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25/03/2025

Chips Act 2.0, questa volta è davvero una farsa?

Mercoledì scorso i principali produttori di chips e operatori della filiera dei semiconduttori hanno invocato un secondo Chips Act, che faccia seguito a quello lanciato dalla Commissione Europea nel 2023. Questa volta l’attenzione vuole essere spostata anche verso le attività di progettazione e su quelle legate ai materiali di base e alla strumentazione per la lavorazione, oltre che sulla produzione.

Il primo programma prevedeva un investimento totale pari a 43 miliardi di euro, pubblici e privati, con l’obiettivo di far raggiungere alla UE il 20% della quota di mercato globale dei semiconduttori. Dopo nemmeno due anni nel Vecchio Continente hanno dovuto ammettere che quel piano è già fallito, indicando in farraginosità burocratiche il principale problema.

Tema sicuramente vero, ma che nasconde il fatto di come la UE sia molto indietro innanzitutto nella ricerca sulla nuova frontiera di questo tipo di tecnologie. Basta dare uno sguardo alle ultime notizie che vengono dai due – unici e veri – competitors del settore, ovvero gli Stati Uniti e la Cina.

Quest’ultima ha sperimentato il primo chip in carbonio, molto promettente per consumi e prestazioni, mentre a fine febbraio Amazon e Microsoft hanno lanciato i propri chip quantistici, rispettivamente Ocelot e Majorana. Se su quest’ultimo sono sorti dubbi da parte della comunità scientifica, rimane il fatto che la UE risulta assente dai giochi.

Le associazioni dei produttori di chip ESIA e quella che rappresenta in generale l’intera filiera – SEMI Europe – hanno detto che rivolgono le loro richieste direttamente a Henna Virkkunen, Commissaria europea per le tecnologie digitali. Le due organizzazioni sottolineano come sia necessario non solo la costruzione di stabilimenti, ma un intervento coordinato su più fronti.

Gli operatori della UE hanno importanti attori nella produzione di strumenti per la fabbricazione dei chip (ASML, ASM International e Carl Zeiss SMT), ma solo la statunitense Intel produce in Europa, ad oggi, chip per tecnologie avanzate. Le promesse strappate sulla base del primo Chip Act – alle compagnie stelle-e-strisce Intel e Wolfspeed – sono state infatti rimandate.

Allora, la questione non è più semplicemente quella di attirare produttori altrui, ma quella di creare una catena del valore completamente targata UE, per raggiungere una più piena “sovranità tecnologica”. Non a caso, all’incontro di mercoledì c’erano anche i produttori Bosch, Infineon, NXP e STMicroelectronics: tutte grandi sigle basata in Germania, Olanda, Italia e Francia.

Questi sono anche tra i principali paesi che, accanto allo sforzo richiesto direttamente alla Commissione Europea – che comunque ha già annunciato di avere in programma ben 5 pacchetti per lo sviluppo dell’IA made in EU – hanno già messo in campo un’intesa che va oltre e in parallelo a quelle che si troveranno a Bruxelles.

A metà marzo, infatti, è nata l’Alleanza europea per i chip, promossa dai Paesi Bassi e che vede partecipare anche Italia, Francia, Germania, Polonia, Spagna, Austria, Belgio, Finlandia. Una “Coalizione dei Volenterosi” sui semiconduttori, come ha scritto il Ministero delle Imprese, senza nascondere l’evidente proiezione di scontro che ha tale iniziativa.

Roma è stata in prima fila nel proporre il documento di indirizzo da cui è nata questa Alleanza, e che si pone alle fondamenta del futuro Chips Act 2.0. “L’Europa deve giocare un ruolo da protagonista nella nuova geopolitica industriale dei semiconduttori“, ha affermato il ministro Urso.

La paura è anche quella che, poiché la domanda di chip avanzati si prevede che nei prossimi anni sopravanzerà di molto la capacità produttiva, nel quadro delle guerre commerciali la UE farà fatica a procurarsi i prodotti di cui ha bisogno. Per questo, nella frammentazione del mercato mondiale, ha bisogno di creare una propria filiera più autonoma possibile.

Con la solita logica e pratica delle “geometrie variabili” su cui è stata costruita e tutt’oggi funziona la UE, sono stati fatti i primi passi in questa direzione. Ma sono davvero sufficienti a recuperare un po’ di terreno perso nei confronti di Washington e Pechino, o saranno solo un’altra serie di misure velleitarie, fatte pagare ai settori popolari del continente?

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24/03/2025

Il volto di un altro (1966) di Hiroshi Teshigahara - Minirece

Germania e UE abbracciano il keynesismo militare

Pochi giorni prima del suo scioglimento, il parlamento uscente della Germania ha approvato in fretta una revisione della costituzione e un massiccio pacchetto di spesa per facilitare prestiti illimitati destinati alla militarizzazione.

Mezzo trilione di euro sono stati destinati alla vaga categoria di “infrastrutture e neutralità climatica”, mentre l’aumento della spesa militare è ora esentato dalla Schuldenbremse, la rigorosa legge anti-debito introdotta nel 2009. Il voto ha inaugurato il più grande programma di armamenti in Germania dalla fondazione della Repubblica Federale nel 1949.

L’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e il Partito Socialdemocratico (SPD) – che formeranno un governo di coalizione quando il nuovo Bundestag si riunirà il 25 marzo – hanno ottenuto il sostegno dei Verdi per assicurarsi la maggioranza dei due terzi necessaria per modificare la “Legge Fondamentale” tedesca.

I tre partiti centristi si sono affrettati a far passare questi emendamenti nell’ultima settimana del parlamento uscente perché, altrimenti, avrebbero dovuto contare sul sostegno del partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD), che ha ottenuto 69 seggi in più nel nuovo parlamento. Sebbene l’AfD non sia contraria all’aumento della spesa militare, collaborare con il partito di estrema destra rimane un tabù per molti tedeschi e avrebbe rischiato di prolungare i negoziati sulla militarizzazione e di provocare un maggiore malcontento nella popolazione.

Spinti dal trio CDU-SPD-Verdi, gli emendamenti hanno generato poca resistenza popolare e godono del sostegno dei leader aziendali, della lobby climatica e dei sindacati.

Dopo aver imposto ampie sanzioni alla Russia nel 2022 e aver perso terreno rispetto alla produttività cinese in settori chiave come le auto elettriche, l’economia tedesca è rimasta bloccata in una recessione biennale.

Con l’arrivo dei dazi statunitensi, la crescita prevista dello 0,2% per il 2025 sembra ora un’illusione. Sotto l’ombra di un terzo anno consecutivo di recessione, imprenditori, commentatori dei media e persino leader sindacali stanno ora sostenendo una strategia di “crescita attraverso gli armamenti” basata sul debito per rilanciare l’economia. È in questo contesto che devono essere compresi i nuovi emendamenti alla “Legge Fondamentale” tedesca.

Le modifiche alla “Legge Fondamentale” significano che il budget militare non ha più un limite superiore. I partiti centristi si rifiutano di indicare una cifra concreta per l’aumento previsto della spesa militare. Invece, tutto ciò che supera l’1% del PIL destinato alla spesa militare è stato semplicemente dichiarato, nelle parole della legge, “esentato dal freno al debito in futuro”.

Questo voto riecheggia il famigerato voto del 1914, in cui i socialdemocratici si unirono ai centristi per approvare all’unanimità i fondi per la guerra della Germania contro Francia e Russia. Tuttavia, a differenza del 1914, il governo tedesco oggi ha il potere di indebitarsi senza limiti.

Il “pacchetto di finanziamento speciale per le infrastrutture e la neutralità climatica” che accompagna l’aumento della militarizzazione sarà finanziato da 500 miliardi di euro di prestiti aggiuntivi. Questi fondi saranno distribuiti nell’arco di 12 anni. Tuttavia, la loro destinazione non è stata ancora specificata. I portavoce dei partiti hanno evidenziato reti ferroviarie e stradali, ponti, vie navigabili e porti, approvvigionamento energetico, istruzione e ospedali.

Tuttavia, con praticamente nessun obiettivo concreto stabilito, il prossimo governo CDU-SPD è libero di definire cosa rientri nella categoria di “infrastrutture”. Il “pacchetto di finanziamento speciale” serve in ultima analisi a due scopi: è una foglia di fico per placare infermieri, macchinisti e operai dell’auto in sciopero e amplierà le infrastrutture necessarie per la logistica militare.

La transizione verso un’economia di guerra è accolta come una vittoria a Berlino e Bruxelles. Da un lato, eserciti nazionali più forti in Europa possono aumentare ulteriormente la pressione sul principale nemico dell’Unione Europea (UE): la Russia.

Come ha dichiarato il primo ministro polacco Donald Tusk il 6 marzo 2025: “L’Europa deve unirsi a questa corsa agli armamenti e vincerla... Sono convinto che la Russia perderà questa corsa agli armamenti, proprio come l’Unione Sovietica perse una corsa simile 40 anni fa”.

Allo stesso tempo, l’aumento della spesa militare ha il potenziale di rilanciare le più grandi economie dell’UE. Mentre gli stati dell’UE attualmente dipendono fortemente dalle importazioni di equipaggiamenti militari statunitensi, la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen ha ripetutamente sottolineato la necessità di “comprare più europeo”.

Per facilitare ciò, von der Leyen ha annunciato una nuova “Clausola di fuga nazionale” che permetterà agli stati membri di piegare regole fiscali altrimenti inflessibili se lo scopo è esclusivamente per la spesa militare. I prezzi delle azioni delle aziende europee di armamenti come Rheinmetall e Leonardo sono saliti alle stelle dopo l’annuncio dell’UE del piano “ReArm Europe” del valore di 800 miliardi di euro.

Il numero di persone impiegate nelle industrie degli armamenti dell’UE è cresciuto costantemente e, nel 2023, si attestava a circa 581.000 persone in tutta l’UE, circa il 15% in più rispetto al 2021.

Per quelle aziende dell’UE che lottano contro la superiorità cinese e il protezionismo statunitense, la militarizzazione offre anche un’ancora di salvezza. Volkswagen, ad esempio, ha recentemente annunciato che è aperta a tornare a produrre veicoli militari, una delle principali linee di produzione dell’azienda durante il Terzo Reich.

Le élite tedesche hanno quindi avviato una transizione completa dall’austerità neoliberale al keynesismo di guerra. La loro strategia può essere riassunta dalle parole dell’ammiraglio olandese Rob Bauer: “L’esercito può vincere le battaglie, ma è l’economia a vincere le guerre”.

