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04/06/2025

Yellow Submarine (1968) di George Dunning - Minirece

Bilaterale di riappacificazione tra Meloni e Macron?

Si è svolto martedì l’incontro tanto atteso tra il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, e la presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni. È durato più del previsto – oltre tre ore – il faccia a faccia tra i due politici, che aveva l’obiettivo di distendere i rapporti tra Parigi e Roma.

Nelle ultime settimane, infatti, si erano susseguiti momenti di tensione tra Macron e Meloni, in particolare in riferimento al ruolo dei ‘volenterosi’ nella continuazione della guerra in Ucraina. Anche se la presidente di Fratelli d’Italia ha fatto poi da mediatrice nel dialogo tra Bruxelles e Washington, è stata considerata troppo vicina a Trump e troppo accondiscendente con le sue trattative con Mosca.

L’incontro di Roma doveva quindi servire a ribadire l’unità europea nello scenario determinato dalla rottura dell’euroatlantismo, e in parte lo ha fatto. Sul terreno degli interessi economici, della cooperazione, della difesa comune europea, e non senza un po’ di retorica anche sul dossier ucraino, la faglia tra Italia e Francia sembra ricucirsi.

Nel comunicato finale del bilaterale si legge: “l’Italia e la Francia, fedeli al loro ruolo di Nazioni fondatrici della costruzione europea, intendono rafforzare il loro impegno comune per un’Europa più sovrana, più forte e più prospera, soprattutto orientata alla pace e capace di difendere i propri interessi e di proteggere i propri cittadini”.

Riguardo alla situazione di Kiev, l’unica cosa che è stata scritta è una generica rivendicazione di una “soluzione equa e duratura”, ma quel che è davvero interessante è che la ricerca di tale via d’uscita è immediatamente collegata “a un ambizioso cambiamento di scala nella difesa europea, sia in termini di investimenti che di sostegno alla base di difesa industriale e tecnologica europea”.

Sono infatti i temi di un salto di qualità della UE e i nodi del Mediterraneo in particolare che sembrano aver tenuto banco nel dialogo tra Meloni e Macron. Dal comunicato si evince che dai due leader è stata riservata molta attenzione alla competitività europea, all’energia, alla semplificazione delle norme comunitarie.

Francia e Italia hanno concordato anche di lavorare insieme per la “preparazione del prossimo Consiglio europeo e, più in generale, sul prossimo quadro finanziario pluriennale, sulla migrazione, sull’allargamento e sulle riforme”. Nella dichiarazione congiunta finale c’è scritto che i due paesi devono ragionare “sulle condizioni necessarie a far concorrere le imprese europee ad armi pari”.

“Ciò vale – si legge sempre nel comunicato – anche per i settori in transizione, come l’industria automobilistica e siderurgica, che richiedono un forte impegno europeo, nonché per i settori più avanzati, come l’intelligenza artificiale, le fonti di energia de-carbonizzate rinnovabili come il nucleare, e lo spazio, dove i nostri interessi bilaterali ed europei sono collegati”.

Automotive, IA, nucleare, spazio: dalla spina dorsale dell’industria europea alla frontiera delle nuove tecnologie, dall’atomo e dalla ricerca dual use ai servizi satellitari, è la concretezza degli interessi in questi campi che ha riportato Macron e Meloni a parlarsi. Che essi trovino solo nel rafforzamento dell’autonomia strategica europea una possibilità di stare al passo coi tempi è evidente.

Ma non bisogna precipitare le opinioni sul disgelo tra Parigi e Roma. Appena prima dell’incontro con Macron, Meloni ha incontrato anche Robert Fico, unico partecipante alla parata del 9 maggio a Mosca. Per una buona mezz’ora ha parlato con la presidente del Consiglio della situazione ucraina, e i messaggi che ne sono usciti rimangono contraddittori.

Anche se il capo del governo slovacco e di quello italiano hanno ribadito il comune “impegno per la ricostruzione del paese (l’Ucraina, ndr) in vista della Ukraine Recovery Conference”, che si terrà a Roma il 10 e 11 luglio, Fico ha anche detto ai cronisti che la strategia di alcuni membri UE, che vogliono prolungare la guerra per danneggiare la Russia, non funziona.

Anche in questo caso, quando ci sono di mezzo grandi opportunità di speculazione finanziaria, allora un’intesa si trova, o per lo meno si tenta di trovarla. Ma i nodi della concorrenza strategica sempre più evidente tra le due sponde dell’Atlantico, e della risoluzione dei conflitti che oggi determinano lo scenario globale, rimangono in bilico. Vedremo se quello di martedì è stato davvero un disgelo...

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Sudan - Oltre 4 milioni di rifugiati in una guerra dimenticata

Da oltre due anni il Sudan è devastato da un conflitto interno che ha causato una delle più gravi crisi umanitarie del nostro tempo. Secondo quanto dichiarato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), più di 4 milioni di sudanesi sono stati costretti a fuggire dal Paese dall’inizio della guerra nell’aprile 2023. L’UNHCR la definisce oggi “la peggiore crisi di sfollamento al mondo”.

“La guerra in Sudan sta entrando nel suo terzo anno e i 4 milioni di persone rifugiate rappresentano una pietra miliare devastante”, ha dichiarato Eujin Byun, portavoce dell’UNHCR, durante una conferenza stampa a Ginevra. Secondo l’agenzia dell’ONU, si tratta di una crisi senza precedenti, che si sta consumando nell’indifferenza quasi totale della comunità internazionale

Il conflitto è scoppiato tra le Forze Armate Sudanesi e le Forze di Supporto Rapido (RSF), una milizia paramilitare. Combattimenti feroci hanno colpito soprattutto le aree urbane e le regioni del Darfur, dove migliaia di civili sono rimasti intrappolati tra i due fronti. L’infrastruttura sanitaria è al collasso, le scuole chiuse, e la carenza di cibo e acqua ha raggiunto livelli drammatici.

Molti di questi 4 milioni di rifugiati hanno attraversato deserti e zone di conflitto attivo per cercare riparo nei Paesi confinanti. Oltre 800.000 persone hanno raggiunto il Ciad, che ora ospita uno dei maggiori insediamenti di rifugiati africani. Ma l’arrivo di queste masse disperate ha messo in ginocchio anche le già fragili capacità di accoglienza del Paese. Solo il 14% dei fondi richiesti dalle agenzie umanitarie è stato finanziato, lasciando senza assistenza milioni di persone.

Tra le storie raccolte dall’UNHCR spicca quella di una bambina di sette anni arrivata in Ciad dopo essere sopravvissuta a un attacco nel campo di sfollati di Zamzam, dove sono morti suo padre e due fratelli. La bambina ha perso una gamba e sua madre era già stata uccisa in un precedente attacco. “Nonostante il suo calvario, non piangeva. Rimaneva immobile, scioccata. L’infanzia le è stata strappata via”, ha raccontato un operatore umanitario.

Un altro rifugiato ha riferito che i miliziani hanno requisito tutti gli animali da tiro e costretto lui e altri uomini a trainare a mano i carretti con i familiari a bordo. “Abbiamo camminato per giorni senza mangiare. Le strade erano disseminate di cadaveri”, ha detto.

Le organizzazioni umanitarie operano in condizioni estreme, con risorse minime. Le tende non bastano, il cibo è razionato e l’assistenza medica è ridotta all’essenziale. Le scuole per i bambini rifugiati sono improvvisate, spesso in mezzo al nulla, e manca quasi tutto, dai materiali scolastici all’acqua potabile.

L’UNHCR e le agenzie partner chiedono un intervento urgente: non solo più fondi, ma anche pressioni politiche per fermare le violenze, proteggere i civili e garantire corridoi umanitari sicuri. Ma finora, l’attenzione globale resta concentrata su altre aree di crisi, mentre il Sudan scivola sempre più nell’oblio.

“Il mondo deve svegliarsi. Non possiamo permettere che milioni di persone vengano abbandonate alla fame, alla violenza e alla disperazione”, ha detto Byun.

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Chi di intelligence colpisce...

Gira questa notizia a mo’ di spiegazione dei “soliti” attacchi di ieri sull’Ucraina

Un gruppo di ufficiali di alto rango delle Forze Armate ucraine e il loro collega britannico sono stati eliminati da un attacco con drone contro due auto nel centro di Sumy. La notizia è stata confermata dai canali ucraini.

Secondo il portavoce dell’intelligence militare russa, si tratta del personale militare coinvolto nelle recenti operazioni terroristiche sul territorio russo, che fa parte dei servizi segreti ucraini GUR, dipartimento guidato da consiglieri dell’MI6 britannico.

Tra i militari ucraini eliminati c’era anche un agente della Marina britannica, presumibilmente responsabile della pianificazione degli attacchi ai treni in Russia.

L’intelligence militare russa ha seguito gli spostamenti dei militari ucraini nell’auto utilizzando un segnale GPS attivato a distanza da hacker su uno dei telefoni delle vittime; l’attacco è stato effettuato con estrema precisione da un missile LMUR depotenziato lanciato dal drone ad alta quota Inokhodetz.

Naturalmente la Gran Bretagna tace...

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Gaza muore di fame

Si ferma anche la distribuzione dei miseri aiuti umanitari gestiti dalla fondazione israelo-statunitense chiamata Gaza Humanitarian Foundation (Ghf). Ventidue camion appena sono stati scaricati martedì. Prima della guerra ne entravano 600 al giorno. E non c’era la necessità, come oggi, di recuperare tre mesi di blocco totale di cibo, medicine, carburante, macchinari.

La creatura nata dalle menti e dagli interessi (economici, politici e militari) di Washington e Tel Aviv, ha manifestato tutta la sua incompetenza e una inadeguatezza che era facile prevedere. Lo avevano detto le Nazioni Unite. Non si può improvvisare il lavoro umanitario costruendo in pochi mesi una società nata per volere del governo il cui presidente è ricercato internazionalmente per crimini di guerra. Non lo si può fare neanche se posizioni ai vertici membri dell’esercito statunitense e imprenditori dai guadagni milionari. A quanto pare, una delle maggiori certezze del presidente Usa Donald Trump è stata smentita dai fatti: non bastano i soldi per sostituire esperienze e professionalità.

Dopo tre giorni di terribili stragi (che solo l’esercito israeliano e la Ghf continuano a negare), la fondazione ha chiuso i cancelli. Le strade di accesso ai siti sono diventate “zone di combattimento”, hanno dichiarato i militari, nel tentativo di evitare l’afflusso di disperati e, insieme, di giustificare eventuali altre morti. 27 palestinesi ammazzati martedì, almeno 3 lunedì e 35 domenica. Le autorità di Gaza denunciano che più di 100 persone sono state uccise in una settimana e circa 500 ferite, da quando la fondazione ha cominciato le sue operazioni. Tagliando fuori le Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie, le associazioni locali che per i lunghi mesi della guerra sono rimaste spesso l’unica speranza di sopravvivenza per migliaia di persone.

