin dal 1992, cioè appena dopo la fine della Guerra Fredda, e poi rinnovato nel 2000, si è praticamente materializzato.
La guerra e la competizione sul piano militare viene di nuovo indicata come lo scenario da rendere possibile e sul quale riorganizzare l’intero apparato bellico e strategico del blocco euroatlantico. Uno scenario da incubo, stavolta non solo per gli Usa ma per l’intera umanità.
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È emergenza siccità ma le reti idriche perdono il 42% dell’acqua
Ma l’attuale emergenza acqua in Italia è dovuta anche alla mancata manutenzione della rete idrica. E cosa è stato fatto per risolvere un problema che riguarda gran parte del paese? Nulla. Anzi, si continua ad andare nella direzione opposta.
Il 30 maggio scorso, con 180 voti favorevoli, 26 contrari e un’estensione, il Senato ha approvato il disegno di Legge d’iniziativa governativa (collegato alla Legge di Bilancio) n. 2469 (cd. Ddl Concorrenza), ovverosia la “Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”.
Il testo è poi passato ora alla Camera per la seconda lettura. Come si legge sul Sole 24 Ore, ci sarà poi una terza lettura al Senato, che l’intesa politica prevede solo formale, per arrivare all’approvazione definitiva, secondo gli auspici del governo, entro metà luglio o entro la pausa di inizio agosto.
In base al DdL Concorrenza, l’acqua pubblica finirà definitivamente e completamente nelle mani dei privati. Un bene primario trasformato in “merce”.
La stessa sorte toccherà ai servizi pubblici, senza eccezione alcuna: la gestione degli acquedotti, dei trasporti urbani, della raccolta dei rifiuti, i centri di assistenza ai cittadini.
Il Forum per i movimenti in difesa dell’acqua ricordano che “era il 5 agosto 2011 quando l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, insieme al presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, scrisse una lettera al presidente del Consiglio Berlusconi, in cui indicava come necessarie e ineludibili le privatizzazioni su larga scala, con particolare riferimento ai servizi pubblici”.
Da allora, incuranti del risultato storico di quel referendum, le municipalizzate che gestiscono i servizi idrici si sono trasformate in società per azioni (con la sola eccezione di Napoli) a partecipazione sia pubblica che privata, che dividono la maggioranza degli utili tra gli azionisti.
Quote di queste nuove aziende sono state acquistate anche da multinazionali e fondi di investimento stranieri. E la ragione è chiara: non esiste un investimento migliore, visto che si tratta di un regime di monopolio, in cui le tariffe sono assicurate e non esiste obbligo di investimenti nella rete.
A undici anni da quel referendum il risultato è che le perdite idriche della rete sono aumentate in media del 50% mentre le bollette diventano ogni anno più salate.
Ora, credete davvero che i privati che acquisiranno completamente la proprietà delle municipalizzate che gestiscono l’acqua faranno gli investimenti straordinari resi necessari dal cattivo stato della rete idrica? Oppure preferiranno accaparrarsi gli utili?
E quante delle attuali enormi perdite di reti ed acquedotti sono la conseguenza diretta delle privatizzazioni già avvenute in barba al referendum del 2011 e dell’infinita avidità di amministratori ed azionisti che, in questi undici anni, hanno questi preferito intascare i dividendi invece di investire nella manutenzione straordinaria di reti ed impianti?
Il 12 giugno del 2011, 26 milioni di italiani si recarono alle urne per chiedere che l’acqua restasse un bene di natura esclusivamente pubblica e che da essa non si traesse profitto. Quella volontà popolare è stata definitivamente cancellata dal governo Mario Draghi.
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Ergothanatos. Silenzi assordanti dal mondo del lavoro
Continua la conta dei morti, dei feriti, dei casi di irregolarità, si racconta lo sfruttamento con reportage e articoli, ma in pochi casi si prova a dare una visione organica del modello e dei suoi dispositivi.
Drammatizzare e raccontare sono strumenti utili soltanto se ciò genera una riflessione e una volontà collettiva di mettere a disposizione i saperi per smontare quanto sta avvenendo in termini di impedimento dell’agibilità del diritto e del superamento del vissuto, dentro e fuori i luoghi di produzione di merci e servizi.
“Alcuni giorni fa Alessandro Alberani, il Direttore Logistica Etica Interporto Bologna, ha finalmente chiarito qual è il significato politico della sua nomina. In occasione di un incontro in Prefettura, in linea con il suo passato alla CISL, Alberani ha fatto sapere che stanno lavorando per far rientrare il settore della logistica nella legge 146 che prevedere tempi più lunghi e procedure più complesse per proclamare gli scioperi.
L’obiettivo, ha detto senza pudore, è impedire scioperi e blocchi dei lavoratori e delle lavoratrici dei magazzini, in maggioranza migranti e richiedenti asilo”[1].
Queste dichiarazioni ci dicono apertamente che parlare di “filiere etiche” è accettare che esiste una quota fisiologica di lavoratori e lavoratrici che deve vivere in condizioni di sfruttamento, di ricattabilità, di nocività e insicurezza.
Un qualcosa di necessario per mantenere in piedi i settori dell’economia, un velo strappato dal fenomeno della mancanza di personale nel settore del turismo, un segreto di Pulcinella esploso grazie alla misura, a seconda dei punti di vista, controversa e critica del “reddito di cittadinanza”, ossigenante in un Paese dove non esiste un salario minimo legale.
Le dichiarazioni si scontrano contro il muro dell’oggettività. Dal rapporto annuale 2021 dell’Ispettorato nazionale del lavoro emerge come l’Emilia Romagna sia al primo posto per “Illecite esternalizzazioni di mano d’opera” in materia di appalti (1696 lavoratori coinvolti e 75% di coop irregolari).
I dati generali sugli indici di irregolarità dello stesso rapporto ci dicono: 62,3% di irregolarità, 82,3% di irregolarità previdenziali, di 92,5% irregolarità assicurativa. Oltre 480.000 lavoratori e lavoratrici irregolari (di cui 20.000 circa in nero).
A fianco a questa realtà indagata, a cui si aggiungerebbero gli indicatori sulla sicurezza e salute (1.221 morti, 555.236 infortuni complessivi e 55.288 denunce di malattie professionali +22.8% – fonte INAIL), nella sola provincia di Modena tra il 2018 e il 2020 si sono contati 481 processi penali per fatti connessi all’attività sindacale.
Questo probabile astruso discorso vuol evidenziare come senza una critica organica a questo modello normativo-sociale, i temi del lavoro diventano frammentari, speculari a quelle che sono state fino ad oggi le politiche del lavoro, con le ripercussione inconfutabili di indebolimento dei diritti e dell’agibilità sindacale.
Storicamente la salute nei luoghi di lavoro è stata percepita come bisogno reale soltanto dopo decenni di lotte in cui si è consolidato un insieme di strutture e norme in difesa dell’occupazione, di un giusto e degno salario, fino alla messa in discussione totale del sistema fabbrica, dei processi e dell’organizzazione del lavoro (esperienze: Comitato Politico degli operai di Porto Marghera; Convegno sindacale Torino 1970; nascita dei gruppi omogenei) [2].
Trattare le tematiche del lavoro con saperi iperspecialistici e frammentati, rinunciando alla loro socializzazione e ignorando le esperienze di chi sul proprio vissuto subisce questa condizione non fa altro che spianare la strada al modello che sta nelle dichiarazione del Direttore Logistica Etica Interporto Bologna.