La missione di “rovinare la Russia” richiede la mobilitazione totale del fronte interno. Il ministro della difesa tedesco, che dovrebbe tornare nel nuovo governo, ha fissato il 2029 come l’anno entro il quale il paese deve essere “pronto per la guerra”. La CDU sta quindi spingendo per una rapida reintroduzione della leva obbligatoria.

“Se l’Europa vuole evitare la guerra, l’Europa deve prepararsi alla guerra”, sono state le parole usate da von der Leyen lo stesso giorno in cui il parlamento tedesco ha votato per modificare la costituzione.

Queste parole riecheggiano i sentimenti del cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg, che presiedette la sessione del Reichstag del 1914 che concesse i crediti di guerra al Kaiser alla vigilia della Prima Guerra Mondiale: “Solo in difesa di una causa giusta la nostra spada volerà dal fodero. Il giorno è arrivato in cui dobbiamo estrarla – contro la nostra volontà, contro i nostri onesti sforzi. La Russia ha dato fuoco alla casa. Siamo in una guerra forzata con la Russia e la Francia”.

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Cina, iniziata l'era dei robot: quali conseguenze per l'Occidente?

“Purtroppo Trump ha ragione sull’Ucraina”

La testata giornalistica The Hill, praticamente l’ufficio stampa del Partito Democratico, ora ammette candidamente quello che finora era tabù.

Sono passati appena due mesi dall’insediamento di Donald Trump e, dopo un primo momento in cui la critica al tycoon ha seguito la strada della fallimentare campagna elettorale per le presidenziali, ora cominciano ad apparire ragionamenti meno fissati al passato.

Che il presidente-bis sia un essere spregevole è cosa nota (c’è ormai persino un film impietoso sulla sua “formazione” – The Apprentice –), ma ripetere all’infinito la lista di insulti (meritatissimi) non fa avanzare di un passo la presa d’atto di essere entrati in una nuova fase della politica Usa e quindi del mondo.

A parte i “democratici dei quartieri alti” amici di “Rambini”, che stanno preparando i bagagli per destinazioni più consone alle proprie abitudini (ultima ad annunciarlo, Taylor Swift), anche ai più conservatori (in genere “neocon”) tra i membri dell’establishment appare ormai indispensabile tirare una riga e chiedersi perché tutto sia andato storto.

L’analisi basilare fornita da Alan J. Kuperman – docente di strategia militare e gestione dei conflitti – è semplice ma impietosa: i democrats e l’intero establishment ha sbagliato tutto. In primo luogo a puntare sulla guerra dell’Ucraina contro la Russia nella speranza di far disgregare il vecchio “orso”.

Naturalmente da un analista geostrategico non ci possiamo attendere che prenda in considerazione la crisi economica, lo svuotamento del ruolo dello Stato nella gestione dell’economia, le delocalizzazioni, e quindi le basi strutturali della “crisi di egemonia” che gli Usa stanno affrontando da almeno due decenni. Senza trovare una soluzione, peraltro…

Ma anche da un punto di vista più “specialistico” e ristretto la diagnosi è tombale: la guerra in Ucraina è una responsabilità di Biden (e Obama), che fin dal 2014 diedero un placet all’offensiva dei neonazisti che portò al “majdan” e alla strage nella Casa dei Sindacati, ad Odessa, e quindi al “cambio di regime” rispetto ai risultati elettorali di qualche mese prima.

Più in generale, par di capire (anche se non viene detto esplicitamente), è la strategia Usa del dopo-1989 ad essere responsabile, con il continuo allargamento ad est della Nato, di aver creato una “minaccia esistenziale” per la Russia inducendola ad una reazione durissima.

Ma evitabile, dice Kuperman. La prova? La situazione sul terreno e le stesse prime indiscrezioni sui contenuti della “trattativa” in corso in Arabia Saudita portano ad uno scenario post-bellico che è esattamente quello che Mosca chiedeva di costruire prima della guerra. A che pro, dunque, affrontare tre anni di guerra durissima, centinaia di miglia di morti, milioni di profughi che difficilmente torneranno indietro (per i più diversi motivi)?

Tutti gli obiettivi “irrinunciabili” – sia da punto di vista del governo di Kiev che da quello dell'“Occidente collettivo” – non possono più essere raggiunti e dunque bisogna rinunciarvi. L’unica cosa in più è la rovina completa dell’Ucraina e l’ennesimo tradimento statunitense nei confronti di un “alleato” (peraltro impresentabile come “campione di democrazia”). La strada per l’autocritica “dem” è solo all’inizio e sarà lunghissima. Non è detto che la Storia le concederà tutto il tempo di cui avrebbe bisogno.

Da una crisi di egemonia non si esce con un colpo di teatro.

Ecco la traduzione integrale dell’articolo di The Hill pubblicato il 18 marzo.

*****

Raramente sono d’accordo con il presidente Trump, ma le sue ultime dichiarazioni controverse sull’Ucraina sono in gran parte vere. Appaiono assurde solo perché il pubblico occidentale è stato nutrito per oltre un decennio con una dose costante di disinformazione sull’Ucraina. È ora di fare chiarezza su 3 punti chiave che spiegano perché gli ucraini e l’ex presidente Joe Biden – non solo il presidente russo Vladimir Putin – abbiano una significativa responsabilità per lo scoppio e la perpetuazione della guerra in Ucraina.

Innanzitutto, come documentato da prove forensi schiaccianti, e confermato anche da un tribunale di Kiev, furono i militanti nazisti ucraini a iniziare le violenze nel 2014, provocando l’invasione iniziale della Russia nel sud-est del paese, inclusa la Crimea. All’epoca, l’Ucraina aveva un presidente filo-russo, Viktor Yanukovych, eletto liberamente nel 2010 con il forte sostegno della minoranza russa nel sud-est del paese.

Nel 2013, Yanukovych decise di perseguire una cooperazione economica con la Russia anziché con l’Europa, come precedentemente pianificato. I filo-occidentali risposero con occupazioni pacifiche della piazza Maidan e degli uffici governativi, fino a quando il presidente offrì sostanziali concessioni a metà febbraio 2014, dopo le quali i manifestanti si ritirarono.

Tuttavia, proprio in quel momento, i militanti di destra iniziarono a sparare sulla polizia ucraina e sui manifestanti rimasti. La polizia rispose al fuoco, e i militanti sostennero falsamente che erano stati uccisi manifestanti disarmati. Indignati da questo presunto massacro governativo, gli ucraini si riversarono nella capitale e costrinsero il presidente alla fuga.

Putin rispose inviando truppe in Crimea e armi nel Donbass, a sostegno dei russofoni che ritenevano che il loro presidente fosse stato destituito in modo antidemocratico. Questa premessa non giustifica l’invasione russa, ma spiega che non fu del tutto “non provocata”.

In secondo luogo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha contribuito a un’escalation della guerra violando gli accordi di pace con la Russia e cercando aiuti militari e l’adesione alla NATO. Gli accordi di Minsk 1 e 2, negoziati dal suo predecessore Petro Poroshenko nel 2014 e 2015, prevedevano l’autonomia politica del Donbass entro la fine del 2015, una misura che Putin riteneva sufficiente per impedire all’Ucraina di unirsi alla NATO o diventare una sua base militare. Tuttavia, l’Ucraina rifiutò per 7 anni di rispettare tale impegno.

Zelensky, durante la campagna elettorale del 2019, promise di implementare gli accordi per prevenire ulteriori conflitti. Ma una volta eletto, fece marcia indietro, apparentemente meno preoccupato del rischio di una guerra piuttosto che apparire debole nei confronti della Russia. Aumentò invece le importazioni di armi dai paesi NATO, cosa che rappresentò l’ultima goccia per Putin. Il 21 febbraio 2022, la Russia riconobbe l’indipendenza del Donbass, vi schierò truppe per “mantenere la pace” e chiese a Zelensky di rinunciare alla NATO. Al suo rifiuto, Putin lanciò un’offensiva militare su larga scala il 24 febbraio.

In terzo luogo, anche Joe Biden ha contribuito in modo cruciale all’escalation del conflitto. Alla fine del 2021, quando Putin mobilitò le truppe al confine ucraino e chiese il rispetto degli accordi di Minsk, era evidente che, senza concessioni da parte di Zelensky, la Russia avrebbe invaso per creare almeno un corridoio tra Donbas e Crimea. Biden, invece di insistere perché Zelensky accettasse le richieste di Putin, lasciò la decisione al leader ucraino, promettendo una risposta “rapida e decisiva” in caso di invasione. Questa promessa fu interpretata da Zelensky come un via libera per sfidare Putin.

Se Trump fosse stato presidente, probabilmente non avrebbe concesso un assegno in bianco a Zelensky, costringendolo a rispettare gli accordi di Minsk per evitare la guerra. Inoltre, Trump non avrebbe concesso all’Ucraina un veto sulle trattative di pace, come invece ha fatto Biden, alimentando in Zelensky false speranze di un sostegno militare decisivo da parte degli Stati Uniti, poi negato per timore di un’escalation nucleare.

I contorni di un accordo per porre fine alla guerra sono chiari: la Russia manterrà il controllo della Crimea e di parte del sud-est, mentre il resto dell’Ucraina non entrerà nella NATO ma riceverà garanzie di sicurezza da alcuni paesi occidentali. Purtroppo, un simile accordo avrebbe potuto essere raggiunto due anni fa se Biden avesse condizionato gli aiuti militari a un cessate il fuoco.

Invece, la guerra è proseguita, causando centinaia di migliaia di vittime e spostando le linee del fronte di meno dell’1% del territorio ucraino.

Qualunque accordo di pace emergerà dopo questa guerra sarà peggiore per l’Ucraina rispetto agli accordi di Minsk, che Zelensky ha abbandonato per ambizioni politiche e una ingenua fiducia in un sostegno statunitense senza limiti.

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Gaza - Il genocidio continua. Altri 21 palestinesi uccisi. Israele prepara il piano per l’espulsione dalla Striscia

Il quartiere di Tel al-Sultan, a ovest della città di Rafah, è oggetto di bombardamenti e attacchi israeliani, migliaia di civili sono intrappolati sotto i pesanti bombardamenti, mentre il numero dei morti è salito dall’alba di oggi a 21 in diverse parti della Striscia di Gaza.

Il corrispondente di Al-Jazeera ha riferito che 4 palestinesi, tra cui bambini, sono stati uccisi e altri sono stati feriti in un bombardamento israeliano che ha preso di mira una casa appartenente alla famiglia Abu Khater nella zona di Maan, a est di Khan Yunis. Ha anche riferito che altre 4 persone sono state uccise e molte altre sono rimaste ferite in bombardamenti contro una casa nel quartiere di Al-Shujaiya, a est di Gaza City.