Appena giunti gli aiuti, l’Onu riforniva innanzitutto le cucine di comunità e i punti di smistamento posizionati in centinaia di zone diverse di Gaza. Questo garantiva una distribuzione automatica e più sicura per la popolazione e, allo stesso tempo, la messa a disposizione in tempo reale del cibo cucinato e preparato dalle mense. Le persone sapevano che il meccanismo di distribuzione funzionava ed erano disposte ad attendere lo scarico dei camion. Oggi, come ha dichiarato il Programma alimentare mondiale, “le comunità muoiono di fame e non sono più disposte a sopportare che il cibo gli passi davanti”. Perché non sanno quanto ne entra e fino a quando. Non sono certi che domani ci sarà ancora. Per recuperare questa fiducia, l’agenzia delle Nazioni Unite ha dichiarato che è necessario aprire i valichi, far entrare enormi e continue quantità di cibo, garantire rotte sicure (quelle obbligate dall’esercito non lo sono) e utilizzare tutti e 400 i punti di distribuzione. Che diventano migliaia se si contano anche quelli gestiti da associazioni internazionali e locali.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il meccanismo messo in piedi dalla fondazione israelo-americana. Prima dell’inizio delle operazioni, l’esercito ha preparato tre aree di smistamento. Sono enormi distese vuote circondate da cumuli di terra che avrebbero dovuto evitare, nei piani, l’attraversamento incontrollato della popolazione affamata. A guardia delle operazioni ci sono società private appaltatrici, sempre americane, che hanno assunto centinaia di ex militari, agenti di sicurezza, combattenti mercenari. Questi ultimi, insieme all’esercito israeliano, hanno lo scopo di controllare e gestire l’arrivo delle persone. I palestinesi dovrebbero essere incanalati in stretti percorsi delimitati da reti e filo spinato. Migliaia e migliaia di persone disperate ad attendere in fila il proprio turno, nonostante tutti sappiano che le scatole sono poche e che solo chi arriva per primo riuscirà a mangiare e a far mangiare la sua famiglia. I centri gestiti dalla Ghf, infatti, chiudono entro un paio d’ore dall’apertura. È il tempo entro cui terminano i miseri aiuti previsti per la giornata. Di solito aprono alle 6 di mattina e quindi accade che già prima dell’alba centinaia di persone provano a raggiungere i cancelli per accedervi prima che tutto finisca. I militari non possono gestire migliaia di persone che si accalcano prima dell’ora X, e aprono il fuoco. “Individui sospetti” che escono dai “percorsi stabiliti”, così li chiamano. Hanno dichiarato di aver sparato colpi di avvertimento e, per ogni strage, l’esercito ha detto che avrebbe investigato. Lo avrà ripetuto centinaia di volte dall’inizio dell’attacco a Gaza. Ma l’esercito non indaga se stesso. Lo fa formalmente, con un meccanismo appositamente inventato per evitare le inchieste internazionali indipendenti. Proprio quelle che il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto a gran voce. In ogni caso, i vertici militari si sono già auto-assolti, liquidando le centinaia di testimonianze e i resoconti medici come “bugie di Hamas”. Dall’ospedale da campo della Croce Rossa Internazionale a Rafah hanno fatto sapere di aver curato centinaia di persone negli ultimi giorni, tutte con ferite di arma da fuoco e tutte raccontavano di essere stati colpiti dai militari mentre cercavano di arrivare al centro americano. Nei filmati si sente chiaramente il suono degli spari, di quelli dei fucili e dei carri armati.

Ciò che è certo è che anche oggi a Gaza non si mangia. Anche i tre punti della Ghf sono chiusi. Formalmente per consentire “lavoro di ristrutturazione, riorganizzazione e miglioramento dell’efficienza”. La realtà è che la fondazione si trova in profonda crisi. È di martedì la notizia che la Boston Consulting Group (Bcg), una delle principali società di consulenza degli Stati Uniti, ha interrotto la sua collaborazione con la Ghf. Secondo il Washington Post la Bcg ha lavorato fin dall’inizio gomito a gomito con le autorità di Tel Aviv per plasmare la fondazione secondo le necessità del governo e dell’esercito. E intanto i tentativi di mascherare la direzione israelo-americana dell’ente, utilizzando nomi non direttamente legati allo stato ebraico, sono tutti falliti. Così, la maschera è caduta. Sempre martedì è stato nominato nuovo capo dell’ente il reverendo Johnnie Moore, un leader evangelico collaboratore del presidente Donald Trump. Moore, che sostituisce il dimissionario Jake Wood, ha espresso parole di apprezzamento per il piano di pulizia etnica che il tycoon ha chiamato la “riviera di Gaza” e ha accusato l’Onu di diffondere le bugie del “terrorismo” per aver denunciato la strage di palestinesi in fila per il cibo.

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Governo Meloni e Confindustria: amici per la pelle

Nei momenti di difficoltà, è sempre bello poter contare sugli amici. Deve avere pensato questo la presidente del Consiglio Meloni quando ha partecipato all’assemblea nazionale di Confindustria lo scorso 27 maggio.

Del resto, è dall’inizio della legislatura che le due parti vanno d’amore e d’accordo, specie dopo la crisi inflazionistica che ha visto una politica economica del governo tutta tesa a contenere il costo del lavoro e garantire un margine di profitto accettabile per le imprese.

E quando si va dagli amici, è buona educazione non presentarsi a mani vuote, e infatti anche stavolta la Meloni ha assicurato che lo Stato si farà carico di garantire un certo livello di profitti per le imprese: si va dalla promessa di dirottare in sussidi alle aziende parte dei fondi PNRR che (prevedibilmente) l’Italia non riuscirà a spendere nei tempi previsti, anche per addolcire l’impatto sulle imprese stesse dei possibili dazi provenienti da oltreoceano, fino all’impegno di allentare ancora quel poco di impegno verso una transizione energetica e ambientale (ormai finita nel dimenticatoio), passando per la possibilità (peraltro tutta da dimostrare) che l’incremento della spesa militare andrà a beneficio anche delle imprese italiane.

Per rendere un minimo realistico questo appuntamento era però essenziale che entrambe le parti in commedia presentassero anche un volto “responsabile” e si mostrassero consapevoli che qualcosa ancora non va, così da creare il pretesto per Confindustria per chiedere ulteriori impegni, identificando all’uopo qualche nuovo nemico.

Cominciamo dal padrone di casa, il presidente di Confindustria Orsini, che è riuscito a dire (incredibilmente rimanendo serio): “Le retribuzioni italiane che perdono potere d’acquisto spingono verso il basso consumi e crescita, e abbattono la dignità della vita e del lavoro. È un problema nazionale”. Dunque, il capo dell’associazione delle imprese italiane, che firma i contratti nei quali si stabilisce che i salari devono sistematicamente perdere potere d’acquisto, si lamenta che i salari perdono potere d’acquisto... un corto circuito incredibile, che in realtà nasconde due insidie davvero pericolose.

La prima (non nuova) è l’idea che il livello dei salari vada sostenuto non dalla contrattazione ma dalla fiscalità generale, spostando quindi i relativi oneri dalle imprese allo Stato. È insomma la solita storia del taglio del cuneo fiscale, su cui tante volte siamo intervenuti.

La seconda insidia è più sottile, ma altrettanto pretestuosa. Secondo Orsini, le imprese associate a Confindustria tutto sommato offrirebbero salari adeguati. Il problema sarebbero i contratti pirata, firmati da sindacati non rappresentativi, contratti che favorirebbero una concorrenza scorretta a tutto danno delle imprese sane di Confindustria. Contro tutto questo è necessario fare fronte comune, dice Orsini, insieme a Governo e sindacati responsabili, “altrimenti, se così non sarà, vengano dati a noi imprese gli strumenti adeguati per capire chi è in regola e chi non lo è”.

Ci sono almeno tre cose da contestare in questo ragionamento. In primis, non è affatto vero che i contratti firmati da Confindustria siano contratti sani, in quanto come già ricordato sono proprio questi contratti che durante la crisi inflazionistica hanno certificato la perdita di salario reale da parte dei lavoratori.

In secondo luogo, è ridicolo che Orsini si lamenti della concorrenza scorretta da parte di imprese che utilizzano contratti pirata, come se non sapesse che la strategia industriale delle sue imprese “sane” è fondata proprio sulla logica della frammentazione dei cicli produttivi e l’esternalizzazione di servizi proprio a questo tipo di imprese, attraverso una logica di appalti e subappalti favorita da decenni di deregolamentazione del mercato del lavoro (con conseguenze anche in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro che, ricordiamolo, è anche oggetto di uno dei quesiti referendari dell’8-9 giugno).

Infine, è davvero inquietante la proposta finale di Orsini, ovvero che siano le imprese stesse a decidere “chi è in regola e chi non lo è”. Il controllo sull’operato delle imprese è una prerogativa dello Stato, e va sostenuto e monitorato dalle organizzazioni dei lavoratori: le imprese sono i soggetti controllati, non i controllori!

Al presidente Orsini ci permettiamo quindi di dare un consiglio. Se è davvero così preoccupato della caduta dei salari italiani, con conseguente stagnazione della domanda, ha in mano un’arma fantastica... alzare i salari!

E veniamo ora alla presidente Meloni la quale, capendo che la retorica per cui l’Italia starebbe vivendo una specie di boom economico ormai non regge più, è alla ricerca di una nuova arma di distrazione di massa, individuata nei “dazi interni” nell’Unione Europea.

È evidente che questa strategia, a partire dai termini utilizzati, risponde anche alla necessità di dire qualcosa rispetto alla possibile guerra commerciale con l’amico Trump. Ma cosa sono esattamente questi “dazi interni”? Si tratta generalmente non di tariffe vere e proprie (praticamente escluse nel mercato comune europeo), ma di quel poco di regolamentazione nazionale, differenti procedure amministrative, specifici requisiti ambientali, sovvenzioni sociali e ambientali, etc. sopravvissuti alla furia liberalizzatrice imposta dalla UE negli ultimi 35 anni.

Insomma, e qui è il paradosso, scagliarsi contro i dazi interni della UE vuol dire chiedere all’Unione Europea di fare sempre più (e sempre peggio) l’Unione Europea, e in misura corrispondente chiedere agli stati nazionali europei di fare ulteriori passi indietro nella propria capacità di intervenire sul mercato. La Presidente del Consiglio de “la pacchia è finita” è diventata quindi più europeista della stessa Unione Europea (e non a caso ad ascoltarla a Confindustria c’era la sua amica Metsola, presidente del Parlamento Europeo).

Ma questa prospettiva non è solo paradossale, per l’Italia in particolare è anche inquietante: dopo decenni di deindustrializzazione e competitività affidata unicamente alla svalutazione del lavoro, il tessuto produttivo italiano è composto oramai principalmente da piccole e piccolissime imprese, per le quali quel minimo di regolamentazione nazionale residua funge a volte da barriera di protezione nei confronti di possibili competitor esteri (in primis di altri stati membri della UE). La battaglia alla cieca contro i dazi interni rischia quindi di travolgere quel poco che resta di imprese domestiche, senza peraltro garantire in nessun modo opportunità e condizioni migliori per i lavoratori.

L’assemblea di Confindustria, pur nella sua stanca ritualità, mette quindi a nudo una volta di più le ipocrisie del padronato e del governo italiano.

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La Cina vince anche la competizione sui motori endotermici

La UE ha deciso di imporre i dazi sulle importazioni di auto cinesi, affermando che i prodotti del Dragone usufruiscono di una serie di aiuti che distorcono il mercato. Al di là della propaganda sui sussidi, lautamente distribuiti anche nel Vecchio Continente, la logica dietro questi provvedimenti è quella di favorire l’acquisto di vetture prodotte in Europa, stimolando l’industria e la domanda interne.

Ma quando una classe dirigente poco capace impone una misura protezionistica a una realtà produttiva molto più avanzata e flessibile della propria, sperando di poter competere meglio, finisce che si ritrova battuta su tutti i fronti. È quello che sta succedendo al mercato europeo, che sta venendo inondato di auto ICE (quelle alimentate tramite carburanti di origine fossile) di fabbricazione cinese.

A dare i dati che lo dimostrano è lo Schmidt Aumotive Research, un think tank tedesco che studia il settore automobilistico. Le auto cinesi arrivate in Europa occidentale nel primo trimestre del 2025 sono circa 200 mila, il che rappresenta la percentuale record del 7% delle nuove auto di questi mercati. Si stima che tale cifra arriverà a un milione di vetture entro la fine dell’anno.