Attualmente è assente un legame tra la direzione politica degli enti deputati al controllo e alla tutela delle condizioni di lavoro e il mondo del lavoro sindacalizzato o meno. Esiste un bisogno di creare collegamenti, ma questo bisogno vede un indebolimento in termini sia di risorse sia di approcci culturali e metodologici che molto spesso nascono distorti e orientati verso il filo-aziendalismo già a partire dalla scuola e passando poi, per le università dove si formano scienziati e tecnici.
Il conflitto nei rapporti di classe nasce a prescindere da questo legame, ma alimentarlo con saperi e strumenti da mettere a disposizione storicamente lo sposta a favore di una o dell’altra parte.
L’ergothanatos è la politica che si sta adottando nei luoghi di lavoro, continuando a spremere e fidelizzare i tutelati e frammentare e isolare quelle componenti prive di tutela o cariche di esplosività conflittuale. Morire o lasciar morire è il paradigma che va rifiutato e rovesciato. Per fare ciò occorre azionare quel residuo della “capacità umana vivente”, unica scheggia fuori dalla messa al valore totale.
Chiedere giustizia a cose accadute è accettare di non avere un freno su una strada in discesa che termina su un precipizio. Questo vuole essere un appello che vede la necessità di unire saperi ed esperienze dirette per portare a trovare gli strumenti molteplici per dare un’inversione di tendenza a questa storia narrata a senso unico, fatta di norme legate a processi e scelte politico-economiche a cui si dovrà per forza dare un volto e un nome.
In questo si inseriscono i temi della salute e sicurezza sul lavoro che devono compiere necessariamente questo passo di interconnessione con altri saperi se non vogliono essere feticcio retorico o strumento che nasce dal movimento operaio e si ritorcerà contro agli stessi protagonisti e protagoniste.
Note
1 https://www.coordinamentomigranti.org/2022/06/19/il-silenzio-etico-migranti-logistica-e-amministrazione-comunale/
2 http://effimera.org/contro-la-nocivita-operaismo-ed-ecologia-nel-lungo-68/
Fonte
Su Sky TV le torture dello “Stato democratico”
La serie affronta in 4 puntate con documenti video dell’epoca e interviste a protagonisti di allora e a commentatori dell’oggi, genesi e conclusione del sequestro del generale NATO Dozier posto in essere il 14 dicembre del 1981 dalle BR Partito Comunista Combattente, la specifica è d’obbligo perché erano già intervenute le scissioni con la colonna milanese Walter Alasia e il Partito Guerriglia di Giovanni Senzani.
Chiunque abbia negli anni scorsi affrontato in modo serio e documentato quella vicenda non scopre nulla di nuovo, ma la gran parte delle “anime belle” che da sempre abbracciano con entusiasmo la vulgata imposta su quegli anni ad uso e consumo dei cosiddetti “sdegnati democratici”, farebbe bene a dargli un’occhiata, perché viene finalmente ricostruito con esattezza il modo con cui si arrivò a compiere quell’“operazione perfetta” con la liberazione del generale.
“Emerge una verità oscura”, scrive Silvia Fumarola su Repubblica, in un articolo dell’11 giugno dal titolo: “Il caso Dozier in una docuserie Sky: luci e ombre di un sequestro”.
Per i più giovani che allora non c’erano, si sappia che quel sequestro di un generale NATO nella base militare di Verona ad opera di quattro ragazzotti travestiti da operai con un semplice furgoncino di risulta, fu una sfida senza precedenti al potente alleato, al punto che l’allora Presidente Reagan avvertì immediatamente il “povero” Spadolini che se non avessero liberato al più presto il loro uomo, tanti saluti al suo bel governo atlantista che in quei giorni stava preparando il terreno ai nuovi anni Ottanta “da bere” dopo vent’anni di conflitti sociali senza precedenti.
Potete immaginare quindi quali scene di giubilo nazionale e dispendio di encomi all’Italia migliore quando verso la tarda mattinata del 28 gennaio 1982 il TG mandò in onda i servizi che celebravano l’“operazione perfetta” dei corpi addestrati di Polizia che erano riusciti a scovare la base padovana di via Pindemonte liberando l’ostaggio senza spargimento di sangue, dopo avere catturato i cinque pericolosi terroristi, tre uomini e due donne, nell’appartamento al primo piano, sopra un gigantesco supermercato.
Il generale venne ricevuto da un orgoglioso Pertini che qualche mese prima del trionfo mondiale di Madrid poteva già gridare al mondo quanto eravamo bravi noi italiani, mentre l’allora Ministro Rognoni sfoggiava davanti all’ammirata stampa mondiale la nostra incommensurabile maestria nell’affrontare e sconfiggere un fenomeno guerrigliero di quella portata con la sola forza della democrazia e della legge.
Chiunque, si diceva, abbia invece approfondito quell’operazione perfetta, sa benissimo che le cose non andarono proprio così, ma anche gli altri, ivi compresa la giornalista di Repubblica, avrebbero dovuto saperlo da tempo, visto che più di dieci anni fa c’erano state le confessioni del Commissario Salvatore Genova, era uscito il libro “Colpo al cuore” di Nicola Rao (Sperling & Kupfer), un giornalista non certo affine alle BR, la cui nomina in RAI è stata oggetto di recenti strali perché ritenuto troppo “di destra”, e persino il popolare programma RAI in prima serata “Chi l’ha visto” aveva dedicato un ampio servizio al caso Triaca.
Enrico Triaca al quale una Sentenza del 15 ottobre 2013 della Corte di Appello di Perugia, aveva revocato, accogliendo la sua richiesta di revisione, la condanna a suo tempo inflittagli per calunnia, riconoscendo, sulla base delle testimonianze di Salvatore Genova, Nicola Rao e Matteo Indice, che quando fu arrestato il 17 maggio 1978 perché gestiva la tipografia di via Pio Foà 31 a Monteverde, nel corso dell’indagine sul sequestro Moro, un gruppo di agenti capitanati dall’allora dirigente UCIGOS Nicola Ciocia, soprannominato “dottor De Tormentis”, lo aveva sottoposto a tortura con il metodo del waterboarding.
Un “simpatico” metodo con il quale, legando mani e piedi su una tavola di legno un soggetto denudato, e infilandogli con una canna di gomma collegata alla gola acqua salata, si simula l’effetto annegamento senza lasciare tracce.
A distanza di 42 anni il documentario di SKY ci racconta come andarono le cose.
Per trovare il luogo ove era trattenuto il generale fu messa in piedi una “squadra speciale” UCIGOS diretta da Umberto Improta e Gaspare De Francisci perché replicasse quel metodo “spiccio” e che venne chiamata “squadra dell’Ave Maria” con a capo il “dottor De Tormentis”, e a forza di retate in ogni dove negli ambienti della sinistra extraparlamentare del veneto, il 26 gennaio 1982 un gruppo composto da Salvatore Genova, Nicola Ciocia, Oscar Fioriolli e Luciano Di Gregorio fa irruzione nella casa di Elisabetta Arcangeli, il cui nome era stato fatto da Paolo Galati, fratello del brigatista Michele in carcere, oppure non ricordo se a sua volta passando prima per altro militante, Nazareno Mantovani.
Sta di fatto che i militari trovano casualmente in quella casa anche il suo compagno, tale Ruggero Volinia, il quale viene torturato insieme alla donna di modo che ne senta gli urli, finché, la notte del 27, Volinia ammette di fare parte delle BR con il nome di Federico e di avere guidato il furgone che il 17 dicembre 1981 aveva trasportato il sequestrato Dozier a Padova, in Via Pindemonte.