Le autorità israeliane continuano a perpetrare apertamente il genocidio contro la popolazione palestinese di Gaza. Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha dichiarato che “La guerra finirà domani se Hamas rinuncerà alle armi e rilascerà gli ostaggi” nel frattempo però afferma che “Non siamo obbligati a portare aiuti a Gaza se Hamas vuole trarne beneficio”. Non solo.

Il Gabinetto per la Sicurezza e gli Affari Politici di Israele ha approvato una proposta del Ministro della Difesa Yisrael Katz per istituire una direzione speciale per sfollare i palestinesi dalla Striscia di Gaza. La Direzione per gli Sfollati si occuperà di quello che il ministro della Difesa israeliano ha descritto nella sua dichiarazione come “il trasferimento volontario dei residenti della Striscia di Gaza in un paese terzo per coloro che esprimono il desiderio di farlo”.

Questo “Direttorio” si sta preparando a utilizzare varie tattiche nella Striscia di Gaza, tra cui un maggiore controllo militare, l’evacuazione, l’imposizione di un assedio e l’ispezione di tutti gli aiuti umanitari che entrano nella Striscia

L’Egitto ha presentato una nuova proposta nei negoziati per il cessate il fuoco a Gaza, in base alla quale Hamas fornirà informazioni dettagliate sugli ostaggi, sia vivi che deceduti, compresi dei filmati, in cambio della cessazione delle operazioni israeliane. Lo ha detto una fonte a conoscenza dei dettagli al portale qatariota “Al Araby al Jadeed”.

Secondo la fonte, l’Egitto ha proposto che dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco si svolgano negoziati più dettagliati per raggiungere accordi su una tempistica per il rilascio degli ostaggi rimasti a Gaza in cambio del graduale ritiro delle forze armate israeliane. La fonte ha aggiunto che l’Egitto cerca di raggiungere intese sulla questione, a condizione che siano assicurate le garanzie statunitensi per l’accordo.

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Santana (1970) Abraxas

Ebbene sì, c’è stato un tempo in cui le piramidi non erano ancora state erette, il Colosseo neanche concepito. E nella musica, incredibile a dirsi, "Abraxas" non esisteva ancora. Ma come le grandi opere che sfidano il tempo, quando finalmente apparve, sembrò essere sempre stato lì, inevitabile, perfetto nella sua esistenza. Già la sua copertina, un'allucinazione mistica dipinta da Mati Klarwein, lo consacrava come qualcosa di più di un semplice album: un talismano sonoro, un'opera che, come un'antica annunciazione, non si limita a mostrarsi, ma indica un mondo sospeso tra sogno e rivelazione. Il suo titolo enigmatico evoca una divinità arcaica, custode dell'eterno equilibrio tra bene e male, luce e ombra, creazione e distruzione. Eppure, la musica non è mai lotta, mai caos incontrollato. Non c'è eccesso, non c'è ostentazione: solo respiro, fluidità, un'armonia perfetta tra opposti. La fusione tra rock, blues e ritmi latini, appena sussurrata nell'album di esordio, qui si compie, si svela nella sua forma migliore.

Diventa quasi superfluo parlare di alcuni brani: "Oye Como Va", "Samba Pa Ti"... sono ovunque, incisi nella memoria collettiva, riecheggiano nelle pubblicità, nel cinema nelle radio... li conoscono tutti, anche senza sapere chi li abbia suonati. Ma prima di "Abraxas", chi aveva mai fatto musica così? "Oye Como Va" è, in effetti, una cover di un brano scritto da Tito Puente una decina d'anni prima, ma i Santana non si limitano a reinterpretarlo: lo trasfigurano. L'originale di Puente è un cha-cha-cha orchestrale, elegante e sincopato, radicato nella tradizione cubana. Nella versione della band americana, il ritmo si fa più viscerale, la linea di basso pulsa con una spinta quasi funk, la chitarra si insinua con brevi frasi taglienti. Il risultato non è più solo latino, né solo rock: è qualcos'altro, una nuova creatura sonora che scivola fuori dalle categorie.

"Samba Pa Ti" rappresenta il lato più lirico e sognante di Carlos Santana. Qui il chitarrista si allontana dal fraseggio serrato e virtuosistico dei suoi contemporanei, come Eric Clapton o Jimmy Page, e sceglie invece la via dell'espressività assoluta, avvicinandosi più a B.B. King o a Peter Green per il peso che dà a ogni nota. Non c'è velocità, non c'è sfoggio tecnico: la chitarra non si impone, ma si lascia trasportare, con un vibrato ampio e passionale che avvolge il blues in un languore tropicale, caldo e un po' nostalgico. Incredibile a dirsi, visto il grado di preponderanza che ormai stava assumendo Carlos nel gruppo, "Samba Pa Ti" è l'unica traccia che porta la sua firma, insieme a "Incident At Neshabur", un altro brano strumentale scritto insieme al pianista Alberto Gianquinto. La traccia, venata da un'influenza jazz evidente, si sviluppa come un flusso ininterrotto di tensioni e risoluzioni, alternando momenti di sospensione armonica a improvvise impennate ritmiche. Il finale, poi, è un'apoteosi di interplay con un dialogo superbo tra la chitarra elettrica e il pianoforte, in cui i due virtuosi si rincorrono, si sfidano e infine si fondono.

Tocca a un altro brano strumentale, "Singing Winds, Crying Beasts", introdurre l'album. Si tratta di un preludio dalle atmosfere molto rarefatte con campanelli eolici e percussioni che pulsano in lontananza come un battito primordiale, mentre l'Hammond di Gregg Rolie stende un velo onirico, quasi psichedelico, sulle note sparse della chitarra di Santana. È un varco perfetto per preparare l'ascoltatore a "Black Magic Woman/Gypsy Queen". Scelto come uno dei singoli trainanti dell'album, insieme alle due hit già citate e a "Hope You're Feeling Better", la prima sezione, cover dell'omonimo brano di Peter Green, divenne uno dei brani simbolo dei Santana, tanto che in molti lo credono un pezzo originale. In un'intervista, il chitarrista inglese raccontò di aver assistito a un loro concerto e di essersi reso conto solo allora di quanto il suo brano fosse stato trasformato: in mano ai Fleetwood Mac era un blues spettrale, sussurrato, con un'aura malinconica. I Santana lo riplasmano completamente con le percussioni latine che si intrecciano con le vibrazioni del rock che diventano sempre più incalzanti nella transizione verso "Gypsy Queen" (composta da Gabor Szabo) fino a esplodere nel travolgente assolo delle percussioni in un tappeto elettrificato di chitarre.

Quanto a "Hope You're Feeling Better", è il brano che più si avvicina al rock "duro" dell'epoca. Qui Santana e la sua band si immergono in sonorità più vicine a Deep Purple e Led Zeppelin: un riff di chitarra granitico, un organo Hammond che si fa aggressivo e una voce che incalza con una veemenza quasi rabbiosa. Di un'energia diversa, ma altrettanto travolgente, è "Se A Cabo", firmata dal percussionista José "Chepito" Areas. Qui il ritmo è ovviamente il vero protagonista: un'esplosione di percussioni frenetiche su cui Santana si muove con la sua chitarra affilata. "Mother's Daughter" riporta l'album su un territorio più vicino al blues-rock, mentre la chiusura è affidata alla brevissima "El Nicoya", un pezzo sui generis, dai ritmi caraibici e dallo spirito leggero, quasi una ghost track. Una scelta spiazzante per concludere un album monumentale, che ancora oggi vibra con la stessa forza primordiale, inafferrabile, indefinibile e al di fuori del tempo come la divinità da cui prende il nome.

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La sinistra tedesca si suicida al Bundesrat

di Yanis Varoufakis

Nel suo tentativo di diventare un partito “normale”, “accettabile”, Die Linke si è unito ai guerrafondai centristi radicali nella loro follia del riarmo.

Quella appena trascorsa è stata una settimana da libri di storia. Il parlamento tedesco ha modificato il freno costituzionale al debito per consentire spese militari illimitate, indipendentemente da quanto profondamente porteranno il bilancio federale in rosso. Nel frattempo, nessuna di questa generosità fiscale sarà destinata a investimenti in ospedali, istruzione, vigili del fuoco, asili nido, pensioni, tecnologie verdi, ecc.

In breve, quando si tratta di finanziare la vita, l’austerità resta sancita nella costituzione tedesca. Solo gli investimenti nella morte sono stati liberati dalla morsa costituzionale dell’austerità.

La ragione di fondo per questo cambiamento sconvolgente alla costituzione tedesca è semplice: i produttori di automobili tedeschi sono ormai troppo poco competitivi. Non riescono più a vendere con profitto le loro auto né in Germania né all’estero. Così, chiedono che lo Stato tedesco acquisti i carri armati che Rheinmetall produrrà sulle linee di assemblaggio inutilizzate della Volkswagen.

Per far sì che lo Stato paghi, era necessario aggirare il freno costituzionale al deficit. Sempre desiderosi di servire i loro padroni del Big Business, i partiti dei governi centristi permanenti si sono mobilitati per introdurre questo cinico cambiamento costituzionale, che annulla l’impegno della Germania del dopoguerra per la pace e il disarmo.

Per modificare la costituzione, i partiti centristi avevano bisogno di una maggioranza di due terzi in entrambe le camere del parlamento federale tedesco: il Bundestag (camera bassa) e il Bundesrat (camera alta), dove ogni stato federato è rappresentato in base alla sua dimensione e alla coalizione di governo statale. Sebbene i partiti centristi abbiano assicurato la loro maggioranza di due terzi nel Bundestag uscente, si sono trovati di fronte a un problema serio nel Bundesrat.

Die Linke, il “partito di sinistra”, che avevamo recentemente lodato per il buon risultato elettorale, aveva la possibilità di far sì che i governi statali di cui faceva parte (come parte di una coalizione locale) si astenessero nel voto del Bundesrat. Questo avrebbe bloccato l’emendamento costituzionale e inflitto un colpo mortale al ritorno insidioso del keynesismo militare.

Purtroppo, la leadership di Die Linke ha scelto di non usare il proprio potere, il proprio voto nel Bundesrat, per farlo. In breve, si sono uniti ai guerrafondai centristi radicali in questa pericolosa e costosissima follia del riarmo.