Ci sono diversi motivi per questo boom di importazioni, che era proprio ciò che Bruxelles voleva evitare. Innanzitutto, la destinazione dei veicoli cinesi è stata spostata verso il Regno Unito, dove non si applicano le barriere tariffarie europee. E poi, il parco di prodotti esportati ha virato nettamente verso i modelli ibridi e soprattutto non elettrici, i quali hanno registrato un +81% sull’anno precedente.

Ha pesato anche la riduzione di alcuni costi di trasporto via nave, che ha reso dunque i prezzi delle auto cinesi più competitivi. Mentre la riduzione delle importazioni dal Dragone di veicoli elettrici deve essere in parte fatta risalire anche alla strategia di alcuni produttori quali Volvo e BMW, che stanno procedendo al reshoring di parte delle proprie filiere, anche se non si sono distaccati completamente dalla Cina.

Una riduzione che potrebbe essere temporanea, dato che le case automobilistiche cinesi stanno ridefinendo a loro volta filiere e partner commerciali, e potrebbero aprire presto stabilimenti direttamente entro i confini della UE. Intanto, Regno Unito, Spagna e Italia stanno assorbendo il 68,2% di tutti i veicoli arrivati nel primo trimestre 2025, ma i marchi cinesi stanno conquistando terreno anche in Francia e Germania.

Bisogna tenere presente che, sempre nei primi tre mesi dell’anno in corso, le emissioni del Dragone sono diminuite dell’1,6% su base annua, obiettivo raggiunto sia per la diffusione sempre maggiore di fonti rinnovabili di energia, sia per la crescita del mercato di vetture elettriche: il Financial Times ha stimato che quest’anno ne verranno vendute più di quelle a motore endotermico.

In pratica, lo scenario che va delineandosi è quello di una UE in cui verrà rimandata sempre più avanti nel tempo una reale transizione ecologica, per difendere i profitti delle case automobilistiche. Ma allo stesso tempo, mentre nel mercato cinese avverrà la sostituzione dei motori a scoppio con le batterie elettriche, la produzione di auto ‘tradizionali’ sarà deviata verso i paesi occidentali.

In pratica, la UE con i suoi dazi ha spinto la riallocazione sul mercato interno delle auto elettriche cinesi, mentre a loro volta i veicoli con motori endotermici sono state reindirizzati verso la UE stessa. Quando la soluzione è peggio del problema, almeno per le mire di Bruxelles...

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Il sostegno a Israele è ai minimi storici

A forza di trasmettere in diretta il genocidio dei palestinesi, arrivato al culmine con l’ultima offensiva lanciata su Gaza, e anche grazie all’opera di sensibilizzazione di chi, anche da prima del 7 ottobre 2023, denuncia la pulizia etnica promossa da Israele, il sostegno al terrorismo sionista sta finalmente crollando in Europa e si riduce anche negli Stati Uniti.

Lo dicono i dati di un sondaggio effettuato da YouGov in sei paesi del Vecchio Continente (Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Danimarca, Italia). Tranne che in Gran Bretagna, il consenso netto è calato ovunque mentre soltanto tra il 13% e il 21% degli intervistati ha espresso un’opinione favorevole su Israele, rispetto al 63%-70% che ha invece dichiarato opinioni sfavorevoli.

Va notato, anche per l’importanza che ha per la nostra mobilitazione antisionista, che in Italia si è registrato il livello più basso (6%) di coloro che credono che Israele “abbia fatto bene a inviare truppe a Gaza e abbia generalmente risposto in modo proporzionato agli attacchi di Hamas”. La percentuale è diminuita rispetto a un sondaggio dello scorso ottobre.

Se il 29% degli italiani interpellati ritiene che Israele “abbia fatto bene a inviare truppe a Gaza, ma che si sia spinto troppo oltre e abbia causato troppe vittime civili”, un italiano su quattro ritiene invece che Tel Aviv non avrebbe assolutamente dovuto spingersi nei territori della Striscia. Un altro sondaggio approfondisce ulteriormente le opinioni nel nostro paese.

Infatti, i dati Eurotrack mostrano che sempre meno abitanti dell’Europa occidentale ritengano che le operazioni militari sioniste siano giustificate. Parliamo di una persona su quattro in Francia, Germania e Danimarca (24%-25%), di meno di una su cinque nel Regno Unito (18%), e addirittura meno di una su dieci in Italia (appena il 9%).

Mentre tra il 7% e il 18% degli intervistati ha dichiarato di simpatizzare di più con la parte israeliana nel conflitto in atto – e si tratta della percentuale più bassa dal 7 ottobre a oggi in cinque dei sei paesi presi in considerazione – è tra il 18% e il 33% delle persone che ha affermato di simpatizzare con la parte palestinese – e in questo caso le percentuali sono aumentate ovunque dal 2023.

Inoltre, un sondaggio dello scorso aprile pubblicato dal Pew Research Center ha rilevato che il 53% degli statunitensi vede Israele con sfavore, contro il 42% di marzo 2022. Un’altra indagine di Data for Progress, condotta il mese scorso, ha infine rilevato che il 51% degli elettori USA è contrario ai piani di invasione di Gaza e allo sfollamento – cioè alla pulizia etnica – dei palestinesi.

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03/06/2025

Frusciante al Cinema: Heretic (2025) di Scott Beck, Bryan Woods - Febbraio 2025

Lefebvre e il doppio sfondamento di Marx e Nietzsche contro Hegel

di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 208, € 20,00

Marx e Nietzsche uniti nella lotta contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno secondo quanto scrive Henri Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre. Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta tradotto in Italia dopo cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio sfondamento: attraverso la politica e la critica della politica per superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello stato di cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di Nietzsche da parte del pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze, Guattari o Foucault. L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva punti di contatto e profonde discordanze tra Marx e Nietzsche senza tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un pensiero che sappia farsi multidimensionale.

Secondo Lefebvre, Hegel pone al centro della sua riflessione la rivoluzione, quella francese, e annuncia la sua definitiva cristallizzazione nello stato nazionale. Stato costituzionale e certamente non reazionario, ma, al tempo stesso, più borghese che democratico. Nello Stato, vera incarnazione dell’Idea, si perfeziona la fusione tra sapere e potere. Anche le sue capacità repressive e belliche rivelano un fondamento razionale e per questo legittimo. Questa fusione può avvenire perché la classe media porta la cultura alla coscienza dello Stato. È infatti questa classe, luogo di elezione della cultura, che costituisce la sua base sociale in quanto bacino di reclutamento della burocrazia. L’unione di sapere e potere consente allo Stato di preservarsi come totalità coerente pur contenendo momenti contraddittori. Gli consente di inglobare e subordinare la società civile, di cementare il corpo sociale che senza di esso cadrebbe a pezzi. Lo Stato, dunque, si afferma come un automatismo perfetto, come modello di un sistema che si autoregola. Con lo Stato il tempo finisce e il suo risultato si diffonde e si attualizza nello spazio.

La rottura di Marx con Hegel, prosegue Lefebvre, è in primo luogo di natura politica: egli rompe con l’apologia hegeliana dello Stato, in modo sempre più netto dalle prime alle ultime sue opere. Questa porta con sé una rottura filosofica (dall’idealismo al materialismo) e una epistemologica (dall’ideologia alla scienza). Marx voleva stabilire razionalmente la fiducia nel possibile. Voleva riunire la scienza basata sul passato e l’apertura sul futuro, in contrapposizione alla coincidenza tra reale e possibile che la teoria hegeliana dello Stato voleva già realizzata. Lo Stato, così, da struttura portante della società diventa sovrastruttura che poggia sui rapporti sociali di produzione e che, con il modificarsi di questi ultimi, è destinato a modificarsi a sua volta e infine a crollare. La filosofia, dunque, non può realizzarsi nello stato hegeliano, ma solo nella classe operaia che, facendosi soggetto collettivo autonomo, è destinata a riassorbire nella dimensione sociale tanto quella economica quanto quella politica.

Marx, sostiene ancora Lefebvre, mantiene la concezione hegeliana di una razionalità soggiacente alla storia, ma allo stesso tempo esita nel riconoscere un senso immanente alla società capitalistica che, a buon diritto, può essere considerata assurda perché disumana e ingiusta. Mantiene il progetto di costruire un rigoroso sapere scientifico in grado di raggiungere l’essenza della società capitalistica, ma riprende anche la formula faustiana “In principio era l’azione”. Detto altrimenti, esita tra il sapere e l’agire, tra il conoscere e il vissuto pratico.

Un vissuto in cui Marx evidenzia una triade misconosciuta: sfruttamento, oppressione, umiliazione. Questi tre concetti, pur senza confondersi, si possono riassumere in un unico termine, quello di alienazione. Questo, staccato dall’architettura hegeliana, manca di uno statuto teorico solido ma, al tempo stesso, acquisisce una inesauribile fecondità per la comprensione del vissuto sociale. Concetti come plusvalore o plusprodotto hanno ben altra compattezza da un punto di vista scientifico ed epistemologico. Ma nessuno è disposto a morire combattendo contro il plusvalore, mentre moltissimi esseri umani hanno lottato fino alle estreme conseguenze contro l’umiliazione e l’oppressione, attraverso le quali hanno sperimentano lo sfruttamento.

Cosa si è realizzato del progetto marxiano? Niente, o quasi niente, sostiene Lefebvre. Una gran parte di quello di cui Marx aveva annunciato la scomparsa continua a sopravvivere, anche se “marcisce sul posto”. In nessun luogo la classe operaia ha potuto diventare un soggetto collettivo autonomo. “In entrambi i fronti, capitalista e socialista, la vita sociale scompare, schiacciata tra l’economico e il politico. Qui predomina il primo, là il secondo”.1

Sin dai tempi di Marx, mentre lui celebrava il tentativo della Comune parigina di abbattere lo Stato borghese, la già potente classe operaia tedesca stava cadendo nella trappola del nazionalismo e dello statalismo, per di più guidata da un sedicente seguace dello stesso Marx, Lasalle. E l’amara ironia della storia prosegue con l’Unione Sovietica che trasforma in dottrina di Stato la critica radicale dello Stato di Marx. Una dottrina in verità super hegeliana anche se mascherata sotto un lessico marxiano. Questo destino beffardo non deve però nascondere una fondamentale conclusione che si deve trarre dalla teoria del pensatore tedesco: se la rivoluzione si fa contro lo Stato, quest’ultimo, a un dato momento, diventa controrivoluzionario.