Ecco come mai “miracolosamente” il giorno dopo, giovedì 28 gennaio, una squadra speciale dei NOCS fa irruzione nell’appartamento indicato dal Volinia e il generale viene liberato con la cattura di Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella, Cesare Di Lenardo e Giovanni Ciucci.
Tutti e cinque a quel punto verranno successivamente a loro volta torturati di brutto, e il capo colonna Antonio Savasta a seguito delle torture inflitte anche alla sua compagna Emilia Libera sarà il secondo, ed esiziale, grande pentito delle BR, dopo Peci di due anni prima, facendo arrestare oltre un centinaio di militanti.
Cesare Di Lenardo denuncerà sin sa subito le pesanti torture subite per indurlo a fare i nomi dei compagni e a consentirne la cattura (evidenziate da alcune foto raccapriccianti) ed il fatto venne confermato dalle testimonianze del capitano Ambrosiani del SIULP e dell’agente Trifirò, che verrà ucciso 4 anni dopo in seguito a un misterioso conflitto a fuoco.
Il giornalista Buffa de l’Espresso, che aveva raccolto il dossier sulle torture inflitte ai brigatisti arrestati, verrà a sua volta arrestato, ma in breve nasce un tale clamore pubblico che verrà istruito un apposito processo a Verona per le torture inflitte a Di Lenardo e che si concluderà in Appello con la prescrizione dei reati contestati agli agenti, senza la presenza del loro comandante Salvatore Genova, che nel frattempo aveva usufruito della immunità parlamentare, in quanto prontamente candidato ed eletto dal PSDI.
Per la verità già in precedenza, oltre al citato caso di Enrico Triaca, c’era stata la denuncia del nappista Alberto Buonoconto al futuro PM del caso Tortora, Lucio Di Pietro (potete immaginarvi che fine fece la denuncia), era uscito il libro Processo all’istruttoria di Laura Grimaldi, dove si riferiva delle torture inflitte ai ragazzi della Barona in occasione dell’inchiesta milanese sull’omicidio Torregiani, quando Sisinio Bitti, Umberto Lucarelli, Roberto Villa, Gioacchino Vitrani, Annamaria e Michele Fatone presentarono un esposto all’Autorità Giudiziaria che non ebbe seguito alcuno.
E successivamente al fatto Dozier, il 21 febbraio 1982, Lotta Continua pubblicherà una lettera inviata al proprio legale dalla brigatista Paola Maturi, arrestata a Roma il 1° febbraio, che denunciava le torture subite in Questura dopo l’arresto.
In seguito, vi sarà la pubblica denuncia di Sandro Padula (Alex Paddy) in occasione del suo arresto alla fine del 1982 e, quindi, la cooperativa editrice Sensibili alle foglie fondata da Renato Curcio, raccoglierà, in un apposito volume del Progetto Memoria, Le torture affiorate, alcune testimonianze di ex lottarmatisti sottoposti a tortura dopo l’arresto.
Anche Mario Moretti, nel libro Una storia italiana, aveva raccontato che Maurizio Iannelli, arrestato a Roma alla fine del 1980 mentre stava rubando un’auto che sarebbe dovuta servire per il sequestro D’Urso, gli aveva detto in carcere di essersi dovuto buttare contro una finestra della Questura per rompere il vetro e far sanguinare entrambi i polsi per un ricovero di urgenza che lo sottraesse alle pesanti torture cui era sottoposto da ore, affinché rivelasse “il covo romano dove abitava Moretti”.
Si scoprirà così che, oltre a quelli citati, furono numerosi i militanti che hanno dichiarato di essere stati “torturati” (evidentemente c'è anche chi non lo ha detto...) e tra essi Luciano Farina, Nazareno Mantovani, Francesco Emilio Giordano, Fernando Cesaroni, Vittorio Bolognese, Gianfranco Fornoni, Armando Lanza, Ennio Di Rocco, Stefano Petrella, Anna Maria Sudati, Alberta Biliato, Roberto Vezzà, Giovanni Di Biase, Annarita Marino, Lino Vai, Giustino Cortiana, Daniele Pifano, Arrigo Cavallina, Luciano Nieri, Giorgio Benfenati, Aldo Giommi, Federico Ceccantini, Adriano Roccazzella più altri ancora.
Però è stato necessario attendere che l’ex commissario Salvatore Genova decidesse di “vuotare il sacco” in un’intervista rilasciata al Secolo XIX e quindi la successiva uscita del citato libro di Rao, perché anche la nostrana televisione pubblica si occupasse del caso con una puntata di Chi l’ha visto su Rai 3, dove già compariva una lunga intervista a Enrico Triaca che interviene più volte nella serie su SKY.
E così pure ci sono voluti anni per sapere che quel famigerato “prof De Tormentis” era l’alto funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, che dopo essersi occupato della colonna napoletana dei NAP compariva proprio vicino al ministro Cossiga nelle immagini scattate in via Caetani, il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, e appurare che lo stesso, dopo essersi dimesso dalla Polizia, si era iscritto all’albo degli avvocati di Napoli, dove ha esercitato la libera professione fino al 2011.
Per tutte quelle torture nessuno è stato dichiarato responsabile, mentre Cesare Di Lenardo si trova tuttora in carcere senza avere mai usufruito di neppure un giorno di permesso dal gennaio del 1982, e grazie anche al paziente lavoro dell’allora giornalista di Liberazione, Paolo Persichetti, che compare più volte nella serie SKY unitamente all’ex BR Francesco Piccioni, nel 2012 era stata presentata un’interpellanza parlamentare dall’Onorevole Rita Bernardini del Partito Radicale, ossia di quel partito che ai tempi si era sentito rispondere dall’allora sdegnato ministro Rognoni, Sciascia in primis, che mai nessuno in Italia tra le forze dell’ordine aveva usato metodi illegali.
Interpellanza che non portò a risultato alcuno, però in compenso in quello stesso anno, 2012, la Polizia di Stato scelse per dirigere la nuova “Scuola di formazione per la tutela dell’ordine pubblico” che avrebbe dovuto dare una risposta forte alla mattanza del G8 di Genova, il prefetto Oscar Fioriolli, proprio colui che sottopose a tortura Elisabetta Arcangeli («Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina» cfr. “Ex Commissario Digos Salvatore Genova” su l’Espresso del 6 aprile 2012), fino a quando, nel gennaio dell’anno dopo Oscar Fioriolli verrà arrestato per sospetta corruzione in appalti pubblici.
Perfetta ma non troppo, insomma quella liberazione del Generale NATO, ma chissà mai se le “anime belle” guarderanno la serie su SKY per poi magari definire, come ha fatto la giornalista di Repubblica, “una vicenda ancora controversa”, quanto invece non è controversa affatto perché si sa benissimo da tempo cosa successe 42 anni fa anche se lo si era sempre fino ad oggi tenuto rigorosamente nascosto, tanto che sono certo che in ben pochi lo sanno.
La quarta e ultima puntata è prevista per il 29 giugno, e le prime tre sono ancora visibili.
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La Scozia annuncia referendum per il 2023
Dopo aver superato per un soffio la richiesta di sfiducia per il caso dei party durante il lockdown, deve fare i conti con il più poderoso sciopero dei ferrovieri degli ultimi quaranta anni ed ora anche con la secessione della Scozia.
“Non saremo prigionieri di Boris Johnson”: con queste parole la premier scozzese Nicola Sturgeon ha annunciato che il governo intende tenere un secondo referendum sull’indipendenza del paese dal Regno Unito. La data indicata è quella del 19 ottobre 2023.