Gli elettori di Die Linke sono, giustamente, furiosi, e alcuni invocano persino la rottura delle coalizioni statali di cui il partito fa parte e l’espulsione dei funzionari coinvolti. Già il fallimento di Die Linke nel sollevarsi contro il genocidio in Palestina, e il successivo trattamento totalitario riservato dallo Stato tedesco a chi protesta contro quel genocidio, aveva compromesso la reputazione del partito agli occhi dei progressisti non solo in Germania, ma anche oltre confine.

Nulla distrugge l’integrità etica di un partito di sinistra più rapidamente di una leadership troppo desiderosa di essere “accettata” da un centro radicalizzato che si muove costantemente verso l’estrema destra xenofoba e guerrafondaia.

Era già abbastanza grave che i leader di Die Linke sentissero il bisogno di chiudere un occhio sul progetto genocida e di apartheid di Israele. Ora, questa settimana, hanno compiuto il passo successivo verso l’oblio politico: hanno usato i loro voti nel Bundesrat per sancire, per la prima volta dal 1945, il keynesismo militare nella costituzione tedesca.

Buonanotte, Die Linke. E buona fortuna.

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La diplomazia americana tra la Russia e la Cina e la vendetta inglese contro la Germania

di Guido Salerno Aletta

Per l’Ucraina non c’è niente da inventarsi, basta replicare la sceneggiatura del Vietnam: dalle partite di ping-pong che riaprirono il dialogo con i cinesi ai tempi di Mao Zedong agli incontri di hockey su ghiaccio ora programmati con i russi di Vladimir Putin, la politica americana sta girando il sequel della grande svolta diplomatica suggerita da Henry Kissinger all’allora presidente Richard Nixon.

Donald Trump sta riproponendo il durissimo processo politico che portó alla fine del conflitto in Vietnam, combattuto in nome di libertà e democrazia a difesa del Sud aggredito dai comunisti del Nord armati dalla Cina.

La via della diplomazia

Anche il presidente ucraino Volodymir Zelensky è rappresentato oggi come un eroe, ricevuto con ogni onore in Occidente, da Londra a Bruxelles: tutto come era stato per Ngô Dinh Diem, il presidente sudvietnamita soprannominato il «Churchill dell’Asia sud-orientale» per l’impegno a difesa dei valori dell’Occidente. Fece una brutta fine, abbandonato da chi tanto lo aveva sostenuto.

I colloqui tra Trump e Vladimir Putin ripropongono il copione kissingeriano con cui l’America propose alla Cina una «porta aperta» sul mondo intero, quella che trent’anni più tardi, nel 2001, le garantí con la presidenza Clinton l’ingresso nel Wto a condizioni di favore: era l’URSS allora il competitor degli Usa, che li aveva surclassati nella corsa allo spazio mentre tesseva ovunque relazioni politiche e militari. D’altra parte oggi è la Cina, e non la Russia, che sfida gli Usa per il ruolo di grande potenza.

Un continuo mutare delle relazioni politiche

Gli Usa abbandonano la strategia di Zbigniew Brezninsky, il consigliere per la sicurezza subentrato ai tempi della presidenza di Jimmy Carter: è stato lui il teorico della destabilizzazione dell’Heartland asiatico e di tutte le altre aree in cui gli Usa non riuscivano a imporsi. Questa è stata la stella polare della politica estera americana a partire dal 1978: un continuum che si è snodato tra l’abbandono dello Scià di Persia Reza Pahalevi e il dissimulato sostegno al rientro a Teheran dell’Ayatollah Khomeini.

Una strategia perseguita col sostegno dato ai Talebani in Afganistan affinché trasformassero l’invasione sovietica in un Vietnam, con le due guerre del Golfo combattute dai Bush e con le Primavere Arabe sostenute da Barack Obama, fino al conflitto in Ucraina che prende le mosse dalla progressiva estensione della Nato, processo che era stato dichiarato inaccettabile da Putin sin dalla Conferenza di Monaco del 2007.

D’altra parte, anche Ronald Reagan non fece altro che perseguire la destabilizzazione dell’URSS, provocandone il collasso: la caduta del Muro di Berlino era stata la sua scommessa e fu il suo trionfo.

La strategia degli Stati Uniti

Ma l’Occidente oggi è profondamente diviso: si marca profonda come mai, oggi, la distanza tra la strategia nei confronti della Russia che viene perseguita da Trump rispetto a quella del premier britannico Keir Starmer. Non solo gli Usa vivono in una dimensione continentale, e coltivano con Trump la prospettiva che fu già di James Monroe di controllarlo tutta emancipando le ex-colonie europee, ma ora tornano a operare come una sorta di pendolo che oscilla dalla Cina alla Russia per evitarne un’ulteriore, pericolosa saldatura.

La Gran Bretagna invece non riesce a superare la sindrome dell’isolamento che la colloca alla periferia dell’Europa obbligandola a intervenire per evitare l'altrettanto pericolosa saldatura tra Germania e Russia che si era palesata durante il lungo cancellierato di Angela Merkel e che si era addirittura estesa alla Cina, la quale aveva superato gli Usa come primo partner commerciale tedesco.

La reazione della Gran Bretagna

Si torna alle radici profonde della Brexit: il premier David Cameron aveva ragione quando si opponeva alle prepotenze della Germania, visto che mentre la City aveva assorbito senza fare un lamento le enormi perdite sui prestiti erogati all’Irlanda, la Germania aveva fatto fuoco e fiamme per sostenere il proprio sistema bancario dopo il default di quello spagnolo e della Grecia intera.

Mancando l’unanimità dell’Unione per via dell’opposizione di Londra, Berlino impose comunque la sottoscrizione di Trattati paralleli per irrigidire le regole di bilancio col Fiscal Compact e per istituire l’Esm, il Fondo Salva-Stati che in realtà serve tuttora a proteggere l’euro dal collasso e dunque a blindare la cassaforte di Berlino.

Davvero troppo per Londra, che si è vendicata di questi soprusi puntando tutto sulla Polonia come antemurale storicamente ostile alla Russia e usando il cuneo dell’Ucraina per dichiararla nemico esistenziale dell’Europa. Tutto per perseguire l’obiettivo di sempre: azzoppare la Germania. Un esito, quest’ultimo, che stavolta non dispiace neppure a Trump: più che tardivo, il riallineamento strategico-militare e fiscale del cancelliere in pectore Friedrich Merz è dunque del tutto inutile, visto che all’asse franco-tedesco è subentrata una nuova entente cordiale, levatrice del nuovo ombrello nucleare che proteggerà l’Europa.

Sta tutta qui la solitudine in cui si trovano le leadership europee: incapaci in più di trent’anni di creare uno strumento di sicurezza collettivo nei confronti della Russia, si sono cullate nella bambagia della Nato e si sono fatte dominare dagli interessi della Germania, unico Paese che si è fatto straricco con l’euro a discapito di tutti gli altri.

Questa Storia non si cancella. E soprattutto non se ne inventa una nuova da un giorno all’altro.

Fonte

23/03/2025

Frozen River (2008) di Courtney Hunt - Mini

La storia umana è storia del lavoro. Lukács come antidoto al liberal-fascismo europeo

di Carlo Formenti

Premessa

“La guerra è pace la pace è guerra” questo slogan, che Orwell attribuisce all’immaginario regime totalitario che descrive in 1984 non è più un parto della fantasia dello scrittore inglese: la “neolingua”, creata per manipolare le coscienze dei cittadini cambiando il significato di ogni parola nel suo opposto, è ormai la lingua ufficiale dell’Unione Europea lanciata verso la Terza guerra mondiale. Una lingua che non viene più parlata solo dagli oligarchi di Bruxelles, ai quali già dovevamo l’affermazione secondo cui nazismo e comunismo sono un’unica cosa, ma anche dai media, dagli intellettuali e, soprattutto, dai leader politici europei di destra e di “sinistra”, a partire da quei Democratici italiani che, nati dalla conversione del PCI in partito liberale, si sono progressivamente evoluti in ala militante del liberal fascismo europeo, come abbiamo potuto constatare durante la manifestazione dello scorso 15 marzo, dove, fra lo sventolare di bandiere dell’Unione e dell’Ucraina nazista, abbiamo ascoltato inneggiare alla superiorità della civiltà “indoeuropea” (cioè ariana!) del Vecchio Continente, in perfetta sintonia con l'ideologia razzista e suprematista bianca (ribattezzata “democrazia” dalla neolingua).

Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione, almeno qui da noi, non è, come auspicava Mao a suo tempo, eccellente. Al contrario: è pessima, soprattutto per i gruppuscoli neo, post comunisti e per una sinistra radicale che non riescono a organizzare uno straccio di opposizione popolare alla guerra che infuria dall’Ucraina al Medio Oriente e che già richiede, se non – finora – un tributo di sangue, pesanti sacrifici in materia di reddito e diritti sociali e civili anche alle nostre latitudini. Non ci riescono perché il marxismo occidentale si avvita da decenni in una sterile ripetizione di dogmi anacronistici che non consentono di interpretare la nuova realtà del mondo capitalista, dalla mutazione neoliberale all'attuale tramonto della globalizzazione e del secolo americano.

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, le uniche novità teoriche e pratiche in campo marxista sono state partorite dai processi rivoluzionari in Asia, Africa e America Latina, sui quali ho cercato di ragionare in alcuni lavori recenti. Per riprendere a pensare anche qui da noi occorre partire da alcuni nodi fondamentali che coinvolgono il metodo stesso della teoria marxista, liberandola dagli equivoci, dagli errori e dalle incrostazioni dogmatiche che si sono accumulate in un secolo e mezzo di storia. Per affrontare il compito ritengo indispensabile lo studio dell'opera di Lukács, l’unico grande pensatore marxista che l’Europa occidentale abbia partorito nell’ultimo secolo. Dopo avere dedicato vari libri ed articoli all’impresa, uso anche questo canale per dare il mio contributo. Qui di seguito trovate una versione leggermente ridotta e parzialmente rivista della Prefazione che ho scritto per la nuova edizione della Ontologia dell’essere sociale recentemente pubblicata da Meltemi e, in coda alle Note, i link a tre lezioni sul pensiero di Lukács che ho registrato per il Centro Studi Losurdo. Un quarto video dev’essere ancora realizzato.

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Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla percezione della grandezza di Lukács, certificandone il ruolo di più importante filosofo marxista – e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce sia perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi (1), sia perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori (2). Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo sovietico come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertite al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione (3) e Storia e coscienza di classe (4), un libro che lo stesso autore considerava superato. Nella prima parte del testo che segue affronterò alcuni nodi fondamentali del pensiero filosofico dell'ultimo Lukács, avvalendomi delle sue riflessioni autocritiche sulle tesi sostenute in Storia e coscienza di classe, nonché di una lunga conversazione del 1966 registrata da tre intervistatori tedeschi (5); nella seconda analizzerò brevemente l’approccio lukacsiano alle teorie leniniste.