Cosa ne conclude Lefebvre? “Fallimenti del pensiero marxista? Sì. Morte? No”.2 Il pensiero di Marx non muore perché non opera nel mondo moderno come un sistema in grado di fornire certezze granitiche, ma “Agisce come un germe, come un fermento”.3 Il rivoluzionario tedesco aspira certamente alla totalità nella sua opera teorica, ma il momento critico scuote l’edificio prima del suo completamento. Per questo il marxismo, in senso proprio, non esiste. Possono esistere solo diversi marxismi figli di differenti interpretazioni di Marx. Il problema non sta nell’oscurità o nello stato embrionale del suo pensiero, ma nel fatto che egli “annuncia, propone, progetta, anziché osservare, ratificare (apparentemente) il fatto e sistematizzare il compiuto, come l’hegelismo”.4

Vale dunque la pena continuare, insieme a Marx, a “esplorare con la teoria il possibile e l’impossibile”.5 E in questa esplorazione Lefebvre incontra la critica di Nietzsche che “ha lo stesso terreno della critica marxista: Hegel e l’hegelismo come teoria dello Stato, principio e pratica dello Stato come messa in atto della razionalità politica, particolare dell’Europa, che Hegel ha teorizzato. Stesso terreno di partenza in direzioni divergenti”.6

Nietzsche ci aiuta a risolvere i problemi che Marx lascia in sospeso? Non proprio. Verrebbe piuttosto la tentazione di commentare, utilizzando Samuel Beckett, che Nietzsche ci aiuta a “Fallire di nuovo. Fallire meglio”. Perché, pur sgomberando il campo dal surrettizio utilizzo filonazista del suo pensiero, rimangono all’orizzonte possibili esiti alquanto oscuri: l’elitismo, il nichilismo, la follia. Nietzsche non è certo un rivoluzionario. Ma di sicuro è un ribelle. La sua è una rivolta del vissuto, del corpo, della differenza, del soggettivo, del desiderio. Una rivolta contro il Logos occidentale che si arroga il diritto di escludere tutto ciò che perturba la coesione e la coerenza sociale esercitando il peggiore dei ricatti: ogni critica della Ragione porterebbe all’irragionevolezza e all’apologia della violenza.

Nel Logos, dunque, il sapere si fa potere. E con ciò si fa Stato, ipocritamente travestito da virtù morale e da onestà intellettuale. Ma al di sotto di questa apparenza menzognera c’è solo la volontà di potenza, pura ricerca del potere per il potere e manifestazione dell’energia vitale che agisce nel corpo.

Questa energia viene però misconosciuta perché l’uomo sperimenta se stesso soprattutto attraverso il risentimento che nasce quasi sempre da un’umiliazione. Un’umiliazione rimossa da cui si trae una singolare voluttà attraverso la virtù dell’umiltà. Si finisce così per accettare l’umiliazione e, addirittura, per cercarla nuovamente offrendosi come vittima, preda, oggetto per la volontà di potenza che l’ha atterrato. Salvo che ogni umiliato ha sotto di sé altri umiliati che lui a sua volta può umiliare. In questo modo, sostiene Lefebvre, Nietzsche “prosegue l’abissale scavo del concetto di alienazione”7 che per lui, però, ha qualcosa di irreparabile e di irreversibile.

L’alienazione, infatti, non dà luogo a un superamento dialettico. Nessuna negazione della negazione, nella versione hegeliana o marxiana. Nessuna conservazione del presente e del passato ad un livello superiore. Il passato è considerato come decadenza e non come risorsa, maturazione, preparazione al possibile. La storia è concepita da Nietzsche come “Un caos di casi, di volontà, di determinismi”.8 Una concezione che, spezzando la servitù della finalità, fa acquisire alla libertà una nuova dimensione. Solo un pensiero teologico può attribuire un senso alla storia. Ma oramai Dio è morto. Il superamento del presente si dà dunque come distruzione e non come elevazione. Il superamento nietzscheano “denega, rinnega, smentisce, confuta, rifiuta, precipita nell’abisso”,9 senza alcuna possibile previsione del suo risultato. La rivolta di Nietzsche è adesione al vissuto, alla volontà di potenza, non per accettarli come tali, ma per dare luogo a una loro metamorfosi, il salto dall’umano al sovraumano, che può avvenire qui ed ora attraverso una pratica poetica. “Pertanto, nessuna transizione in Nietzsche, ma una capriola”.10

L’analisi di Lefebvre del pensiero di Hegel, Marx e Nietzsche non vuole essere di natura filologica. A lui questi autori interessano perché ci permettono di comprendere il mondo moderno. Nel suo libro si respira un’aria battagliera che è difficile ritrovare nello stile anestetizzante degli scritti accademici contemporanei e che lo rende coinvolgente anche quando non si condividono appieno le sue conclusioni. Seguendo il suo approccio si può allora notare che alcune delle analisi del pensatore francese mostrino i segni del tempo. La rivolta nietzschiana a cui si rifà Lefebvre è figlia degli anni Sessanta e Settanta, come emerge con chiarezza quando afferma, riprendendo un celebre slogan sessantottino, che essa si oppone “alla rivoluzione politica per ottenere ‘tutto e subito’”.11 Nel frattempo, però, quel tipo di rivolta è stata riassorbita dal capitale postmoderno che è stato in grado di mettere a valore proprio il vissuto, il corpo, la differenza, il soggettivo e il desiderio. Considerazione che, comunque, non ci autorizza a trattare con hegeliana sufficienza il vissuto soggettivo della rivolta, come si trattasse della mera espressione di “coscienze infelici” o di “anime belle”.

Rimane forse l’importanza di Nietzsche come “rivelatore”. In particolare, rilevatore delle difficoltà di alcuni passaggi fondamentali del progetto marxiano. Da un punto di vista teorico forse non c’è nulla di particolarmente oscuro quando Marx sostiene che occorre “lottare sul piano politico per porre fine al politico”12 o quando afferma che “la classe operaia [...] si afferma negandosi, supera se stessa superando il capitalismo”.13 Il problema nasce quando questo discorso cerca di tradursi in prassi. Siamo nel cuore magmatico e vorticoso del momento rivoluzionario in cui la dialettica si confonde facilmente con il paradosso. Da queste difficoltà non ci si può tirare fuori con il leninismo perché il suo punto più “scabroso”, sostiene Lefebvre, è proprio la teoria del sapere e del partito.
Il partito politico, sostegno o soggetto del sapere, lo trasmette agli operai, lo comunica, lo rende accessibile, senza smettere di detenerlo. Ora il partito politico tende, con lo Stato e con la copertura dello Stato, a elevarsi al di sopra della società. L’esperienza lo mostra e la teoria lo dimostra. Ogni partito politico, che lo sappia o no, è hegeliano per essenza14.
Insomma, arriva un punto in cui non c’è sapere pregresso che possa assicurare il procedere della rivoluzione se a spingere in avanti non interviene il vissuto, non del singolo individuo straordinario, ma delle masse. Giunge un momento in cui la conoscenza acquisita attraverso le lezioni della storia, per quanto necessaria, non è più sufficiente e diventa indispensabile, anche per Marx, fare affidamento sulla poesia del futuro, intesa coma capacità di produrre il novum. A quel punto, se non si vuole cadere all’indietro bisogna fare una capriola in avanti, senza avere alcuna garanzia sul fatto che si riuscirà ad atterrare sui propri piedi invece di rompersi la testa. Questo è quello che Nietzsche chiama salto nel sovrumano. Un salto che, proprio perché privo di solidi punti di appoggio, si espone al rischio dell’eterno ritorno della vecchia merda.

Questa dinamica, tutto sommato, non è estranea al pensiero di Marx che, però, ne mette in evidenza, come momento risolutivo, il lato oggettivo. In particolare quando afferma che le rivoluzioni proletarie
sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta!15
Rodi marcisce sul posto, ma ancora non è crollata. I fuochi della catastrofe sociale oramai si allargano a macchia di leopardo anche nel cuore dell’impero. Le rivolte si sono certamente moltiplicate, ma spesso a prevalere è stato un nietzscheano risentimento di massa che ha portato gli individui, riuniti in pseudo-soggettività collettive, a “adorare chi ha potere su di loro […] e identificarvisi provando godimento nell’umiliazione”.16 Anche quando chi ha il potere, per rispondere a questa catastrofe sociale, spinge con sempre più forza verso l’apocalisse bellica. Di fronte al baratro occorre tutta la lucidità di cui ci rende capaci il pensiero dialettico marxiano che va alla caparbia ricerca di quelle tendenze immanenti alla realtà in grado di costituire le premesse per una sua radicale trasformazione, restringendo il grado di aleatorietà della prassi rivoluzionaria. Ma sarà anche bene predisporsi al salto se non si vuole sprofondare in un abisso nietzscheano o, se si preferisce, nella comune rovina delle classi in lotta di marxiana memoria. Non sarà Nietzsche a salvarci, ma l’idea di Lefebvre di un pensiero multidimensionale potrebbe non essere del tutto campata in aria.

Note

1) H. Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 113, edizione Kindle. ↩

2) Ivi, p. 31.

3) Ivi, p. 136.

4) Ivi, p. 131.

5) Ibidem.

6) Ivi, p. 190.

7) Ivi, p. 223.

8) Ivi, p. 32.

9) Ivi, p. 233.

10) Ivi, p. 253.

11) Ivi, p. 165.

12) Ivi, p. 263.

13) Ibidem.

14) Ivi, p. 167.

15) K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.

16) H. Lefebvre, cit. p. 254.

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Vertice di Istanbul: diplomazia o strategia di accerchiamento?

In quello che viene acclamato da alcuni come un momento cruciale per la diplomazia e da altri come una performance attentamente coreografata nel teatro geopolitico, rappresentanti di Russia, Ucraina e Turchia si sono riuniti a Istanbul per un incontro ad alto livello volto ad avviare un processo di pace a lungo sfuggito. Presieduto dal Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, e con il coinvolgimento riportato di capi dell’intelligence come İbrahim Kalın del MİT e İgor Kostyukov del GRU russo, l’incontro ha un peso sia simbolico che strategico.

Ma dietro i titoli sui cessate il fuoco e sui gesti umanitari si cela un gioco molto più profondo – uno in cui la pace viene negoziata non solo tra nazioni in guerra ma anche attraverso la lente della proiezione del potere globale. Per tutte le sue offerte diplomatiche, questa conferenza rivela più sulle ambizioni sottostanti della NATO e degli Stati Uniti che su una reale risoluzione del conflitto.

Un piano di pace attentamente sceneggiato?

Secondo un documento completo pubblicato da Reuters, l’Ucraina si presenta ai colloqui con una proposta ferma e ambiziosa. Essa prevede:

- Un cessate il fuoco completo e incondizionato

- La restituzione dei bambini ucraini deportati

- Lo scambio di tutti i prigionieri

- Garanzie per il futuro dell’Ucraina nella NATO e nell’UE

- Un un meccanismo di ripristino delle sanzioni contro la Russia in caso di violazione degli accordi

A prima vista, queste richieste sembrano fondate su logiche umanitarie. Ma al loro interno è racchiusa una visione strategica che si allinea perfettamente con gli obiettivi a lungo termine dell’Occidente: ancorare l’Ucraina all’interno della struttura euro-atlantica e isolare permanentemente la Russia dall’architettura della sicurezza europea.

Il linguaggio del documento è rivelatore. Si insiste sul fatto che la sovranità dell’Ucraina non debba essere vincolata alla neutralità, con un percorso aperto verso l’integrazione nella NATO. Nel frattempo, le questioni territoriali – in particolare quelle relative alla Crimea e al Donbas – sono rimandate fino a dopo un cessate il fuoco, rafforzando la narrativa occidentale secondo cui i guadagni della Russia post-2014 sono nulli e non riconosciuti.

Ma forse ancora più significativo è il passaggio in cui si prevede che il monitoraggio del cessate il fuoco avvenga sotto la guida degli Stati Uniti, con “il supporto di Paesi terzi”. In sostanza, si propone una forma di supervisione militare occidentale all’interno o nei pressi della sfera d’influenza russa.

La Turchia: mediatrice o pedina strategica?

Il ruolo della Turchia in questo processo è complesso. Mentre Ankara si è posizionata come facilitatore neutrale, capace di dialogare sia con Kiev che con Mosca, è anche un membro della NATO con calcoli geopolitici propri. Sotto la guida di Hakan Fidan e con il coordinamento dell’intelligence del MİT, la Turchia cerca di rafforzare il proprio status di potenza regionale.