Il governo di Johnson, fino ad oggi si è rifiutato di riconoscere a Edimburgo il potere di indire un nuovo voto, ma la premier scozzese Sturgeon ha annunciato che solleverà dinanzi alla Corte Costituzionale britannica la questione se il suo esecutivo possa legiferare in tal senso.
Secondo The Guardian molti giuristi costituzionali ritengono che la Corte stabilirà che sarebbe illegale per il governo scozzese organizzare un referendum di questo tipo senza che Westminster gli dia i poteri per farlo, ai sensi della sezione 30 dello Scotland Act.
Insomma si verrebbe a creare una situazione simile a quella del referendum sull’indipendenza in Catalogna, “illegalizzato” dal governo di Madrid ma tenutosi lo stesso in mezzo a episodi di repressione poliziesca violentissimi.
La premier scozzese Sturgeon ha affermato di voler prevenire inevitabili battaglie legali con gli oppositori dell’indipendenza e il governo del Regno Unito su questa questione, da qui la richiesta alla Corte Suprema.
Nel Parlamento scozzese, attualmente è prevalente una maggioranza favorevole all’indipendenza. Il Partito Nazionale Scozzese (Snp) più i Verdi, sono convinti che la Scozia debba prendere in mano il proprio futuro e non essere più legata al Regno Unito e al suo attuale governo conservatore.
Nel referendum sulla Brexit, gli scozzesi votarono al 62% per il remain cioè rimanere nella UE. Già allora gli indipendentisti scozzesi avrebbero voluto tenere un nuovo referendum perché era cambiato il contesto. Ma il premier Johnson rispose in modo lapidario: un altro referendum non si dovrebbe fare per i prossimi 40 anni.
Nel referendum del 2014 (due anni prima di quello sulla Brexit) gli indipendentisti scozzesi arrivarono a un soffio dal traguardo: il 45% degli scozzesi si espresse per la secessione dal Regno Unito. Nove anni dopo la domanda nel referendum sarà la medesima: “La Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?”.
I sondaggi più recenti hanno rivelato che l’opzione dell’indipendenza al momento gode in media del sostegno del 48% degli scozzesi, mentre il 52% è contrario.
Il referendum però sarà consultivo. L’eventuale vittoria dei SI non attiverebbe automaticamente una secessione dal resto della Gran Bretagna, e una decisione simile dovrebbe comunque essere approvata dai Parlamenti di Regno Unito e Scozia.
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29/06/2022
L’italiana Leonardo si fonde con l’israeliana RADA
di Antonio Mazzeo
Leonardo SpA è sempre più made in Israel. Il 21 giugno la società a capo del complesso miltare-industriale nazionale ha comunicato che la controllata statunitense Leonardo DRS e l’azienda israeliana RADA Electronic Industries Ltd. (leader nella fornitura di radar tattici militari e software avanzati) hanno firmato un accordo vincolante di fusione. Nello specifico Leonardo DRS acquisirà il 100% del capitale sociale di RADA in cambio dell’assegnazione del 19,5% delle proprie azioni agli attuali azionisti della società israeliana. Il gruppo italiano a capitale pubblico, tramite la propria controllata statunitense Leonardo Holding, continuerà a possedere l’80,5% della società combinata. Al perfezionamento dell’operazione, previsto entro la fine del 2022, Leonardo DRS sarà quotata sia al NASDAQ che alla borsa di Tel Aviv con il simbolo DRS.
L’operazione finanziaria che darà vita ad una società dal fatturato annuo superiore ai 2,7 miliardi di dollari è stata commentata favorevolmente dal Ministero della difesa italiano. “L’accordo per la fusione di Rada in Leonardo DRS è molto positivo e rappresenta un’importante opportunità per l’industria militare italiana della Difesa”, ha dichiarato il ministro Lorenzo Guerini (Pd). “Questa notizia conferma l’eccellenza internazionale del nostro settore industriale della Difesa e sicurezza”. (1) Ancora più enfatiche le parole del management del gruppo Leonardo (ex Finmeccanica). “Siamo orgogliosi di questa nostra importante mossa strategica in un segmento importante e in rapida crescita del mercato della difesa di oggi e di domani”, ha commentato l’amministratore delegato Alessandro Profumo. “Negli ultimi anni, Leonardo ha rafforzato il posizionamento competitivo Leonardo DRS, e attraverso la combinazione con RADA fa ora un significativo passo avanti strategico, aggiungendo un solido business nelle soluzioni di difesa attive”.
Secondo il piano degli investitori la neonata società si concentrerà in quattro settori strategici: il rilevamento avanzato, le reti informatiche, la force protection, l’energia elettrica e i sistemi di propulsione, puntando in particolare allo sviluppo e produzione di sistemi di “difesa aerea” a corto raggio per contrastare gli attacchi con droni, missili, artiglierie e mortai, nonché di apparecchiature per la protezione di veicoli da combattimento. “Si prevede che la combinazione dei radar tattici di RADA e dei punti di forza di Leonardo DRS come principale fornitore di difesa mid-tier renderà la società combinata un leader nel mercato in rapida crescita della force protection”, ha spiegato l’amministratore di Leonardo DRS, William J. Lynn III, già sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti d’America con l’amministrazione Clinton e vicesegretario con Barack Obama. “RADA ha anche una forte complementarità con il resto del Gruppo Leonardo”, ha aggiunto William J. Lynn. “I suoi radar tattici avanzati integrano il portafoglio di sensori di Leonardo. L’operazione aggiunge inoltre una presenza domestica in Israele e supporta lo sviluppo del mercato internazionale per Leonardo, consentendo allo stesso tempo a RADA di accedere a opportunità nei mercati e programmi europei”. (2)
Intervistato dalla testata specializzata Breaking Defense, l’ex vicesegretario Usa ha pure rilevato che la fusione DRS-RADA giunge in un momento storico cruciale che non potrà non avere effetti sulla domanda mondiale di sistemi anti-drone e anti-missile. “Il conflitto in Ucraina ha mostrato la vulnerabilità delle forze armate agli attacchi dei velivoli senza pilota e ha evidenziato la necessità di sistemi di protezione moderni ed efficienti”, ha dichiarato William J. Lynn III. “Ciò non sta solo accelerando le richieste degli Stati Uniti di questi sistemi, ma sta anche spingendo i paesi europei, che sono vicini a quest’area di guerra, ad acquistare sempre più numerosi assetti per la difesa delle proprie forze. Oltre all’odierno conflitto in Europa, la lotta al terrorismo e contro le minacce di Cina, Russia ed altri paesi, faranno accrescere la domanda di tecnologie avanzate prodotte dalla Compagnia Combinata”. (3)
Fondata nel 1970, RADA Electronic Industries Ltd. ha il quartier generale nella città di Netanya, nel Distretto Centrale, a una trentina di km a nord di Tel Aviv. In Israele occupa più di 250 dipendenti e possiede anche un centro di ricerca nell’High-Tech Park di Beer’Sheva (Negev) e uno stabilimento nella città settentrionale di Beit She’an. Il gruppo vanta consiglieri d’amministrazione e manager con lunga esperienza nelle forze armate israeliane e nelle maggiori aziende del comparto bellico internazionale.