La svolta ontologica

Ad alimentare la diffidenza con cui l'ultimo lavoro di Lukács venne accolto è probabile che abbia contribuito il titolo: i concetti di ontologia ed essere suonavano sospetti per la  “moda” allora prevalente in campo marxista, cioè per il progetto di “depurare” il pensiero di Marx dall'eredità hegeliana e dalle sue implicazioni “idealiste” e “metafisiche”. Il che è tanto più paradossale, in quanto l'intento dell'ultimo Lukács era proprio quello di superare il proprio punto di vista giovanile, rinnegato in quanto più hegeliano di Hegel: “Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell'umanità – scrive Lukács nel '67 – non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzione intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro nell'audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà” (6). Il bersaglio è qui il modo in cui Storia e coscienza di classe tratta il tema della emersione di una coscienza di classe che non sarebbe altro “che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale”, per cui il proletariato viene assimilato a una entità ideale investita del compito di attuare “la cosciente realizzazione dei fini dello sviluppo oggettivo della società”. Si tratta di una rappresentazione che rispecchia i canoni della logica hegeliana, per cui il proletariato ridotto a oggetto dal processo di valorizzazione del capitale si fa soggetto di sé stesso ascendendo allo stato di soggetto-oggetto identico. Ma “il soggetto-oggetto identico è qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica?”. “È sufficiente porre questo interrogativo con precisione – risponde Lukács – per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l'atto della conoscenza perde il suo carattere alienato” (7) .

L'ultimo Lukács prende le distanze anche dal modo in cui, in Storia e coscienza di classe, venivano presentati i concetti di estraneazione e di totalità. L'estraneazione era posta sullo stesso piano dell'oggettivazione, ma così, argomenta Lukács, si rischia di giustificare il pensiero borghese che fa dell'estraneazione una eterna “condizione umana”, infatti, dal momento che il lavoro stesso è una oggettivazione e che tutti i modi di espressione umana, come la lingua, i pensieri e i sentimenti, sono tali, “è evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini fra loro”( 8) ; per cui occorre ammettere che “l'oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali”(9).

Passiamo al concerto di totalità. In Storia e coscienza di classe leggiamo: “l'isolamento astrattivo degli elementi, sia di un intero campo di ricerca sia dei particolari complessi problematici o dei concetti all'interno di un campo di ricerca è certamente inevitabile. Ma il fatto decisivo è se si intende questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell'intero... oppure se si pensa che la conoscenza astratta del campo parziale mantenga la propria “autonomia”, resti fine a se stessa... per il marxismo non vi è in ultima analisi una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unica e unitaria – storico-dialettica – dello sviluppo della società come totalità” (10). E ancora: “l'aspetto che fa epoca nel materialismo storico consiste nel riconoscimento del fatto che questi sistemi (economia, diritto e stato) apparentemente del tutto indipendenti, definiti ed autonomi, sono meri momenti di un intero ed è perciò possibile sopprimere la loro apparente autonomia” (11). Viceversa, nella Ontologia la totalità sociale è concepita come un “complesso di complessi”, nel quale ogni complesso appare eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, irriducibile a quelle altrui. Se in Storia e coscienza di classe la visione determinista del processo storico appariva già parzialmente corretta attraverso il concetto di possibilità (dopo avere citato il detto di Marx che recita “l'umanità si pone solo dei compiti che è in grado di assolvere”, il giovane Lukács aggiungeva che “anche in questo caso è data solo la possibilità. La soluzione stessa può essere soltanto il frutto dell'azione cosciente del proletariato”), l'ultimo Lukács si spinge ben al di là, negando l’esistenza stessa di una necessità storica assoluta, alla quale sostituisce una successione di catene causali del tipo “se questo... allora quello”, senza trascurare l'irriducibile ruolo del caso.

Ma la svolta ontologica è caratterizzata soprattutto dalla scelta di porre la categoria del lavoro a fondamento di una corretta interpretazione della storia umana. Storia e coscienza di classe, scrive Lukács nella Prefazione del '67, “tendeva ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura” (12). Pur sforzandosi di rendere intelligibili i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, quel testo sottraeva all'ambito dell'economia la sua categoria fondamentale, vale a dire “il lavoro come ricambio organico della società con la natura”. Invece di partire dal lavoro, Storia e coscienza di classe prendeva le mosse dalle strutture complesse dell'economia merceologica evoluta, ma così l'esaltazione del concetto di praxis, privato del lavoro come sua forma originaria e modello, si converte in contemplazione idealistica. Solo prendendo le mosse dal lavoro come fondamento e modello si può assumere un corretto approccio genetico all'analisi del processo storico: “Dobbiamo tentare di cercare le relazioni nelle loro forme fenomeniche iniziali e vedere a quali condizioni queste forme fenomeniche possano divenire sempre più complesse e sempre più mediate” (13).

Ne La filosofia imperfetta (14) Costanzo Preve scrive che il percorso evolutivo del pensiero di Lukács da Storia e coscienza di classe alla Ontologia può essere descritto come conversione a uno dei tre “regimi narrativi” utilizzati da Marx, scartando gli altri due. Secondo Preve il corpus teorico marxiano è infatti caratterizzato dai discorsi grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Nel primo la categoria di soggetto è titolare di un’essenza che contiene in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, per cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico. Il secondo coincide con una sorta di antropomorfizzazione della storia, nella misura in cui, alla narrazione dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia animato da una necessità immanente. Viceversa l'ultimo Lukács approda a quel filone ontologico-sociale del pensiero di Marx che esclude qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia: in quest'ultimo regime narrativo teleologia e causalità sono infatti compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e costituisce nel contempo quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società.

Per concludere: Preve sintetizza la svolta ontologica di Lukács in quattro punti:
1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale;
2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma come somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”, gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto;
3) la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come l'insieme delle possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e delle catene causali da esse generate;
4) tali possibilità non possono essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale (dal che deriva che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole).

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Per Lukács, il contributo di Marx alla comprensione della storia umana può dunque essere compreso solo se si parte dal fatto che il lavoro è la categoria centrale del suo pensiero, nella quale tutte le altre determinazioni sono contenute in nuce. Parliamo qui del lavoro utile, del lavoro come formatore di valori d’uso che “è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (vol. II, p. 265. Da qui in avanti tutte le citazioni della Ontologia e rispettivi riferimenti di volume e pagina si riferiscono all’edizione Pgreco del 2012, NdA). Il lavoro così inteso non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico in generale, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale” (vol. III, p. 23). Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. Per Marx, argomenta Lukács, il lavoro risulta dunque il modello di ogni prassi sociale e solo tenendo conto di ciò la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” può essere colta nel suo significato più rigoroso.

Nella misura in cui l'economia, intesa come processo di produzione e riproduzione della vita umana, entra a fare parte del pensiero filosofico, diviene possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, ma ciò non significa che l'immagine marxiana del mondo sia fondata sull'economismo. Se infatti il pensiero considerasse il lavoro isolandolo dalla totalità del fenomeno sociale, rimuoverebbe il fatto che “la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente” (vol. III, p. 14). Da un lato, nessuno dei fenomeni sociali appena evocati può essere compreso ove lo si consideri isolato dagli altri; dall'altro lato non vanno dimenticati, sia la loro scaturigine originaria dal lavoro, sia il fatto che, benché il lavoro continui a essere il momento soverchiante, non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica.

L’ultimo passaggio ci fa capire come l'ontologia materialistica di Lukács sia esente da tentazioni meccaniciste. Vedi laddove scrive: “Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, – dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”. A partire da tale momento, la coscienza non può più essere considerata un epifenomeno ed è prendendone atto che il materialismo dialettico si separa da quello meccanicistico. Va infine preso atto del fatto che, per Lukács, ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura: per quanto radicali possano essere gli effetti trasformatori generati dalla progettazione cosciente, scrive, “la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente” (vol. III, p. 103).

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Per Lukács il principio della determinazione in ultima istanza della coscienza da parte del fattore economico non esclude il riconoscimento della relativa libertà del fattore soggettivo: il metodo dialettico, scrive, “riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico 'per legge' dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante” (vol. II, pp. 290/91). Il modo in cui l'economia svolge tale ruolo di momento soverchiante va ulteriormente approfondito: Marx non sostiene che l'economia determina la coscienza, bensì che non è la coscienza degli uomini a determinarne l'essere sociale ma è piuttosto l'essere sociale a determinarne la coscienza; tuttavia, precisa Lukács, per Marx il mondo delle forme e dei contenuti di coscienza non è prodotto direttamente dalla struttura economica, bensì dalla totalità dell'essere sociale. La funzione soverchiante dell'economia si esercita dunque in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell'essere sociale, totalità di cui fanno parte sia l'economico che l'extraeconomico.

La versione meccanicista del marxismo, nella misura in cui assume in modo unilaterale il principio del ruolo soverchiante dell'economia nel processo storico, attribuisce allo sviluppo delle forze produttive un peso determinante, se non esclusivo, nel processo di emancipazione dell'umanità dal regno della necessità; viceversa Lukács ribatte che il processo di sviluppo economico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità perché ciò avvenga: “Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità” (vol IV, p. 511). In altre parole, la libertà che la filosofia della prassi concede al soggetto consiste nella facoltà di decidere in un campo di alternative date: “La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre 'soltanto' la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai” (vol. I, p. 325).. Non sfugga l'ironia di quel “soltanto”, che sta a significare come sia più che giustificato definire soverchiante il potere di condizionamento dell'economia, senza dimenticare, al tempo stesso, che la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, è smisurata rispetto alla rigida legalità dei processi naturali.

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La critica di Lukács alla concezione meccanicista del marxismo implica, fra le altre cose, la negazione dell'esistenza di finalità immanenti al processo storico, contesta cioè la visione di quei teorici marxisti che cedono alla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Secondo costoro, “il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo, porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico)” (vol. III, p. 30). Contro questa tendenza Lukács ribadisce, da un lato, che non esistono processi teleologici immanenti alla storia, dall'altro lato che l'agire umano finalizzato (che ha nel lavoro la propria radice e il proprio modello) mentre è certamente in grado di mettere in atto processi causali, e anche di trasformare il carattere causale del loro movimento, non è tuttavia in grado di prevedere i propri risultati in misura tale da indirizzarli in modo univoco, dal momento che “le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto”(vol IV, p. 511).