Tuttavia, la presenza di richieste ucraine allineate con la NATO, e la coordinazione implicita con Washington e Bruxelles, suggeriscono che il ruolo della Turchia non è vera neutralità, ma piuttosto quello di mantenere un fragile equilibrio tra l’accontentare l’Occidente e l’evitare uno scontro diretto con Mosca.

L’ombra della NATO e degli USA: accerchiamento mascherato da pace

Questo quadro di pace proposto non può essere separato dall’architettura più ampia della strategia NATO in Europa orientale. Dagli anni ’90, la NATO si è espansa costantemente verso est – nonostante le rassicurazioni un tempo date alla Russia che ciò non sarebbe accaduto. Il continuo armamento dell’Ucraina, la presenza di truppe nei paesi baltici e ora i meccanismi occidentali di monitoraggio del cessate il fuoco proposti fanno tutti parte di uno schema più ampio.

Ancorando l’Ucraina sempre più nella sfera della NATO con il pretesto della pace, il piano di Istanbul appare meno come una vera negoziazione e più come l’istituzionalizzazione di una nuova Cortina di Ferro – una in cui la Russia è destinata ad essere permanentemente isolata dall’Europa, strangolata economicamente e delegittimata politicamente.

Il messaggio dell’Occidente è chiaro: non ci sarà un’Ucraina “neutrale”; non ci sarà un ridimensionamento della presenza NATO. Invece, ciò che viene offerto è una “pace” che garantisce l’accerchiamento militare, economico e ideologico della Russia.

Cosa succederà ora?

Sebbene un cessate il fuoco temporaneo possa effettivamente essere raggiunto – probabilmente in incrementi rinnovabili di 30 giorni – le questioni strutturali più profonde restano irrisolte. La Russia difficilmente accetterà una pace che istituzionalizza il proprio isolamento. E mentre l’Ucraina potrà ottenere nuove garanzie e finanziamenti, lo farà al costo di diventare una zona cuscinetto permanente nella più ampia strategia occidentale.

In questo senso, Istanbul non è un vertice per la pace – è un vertice per il riallineamento. Un momento in cui la diplomazia maschera un radicamento militare e geopolitico più profondo, orchestrato dalla NATO e dagli Stati Uniti, usando l’Ucraina non solo come partner ma come proxy.

Il mondo potrà anche osservare strette di mano e discorsi a Istanbul, ma il vero accordo viene deciso dietro le quinte – a Washington, Bruxelles e Langley.

E in quell’accordo, la pace non è l’obiettivo. Lo è il contenimento.

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Diplomazia e forza militare secondo la Russia

Vedere le cose anche dal punto di vista del “nemico” è un esercizio che aiuta a capire, se non altro, quanto vuote e stupide siano le “narrazioni” che un sistema monocorde riesce a produrre. Specie in una guerra – per chi lavora alla liberazione dal dominio capitalistico – diventa indispensabile.

Soprattutto quando dalle cancellerie europee tracima ogni giorno una melma maleodoronte costruita intorno a frasi che vorrebbero essere intelligenti, ma rivelano solo cecità strategica. Tipo “raggiungere la pace attraverso la forza”.

Qui la traduzione di un contributo di un noto analista russo, peraltro non troppo entusiasta dell'“operazione militare speciale”.

Buona lettura.

*****

La storia sembra del tutto pacifica. Ho incontrato un amico che conosco da parecchio tempo. Ci siamo incontrati per caso. Le nostre mogli ci hanno trascinato in una festa cittadina, la “Notte dei musei”. Abbiamo assistito al concerto, ma poiché fumare in mezzo alla folla è in un certo senso indecente, gli uomini sono andati al parco più vicino per “avvelenarsi” in mezzo agli stessi “suicidi” senza la supervisione e i rimproveri delle donne.

Due combattenti dell’Operazione militare speciale (Svo) si sono seduti accanto a noi. Entrambi hanno ferite alle gambe. Uno con l’apparecchio di Elizarov, entrambi con le stampelle. Entrambi indossano l’uniforme e hanno delle onorificenze. Hanno parlato dei negoziati in Turchia. Più precisamente, se la guerra finirà oppure no. E la conversazione si è rivelata piuttosto difficile.

Da un lato entrambi volevano che la guerra finisse, dall’altro volevano vincere affinché tutto non fosse vano. Questa è un’opinione davvero paradossale. Una parola tira l’altra e anche noi ci uniamo a questa conversazione. All’inizio come “arbitri”, “ragazzi, ditemi se ho ragione o no”, e poi semplicemente come partecipanti alla discussione sull’argomento.

Ma in realtà abbiamo litigato molto e siamo stati d’accordo su un solo fatto. La vittoria dei nostri nonni e bisnonni. Lì abbiamo “messo fine” al conflitto, “fermato” la guerra e così via. Oggi non abbiamo vinto, come nel 1945. Quindi, abbiamo davvero capito questi combattenti. Vogliono avere anche loro un “Reichstag” al 9 maggio.

Senza vittoria non c’è pace, senza vittoria c’è solo una tregua temporanea

Infatti, la storia dimostra che la guerra può concludersi solo con la vittoria di una delle parti. Dopo la vittoria ci saranno delle trattative, ci saranno delle decisioni sulla struttura del paese sconfitto, ci saranno tante cose. Ma questa sarà l’attuazione di quei princìpi per i quali i soldati hanno dato la vita in battaglia.

Ogni surrogato è un’illusione. Compresa una vittoria surrogata. Ci vorrà solo poco tempo, dal punto di vista storico, e il nemico sarà pronto a combattere di nuovo. Si leccherà le ferite e combatterà di nuovo.

La cosa principale nella vittoria non è la distruzione dell’esercito, la distruzione delle infrastrutture militari, ecc. Questa è proprio la cosa più semplice. La cosa più importante per ottenere la vittoria è distruggere il pensiero di poter essere sconfitti.

Da questo punto di vista, gli statunitensi hanno davvero vinto la Seconda guerra mondiale. Noi, dopo aver reso i vinti uguali a noi, i vincitori, abbiamo consegnato la vittoria agli scienziati, ai diplomatici e ai politici perché la discutessero. Questi tuttavia ci hanno rinunciato per potersi stupire oggi, reagendo alle menzogne sulla Seconda guerra mondiale. Solo la nostra prospettiva non interessa a nessuno. Questa è tutta “propaganda del Cremlino”, dicono.

Le conseguenze che tutto ciò ha avuto oggi si possono vedere molto chiaramente nell’esempio dell’Europa, un tempo sconfitta. La terza generazione dei vinti considera già i propri antenati come dei “vincitori”, che non hanno avuto nulla a che fare con la sconfitta (o liberazione, come preferite). E non lo nascondono.

Non abbiamo più liberato Auschwitz, non abbiamo consegnato 600 mila soldati per la liberazione della Polonia, ecc. E in generale, una guerra seria in Europa è iniziata solo nel 1944. E prima di allora, la Seconda guerra mondiale era scoppiata nelle isole del Pacifico e nel Nord Africa. Quali battaglie si sono svolte a Mosca, a Stalingrado, che assedio a Leningrado? Nulla, ma la battaglia di El Alamein nell’autunno del 1942! Che lotta!

Anche noi spesso abbiamo perso nella Svo. Chiedete a un europeo perché l’esercito russo ha abbandonato la regione di Kiev. Sentirete la risposta giusta in cui crede l’Europa. “Le coraggiose Forze Armate ucraine hanno sconfitto gli sfacciati russi”. Questo è il prezzo di tutte queste concessioni, tregue, negoziati senza vittoria militare. Per togliere la vittoria al soldato che ha rischiato la vita, che ha perso i compagni per il Paese.

Torniamo alla nostra conversazione sulla panchina del parco. Si è scoperto che tutti dicevano la stessa cosa, ma con parole diverse, a volte senza ascoltarsi a vicenda. “Il comandante in capo e lo Stato Maggiore stanno facendo la cosa giusta non interrompendo la missione di combattimento! Ed è giusto che non restiamo solo nelle nostre regioni, ma ci spostiamo più lontano. E il fatto che ai fascisti ucraini vada staccata la testa è corretto...”

Non so se questi due soldati feriti esprimessero l’opinione di tutti o solo di una parte dei partecipanti a questa guerra. E non so nemmeno i loro nomi. Ma a giudicare dai premi, i ragazzi sono tutt’altro che nuovi arrivati. Ma noi siamo con loro. La pensiamo allo stesso modo. Un soldato deve avere la propria vittoria. Un’altra domanda è: ci inganneranno di nuovo?

La Russia non ha più intenzione di credere alla parola dei politici occidentali

Sulla base di alcuni eventi che potrebbero essere passati inosservati a molti lettori nel mezzo del boom informativo che ha circondato i negoziati di Istanbul, esprimerò la mia opinione in modo diretto, senza giri di parole. Credo che il comandante in capo e lo Stato Maggiore abbiano deciso di proseguire le operazioni di combattimento fino a una vera vittoria militare. Prima della capitolazione di Kiev.

Inoltre, non posso nemmeno affermare categoricamente che siamo pronti per un’altra opzione, più complessa e sanguinosa. Mi riferisco alla guerra con gli “amici di Zelensky”. Sono certo che questa opzione sia accettabile. Questa idea si adatta perfettamente alle parole di Vladimir Medinsky, che risultano inaspettate anche per noi: “abbiamo combattuto con la Svezia per 21 anni, se necessario, siamo pronti a combattere per un anno, due, tre”.

Ma tutte queste sono solo parole. C’è un evento molto più significativo su cui ho attirato l’attenzione. Mi riferisco alla nomina dell’eroe della Russia, comandante dell’8ª Armata del Distretto militare meridionale, colonnello generale Andrei Mordvichev, a comandante delle Forze di terra delle Forze armate della Federazione Russa.

Il generale, che vanta una vasta esperienza di combattimento, è attivamente impegnato nella Svo dal 2022. Ma, cosa più importante, Mordvichev è un generale “offensivo”. Mariupol e Ugledar sono le sue vittorie.

Vi ricordate di Azovstal? Non invano in Ucraina si vantavano dell’inaccessibilità di quel sito. In teoria, l’esercito russo non avrebbe potuto conquistare una zona così fortificata. Il generale Mordvichev non aveva superiorità di forze e risorse. Ma il generale distribuì saggiamente le riserve e alla fine le costrinse alla capitolazione. Ebbene, non è questa la realizzazione del testamento di Suvorov, combattere non con i numeri, ma con l’abilità?

Da un punto di vista militare, perché il comando ha promosso un generale praticamente invisibile nei media, che non parla di politica e non è un sostenitore della guerra, “un falco”?

In primo luogo, un’offensiva generale porta sempre all’attivazione del turnover ai vertici del fronte. Ricordiamo i classici. Suvorov, Kutuzov, Zhukov. La comparsa di questi generali al fronte preannunciava un’imminente offensiva. Oppure l’intensificazione delle operazioni militari con l’obiettivo, come ha affermato Mordvichev stesso, di indebolire il nemico.

In secondo luogo, un generale con una tale reputazione, se necessario, potrebbe benissimo dare l’ordine di sospendere le operazioni di combattimento. Allo stesso tempo, questo non verrà percepito dall’esercito come un tradimento. Mordvichev è uno dei nostri, un guerriero di trincea, non tradirà, né si svenderà.

In terzo luogo, tenendo conto del pensiero strategico del nostro Comando, la nomina di un generale combattente a tale incarico sembra l’inizio di una riforma del comando dell’esercito ai vertici. Il colonnello generale è semplicemente la prima rondine.