Presidente del Cda è Yossi Ben Shalom, fondatore della finanziaria DBSI investments ed ex responsabile di Europcar Israel, American Express Israel e Scopus Technologies. Nel board dei direttori di RADA compaiono poi il generale (in pensione) Guy Tzur, già comandante delle forze terrestri israeliane dal 2013 al 2016 e prima ancora comandante del Centro nazionale di addestramento dell’Esercito; l’ex generale Alon Dumanis (già a capo del Comando Materiali delle forze armate); Joseph Weiss (ex comandante della Marina, già presidente del consiglio di amministrazione di IAI – Israel Aerospace Industries Ltd., la più grande società del settore aerospaziale del paese e attualmente anche nel Cda dell’Istituto di Tecnologia “Technion” di Haifa e direttore di UVision Air Ltd., nota azienda produttrice di droni da guerra e munizioni auto esplodenti); l’ex generale Alon Dumanis (ingegnere aerospaziale già a capo del Comando Materiali dell’Aeronautica); gli ex piloti di caccia Elan Sigal e Dov Dubi Sella; Oleg Kiperman (già ingegnere dell’Israeli Air Force Weapons Control Branch); Alon Amitay (dal 1991 al 1998 project manager presso il quartier generale dell’Aeronautica israeliana e successivamente dirigente di Rafael Advanced Defense Systems Ltd.); Ilan Wittenberg (ex ufficiale del settore di intelligence, poi manager di Elbit Systems – Elisra Ltd.); Gil Schwartz (già pilota di elicotteri d’attacco anch’egli poi a servizio di Elbit Systems); Rann Marom (ex ufficiale dell’Israeli Intelligence Corps e ideatore di innovativi sistemi a pilotaggio remoto per conto di Silver Arrow, società acquistata da Elbit); Scott R. Wood (responsabile esecutivo delle controllate statunitensi di RADA, ex ufficiale della componente subacquea di US Navy ed ex manager dei colossi Lockheed Martin e Raytheon e pure di DRS Leonardo).
I sistemi e le tecnologie d’intelligence prodotti da RADA Electronic Industries vengono impiegati per la “protezione militare attiva” e delle infrastrutture critiche e per la sorveglianza delle frontiere. I radar sono montati a bordo di carri armati e veicoli tattici, aerei e unità navali “per identificare minacce, localizzare i punti di lancio e consentire il massimo tempo di risposta”, come spiega il management di RADA. L’azienda realizza anche sistemi avionici e di navigazione per i droni da guerra, mentre i software possono essere integrati con le apparecchiature di comando, controllo, comunicazioni e intelligence (C4I), o con altri radar e sensori militari. RADA Electronic Industries Ltd. ha venduto i propri sistemi di guerra alle forze armate di una trentina di paesi (in particolare all’esercito e all’aeronautica israeliana, a US Army e US Air Force, al Corpo dei Marines e alle Forze speciali Usa). “Noi operiamo a stretto contatto con le principali aziende militari mondiali come Rafael Advanced Defense Systems, Elbit Systems, Israel Aerospace Industries (IAI), Lockheed Martin, Boeing, Leonardo DRS, Rheinmetall Air Defense, ELT, Hindustan Aeronautics Ltd, Embraer, ecc.”, affermano i manager di RADA. “In campo aerospaziale stiamo fornendo i digital video recorder per i cacciabombardieri F16 e per altri velivoli dell’Israel Air Force”. (4) Nel 2021 il 72% del fatturato è stato conseguito negli USA, il 15% in Israele, l’8% in Asia e il 4% in Europa.
Molti degli affari dell’azienda israeliana sono legati ai “successi” di alcuni dei sistemi impiegati dalle forze armate di Tel Aviv nelle ultime operazioni d’attacco contro la Striscia di Gaza. RADA ha contribuito a realizzare alcune componenti chiave del sistema d’arma mobile per la “difesa antimissile” Iron Dome, sviluppato dall’holding Rafael e utilizzato per la prima volta nel marzo 2011 contro le postazioni di Hamas a Gaza. Anche il più moderno sistema anti-aereo Drone Dome di Rafael, operativo dal 2016, ospita apparecchiature e sensori RADA: il radar RPS-42, il sistema d’immagini CONTROP Precision Technologies e i sistemi rilevatori di segnali radio. (5)
Nel maggio 2021 l’azienda fusasi oggi in Leonardo DRS ha ricevuto un riconoscimento ufficiale da parte delle forze armate di Israele per i radar anti-mortaio, anti-artiglieria e anti-missile forniti nel corso di “Protective Edge” (Margine di Protezione), l’operazione militare dell’estate 2014 che costò la morte ad oltre 2.300 cittadini palestinesi, tra cui 570 bambini. “Oggi la nostra rete radar copre l’intera Striscia di Gaza, ed è pienamente operativa in tempo di pace e dimostra tutto il suo valore nel corso delle ostilità”, spiegano i manager di RADA. “I radar sono gli unici che individuano i colpi di mortaio e i missili a corto raggio lanciati contro i villaggi, le città e le basi militari israeliani, fornendo adeguati tempi di allerta e intercettazione”. (6) Recentemente i radar di RADA Electronic Industries Ltd. sono stati integrati nel sistema di “protezione attiva hard-kill” Iron Fist APS realizzati dal consorzio IMI/Elbit Systems per i nuovi veicoli corazzati da combattimento “Eitan AFV” dell’esercito israeliano.
Lo scorso anno il gruppo RADA ha firmato un accordo con l’industria militare indiana Alpha Design Technologies Pvt. Ltd. per costituire una joint venture a cui affidare la produzione e la vendita di sistemi radar nel grande paese asiatico. (7) Sono stati ampliati inoltre gli stabilimenti delle società controllate negli Stati Uniti d’America (RADA Technologies LLC, RADA Innovations LLC e RADA Sensors Inc.), tutte con sede a Germantown, Maryland. Rilevanti in termini di fatturato e portata strategica le più recenti commesse ottenute negli Usa. RADA è subcontractor del gruppo Rafael per la fornitura dei sistemi Trophy APS di “protezione attiva” da eventuali attacchi simultanei di razzi e missili, destinati ai carri armati “Abrams M1A2 ed M1A1” di US Army e del Corpo dei Marines; inoltre ha fornito i radar RPS-10 per i sistemi di “protezione” anti-missile Artis Iron Curtain e Iron Fist APS, destinati rispettivamente ai veicoli da combattimento “Stryker” e “Bradley” dell’Esercito Usa. (8) Nell’ottobre 2020 la società israeliana ha ottenuto da General Dynamics Land Systems una commessa per un radar tattico da impiegare nel sistema contraereo e anti-drone IM-SHORAD, anch’esso destinato al veicolo d’attacco “Stryker” che sarà consegnato al Pentagono entro il settembre 2025. (9)
Alla realizzazione dei sistemi di “protezione” Trophy APS e IM-SHORAD partecipa direttamente anche Leonardo DRS. Nel gennaio 2021 la controllata di Leonardo SpA ha sottoscritto con Rafael un accordo per la fornitura dei caricatori automatici modificati per il Trophy APS da installare nei carri armati “Abrams”. Contemporaneamente Leonardo DRS ha ricevuto da General Dynamics un ordine di 600 milioni di dollari per 28 pacchetti di equipaggiamenti operativi per l’IM-SHORAD. (10) Nel settembre 2021 General Dynamics ha ordinato a Leonardo DRS un pacchetto aggiuntivo anti-aereo e anti-drone per 204 milioni di dollari. (11)