Marx non avrebbe quindi scoperto e descritto le “leggi” di sviluppo della storia umana? La verità, risponde Lukács, è che per Marx le leggi economiche oggettive “hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di 'se…allora'. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto non è la forma più pura della necessità, e nemmeno una mera generalizzazione intellettuale, ma invece una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete 'se…allora'” (vol. IV, p. 344). In altre parole, le “leggi” storiche si distinguono da quelle della natura in quanto sono conoscibili solo post festum, il che non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma impone di ammettere che questi ultimi “si esplicitano nell’essere processuale, non 'come grandi bronzee leggi eterne', che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, 'atemporale', ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce” (vol. I, p. 308).

Se si nega l'esistenza di ogni fattore teleologico immanente al processo storico, che ne è del concetto di “progresso”? In effetti, diverse parti della Ontologia contengono una rigorosa critica dell'ideologia progressista. In particolare, Lukács si accanisce contro quelle che definisce le “concezioni volgar-meccanicistiche del progresso”, le quali fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche sufficiente, dell'emancipazione umana. Ciò significa appiattire l'essere sociale sulla dimensione economica, dimenticando che “lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma (…) lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana” (vol. IV, p. 562). Nel ribadire quest'ultimo concetto Lukács rinfaccia agli “illusionisti del progresso” l'incapacità di prendere atto del fatto che “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana” (vol. IV, p.670).

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Nel dialogo del '66 (15) Lukács, rispondendo alla domanda di uno dei tre intervistatori, afferma: “Credo che Gramsci avesse ragione quando osservava che noi usiamo in generale la parola 'ideologia' in due significati distinti. Da un lato si tratta del dato di fatto che nella società ogni uomo esiste in una determinata situazione di classe, cui naturalmente appartiene l'intera cultura del suo tempo, non può esserci nessun contenuto di coscienza che non sia determinato dall'hic et nunc. D'altro lato si originano certe deformazioni per cui ci si è abituati a intendere l'ideologia anche come una certa reazione deformata alla realtà... una coscienza cosiddetta libera da legami sociali non esiste”.

Nel IV° volume della Ontologia citando un'opera sul pensiero di Croce (16), Lukács reitera il giudizio positivo sulla tesi di Gramsci, tuttavia precisa che, mentre è vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, dall'altro lato “è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un'arbitraria elucubrazione di singole persone”. Quindi prosegue affermando che, affinché un pensiero possa meritarsi la definizione di ideologia, non può essere espressione ideale di un singolo ma deve svolgere una funzione sociale ben determinata, per cui occorre chiarire che cosa colleghi, in termini ontologici, i due concetti di ideologia cui allude Gramsci, dunque scrive: “L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale” ( vol. IV, p. 446).

Ogni reazione umana all'ambiente sociale può diventare ideologia, ma Lukács associa la genesi del fenomeno alla nascita di gruppi sociali differenti che condividono interessi comuni contrapposti a quelli di altri gruppi: “In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero” (vol. IV, pp. 452-453); in altre parole, la nascita delle ideologie è il connotato generale della società di classe.

Una cosa è che un gruppo sociale persuada sé stesso del fatto che i propri interessi coincidano con gli interessi generali della società, altra cosa è che riesca a persuaderne anche gli altri gruppi: è nel caso che ciò riesca, argomenta Lukács, che si può ricorrere appropriatamente al termine di ideologia, dopodiché aggiunge che tale pretesa ha successo se e quando l'ideologia in questione è quella dominante, e cita il noto passaggio della Ideologia tedesca che recita: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante” (17). Estendendo il discorso al conflitto di classe come conflitto fra ideologie, Lukács scrive poi che: “una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace” (vol. I, p.245). In altre parole, per essere una forza materiale in grado di trasformare la realtà, una teoria deve assumere la forma di una ideologia. Ecco perché, al pari di Gramsci, Lukács respinge il punto di vista che attribuisce all'ideologia un carattere necessariamente negativo: a determinare la natura negativa o positiva di una ideologia è in ultima istanza il fine verso il quale essa indirizza l'azione, il fatto se esso coincide con gli interessi delle classi che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli che intendono conservarlo.

Una volta assunto tale punto di vista non è più possibile accettare le tesi di coloro che condanno a priori l'ideologia in quanto tale. Tesi sospette, argomenta Lukács, ricordando il fatto che le classi dominanti dell'Occidente post fascista, con la complicità delle socialdemocrazie, hanno trasformato il rifiuto dell'ideologia fascista in rifiuto dell'ideologia tout court, dopodiché “ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (...) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto 'pratiche' e quindi regolabili 'praticamente' con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana” (vol. IV, p. 770). Il discorso deideologizzante, ironizza Lukács, si fonda su quella “ideologia dell'anti-ideologia” che coincide con l'esaltazione della categoria astratta di “libertà” quale valore salvifico per tutte le questioni della vita.

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Descrivere il modo in cui Lukács tratta la questione del socialismo come transizione dal regno della necessità al regno della libertà non è facile. Ci provo partendo dalla questione della libertà in generale. Secondo il filosofo il problema della libertà può essere posto solo in un rapporto complementare con la necessità per cui il pensiero che mette in opposizione i due termini va respinto in quanto “identifica semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico di 'se... allora'. In secondo luogo, la filosofia premarxiana, anzitutto quella idealistica (...) per la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura e alla storia, per cui ha grandissima difficoltà a impostare il problema della libertà nella sua forma vera, autentica, reale” (vol. III, p. 117). Viceversa tale problema, argomenta Lukács, può essere affrontato correttamente solo ricercandone il fondamento nella decisione concreta fra diverse possibilità concrete.

Ciò detto, è possibile immaginare una società in cui la relazione fra necessità e libertà assuma forme più avanzate? La risposta di Lukács prende ancora le mosse dalla categoria del lavoro: a fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa possibilità, prosegue Lukács, ha creato la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero; così come ha consentito la nascita delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale il valore d’uso della forza-lavoro è la base dell’intero sistema, dal che si deduce che “anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore” (vol. III, p. 136).

Tuttavia il regno della libertà potrà essere effettivamente realizzato solo nel comunismo, come scrive Marx nel III libro del Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”, mentre (sempre secondo Marx) nel socialismo in quanto prima fase del comunismo la libertà “può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”. In sintonia con queste parole di Marx, Lukács ritiene che l'economia sia destinata a rimanere anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell'uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni non può finire, dato il suo fondamento ontologico. (vol IV, p. 510).

A questo punto sorge l'interrogativo di come si configuri il “salto” dal socialismo al comunismo. Ricordiamo che, per Marx, l'uomo nuovo sarà emancipato da ogni genere di estraneazione, nella misura in cui tutti i sensi e le qualità umane verranno emancipate: “perché questi sensi e qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così 'umanizzati') si rapportano sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano” (18).

Lukács crede davvero in questo avvento dell'uomo autentico, che un autore come Ernst Bloch ha tradotto nella visione mistica del comunismo come paradiso in terra? (19) Mi sia consentito esprimere più di un dubbio. È pur vero che Lukács critica le correnti filosofiche, come l'esistenzialismo, che considerano l'estraneazione come una “condizione umana” eterna e universale, per cui evidentemente ritiene che la specifica forma storica che l'estraneazione assume nella società capitalistica debba e possa essere superata, ma ciò significa che pensa anche che ogni e qualsiasi tipo di estraneazione sia destinato a sparire nel comunismo realizzato? Se così fosse, saremmo di fronte a una profezia di “fine della storia” che appare in stridente contraddizione con la visione lukacsiana del processo storico che abbiamo fin qui tentato di ricostruire. Personalmente, ritengo che Lukács considerasse l'utopia marxiana, più che come una possibilità reale, concretamente attuabile, come una “ideologia” nel senso positivo chiarito poco sopra, vale a dire come una potenza materiale in grado di trasformare la realtà. Il fatto che una utopia abbia scarse o nulle probabilità di concretizzarsi, scrive per esempio, “non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità” (vol. IV, p. 522).

Nota sul leninismo di Lukács

Lukács non è stato solo un filosofo: la sua biografia non è quella di un intellettuale engagé, bensì quella di un militante politico. Convertitosi al marxismo dopo la Prima guerra mondiale, si iscrisse al Partito comunista ungherese e partecipò alla rivoluzione del 1919, ricoprendo la carica di commissario all'istruzione per la Repubblica sovietica ungherese. Dopo il fallimento della rivoluzione, riparò a Vienna e pendolò fra Berlino e Mosca, dove rimase dopo l'avvento del nazismo e fino alla liberazione del suo Paese. Nel '56 partecipò al governo Nagy e, dopo l'intervento sovietico, fu allontanato dall'Ungheria e “confinato” per qualche tempo in Romania. Malgrado la sua convinzione in merito alla necessità di procedere a una riforma radicale del socialismo reale, e di condurre con più decisione e coerenza il processo di destalinizzazione, non espresse mai posizioni antisocialiste e filo occidentali. Questa coerenza di comportamento non è senza relazioni con il fatto che il tema del partito rivoluzionario sia uno dei pochi su cui le idee di Lukács sono rimaste immutate da Storia e coscienza di classe alla Ontologia, restando fedeli al pensiero di Lenin.

Parto dal principio leninista secondo cui “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi”. Secondo Lukács, tale principio non vale solo nelle condizioni di un Paese “arretrato” qual era la Russia del 1917, con un proletariato di recente formazione, ma appare ancora più giustificato nelle società a capitalismo avanzato del secondo dopoguerra, nelle quali gli strumenti di manipolazione delle masse proletarie da parte delle classi dirigenti si sono fatti immensamente più potenti.

Lenin viene inoltre assunto da Lukács quale esempio del ruolo decisivo che il fattore causale può assumere nella storia, nel senso che solo il caso regala di tanto in tanto dei leader dotati di doti straordinarie sia sul piano teorico che sul piano politico. Una delle virtù fondamentali di queste figure consiste nella capacità di cogliere e sfruttare le opportunità offerte dalla drastica semplificazione delle decisioni che si accompagna alle situazioni rivoluzionarie: “Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli se e ma (nelle situazioni rivoluzionarie) questa cattiva infinità di questioni singole si condensa in poche decisioni centrali” (vol. IV, p. 506). La parola d’ordine terra e pace, che giocò un ruolo decisivo nel 1917, in teoria appariva realizzabile anche nella società borghese, ma la genialità politica di Lenin fu quella di cogliere la contraddizione “per cui esse, da un lato, rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché finalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese, diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la rivoluzione socialista poté essere attuata con successo” (vol. IV, p. 486).