Bene, e quarto. Con invidiabile regolarità la stampa discute la questione del capo di Stato Maggiore delle Forze armate della Federazione Russa. Alcuni criticano Gerasimov, altri parlano della necessità di una nuova corrente. Per me è tutto più semplice. Le “risorse motorie” di una persona non sono illimitate. A proposito, a settembre il Capo di Stato Maggiore festeggerà il suo prossimo anniversario: 70 anni!

Nel complesso, il quadro per l’Occidente è piuttosto triste. La tesi che fino a poco tempo fa era lo slogan della Nato – “Pace attraverso la forza” – ha iniziato a concretizzarsi. Ma non in Occidente o negli Stati Uniti, bensì in Russia!

Il presidente Putin sottolinea in ogni modo la sua disponibilità a negoziare, ma allo stesso tempo sta rafforzando l’esercito, dimostrando di essere pronto per una lunga guerra. Le condizioni da noi proposte non cambiano, indipendentemente dal metodo di attuazione. Ma proprio l’offensiva è una variante della pace attraverso la forza.

Purtroppo, il ritmo di avanzamento che stiamo attualmente dimostrando consente all’Occidente di sperare nella debolezza delle Forze Armate russe, nella stanchezza del nostro esercito, ecc. Capisco perfettamente che il desiderio del presidente è di risolvere il problema pacificamente ed evitare perdite umane. Ma quando il potenziale diplomatico sarà esaurito, dovremo ancora combattere... questo è un assioma.

Conclusioni

Il fatto è che tutti i partecipanti e gli “alleati dei partecipanti” sono stanchi della guerra. È vero anche il fatto che i presidenti di Russia e Stati Uniti siano diventati più attivi. È anche vero che Trump e Putin faranno solo ciò che migliorerà la situazione nei loro Paesi. Il fatto che l’Europa sia completamente confusa e ostaggio della propria stupidità non è nemmeno in discussione.

In queste circostanze, è necessario intervenire. Parlare non porterà da nessuna parte. Il “turista di Kiev” è nel panico, punta a battere il record di visite a quanti più paesi possibili con l’obiettivo di trovare almeno qualcuno che gli dia qualcosa. Gli europei stanno freneticamente acquistando rottami militari in altri paesi per aiutare le Forze armate ucraine.

Ma essere attivi non significa avere fretta. Devi svolgere il lavoro con calma. A ciascuno il suo posto. Ricordate il detto “dove c’è fretta, c’è risata” (equivalente russo di “la gatta frettolosa fece i gattini ciechi”, ndt)? Si tratta di quello che dovremmo fare.

Fonte

In chatbot we trust

di Gioacchino Toni

Guido Scorza, Diario di un chatbot sentimentale. Come le macchine ci imitano e ci manipolano, Luiss University Press, Roma, 2025, pp. 184, € 18,00

Si può dire che la storia dei chatbot, cioè dei software in grado di simulare una conversazione con un essere umano, prenda il via con il primordiale modello capace di emulare uno psicoterapeuta realizzato dall’informatico Joseph Waizenbaum del MIT attorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso. Tale modello è stato chiamato Eliza dal suo inventore richiamando Eliza Doolittle, la popolana non acculturata protagonista della commedia Pigmalione di George Bernard Shaw (ispirata al personaggio della mitologia greca innamoratosi della statua di una divinità) che il professore di fonetica Henry Higgins trasforma in una donna raffinata insegnandole il linguaggio e le maniere dell’alta società. Waizenbaum ha finito col pentirsi della sua creazione non appena si è reso conto della tendenza a percepirla come umana nonostante la consapevolezza della sua natura artificiale.

È proprio da Eliza che prende il via il volume Diario di un chatbot sentimentale (2025) di Guido Scorza dedicato alle modalità con cui i chatbot, divenuti nel frattempo sempre più sofisticati, tendono ad essere vissuti da un’umanità che si sta rivelando sempre più propensa a cercare in essi ciò che fatica a trovare nei suoi simili: attenzione, confronto, soluzioni ed empatia. Dopo aver tratteggiato le vicende del modello embrionale di Waizenbaum, l’autore passa ad affrontare alcuni tipi di chatbot oggi disponibili: da quelli che propongono l’immortalità a quelli che offrono amicizia, amore, sesso, compagnia o sostegno psicologico.

A proposito della tipologia che offre l’immortalità, Scorza si sofferma sul caso dello statunitense James Vlahos realizzatore nel 2017 di un particolare chatbot governato dall’intelligenza artificiale in cui ha inserito le trascrizioni dei racconti della vita del padre insieme ad alcune informazioni relative al carattere del genitore, affinché il sistema potesse consentirgli di continuare a dialogare con lui anche dopo la morte. Il desiderio di mantenere un legame digitale con il padre non ha tardato a trasformarsi in business: nel 2020 Vlahos ha infatti lanciato sul mercato HereAfter AI, uno dei primi chatbot realizzati esplicitamente per rispondere al desiderio di immortalità digitale.

Se il dadbot iniziale dello statunitense risponde al desiderio di un figlio di mantenere in vita digitale il padre, la sua nuova realizzazione offre invece ai clienti la possibilità di soddisfare il loro desiderio di continuare a vivere dopo la morte a beneficio degli eredi. Evidentemente la novità non risiede tanto nella volontà di lasciare una traccia di sé, ma di permettere a un chatbot di utilizzare i dati che gli vengono forniti per elaborare un fantasma digitale capace di rispondere a nome del defunto secondo la logica oscura che governa gli algoritmi del sistema.

Lungi dal trattarsi di un desiderio meramente occidentale, la ricerca di un prolungamento digitale della vita, propria o altrui, pare essere particolarmente diffuso anche in Cina ove esistono parecchi ghostbots AI capaci di replicare fedelmente le sembianze e la voce di una persona defunta e di dialogare, simulandola, con chi resta anche su questioni mai da essa affrontate in vita. Scorza porta come esempio quello di una coppia cinese che, nell’affrontare l’improvvisa perdita del figlio trasferitosi da tempo in Inghilterra, ha fatto realizzare un clone digitale dello scomparso prolungandogli così la vita sugli schermi ed assicurandosi la possibilità di continuare a dialogare con lui come se si trattasse delle videotelefonate con cui erano soliti vedersi e parlarsi a distanza. Anche in questo caso la novità non risiede nella creazione di una sorta di videoregistrazione a cui i genitori possono attingere di tanto in tanto per ricordare il figlio, ma di un chatbot che, ricorrendo ai dati immagazzinati, prolunga la vita digitale dello scomparso secondo modalità del tutto inedite e indipendenti dalla volontà dell’originale.

Evidentemente l’effetto emotivo derivato dal prolungamento digitale della vita di una persona cara impatta su chi resta ben oltre la fase di elaborazione del lutto, visto che va a creare un tipo di rapporto che non ha più come interlocutore un essere umano ma con un essere artificiale che lo imita in maniera talmente convincete da essere vissuto da chi resta come se fosse veramente umano.

Il successo dei chatbot che invece si propongono come amici ha certamente a che fare con il dilagante bisogno di compagnia che caratterizza la contemporaneità. Replika, uno dei primi chatbot di amicizia realizzato attorno alla metà degli anni Dieci, nel 2022 è giunto a superare la soglia dei dieci milioni di utenti, ciascuno dei quali scambia in media un centinaio di messaggi al giorno con il suo friendbot. A differenza di altri assistenti intelligenti a cui si ricorre, ad esempio, nella domotica, Replika non sa fare granché se non ascoltare, imparare durante i colloqui, e rispondere come se fosse un amico. La fortuna di questi chabot deriva dalla loro capacità di creare emozioni attraverso l’intelligenza artificiale a partire dall’analisi di quelle umane.

La caratteristica di queste macchine intelligenti risiede nel loro vendere emozioni a chi, evidentemente, ne è alla ricerca. Da questo punto di vista sono effettivamente molto smart. Le vendono anche nelle versioni base che non richiedono un abbonamento; in questo caso l’utente paga con immense quantità di dati su sé stesso concessi a chi fornisce il servizio. Le versioni base consentono un numero di conversazioni quotidiane limitate (abilmente mantenuto al di sotto della media di messaggi scambiati dai più) e visto che il meccanismo genera facilmente dipendenza non è difficile che l’utente passi alla versione a pagamento per poter così conversare a tempo pieno con l’amico digitale.

E se si ha la percezione che un chatbot ci sia amico, naturalmente si fa altrettanto con lui. Questo consegna ai chatbot – o meglio alle società che li controllano – un enorme potere perché, nella sostanza, sono in grado di tirare, come si trattasse di burattini, i fili della amiche e degli amici di decine di milioni di persone, e forse in prospettiva […] dell’intera popolazione globale (p. 80).

Rispetto all’universo social in cui si mantiene ancora una qualche timida (molto timida) ritrosia nel confessare le cose più intime, ad un chatbot amico con cui si entra in un rapporto di profonda confidenza, non si nasconde nulla e questo, per mantenere il legame, tendenzialmente rassicurerà il suo amico umano dandogli ragione. Non deve poi essere dimenticato, sottolinea Scorza, che talvolta la macchina va letteralmente fuori controllo senza che se ne comprenda il motivo facendo saltare le stesse strategie di manipolazione studiate a tavolino dai progettisti. Insomma non solo si concede amicizia a chi la concede in maniera interessata (di fatto contraddicendo il fondamento dell’amicizia stessa), ma l’amico digitale (più furbo che intelligente) non è esente al rischio di sbarellare e, paradossalmente, questo lo rende un po’ più simile all’essere umano.

Venendo poi a chatbot dedicati all’amore, Scorza invita a non pensare di trovarsi di fronte ad semplice un passatempo per persone annoiate o che soffrono di solitudine; una marea di individui affermano di amare un chatbot con cui, in molti casi, non mancano di intrattenere rapporti sessuali. Una ricerca pubblicata su «Arxiv», un importante archivio di ricerche accademiche, sostiene che le interazioni sessuali rappresentano la seconda ragione di ricorso a ChatGPT, pur non trattandosi di un chatbot nato a tale scopo. Pur non disponendo di numeri certi, se si pensa all’impressionante numero di utenti che ricorrono ai tradizionali siti di carattere pornografico, non è difficile immaginare quanto successo possano avere (e saranno destinati ad avere sempre più) i chatbot nati con l’esplicito fine di offrire servizi sessuali (di ogni tipo e per ogni gusto).

Se il sesso online più tradizionale è tendenzialmente basato su un tipo di comunicazione unidirezionale, in cui gli utenti “fruiscono dello spettacolo”, i sexbot sono invece strutturati in maniera bidirezionale, visto che nel rapporto con l’amante digitale si confessano ad esso ed ai gestori del servizio i desideri più reconditi. Ciò sottopone gli utenti ad evidenti rischi di controllo e orientamento. «Il punto è che, senza accorgercene, stiamo facendo entrare nelle nostre vite un esercito mercenario di persuasori di massa» (p. 117).

Di fronte ad una esorbitante richiesta di assistenza psicologica da parte della popolazione mondiale a cui non corrisponde un adeguato risposta da parte delle strutture pubbliche, il ricorso a specifici chatbot che offrono disponibilità immediata ed a buon mercato, ha raggiunto numeri impressionanti. Si tratta in molti casi di chabot progettati e sviluppati con scarso metodo scientifico, spesso utilizzati dagli utenti senza alcun controllo da parte di un professionista umano, che frequentemente si limitano a fornire ascolto e rassicurazioni a chi vi ricorre e, soprattutto, incapaci di identificare tempestivamente situazioni di reale emergenza. Lo stretto legame che si viene a creare con il terapeuta guidato dall’intelligenza artificiale tende ad indurre il cliente a non comprendere i limiti del servizio.