Specializzata nella realizzazione di sistemi di combattimento terrestre, centri di comando, controllo e comunicazione, sistemi navali e aerei, infrastrutture di telecomunicazione satellitare globale e soluzioni d’intelligence e security, Leonardo DRS impiega più di 47.000 dipendenti e ha il suo quartier generale ad Arlington, Virginia. La società con amministratore delegato William J. Lynn III ha ottenuto altre importanti commesse direttamente dal Pentagono. Nella primavera 2019 Leonardo DRS ha firmato due contratti per il valore complessivo di 200 milioni di dollari, il primo per produrre i sistemi informatici MFoCS II per i comandi dei veicoli da combattimento e delle postazioni dell’Esercito e il secondo per la fornitura dei sensori a infrarossi in grado di supportare il controllo e la sorveglianza del fuoco, ancora una volta dei carri armati “Abrams” e dei veicoli da combattimento “Bradley”. Nel luglio 2020 la società ha invece sottoscritto un contratto del valore di 255 milioni di dollari per fornire un satellite di telecomunicazioni all’U.S. Indo-Pacific Command (USINDOPACOM), il Comando delle forze armate statunitensi responsabile per le operazioni nell’Oceano Pacifico e in parte dell’Oceano Indiano. (12)
Dopo il matrimonio benedetto da Draghi, Guerini & C. con l’israeliana RADA, gli azionisti e i manager di Leonardo sono certi che il portafoglio affari bellici negli States si irrobustirà sensibilmente. Pagine Esteri
Note
(1) https://www.startmag.it/innovazione/che-cosa-fara-leonardo-drs-con-lisraeliana-rada/
(2) https://www.leonardo.com/it/press-release-detail/-/detail/21-06-2022-important-strategic-move-by-leonardo-in-the-rapidly-growing-force-protection-market-leonardo-drs-and-rada-agree-to-an-all-stock-merger
(3) https://breakingdefense.com/2022/06/leonardo-drs-to-acquire-israeli-firm-rada-eyeing-counter-drone-market/
(4) https://www.calcalistech.com/ctechnews/article/bjaful3xc
(5) https://seekingalpha.com/article/4429147-rada-electronic-ind-sells-at-a-bargain-price
(6) https://www.bloomberg.com/press-releases/2021-05-16/rada-s-network-of-c-ram-radars-around-the-gaza-strip-is-saving-civilian-and-military-lives
(7) https://www.israeldefense.co.il/en/node/51481
(8) https://www.edisongroup.com/publication/locked-on-to-a-growth-market-2/27570/
(9) https://www.israeldefense.co.il/en/node/45632
(10) https://www.rada.com/blog/leonardo-drs-awarded-more-than-600-million-to-provide-mission-equipment-packages-for-the-u-s-army-im-shorad
(11) https://www.israeldefense.co.il/en/node/51863
(12) http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2021/01/leonardo-finmeccanica-con-israele-per.html
Francia - No all’estradizione degli esuli politici, fallita l’operazione “Ombre Rosse”
La Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi ha pronunciato ieri un “avis défavorable” in merito alla domanda di estradizione richiesta dall’Italia nei loro confronti.
Quella che era stata battezzata come l’operazione “Ombre Rosse” si chiude quindi con un fallimento totale per lo Stato italiano, nonostante il clamore mediatico e gli ignobili articoli della stampa mainstream assetata di vendetta, a seguito dell’arresto un anno fa di alcuni di questi esuli condotto dalla Direzione anti-terrorismo francese (SDAT) in collaborazione con l’Antiterrorismo della Polizia italiana e Servizio di cooperazione internazionale della Criminalpol.
All’udienza di ieri erano presenti Enzo Calvitti, Narciso Manenti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio di Marzio, Raffaele Ventura e Luigi Bergamin. L’unico assente era Giorgio Pietrostefani, le cui gravi condizioni di salute non gli avevano già consentito di essere presente alle precedenti udienze che lo riguardavano.
Al Tribunale erano anche presenti alcuni provocatori che, guidati dal deputato della Lega Daniele Belotti, hanno gridato “assassini” durante la lettura della decisione. Speravano in un esito diverso, ovvero di veder condannati questi esuli (in gran parte settantenni) a pene detentive dalle condizioni psico-fisiche disumane.
Dal PD si esprime “delusione” per questa sentenza, giudicandola una “decisione grave” invocando “la sofferenza dei familiari e la memoria delle vittime”, dimenticandosi delle migliaia di giovani, militanti e non, uccisi dalla violenza dello stragismo fascista e di Stato o torturati nei commissariati e nelle carceri speciali.
Considerazioni squallide da parte di due partiti che si trovano uniti sotto il governo Draghi, battezzato proprio dall’arresto degli esuli in Francia che aveva accresciuto l’aura di legittimazione costruita dai media mainstream asserviti intorno a “Super Mario” come salvatore della patria.
Dall’altro lato, invece, quest’anno è stato affrontato con uno stato d’animo ed emotivo sofferto, con la paura di vedere distrutta un’intera vita ricostruita con sacrifici e difficoltà nel corso di questi 40 anni in Francia: relazioni familiari, amicizie, impegni in ambito sociale, accanto ad un comportamento irreprensibile sempre sotto occhiuta sorveglianza.
Una paura che aveva cominciato a farsi sentire quando, dopo l’arresto di Cesare Battisti in Bolivia e la sua estradizione in Italia accolta in gran pompa mediatica da Salvini e Di Maio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si augurava che “tutti i latitanti fuggiti all’estero” fossero “consegnati alla giustizia italiana per scontare la pena per i gravi crimini di cui si sono macchiati”.
Se qualcuno sperava in una “estradizione rapida”, in realtà l’operazione aveva cominciato a sgonfiarsi già nelle sue prime settimane. Nel corso di quest’anno ha avuto luogo una lunga serie di udienze, spesso rinviate per consentire l’invio dall’Italia del “complemento di informazioni” relativo alle condanne pronunciate in molti casi oltre 30 anni fa, oltre agli elementi riguardanti la prescrizione dei reati e la condanna in contumacia.
La giustizia francese ha respinto la domanda di estradizione, nonostante i tentativi politici di influenzarne la decisione: dalla presenza dell’avvocato William Julié in qualità di rappresentante dello Stato italiano alle dichiarazioni dell’ex ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti, il quale aveva paragonato gli “ex terroristi italiani” arrestati in Francia ai jihadisti del massacro del Bataclan: “Avremmo mai accettato che uno dei terroristi del Bataclan, ad esempio, se ne fosse andato a vivere 40 anni, tranquillamente, in Italia?”.
Si è scongiurato il rischio che i corpi e la memoria di questi esuli, che in Francia hanno trovato una forma de facto di “asilo” grazie ai principi della comunemente nota “dottrina Mitterand”, diventassero merce di scambio tra il governo francese e quello italiano per rafforzare la loro intesa reciproca.
Tuttavia, la loro cooperazione nefasta continuerà sul piano securitario, nell’escalation militare della guerra in Ucraina e su altri aspetti strategici internazionali dall’Africa al Medioriente.
In questi mesi di “battaglia processuale”, non è mai venuta meno la solidarietà nei confronti degli esuli a rischio estradizione. Oltre all’appello pubblicato a maggio scorso sul quotidiano francese Le Monde, firmato da oltre 300 persone appartenenti al mondo accademico, culturale e associativo, è stato diffuso recentemente un testo di professionisti della salute mentale in cui un’eventuale estradizione viene qualificata come una “catastrofe esistenziale”.
Senza dimenticare la lettera consegnata dal professor Luciano Vasapollo, dirigente della Rete dei Comunisti e rappresentante della “Rete di intellettuali e artisti in difesa dell’umanità”, a Papa Francesco lo scorso dicembre.
La risposta ufficiale, arrivata da uno dei più alti responsabili della Segreteria dello Stato Vaticano, aveva evocato come la “vicenda giudiziaria causa di preoccupazione per diverse persone e per le loro famiglie” per auspicare che si possano realizzare “le legittime aspirazioni di ciascuno, ispirando nel rispetto della giustizia gesti concreti di reciproca comprensione e riconciliazione”.