Se la Rivoluzione riuscì a vincere, argomenta Lukács, ciò fu reso possibile dall'approccio anti-economicista di Lenin: nessuna delle parole d'ordine con cui fu rovesciato il capitalismo russo era socialista, ma Lenin era consapevole che la rivoluzione non è il frutto della maturazione di presunte condizioni oggettive (sviluppo delle forze produttive, ecc.), ma diviene possibile quando “gli 'strati inferiori' non vogliono più il passato e gli 'strati superiori' non possono più vivere come in passato” (20). Mettendo in luce questa opposizione fra volere e potere, commenta Lukács, Lenin intende attirare l'attenzione sul modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, nella misura in cui “alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà”. Questa “debolezza” strutturale della posizione del proletariato rispetto a quella borghese è il motivo per cui, anche quando si è impadronito del potere “il proletariato continua a lottare con la borghesia con armi impari, fino al momento in cui non ha acquisito ingenua sicurezza nel proprio ordinamento giuridico come unico legittimo” (vol. IV, pp. 503-504).

Il contributo di Lenin, secondo Lukács, è fondamentale anche in merito al problema della continuazione della lotta di classe dopo la presa del potere: vedasi quando, all'inizio degli anni Venti, si oppose a quegli esponenti dell'ala sinistra del partito bolscevico che invocavano la transizione immediata al socialismo. Lenin liquidò come “estremismo infantile” questa posizione in quanto era consapevole che, per consolidare il potere socialista, sarebbe occorso un lungo processo di transizione anche attraverso compromessi come quelli associati alla Nuova Politica Economica, che instaurava di fatto una inedita forma di capitalismo di stato. Compromessi accettabili a condizione che il controllo dello stato restasse saldamente in mano al proletariato e al suo partito.

Note

(1) Nella sua Introduzione il filosofo rumeno Nicolas Tertulian, fondandosi sullo scambio epistolare che intrattenne con l'autore fino alla di lui morte, rivela come Lukács ritenesse di dover ulteriormente rimaneggiare i Prolegomeni e progettasse di dare seguito alla Ontologia scrivendo una Etica dedicata ai temi dell'ultima parte dell'opera. Sempre Tertulian ipotizza che i Prolegomeni siano stati scritti anche perché Lukács nutriva dei dubbi sulla suddivisione della Ontologia in una parte storica e una parte teorica, suddivisione superata nei Prolegomeni che contengono le idee di base della Ontologia in forma condensata (il che, per inciso, ne rende più difficile la fruizione rispetto agli altri volumi).

(2) Le annotazioni critiche degli allievi sono apparse alla fine degli anni Settanta sulla rivista aut aut. Tertulian ritiene che Lukács abbia scritto i Prolegomeni anche per rispondere alle critiche che gli erano state rivolte da coloro che avevano potuto leggere in anteprima il manoscritto, ma è convinto che il filosofo non abbia accolto gli argomenti dei critici; ritiene inoltre che tanto i ritardi nella pubblicazione quanto le critiche rispecchino la volontà degli allievi di prendere distanza dalle idee del maestro in un momento storico in cui il marxismo era sotto tiro (la successiva conversione di un'autrice come Agnes Heller al liberalismo conferma questa ipotesi).

(3) G. Lukács, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.

(4) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970.

(5) Cfr. W. Abendroth, H. H. Holz, L. Kofler, Conversazioni con Lukács, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.

(6) “Prefazione”, a Storia e coscienza...cit., p. XXIV.

(7) Ivi, p. XXIV.

(8) Ivi, p. XXVI.

(9) Ivi, p. XL.

(10) Storia e coscienza di classe, cit., pp. 36, 37.

(11) Ivi, pp. 285-286.

(12) “Prefazione”, cit., p. XVI.

(13) Conversazioni con Lukács, op. cit., p. 17.

(14) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(15) Conversazioni..., op. cit. p. 44.

(16) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949.

(17) K. Marx, L'ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.

(18) Marx, MEGA, I. 3, p.120 (trad. it. Manoscritti economico-filosofici, cit. p. 329).

(19) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 3 voll., Milano 2019.

(20) V.I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 191.

Conferenze sul pensiero di Lukács

Conferenza 1

Conferenza 2

Conferenza 3

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La guerra non è uguale per tutti

E per alcuni è più uguale che per altri. Per scoprirlo basta leggere il cosiddetto Joint White Paper for European Defence, appena pubblicato dalla Commissione Europea e dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza. 

La distruzione di vite umane e la violenza bruta sono l’aspetto più visibile e drammatico di un conflitto, di ogni conflitto, ma a fianco di ciò che accade alla luce del sole si agitano dinamiche più profonde, che contribuiscono a spiegare perché ciclicamente il vento del bellicismo più sguaiato torna a fare mostra di sé. È notizia di pochi giorni fa l’appello lanciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ad armarsi e partire, rimettendo (parzialmente) in discussione il dogma dell’austerità di bilancio per ‘riarmare l’Europa’. Adesso il White Paper permette di chiarire con più precisione i contorni di questa operazione e, soprattutto, di fare luce su quali interessi economici si muovano e soffino sul fuoco della guerra alle porte.

Il documento si apre facendo sfoggio di retorica di grana grossa – siamo circondati dalla minaccia rappresentata da Stati autoritari come Russia e Cina; c’è la prospettiva di un conflitto su larga scala all’orizzonte – e provando a convincere il lettore che il riarmo auspicato è negli interessi di tutta la popolazione europea, poiché il nostro stile di vita e le nostre prospettive di prosperità sono messe a repentaglio dall’incertezza causata dalla rottura dell’ordine internazionale e dalle minacce esterne.

Eppure, ci viene da dire, nello stesso White Paper si riconosce che la spesa europea in armamenti è molto aumentata nell’ultimo decennio. L’UE spende già oggi in termini assoluti molto più di quanto spenda la Russia. Secondo i dati del SIPRI, le prime cinque economie dell’UE per spesa militare (Germania, Francia, Italia, Polonia e Spagna) hanno speso da sole 220 miliardi nel 2023, il doppio di quanto ha speso la Russia.

Nel 2022, l’industria della difesa europea aveva un fatturato annuo di 135 miliardi (oltre 52 miliardi di esportazioni) ed è estremamente competitiva in settori specifici. Secondo il famigerato Rapporto Draghi, alcuni prodotti e tecnologie dell’UE sono superiori o equivalenti in termini di qualità a quelli prodotti dagli Stati Uniti in diversi settori, come i carri armati principali e i relativi sottosistemi, i sottomarini convenzionali e le armi da fuoco. E allora, ci viene da dire, è proprio necessario finanziare un riarmo su scala europea? Da dove viene questa insaziabile esigenza di risorse pubbliche?  

Dopo poche pagine di preambolo si giunge al dunque. La questione è semplice, nella sua essenza: il grande capitale europeo rischia di entrare in sofferenza, schiacciato dalla competizione internazionale di giganti come la Cina – di cui si denuncia un approccio al commercio e al progresso tecnologico che cerca di raggiungere “la primazia e, in alcuni casi, la supremazia” – e gli Stati Uniti, che paiono non volerci più bene come un tempo. Allo stesso tempo, diventa di importanza cruciale riuscire a garantirsi un accesso stabile alle cosiddette materie prime critiche, fonte di conflittualità crescente tra potenze economiche. 

Qual è la soluzione proposta? Provare a regalare miliardi di euro all’industria bellica europea, con la speranza che questo riesca a soddisfare la sete di profitto del padronato del nostro continente. La Commissione si impegna, infatti, a lanciare un “dialogo strategico” con le imprese del settore, per raccogliere i loro desiderata (p. 9) e provvedere, di conseguenza, a rimuovere ostacoli regolatori e garantire la concessione rapida di permessi per costruire fabbriche di morte chiudendo un occhio o forse due sull’impatto ambientale (“consentire il rapido rilascio delle autorizzazioni edilizie e ambientali per i progetti industriali di difesa come questione di interesse pubblico prioritario”).

L’industria bellica ha anche bisogno di certezze. Ecco, quindi, la priorità di garantirle preventivamente la certezza di un flusso di domanda di armamenti ed affini su di un orizzonte pluriennale (p. 5), così da minimizzare i rischi e permetterle di investire senza remore nell’ampliamento di capacità produttiva. Anche in questo caso, le parole usate dalla Commissione sono quanto di più eloquente: “l’aumento della capacità produttiva dipende dal fatto che le aziende abbiano un flusso costante di ordini pluriennali consistenti per orientare gli investimenti in linee di produzione aggiuntive” (p. 13), a segnalare la necessità di impegnare nel lungo periodo, tramite ordini distribuiti su più anni, risorse pubbliche destinate alle tasche del complesso industriale militare.

Si legge anche, tra le righe, una certa invidia per quei Paesi che hanno imboccato la strada dell’economia di guerra. In tale ottica si può leggere l’invito alla riconversione a fini di produzione bellica di filiere produttive strategiche per l’industria europea, tra cui l’automotive, che altrimenti sarebbero condannate ad un lento declino dalla prolungata stagnazione europea. La tabella di marcia è serrata: bisogna supportare e rinforzare – con soldi pubblici – la capacità di produrre armi, garantire all’industria della guerra forniture costanti di materiali critici, deregolamentare a tutto spiano e tagliare le normative vigenti, finanziare – con soldi pubblici – la ricerca e sviluppo del settore e cercare di attirare ‘talenti’ per convincerli a lavorare nella difesa. Serve infatti manodopera, da convogliare in questo settore per tenere il passo con la desiderata espansione della capacità produttiva.

Non finisce qui, poiché il cinismo stesso delle istituzioni europee non conosce limiti. Se da un lato si ribadisce che la maniera migliore per supportare l’Ucraina è continuare a foraggiare l’acquisto di armi, dall’altro si dice a chiare lettere che, attraverso uno strumento denominato Extraordinary Revenues Acceleration (ERA), questo sarà reso possibile da prestiti all’Ucraina che daranno priorità ad acquisti di armamenti prodotti dalle industrie europee. Si soffia sul fuoco della guerra e si cerca anche di lucrarci sopra, estendendo prestiti a una delle parti in causa del conflitto per comprare armi prodotte sostanzialmente dallo stesso soggetto che eroga il prestito!

Non può mancare, infine, una parentesi di disgustosa ipocrisia, con parole che non meritano neanche un commento. Leggere per credere: “in Medio Oriente il cessate il fuoco a Gaza ... fornisce l’occasione per ridurre le tensioni regionali e mettere un punto alle sofferenze umane” (p. 4), scritto nello stesso momento in cui Israele riparte con la sua carneficina ad ampio raggio. 