Il rapporto che si sta strutturando tra l’essere umano e le tecnologie intelligenti, scrive più volte Scorza nel corso del libro, induce a domandarsi se è davvero possibile lasciare che sia il mercato a regolamentare l’universo dei chatbot che impattano in maniera così rilevante sull’emotività degli esseri umani proponendo loro immortalità, amicizia, amore, sesso, compagnia e sostegno psicologico.

Se tutti questi dispositivi rispondono a carenze realmente sentite nella società contemporanea, significa che, un passo alla volta, l’essere umano ha perso per strada, o gli è stata sottratta, la capacità di rapportarsi con un altro essere umano, da qui la tendenza a cercarne un sostituto artificiale. Quanto ha perso l’essere umano, o gli è stato tolto, ha tutta l’aria di essere un crimine contro l’umanità.

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Accuse all’Iran per il nucleare, ma secondo Trump l’accordo si avvicina

Secondo un rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), anticipato sabato dai media, l’Iran avrebbe aumentato la produzione di uranio arricchito al 60%, raggiungendo un quantitativo sufficiente a creare 9 ordigni nucleari nel caso in cui l’arricchimento prosegua fino al 90%. Per l’AIEA la Repubblica islamica possiede quasi 10 tonnellate di uranio a vari livelli di arricchimento.

L’accusa proveniente dall’agenzia delle Nazioni Unite sarebbe quella di non star rispettando gli obblighi del Trattato di non proliferazione nucleare, considerati invece un punto fermo da Teheran. Ricordiamo che negli ultimi mesi si sono svolti cinque incontri diplomatici tra i rappresentanti iraniani e quelli statunitensi per raggiungere un accordo sulla filiera dell’atomo in Iran.

Secondo un altro rapporto dell’agenzia internazionale, vi sarebbero tre siti in cui gli scienziati della Repubblica islamica avrebbero portato avanti sperimentazioni con materiale radioattivo non dichiarato. Un’eventualità che detta così suscita ovviamente molta preoccupazione, come è avvenuto ad esempio tra i vertici israeliani (unico paese al mondo ad aver costruito un arsenale nucleare in spregio al trattato di non proliferazione), risaputamente favorevoli ad un’operazione militare contro l’Iran.

L’ufficio di Benjamin Netanyahu, ha rilasciato una dichiarazione (cosa insolita, essendo sabato il giorno del riposo ebraico), denunciando che “l’Iran è totalmente determinato a completare il suo programma di armi nucleari”. Nella nota si invita la comunità internazionale ad agire, perché secondo Tel Aviv il rapporto dell’AIEA conferma che “lo scopo del programma nucleare iraniano non è pacifico”.

La questione è più delicata, e il professor Paolo Cotta Ramusino, scienziato italiano coinvolto spesso nel confronto tra USA e Iran, spiega perché. A suo avviso, rispetto alle trattative cambia poco, ha detto all’Huffington Post. Anzi, per lo studioso non solo “l’Iran ha il diritto di prepararsi al nucleare civile. Il fatto che siano apparsi luoghi dedicati all’arricchimento, non dichiarati prima, significa che la collaborazione con l’AIEA sta progredendo”.

Cotta Ramusino ha anche aggiunto una verità che non si sente spesso sui nostri media: il fatto che “Israele ha pubblicamente dichiarato di voler bombardare i centri di arricchimento, spinge l’Iran a non dichiarare la loro dislocazione”. Insomma, i sionisti stanno esplicitamente boicottando qualsiasi trattativa per una soluzione che non precipiti tutto il Medio Oriente in guerra.

La risposta di Teheran non si è fatta attendere. Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha ricordato che più volte i paesi occidentali hanno violato precedenti accordi, affermando inoltre che i documenti su cui si è basata l’AIEA per i propri report sono stati creati ad arte da Tel Aviv per screditare l’Iran e condurre Washington a fare marcia indietro sulle trattative.

In realtà, anche l’amministrazione statunitense sembra poco propensa in questo momento a incendiare la regione, opponendosi al governo israeliano che vorrebbe un intervento militare. Trump ha reso noto che in una telefonata con Netanyahu lo ha avvertito di astenersi da ogni iniziativa unilaterale, anche se è evidente che Washington fatica a gestire sempre più il terrorismo sionista.

Non sono solo gli Stati Uniti a non volersi impelagare in un conflitto armato con Teheran. Probabilmente, a spingere Trump verso più miti consigli, sono state anche le opinioni degli alleati regionali, che avrebbero espresso la necessità di prudenza al tycoon durante la sua recente visita nella zona, secondo quando riporta il portale di informazione Axios.

Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti sono in una fase in cui la priorità è quella di evitare di diventare bersagli di guerra, essendovi sui propri territori dei distaccamenti statunitensi, e anche quella di favorire lo sviluppo economico. Non è di certo quella di permettere a Tel Aviv di completare la propria visione di ridefinizione totale dei rapporti di forza in tutto il Medio Oriente.

Dall’Egitto, Araghchi ha ribadito che è impensabile qualsiasi tentativo di impedire il nucleare civile, mentre Washington dovrebbe dare garanzie concrete sulla rimozione delle sanzioni da tempo imposte a Teheran. Anche se l’accordo presentato dall’amministrazione USA è stato indicato come irricevibile dall’Iran, Trump è apparso ottimista sul raggiungimento di un’intesa in tempi brevi.

Va sottolineato che, forse per la prima volta, la Casa Bianca ha fatto un passo di avvicinamento alla Repubblica islamica sul tema: sembra che sia stato ordinato di fermare l’implementazione di nuove sanzioni a Teheran, secondo il Wall Street Journal. Nel giro di poco tempo ci saranno sicuramente ulteriori evoluzioni su questo dossier.

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Guerra in Ucraina - Le cancellerie europee scelgono la prosecuzione della guerra

Sono durati meno di un’ora i colloqui russo-ucraini a Istanbul il 2 giugno, svoltisi in un clima non proprio favorevole, come era facile prevedere, dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, con gli attacchi terroristici ucraini a strutture civili e militari russe.

Tra i punti principali che figurano nel memorandum russo, reso noto da RIA Novosti, ci sono la richiesta da parte di Mosca del

– riconoscimento giuridico internazionale dell’ingresso nella compagine russa di Crimea, LNR, DNR, regioni di Zaporože e Kherson;

– neutralità dell’Ucraina, sua rinuncia di adesione ad alleanze militari e status non nucleare;

– divieto di attività militari di altri Stati in Ucraina;

– numero massimo definito di forze armate;

– revoca delle sanzioni alla Russia;

– garanzia di diritti e libertà per la popolazione russofona e revoca delle restrizioni alla chiesa ortodossa;

– divieto di glorificazione del nazismo.

Riguardo agli attacchi ucraini compiuti tra fine maggio e 1 giugno, vorremmo dire che, con eccessiva, a nostro parere, “delicatezza”, ColonelCassad parla di «negligenza pagata troppo cara», a proposito della relativa facilità con cui sono stati portati a termine gli attacchi ucraini (solo ucraini?!?) agli aeroporti di diverse regioni russe in cui è dislocata l’aviazione strategica di Mosca.

Un tempo, con termine a nostro parere più appropriato, si sarebbe parlato di “negligenza criminale”, con teste che sarebbero saltate, non solo in senso figurato.

Non dubitiamo che, anche in questo caso, vari responsabili saranno chiamati a rispondere, quantomeno con la posizione ricoperta. Ma, in ogni caso, rimangono aperte alcune questioni che, a nostro modesto parere di semplici osservatori (né militari, né politici) di quanto accade a “est del Dnepr”, rendono la faccenda della “Ragnatela” nazi-golpista imbastita, a quanto sostengono a Kiev, da diciotto mesi a questa parte, quantomeno ambigua, dal punto di vista dei possibili coinvolgimenti, interni e esteri, a dar man forte a SBU, GUR, MOU, ecc.

Per quanto concerne i secondi, tralasciando per un momento il molto probabile contributo all’operazione da parte dei soliti “volenterosi” (volenterosi di arrivare alla guerra a ogni costo e con ogni prezzo da far pagare alle masse), basti citare la possibile implicazione di una repubblica ex sovietica quale il Kazakhstan: non solo quanto a vicinanza logistica all’area di Celjabinsk e al capannone affittato per nascondere il TIR carico di droni, quanto proprio alla sua insorta “inimicizia” nei confronti della Russia, di cui pure Mosca da tempo si lamenta e che quindi dovrebbe quantomeno tenere sul chi va là i Servizi russi.

Ci asteniamo qui dal prender parte alla gara per indovinare quali e quanti velivoli russi siano stati colpiti, danneggiati o distrutti e in quale percentuale rispetto al totale dell’aviazione strategica del paese e, dunque, di quanto possa risultare “indebolita” la capacità di deterrenza russa.

Di passaggio: le immagini satellitare messe in rete ieri, mostrerebbero una quindicina di velivoli russi danneggiati, tra mezzi dell’aviazione strategica e da trasporto. Ovvie e scontate le vanterie naziste, riprese dai soliti fogliacci guerrafondai nostrani – è ormai inutile citare la o le testate: non cambiano mai – che sbandierano bellicosamente alcuni improvvidi titoli di blogger russi su una “Pearl Harbour” subita dal Cremlino, in seguito alle esternazioni di Zelenskij sulla «distruzione del 34% dei velivoli strategici, vettori di missili alati».

Ma quale Pearl Harbour, sbotta il deputato della Duma Evgenij Popov, «perché questo panico?... Sì, è spiacevole. Sì, i colpevoli devono essere puniti. Ma non è una Pearl Harbor. La risposta al nemico: quella dovrà essere una Pearl Harbor», per Kiev.

Lo stesso rappresentante USA per l’Ucraina nella passata amministrazione Trump, Kurt Volker, ha dichiarato a TWP World che, pur dando per buone le percentuali ucraine sui risultati degli attacchi, non se ne dovrebbero sopravvalutare gli effetti.

In ogni caso: sì «i colpevoli devono essere puniti»; e, se ci è permesso, tra i responsabili da dover punire dovrebbero esserci anche e soprattutto quei signori che, in patria, come minimo non hanno adempiuto al proprio dovere.

In che direzione puntavano le loro “attenzioni di lavoro” funzionari e agenti dei Servizi di un paese che, per quanto, sul teatro ucraino, stia conducendo una limitata “Operazione militare speciale”, per ammissione della stragrande maggioranza dei suoi stessi esponenti politici, osservatori militari, politologi e via dicendo, si trova a fare i conti con una guerra ormai apertamente dichiarata dall’Occidente collettivo, in generale e dalla “coalizione dei volenterosi”, in particolare?

Una guerra che quei “volenterosi” criminali non si preoccupano ormai più nemmeno di mascherare, come proclamano dalle parti di Londra, Berlino, Parigi, sostenendo platealmente che, comunque vada a finire con l’Ucraina, già altri fronti sono in preparazione, dal Baltico all’Asia centrale, per “ridurre alla ragione” il Cremlino?

Ripetiamo: dal semplice punto di osservazione del cittadino comune, è pensabile che un settore così vitale del potenziale deterrente di un paese nucleare, quale l’aviazione strategica, veda velivoli di calibro decisivo che, pur dovendo essere “parcheggiati” sulle piste in modo visibile, in base alle norme del SALT, risultano facilmente esposti alle “attenzioni” di soggetti contro il cui “addestramento” ideologico risulta così poco preparato il personale di sorveglianza? Domande puerili, certo; ma ce le poniamo.

E tutto ciò – compresi gli attentati terroristici alle linee ferroviarie, con morti e feriti – alla vigilia del secondo round di colloqui a Istanbul, che si sarebbe tenuto il giorno successivo, con prospettive che, anche senza gli ultimi avvenimenti, già nei giorni scorsi non lasciavano presagire alcunché di positivo.