Nel corso di quest’anno, la Rete dei Comunisti ha organizzato numerose proiezioni-dibattiti, in Italia e in Francia, del mini-documentario “Le radici per aria. Appunti per una Storia di classe” con l’obiettivo di ricostruire il filo rosso che collega l’esperienza di quegli anni alla situazione attuale e alla prospettiva di trasformazione sociale futura, per aiutare a comprendere le lotte politiche e sociali degli anni ‘60 e ‘70 in Italia, le ragioni di quello scontro politico e perché lo Stato non vuole chiudere quella stagione e di cosa ha ancora paura.
Oggi la vendetta dello Stato italiano ha subito una sconfitta importante; a noi il compito di continuare a salvaguardare la memoria storico-politica di quelle lotte e portare avanti la rivendicazione di un’amnistia sociale per i “reati politici” di ieri e di oggi come viatico per rompere la gabbia del “diritto del nemico” in cui si sono imprigionati gli anni ‘70 e si vuole tutt’ora detenere la lotta di classe nel nostro Paese.
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Vertice della Nato a Madrid. Velleità strategiche e “sacrificio” dei kurdi in nome dell’allargamento
Secondo l’Ispi, il vertice dell’organizzazione che si tiene a Madrid va considerato un punto di svolta: i paesi membri tracceranno gli orientamenti del prossimo decennio e, con essi, le nuove dinamiche di sicurezza del continente europeo.
Per conoscerne le coordinate principali occorrerà attenderne le conclusioni, ma qualcosa viene già delineato. In primis la Nato punta “al più importante rafforzamento delle proprie capacità dalla fine della Guerra Fredda” e porterà le forze di intervento immediato “oltre la soglia delle 300 mila unità” ha già fatto sapere il segretario Stoltemberg molto preso nel suo ruolo di “falco” nell’escalation della guerra contro la Russia in Ucraina.
L’Alleanza sarà “rafforzata in tutte le direzioni in ogni ambito: terra, aria e mare”, ha affermato Biden al vertice di Madrid. “Dispiegheremo capacità aeree aggiuntive e altre capacità in Germania e Italia”, ha già fatto sapere il presidente Usa. Forse non gli bastano le 113 basi militari già presenti in Italia.
Inoltre il nuovo Strategic Concept – il documento di indirizzo strategico verso il 2030 – citerà la Cina come una delle sfide future da affrontare. In realtà lo Strategic Concept della Nato è già in elaborazione dal 2021 ma è inevitabile che dovrà fare i conti con il brusco mutamento delle relazioni internazionali, sia in Europa che nel mondo, a seguito dell’intervento militare russo in Ucraina e della guerra che si trascina da più di quattro mesi.
Secondo Affari Internazionali, tra gli obiettivi della Nato c’è indubbiamente un aumento delle ambizioni di intervento, ben oltre quelle dell’area europea o propriamente atlantiche. L’Alleanza potrebbe e dovrebbe sostenere gli sforzi militari per stabilizzare Nord Africa e Medio Oriente, fornendo supporto in termini politico-militare, di intelligence, e di capacità specifiche che solo la Nato possiede.
L’ipotesi di nuove operazioni militari paragonabili a quelle in Afghanistan o in Libia, però, non sembra incontrare entusiasmi (visti anche i clamorosi fallimenti di entrambe, ndr), nel merito pesano come macigni la tragica ritirata da Kabul il 31 agosto 2021 e le prime bombe russe su Kiev il 24 febbraio 2022.
Resta, tuttavia, evidente, sia come causa sia come conseguenza della guerra in Ucraina, che il focus principale della Nato sarà il fronte Est. Nel 2022 si è già passati al rafforzamento dei contingenti militari Nato in Bulgaria, Romania, Ungheria e Slovacchia (con responsabilità ben precise della Francia in Romania e dell’Italia in Bulgaria).
Ma se l’attenzione e il rafforzamento militare della Nato è prevalente sulla frontiera Est, qualcuno sottolinea però che questo potrebbe provocare una minore attenzione al fianco sud: quello Mediterraneo.
È evidente che in questo quadrante sia cresciuto in modo pesante il ruolo di una potenza Nato come la Turchia.
E questo peso è leggibile anche nel ricatto che Ankara ha posto sul via libera all’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia: l’espulsione e la consegna alla Turchia dei dirigenti e dei militanti del PKK curdo rifugiatisi in quei paesi e la cessazione di ogni azione diplomatica a supporto della causa kurda. “Non usateci per negoziare con la Turchia” ha affermato Zubeyr Aidar, dirigente kurdo rifugiato in Svezia. Ma martedì è venuto meno il veto di Ankara al via libera della Turchia a Svezia e Finlandia nell’alleanza. È stato sottoscritto un memorandum che accoglie le richieste turche sulla lotta contro il PKK e la fine dell’embargo alle forniture militari svedesi e finlandesi ad Ankara. I kurdi usati dalle potenze occidentali come carne da cannone contro l’Isis adesso vengono di nuovo sacrificati, ma questa volta in nome dell’allargamento della Nato.
Tra i punti da dirimere nel vertice Nato di Madrid c’è anche quello dei partenariati con i paesi che chiedono di aderirvi. L’azione militare della Russia ha rimosso l’ambizione dell’Ucraina ad entrare nella Nato, restano le domande di Georgia e Moldavia. La prima già nel 2008 rischiò di scatenare un conflitto tra Russia e Nato simile a quello in corso in Ucraina, la seconda sta subendo pesantemente le onde lunghe della guerra in corso.
Infine, ma non certo per importanza, nel nuovo Strategic Concept della Nato ci sarà un capitolo anche sulla competizione frontale con la Cina. Non si tratterebbe di impegnare apertamente la Nato in operazioni militari nel Indo-Pacifico, ma di rafforzare il vantaggio militare sulla Cina da parte dell’Anzus, in pratica la gemella della Nato nel Pacifico. Non a caso è prevista la presenza al vertice di Madrid dei Primi ministri di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
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Il G7 scopre che sta arrivando il boomerang
Lasciamo perdere la stucchevole querelle aperta da Mario Draghi sulla “certa” esclusione di Putin dal prossimo vertice del G20 – è qualche mese che il “caro premier” inanella strafalcioni istituzionali – e occupiamoci dei principali risultati dichiarati: nuove sanzioni contro la Russia (“perché non deve vincere la guerra in Ucraina”) e un piano straordinario di investimenti infrastrutturali nei paesi in via di sviluppo.
Il settimo round di sanzioni, che ancora una volta aggirano l’ostacolo insormontabile del gas e del petrolio russi, di cui l’Europa – al contrario degli Stati Uniti, “autonomi” nel settore – non può proprio fare a meno, scorre via come i precedenti e avrà probabilmente gli stessi effetti minimi sull’economia di Mosca e molto seri per quella europea.
Le nuove sanzioni evidenziano comunque l’intenzione di approfondire il fossato a ridosso delle frontiere dell’Est (compito riservato, sul piano militare, al vertice della Nato) e cercare un impossibile isolamento di Mosca sul piano mondiale. Il vertice dei Brics, pochi giorni fa, ha mostrato al mondo come questo obiettivo sia fattualmente irraggiungibile, ma produca stravolgimenti sui mercati internazionali, disegnando nuovi e diversi campi di interesse e relazione tra i principali paesi del mondo “non occidentale”.