C’è anche una ciliegina finale sulla torta. Grande enfasi è posta sulla necessità di indirizzare anche i capitali privati, dormienti magari in conti correnti poco remunerativi, verso il supporto alla follia bellicista. C’è da dire che il mercato sta già facendo il lavoro sporco, considerando l’impennata delle quotazioni delle imprese operanti nel settore della guerra. Le azioni di Leonardo sono cresciute del 120% negli ultimi 6 mesi e dell’800% negli ultimi 5 anni. Sulla stessa scia la tedesca Rheinmetall, che ha visto il valore delle proprie azioni crescere del 130% negli ultimi 6 mesi. Nonostante ciò, la Commissione ritiene utile sottolineare (p. 18) come gli investimenti nel settore della difesa vadano considerati, a tutti gli effetti, perfettamente in linea con il Regolamento europeo 2019/2088, che definisce i prodotti finanziari che rispettano la sostenibilità ecologica. 

Dopo anni di proclami demenziali sul sostegno a Kiev – “fino alla vittoria!” – tutti sulla pelle degli ucraini, e di completa assenza di iniziative diplomatiche finalizzate alla tregua, l’Unione Europea tira fuori dal cappello un programma di finanziamento pubblico dell’industria bellica che non fa altro che allontanare la costruzione di un processo di pace. Nessuno ne sentiva l’esigenza, se non quelle fasce del capitalismo europeo sconfitte dalla competizione internazionale. Nella vostra guerra non ci arruoliamo! 

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Un album che fa guarire passando attraverso il dolore

di Sara Picardi

Il trentesimo anniversario di Above dei Mad Season ci ricorda quanto certe opere eccezionali siano sempre più distanti da noi in senso cronologico.

Si tratta di una creazione che sboccia negli anni ’90 e fotografa in maniera puntuale lo spirito di quel decennio: Seattle, una città sul mare quasi sconosciuta, diventa il cuore pulsante di una scena musicale destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del rock, quella grunge.

Probabilmente l’ultimo grande movimento che, trascendendo la musica, ha incarnato un fenomeno culturale di protesta sollevando importanti questioni sociali e identitarie, sfidando le disuguaglianze di genere e promuovendo l’autodeterminazione e la visibilità delle donne, sia nel panorama musicale che nella società in generale.

I Mad Season sono un supergruppo nato proprio in questo epicentro, composto da membri provenienti da band leggendarie come Alice in Chains, Screaming Trees e Pearl Jam.

Above, pur avendo influenze musicali molto varie, che spaziano dal blues al jazz, può essere considerato un “testo sacro” della musica grunge poiché racchiude molte tematiche esistenziali profonde e significative del movimento, esplorando le esperienze personali e le difficoltà dei suoi membri, tutti segnati da sofferenze, in particolare legate a problemi di dipendenza di vario tipo.

La formazione comprende Layne Staley (voce) degli Alice in Chains, Mike McCready (chitarra) dei Pearl Jam, John Baker Saunders (basso) e Barrett Martin (batteria) entrambi degli Screaming Trees.

Tutti i membri della band sono ex tossicodipendenti, ormai disintossicati e si uniscono in un legame profondo, di supporto e quasi magico attorno a Staley che in quel periodo lotta disperatamente per liberarsi dalla dipendenza dall’eroina che lo sta consumando lentamente, sia a livello fisico che psicologico.

Dal punto di vista artistico, i Mad Season offrono a Staley una preziosa opportunità di esprimersi in modo più personale rispetto agli Alice in Chains, dove la figura di Jerry Cantrell, chitarrista e principale autore, svolgeva un ruolo fondamentale nella direzione musicale del gruppo.

La loro collaborazione, simile a quella di Lennon e McCartney nei Beatles, si basava su un processo creativo fortemente simbiotico, in cui Cantrell era una presenza chiave.

Tuttavia, all’interno di quella dinamica, il carattere insicuro di Staley è stato probabilmente schiacciato dalla personalità artistica forte del collega.

Nei Mad Season, invece, il cantante ha la possibilità di esplorare nuove dimensioni artistiche, soprattutto libero dalle tremende pressioni da parte dei discografici. Il risultato è un album straordinariamente ispirato, dove ogni traccia colpisce nel profondo.

La voce di Staley, con la sua incredibile estensione e soprattutto con la sua potente espressività emotiva, oscilla tra momenti di delicatezza e urla strazianti.

E nonostante un senso di stanchezza che permea l’album, emerge comunque una speranza che riecheggia tra le note: non tutto è perduto.

Il profondo coinvolgimento dell’enigmatico frontman degli Alice in Chains, appassionato anche di arti figurative – suo è il logo della band – lo spinge a realizzare personalmente la copertina dell’album.
L’opera, un’illustrazione ad inchiostro, è un autoritratto ispirato a una fotografia che lo ritrae insieme alla sua musa e compagna, Demri Parrott.

Immerso in una battaglia che gli imponeva l’auto isolamento per sfuggire alle tentazioni, Layne Staley cercava conforto, oltre che nei disegni, nella lettura. Un’opera in particolare, Il profeta di Kahlil Gibran, lo coinvolse al punto da farne ispirazione per il brano di apertura del disco.

Wake Up è un inno al risvegliarsi, un appello a porre fine alle relazioni distruttive che ci consumano, siano esse legate a persone, sostanze o cattive abitudini. Il brano ci invita a riflettere sul fatto che, quando qualcosa ci danneggia, siamo noi a permettere che accada.

Un chiaro monito che Staley probabilmente cercava di impartire a se stesso, e in cui infonde un trasporto palpabile attraverso una performance viscerale, che cattura l’ascoltatore senza lasciare spazio a scappatoie.

Particolare è l’inclusione nel progetto di un secondo cantante solista, Mark Lanegan, frontman degli Screaming Trees e uno dei più stretti amici di Layne Staley. Insieme, i due hanno scritto e interpretato due brani, tra cui la title track Above e uno dei pezzi più riusciti del disco Long Gone Day. Nato dalla complicità tra i due cantanti, che hanno alternato le strofe con naturalezza, grazie al loro profondo legame, il brano evoca la malinconia di un passato lontano che si tramuta in un forte senso di isolamento e abbandono. Caratterizzato da influenze jazz, rock psichedelico, rock classico e blues, Long Gone Day è arricchita dal sassofono di Skerik, aggiungendo un ulteriore strato emotivo.

Il pezzo esplora la perdita degli affetti più antichi, e di conseguenza più significativi, dove emerge la consapevolezza amara che talvolta coloro con cui si è condiviso tanto, sembrano aver dimenticato il percorso fatto insieme e sono andati oltre, lasciandoci indietro.

La scelta di sostituire la batteria con il suono moderato dello xilofono accentua la sensazione di un ricordo roseo distante e idealizzato.

Above si insinua nel tessuto del tempo proprio quando il grunge inizia a ripiegarsi su se stesso, lentamente, consumato dalle tendenze autodistruttive dei suoi protagonisti: il suicidio di Kurt Cobain – il rappresentante più noto del movimento – segna l’ineluttabile punto di non ritorno. Il disco resta un’opera unica, l’inizio della fine di un fenomeno che racconta l’estinguersi delle sottoculture musicali piegate sotto il peso del mercato. La setlist viene riproposta e ampliata dal vivo nel bootleg Live at The Moore, registrato il 29 aprile 1995, dove la band rende omaggio al leader dei Nirvana, scomparso pochi mesi prima, inserendo un accenno di sassofono a Come As You Are all’interno di Long Gone Day.

La parabola di Layne Staley si conclude in modo tragico. A seguito della morte per endocardite dell’amata Demri Parrott, il cantante perde definitivamente la sua battaglia contro la dipendenza e si chiude in una spirale autodistruttiva senza via d’uscita. Smette di avere contatti con il mondo esterno e si isola nel suo appartamento, che si trasforma in rifugio e prigione. Sopravvivrà fino al 5 aprile 2002, ma la sua fine sarà particolarmente drammatica: il suo corpo verrà ritrovato solo quattordici giorni dopo, in completa solitudine. Accanto a lui, bombolette spray di colore, l’ultimo, disperato tentativo di rifugiarsi nell’arte figurativa, l’unico mezzo rimastogli per esprimersi senza doversi più esporre al mondo esterno.

Dopo trent’anni, un periodo che segna il passaggio da una generazione all’altra, Above non mostra segni di invecchiamento. Al contrario, continua a esplorare temi universali e senza tempo: la paura della perdita e l’impossibilità di sfuggirvi, il timore di se stessi e degli altri.

Un desiderio confuso di riunificazione che non è aggressivo, ma piuttosto mite, quasi passivo. Una ricerca silenziosa di sollievo.

Nel 1970 Lester Bangs, leggendario giornalista della rivista “Rolling Stone”, recensiva Astral Weeks di Van Morrison definendolo salvifico: “Astral Weeks è curativo […] È come una terapia, una liberazione. Non c’è niente di simile nel rock. […] È un album che ti trasporta, ti fa entrare in una dimensione diversa, dove la sofferenza e la gioia sono una cosa sola”. Il meraviglioso disco del 1968 conserva ancora il suo potente impatto, ma per i millennials, la Gen Z e le generazioni successive è difficile viverlo come qualcosa di ‘proprio’.

Profondamente radicato nell’ottimismo degli anni Sessanta, trasmette un senso di libertà che appare estraneo alla società contemporanea: un’epoca globalizzata in cui l’iperconnessione, paradossalmente, riflette l’incapacità di relazionarsi in modo profondo con gli altri. Un’epoca segnata da fragilità emotive insormontabili e dalle conseguenti dipendenze: dai videogiochi, dal web, dai legami tossici e altro ancora.

Ma negli anni ’90, come un miracolo laico, un fiore che sboccia tra le crepe dell’asfalto, nasce Above – l’Astral Weeks delle nuove generazioni – destinato a dare voce e sollievo a chi è nato dopo i fasti degli anni Sessanta e Settanta. Mentre Layne Staley come un moderno e dissennato Cristo, si è fatto immortale attraverso una musica senza tempo.

Ferite ataviche, vuoti incolmabili, solitudini irrisolvibili, desiderio e paura del prossimo e dipendenze ingestibili sono fantasmi che, nell’era dell’alienazione digitale, prendono vita, quotidianamente. Ospiti terrificanti che, nei momenti di crisi, esplodono con violenza prorompente.

Di fronte a tutto ciò, l’unica vera consolazione è l’arte, quella che contiene verità, che ci aiuta a scoprire noi stessi, quella con la A maiuscola a cui non si può fare altro che genuflettersi.

Fonte