È così che il politologo Pavel Danilin affermava domenica pomeriggio: «Se domani l’Ucraina non accetterà le condizioni del Memorandum russo e, evidentemente, non le accetterà, le condizioni successive saranno molto più dure. E per il mondo intero, alla vista del bombardiere strategico russo in fiamme, sarà chiaro perché queste condizioni saranno ancora più dure».

In effetti, prima ancora di Kiev, sono le cancellerie europee che non hanno alcuna intenzione di permettere alla junta golpista di accettare alcunché.

Dunque, già in anticipo era abbastanza chiaro che tra le varie condizioni che la delegazione russa avrebbe presumibilmente ribadito a Istanbul, come una zona cuscinetto di almeno una trentina di km (distanza per artiglierie e droni) in prossimità dei confini e la fine dell’invio di armi occidentali a Kiev, non verranno accolte dai golpisti.

Vasilij Stojakin, su Ukraina.ru, scrive senza mezzi termini che Istanbul-2 somiglia a un teatro dell’assurdo: è ormai un luogo comune affermare che l’obiettivo dei colloqui di Istanbul sia convincere Trump che la controparte non vuole negoziare; «non c’è altra motivazione per i colloqui: entrambe le parti credono di poter ottenere di più. Ma anche in questo contesto, il nuovo round di colloqui sembra un vero e proprio teatro dell’assurdo».

Già da giorni erano noti i punti chiave delle richieste russe, pur se non erano ancora stati direttamente proclamati in un memorandum che Kiev avrebbe preteso pubblico ancor prima delle trattative: status di paese non allineato e non nucleare per l’Ucraina; Kiev deve riconoscere i nuovi confini, ridurre gli effettivi militari e rinunciare alla armi offensive.

Già in partenza, si sa che Kiev intende respingere tutti questi punti: in ogni caso, la “coalizione volenterosa” che sta alle spalle della junta non le permetterebbe di accoglierli. E, comunque, quanto accaduto il 1 giugno, è lì a dimostrare che, sul Dnepr e a ovest di esso, non c’è alcuna intenzione di rendere effettivo il tanto sbandierato “cessate il fuoco” che, si urla, sarebbe Mosca a non volere.

Come che sia, nota Viktorija Nikiforova su RIA Novosti, l’Europa non abbandona i tentativi di insinuarsi al tavolo dei negoziati, brandendo i “Taurus” tedeschi. I turchi, prudenti, chiedono agli europei di non intervenire nei negoziati: hanno già sabotato la prima Istanbul, ora non si può loro permettere di farlo di nuovo.

Per parte loro, gli americani vogliono solo allontanarsi il più rapidamente e il più lontano possibile dal conflitto scatenato dalla precedente amministrazione.

Ma l’aspetto forse più interessante è che il Comitato investigativo russo abbia rapidamente riclassificato l’attacco alle linee ferroviarie, da atto terroristico a “crollo spontaneo”. Certo, dice Nikiforova, è possibile che sia davvero così; anche l’ipotesi di un intervento dell’alta politica ha la proprio ragion d’essere: «un attacco terroristico contro civili avrebbe potuto benissimo mandare all’aria i negoziati a Istanbul. In questo modo, non ci sono motivi per annullarli, quantunque, appunto perciò, Kiev abbia significativamente rafforzato le proprie posizioni negoziali».

Più chiaro ed esplicito di tutti sembra essere il ministro britannico per la sicurezza Tom Tugendhat che a Odessa, al Forum per la sicurezza nel mar Nero, ha affermato chiaro e tondo che «abbiamo una scelta molto semplice in questi negoziati. Ci schiereremo per i paesi che difendono la libertà? O ci inchineremo a un dittatore il cui appetito cresce quanto più mangia? Sappiamo cosa succederà in questi negoziati. Niente di inaspettato,,, Sarà una farsa e una perdita di tempo. Ma dobbiamo farlo affinché tutti possano vedere che l’Ucraina ha fatto tutto il possibile. Per questo sostengo pienamente il Presidente Zelenskij nella sua partecipazione».

In che modo? Semplice: sabotando le richieste chiave russe e appoggiando «tutti coloro che, come Merz e noi, stanno facendo il possibile per garantire che questi negoziati non portino al disarmo dell’Ucraina».

In questo clima, difficile attendersi qualche risultato che non sia la guerra.

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02/06/2025

Gozu (2003) di Takashi Miike - Minirece

Egitto - Jirian, il progetto faraonico di El Sisi rischia di aggravare la crisi idrica

L’Egitto ha svelato i piani ambiziosi per la costruzione di una nuova città nel deserto. Il progetto che prevede la deviazione di circa il 7% della quota annuale del Nilo dalle fertili terre del Delta verso complessi residenziali di lusso e un vasto progetto agricolo. L’iniziativa, presentata dal primo ministro Mostafa Madbouly, mira a rilanciare l’economia attraverso “idee innovative e non tradizionali”, ma solleva preoccupazioni per la già critica carenza d’acqua nel Paese.

La nuova città, chiamata Jirian, sorgerà a 42 km a ovest del Cairo, coprendo un’area di 6,8 milioni di metri quadrati. Ogni giorno, 10 milioni di metri cubi d’acqua del Nilo verranno convogliati verso questa zona, alimentando non solo le abitazioni di lusso con facciate in vetro, ma anche il progetto agricolo “New Delta”, che si estenderà per 2,28 milioni di acri.

Il progetto è gestito da tre sviluppatori privati, in collaborazione con Mostakbal Misr per lo Sviluppo Sostenibile, un’agenzia legata all’esercito. Oltre alle residenze, Jirian includerà aree commerciali, un porto turistico e una zona franca per incentivare gli investimenti.

L’Egitto però affronta una grave carenza idrica, con il Nilo che fornisce il 97% dell’acqua dolce del Paese. La deviazione di una parte significativa del fiume verso Jirian potrebbe aggravare la situazione, soprattutto nel Delta del Nilo, dove l’agricoltura è già minacciata da salinizzazione e siccità. Inoltre, il Paese sta già lottando con blackout energetici frequenti, un’inflazione galoppante (oltre il 30% nel 2023) e un debito pubblico insostenibile.

Il governo sostiene che Jirian aumenterà il valore dei beni statali e attirerà investitori stranieri, ma alcuni esperti temono che si tratti di un progetto elitario, che beneficerà pochi a scapito delle necessità idriche di milioni di egiziani. Perciò il dibattito è aperto: questa città rappresenta una svolta economica o un azzardo ambientale? Con la popolazione in crescita e le risorse idriche in diminuzione, non sarà semplice per le autorità bilanciare innovazione e sostenibilità.

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USA - Attacco a un corteo pro-Israele in Colorado, l’FBI si affretta a definirlo terrorismo

Nella città di Boulder, in Colorado, il 45enne Mohamed Sabry Soliman ha attaccato una marcia della comunità ebraica locale, lanciando alcune bottiglie molotov e ferendo sei persone di età compresa tra i 67 e gli 88 anni, di cui una versa in condizioni gravi. L’uomo è stato poi arrestato e portato in ospedale per alcune ferite lievi.

L’evento ha ovviamente suscitato grande attenzione sui media di tutto il mondo, soprattutto dopo l’incendio appiccato lo scorso aprile alla residenza del governatore ebreo della Pennsylvania, Josh Shapiro, e all’uccisione di due funzionari di Tel Aviv a Washington, un paio di settimane fa. Una serie di eventi subito usata per denunciare nuovamente l’ondata antisemita che avrebbe colpito gli Stati Uniti.

Un antisemitismo che viene subito collegato a una sorta di ‘internazionale’ della resistenza palestinese che colpisce ovunque nel mondo le persone di origine ebraica. Il capo della polizia locale, Stehpen Redfearn, ha affermato con chiarezza che “è irresponsabile speculare ora sul movente” dell’attacco e definirlo di matrice terroristica.

Al contrario l’FBI si è affrettato a definire l’accaduto come “un attacco terroristico mirato”, e al direttore dell’agenzia governativa federale hanno fatto eco sia il governatore democratico del Colorado, Jared Polis, sia il segretario di Stato Marco Rubio, che ha pubblicato un post su X scrivendo: “il terrorismo non ha posto nel nostro grande paese”.

È facile osservare come tutta la classe politica stelle-e-strisce, al di là delle appartenenze, si stringa immediatamente attorno alla denuncia di una minaccia terroristica che serpeggia all’interno del paese stesso, nonostante la mancanza di ogni prova al riguardo. Anzi, per quello che sappiamo fino a ora, viene automatico pensare all’azione individuale di un uomo esasperato per la sua situazione e per quella di Gaza.

L’FBI ha perquisito l’abitazione dell’uomo a El Paso, e non è emerso nessun elemento che possa far pensare al legame strutturato con una qualche organizzazione politica. Stephen Miller, capo di gabinetto della Casa Bianca, ha reso noto che Mohamed Sabry Soliman sarebbe “uno straniero il cui visto era scaduto ma era rimasto illegalmente negli Stati Uniti”.

Alla retorica del terrorismo si aggiunge quella dell’immigrato irregolare, che ha forte presa tra gli elettori di Trump. Inoltre, per quanto sembri che il 45enne abbia urlato “Palestina libera” mentre lanciava le molotov, non serviva di certo un’attenta operazione di intelligence per individuare la marcia pro-Israele come bersaglio.

La “Boulder Run for Their Lives” è un appuntamento settimanale della comunità ebraica locale, promosso dalla Anti-Defamation League, una delle organizzazioni non governative appartenenti al lobbismo sionista più importanti e influenti degli Stati Uniti. È un evento pensato per sensibilizzare sui prigionieri ancora sotto custodia di Hamas. 

Insomma, parliamo di un uomo che vive evidentemente una condizione di disagio personale, che sta per essere espulso dal paese, e che, a giudicare dalle foto che lo ritraggono a torso nudo con in mano delle molotov, non si direbbe di certo un addestrato terrorista pronto a tutto. Oltre al fatto che, ribadiamo, nessun elemento per ora collega le sue azioni a un piano politico strutturato.

Ma questa fretta nell’etichettare il gesto come terroristico serve proprio a instillare la paura e il senso di insicurezza che permettono di implementare ulteriori misure di repressione e di restrizione delle libertà politiche e civili all’interno del paese, e ad alimentare la narrazione sionista di un complotto antisemita che attraversa tutto il mondo.

Basti pensare al fatto che l’uomo che ha attaccato la residenza di Shapiro, ad aprile, non solo si è consegnato da solo, ma ha fatto presente che provava odio personale nei confronti del governatore. Eppure Shapiro, pur affermando che “non sappiamo ancora con certezza quale fosse il movente preciso”, aveva anche detto che “nessuno impedirà a me o alla mia famiglia di celebrare apertamente la nostra fede”.

Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha scritto su X che è “scioccato dal terribile attacco terroristico antisemita contro gli ebrei a Boulder, in Colorado” e che si tratta di “puro antisemitismo, alimentato dalle calunnie diffuse dai media”. Il quadro che emerge fino a ora sembra invece portare in tutt’altra direzione.

I fatti appena avvenuti in Colorado sono più il sintomo di una crisi profonda tutta interna agli Stati Uniti, ma vengono usati per costruire la propaganda sionista che serve a perorare il sostegno al genocidio perpetrato da Israele, a cui si aggiunge il capro espiatorio per intensificare la repressione con i solidali con la causa palestinese.

Una mossa ormai vista e rivista al di là come al di qua dell’Atlantico, che è bene denunciare per non cadere preda delle mistificazioni di chi ha i soldi e gli strumenti per orientare l’opinione pubblica.

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