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19/05/2025

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Appunti sui libri II e III del Capitale di Marx / 5 parte

di Carlo Formenti

5. Crisi, centralizzazione, caduta del saggio del profitto

Analizzerò il contributo di Marx all’analisi delle crisi capitalistiche partendo dal seguente presupposto: dal Capitale non è a mio avviso possibile derivare un modello monocausale del fenomeno, benché si sia tentato di farlo imputando, di volta in volta, la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il sottoconsumo, le turbolenze finanziarie, ecc. La mia tesi è che, mentre i motivi delle crisi variano a seconda del periodo storico in cui si sono verificate, esse sono tutte associate a due caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistico che stanno “a monte” delle cause contingenti: il carattere “anarchico” di tale modo di produzione, cioè l’assenza di una programmazione razionale del processo complessivo di riproduzione sociale, e la necessità di garantire a ogni costo la continuità del ciclo complessivo del capitale, pena la rovina.

Inizio da quest’ultimo argomento, che Marx tratta nei primi quattro capitoli del Libro II (“Il ciclo del capitale denaro”, “Il ciclo del capitale produttivo”, “Il ciclo del capitale merce”, “Le tre figure del processo ciclico”). A pagina 83 del capitolo I leggiamo (le sottolineature sono mie) :
“Il processo ciclico del capitale è quindi unità di circolazione e produzione; include l’una e l’altra. In quanto le fasi D-M, M’-D’ sono atti circolatori, la circolazione del capitale fa parte della circolazione generale delle merci; ma, in quanto sono sezioni funzionalmente determinate, stadi del ciclo del capitale che appartiene non soltanto alla sfera di circolazione, ma anche alla sfera di produzione, il capitale [denaro] descrive entro la circolazione generale delle merci un ciclo suo proprio. Nel primo stadio, la circolazione generale delle merci gli permette di rivestire la forma nella quale potrà funzionare come capitale produttivo; nel secondo gli permette di spogliarsi della sua funzione di merce, in cui non può rinnovare il proprio ciclo, e nello stesso tempo gli apre la possibilità di separare il suo proprio ciclo di capitale dalla circolazione del plusvalore ad esso concresciuto. Il ciclo del capitale denaro è quindi la forma fenomenica più unilaterale, dunque la più evidente e caratteristica del ciclo del capitale industriale, il cui fine e motivo animatore – valorizzazione del valore, creazione di denaro, accumulazione – vi è rappresentato in modo che salta agli occhi”.
Per inciso, sottolineo che queste righe esprimono, con parole diverse, lo stesso concetto di un altro passaggio in cui Marx scrive che, per il capitalista, la forma ideale di attività è quella sintetizzata dalla formula D-D, cioè la creazione di denaro mediante denaro, mentre la fase produttiva del ciclo è solo un mezzo necessario, un impiccio del quale egli non può fare a meno per realizzare il suo vero obiettivo. Teniamo presente questo punto cruciale (che in sostanza descrive i processi di finanziarizzazione in cui è immerso l'occidente capitalistico – ndR) e andiamo avanti.

A pagina 100 (siamo nel capitolo II, dedicato al ciclo del capitale produttivo) Marx, ragionando sulla possibilità che la metamorfosi D-M, che prelude all’acquisizione delle risorse necessarie all’avvio del processo produttivo, si imbatta in qualche ostacolo come, per esempio, una carenza di mezzi di produzione sul mercato, scrive che in questo caso “il flusso del processo di riproduzione è interrotto, esattamente come quando il capitale resta immobile in forma di capitale merce [cioè in caso di carenza di sbocchi di mercato]. La differenza è però questa: esso può persistere nella forma di denaro più a lungo che nella transeunte forma merce. Non cessa di essere denaro quando non funziona come capitale denaro, ma cessa di essere merce, e in generale, valore d’uso, quando viene trattenuto troppo a lungo nella sua funzione di capitale merce”.

Con ciò siamo arrivati al nodo cruciale che Marx sintetizza all'inizio del Capitolo IV (“Le tre figure del processo ciclico”): “La continuità è il segno caratteristico della produzione capitalistica” (p. 132), dispiegando ulteriormente il concetto nella pagina successiva: “Tutte le parti del capitale percorrono nell’ordine il processo ciclico, occupano contemporaneamente diversi stadi dello stesso. Così il capitale industriale, nella continuità del suo ciclo, viene a trovarsi contemporaneamente in tutti i suoi stadi e nelle diverse forme di funzione che vi corrispondono (...) Il ciclo reale del capitale industriale nella sua continuità (sottolineatura mia) è, quindi, non soltanto unità di processo di circolazione e processo di produzione, ma unità di tutti e tre i suoi cicli”.
Ed è precisamente nel binomio unità-continuità del ciclo che si annida il seme della crisi: “Ogni arresto nel susseguirsi delle parti getta lo scompiglio nel loro giustapporsi; ogni arresto in uno stadio ne provoca uno più o meno grave in tutto il ciclo non solo della parte di capitale che si è fermata, ma della totalità del capitale individuale” (p. 134).
Detto, per inciso, che uno dei fattori che possono provocare un arresto sono le lotte operaie (1), va chiarito che quanto abbiamo appena letto vale tanto per il capitale individuale quanto per quello complessivo, dal momento che “la produzione capitalistica esiste e può continuare ad esistere solo finché il valore capitale venga valorizzato, cioè descriva il suo processo ciclico come valore resosi autonomo; finché, dunque, le rivoluzioni di valore vengano in qualche modo superate e compensate (sottolineatura mia) (p. 136).