I quali costituiscono anche la metà dell’umanità, una quota rilevante del Pil mondiale (in costante e rapida crescita), ma soprattutto hanno il loro punto di forza nell’economia reale (produzione manifatturiera e materia prime), non in quella “di carta”, finanziaria.
Il “Build Back Better World” – il piano infrastrutturale – segnala invece la preoccupazione occidentale di restare isolato nel rapporto con i paesi in via di sviluppo.
Promessi per decenni, questi investimenti non sono mai arrivati. Al loro posto, com’è noto, ci sono state invece guerre, invasioni, golpe militari e/o “rivoluzioni arancioni” per realizzare praticamente un neocolonialismo aggressivo e di rapina.
La proposta cinese di una “Nuova via della seta”, accompagnata appunto da investimenti infrastrutturali e una banca asiatica a questi dedicata, oltre che da un approccio “win win” – orientato dal vantaggio reciproco – e senza strumenti militari, ha raccolto nel mondo soltanto successi e adesioni. Persino l’Italietta del Conte I – quello del governo “giallo-verde” – aveva sottoscritto un memorandum di intesa preliminare, poi stracciato con il Conte II a trazione Pd (più “euro-atlantico”, insomma).
Il piano Usa approvato dal G7 prova insomma a fare concorrenza, in modo da sottrarre consensi e alleanze.
Non sarà facile. In parte per l’antica consuetudine imperialista ormai inseparabile dal mondo “euro-atlantico”, in parte anche maggiore, però, per la scarsità delle risorse promesse: appena 600 miliardi. Che rappresentano comunque un raddoppio rispetto alle risorse ipotizzate soltanto un anno fa...
Le cifre impegnate dalla Cina erano già due anni fa quasi il doppio (1.000 miliardi), e si sa che in economia la quantità è anche qualità... Soprattutto perché molti progetti sono già operativi e dunque non soggetti ad incertezze sui tempi o i modi di realizzazione.
Un editoriale del China Daily – testata, diciamo, molto vicina al governo di Pechino – sottolinea con raffinata ironia i problemi che questo G7 crea, invece di risolvere quelli esistenti. Intanto alla stessa “globalizzazione”, che viene di fatto sostituita dal tentativo di creare “aree in competizione con altre”, e i cui confini sono ora disegnati dal sistema di pagamenti Swift (quello che rende possibili le sanzioni finanziarie, ma soltanto tra i paesi che lo utilizzano), oltre che da accordi e alleanze sempre reversibili. Persino gli insospettabili euro-atlantici dell’Istituto Affari Iternazionali sono insomma costretti a registrare l'“isolamento del G7”, e dunque dell’imperialismo occidentale:
“a Elmau è poi soprattutto emersa in tutta la sua evidenza la solitudine del G7 e dell’Occidente. Sicuramente compatto al suo interno e solidale con l’Ucraina aggredita. Ma di fatto sostanzialmente isolato dal resto del mondo. E non è stata sufficiente la presenza al Vertice dei leader di Argentina, India, Indonesia, Sud Africa e Senegal a contrastare la sensazione che il G7 sia ormai diventato un club troppo esclusivo per potere ambire a svolgere un ruolo determinante nel rilancio di una governance globale.Chi isola chi? L’antica arroganza colonialista, rafforzata in 30 anni senza un “competitore simmetrico” sul piano mondiale, è emersa fin troppo nuda davanti al resto del mondo. E non si è resa neanche conto della crescita di interessi e forze tali da poter fare a meno della “protezione” occidentale. La “competitività”, insomma, ha prodotto condizioni che possono rovesciare gli antichi rapporti di forza.
A Elmau quindi è apparso ulteriormente evidente che l’Occidente (plasticamente rappresentato dal G7) è riuscito a reagire in maniera compatta e unitaria alla guerra in Ucraina. Ma anche che questo stesso Occidente ha invece fallito clamorosamente nel tentativo di coinvolgere sulla sua linea (di condanna della Russia, di assistenza all’Ucraina e delle sanzioni) una platea più ampia di protagonisti sulla scena internazionale.”
E dire che proprio crisi ambientale e pandemia avrebbero dovuto “convincere” chiunque che il mondo può sopravvivere solo se si ci si avvia sulla strada della cooperazione, abbandonando quella della competizione...
Buona lettura.
L’iniziativa del G7 per l’assistenza allo sviluppo vuole essere uno strumento di separazione
Decenni di globalizzazione economica hanno intrecciato i Paesi in modo così stretto che molte questioni che prima potevano essere affrontate dai singoli Paesi o da piccoli gruppi ora richiedono un impegno maggiore e più ampio da parte di molti più Paesi.
Nel panorama internazionale altamente globalizzato, profondamente trasformato dall’industria transnazionale, dalle catene di approvvigionamento e del valore, qualsiasi tentativo di invertire la tendenza si rivelerebbe costoso e poco realistico.
Molte sfide comuni e globali, come la ripresa economica, il cambiamento climatico e i rischi di sicurezza tradizionali e non tradizionali, aumentano l’urgenza di una maggiore sinergia internazionale in un mondo post COVID-19.
Il mondo, tuttavia, sembra essere sull’orlo di un’altra fase di divisione geopolitica.
Come hanno dimostrato il vertice dei BRICS appena concluso e il vertice del G7 in corso, i Paesi stanno pensando in modo molto diverso a come interagire in un mondo post-pandemia.
Come al 25° Forum economico internazionale di San Pietroburgo, dove il Presidente Xi Jinping e il Presidente russo Vladimir Putin hanno ribadito l’importanza di costruire un mondo democratico e multipolare, dove non ci siano egemonie e prepotenze. Nella loro dichiarazione congiunta, i leader dei BRICS si sono impegnati a lavorare per sviluppare partnership inclusive per una prosperità comune e globale.
Il modo corretto di procedere, hanno detto i leader dei BRICS, è che i Paesi lavorino insieme, piuttosto che l’uno contro l’altro.
È questa visione globale inclusiva che ha spinto la Cina a proporre di recente un’Iniziativa per lo sviluppo globale e un’Iniziativa per la sicurezza globale.
Purtroppo, i Paesi sviluppati la pensano diversamente. Al vertice in corso nel sud della Germania, i leader del G7 hanno presentato un’iniziativa di assistenza allo sviluppo, che avrebbe dovuto essere una buona notizia per i Paesi in via di sviluppo.
Nell’ambito del “Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali”, e con un nuovo pacchetto di proposte – “Build Back Better World” – avanzate per la campagna elettorale del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, domenica i sette Paesi si sono impegnati a raccogliere 600 miliardi di dollari di fondi privati e pubblici in cinque anni per finanziare le infrastrutture necessarie nei Paesi in via di sviluppo.
Il fatto che ora stiano facendo sul serio, dopo che per tanto tempo non hanno mantenuto le loro promesse di finanziamento delle infrastrutture, dovrebbe essere una mossa gradita. Se non fosse che gli aiuti internazionali allo sviluppo vengono utilizzati per scopi geopolitici, per rivaleggiare con la Belt and Road Initiative proposta dalla Cina e compensare la presunta influenza cinese nel mondo in via di sviluppo.
Il leader cinese ha più volte invitato i Paesi occidentali ad aderire alla Belt and Road Initiative per migliorare il progresso umano nel mondo.
L’iniziativa del G7, tuttavia, andrà inevitabilmente contro l’ideale di sinergia globale e peggiorerà le divisioni geopolitiche, oltre ad ampliare i divari di sviluppo.
A lungo termine, quindi, renderà un cattivo servizio alla pace e alla prosperità mondiale.
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