L’imperativo di garantire la continuità del processo di valorizzazione, assieme all’assenza di regolazione sociale della produzione, fa sì che possa accadere, anche se e quando la produzione viaggia a pieno regime, che “una gran parte delle merci sia entrata solo in apparenza nel consumo [mentre] in realtà giaccia invenduta (...) si trovi ancora, di fatto, sul mercato. Flusso di merci segue a flusso di merci, finché accade che il flusso passato risulti solo in apparenza inghiottito dal consumo. I capitali merce si contendono l’un l'altro il posto sul mercato. Pur di vendere, gli ultimi arrivati vendono sotto prezzo [sono indotti a] vendere a qualunque prezzo per essere in grado di pagare. Questa vendita non ha assolutamente nulla a che vedere con lo stato effettivo della domanda: ha solo a che vedere con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di convertire merce in denaro. Scoppia allora la crisi” (Libro II, pp. 102-103).

Parliamo dunque qui di sovrapproduzione, la cui altra faccia è il sottoconsumo, a proposito del quale Marx scrive (Libro II, p. 101) “per la classe dei capitalisti, la costante esistenza della classe operaia è necessaria [non solo per produrre plusvalore, ma perché] è anche necessario il consumo (...) del lavoratore”; concetto che nel Libro III (p.610) approfondisce così: “la capacità di consumo degli operai è limitata sia dalle leggi del salario, sia dal fatto di essere impiegati solo finché è possibile impiegarli con profitto”; per concludere poco dopo che “La causa ultima di ogni vera crisi resta sempre la miseria e la limitatezza dei consumi delle masse rispetto alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive come se il loro limite fosse soltanto costituito dalla capacità di consumo assoluta della società”. La contraddizione tra la fame assoluta di profitto del capitalista e la limitata capacità di consumo delle masse, ci fa capire che la sovrapproduzione è sempre relativa, come Marx ribadisce in questo lungo passaggio: “Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente e umano la massa della popolazione (...) periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale (...) Non è che si produca troppa ricchezza. È che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalista.” (Libro III, pp. 329-330)

In sintesi: il carattere anarchico del modo di produzione capitalistico genera la dismisura della produzione; conseguenza della dismisura è la possibilità che si diano interruzioni della continuità del ciclo di accumulazione; l’interruzione genera la crisi che, nei passaggi appena citati, assume la forma della sovrapproduzione, che però non è la causa, bensì l’effetto delle contraddizioni strutturali del modo di produzione.

L’interruzione del ciclo, tuttavia, può essere provocata anche da altri fattori. All’inizio del Capitolo XXVI del Libro III (“Accumulazione del capitale denaro e suo influsso sul saggio di interesse”, pp.525 e segg.), Marx cita il seguente estratto dal volume The Currency Theory reviewed (1845): “In Inghilterra ha luogo una costante accumulazione di ricchezza addizionale [una gran parte della quale era presumibilmente il frutto del saccheggio dell’India e altre colonie, NdA], che tende infine ad assumere la forma del denaro. Ma dopo l’aspirazione a guadagnar denaro, il desiderio più ardente è quello di disfarsene in questa o quella forma d’investimento che arrechi un interesse o profitto; giacché il denaro in quanto tale non produce ricchezza (sottolineatura mia).

Trova qui conferma la tesi marxiana secondo cui il plusvalore irrigidito in tesoro “costituisce capitale denaro latente, perché fin quando persiste nella forma denaro, non può svolgere funzioni di capitale” (Libro II, pp. 104-105). Ma colpisce ancor più l’attualità di queste righe, che avremmo potuto leggere su un giornale americano ai primi del Duemila, poco prima dell’esplosione della bolla speculativa dei subprime. Sappiamo infatti che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, le enormi masse di denaro affluite negli Stati Uniti da ogni parte del mondo, anche in conseguenza dello sganciamento del dollaro dall’oro, faticavano a trovare impieghi remunerativi nel settore industriale, il che ha provocato un’accelerazione mostruosa del processo di finanziarizzazione. Queste situazioni di “pletora di capitale denaro” sono destinate, scrive Marx, ad aumentare “via via che si sviluppa il credito”, spingendo l’economia al di là dei limiti connaturati al modo di produzione capitalistico, per cui generano “eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito” (Libro III, p. 637). Profezia che ha avuto clamorosa conferma nella seconda metà del secolo scorso, allorché, esaurita la spinta alla crescita industriale, l’eccesso si è progressivamente concentrato nel settore finanziario. E poiché nemmeno la finanza può crescere all’infinito, si è disperatamente tentato di farla crescere su se stessa, dilatando l’economia del debito, le scommesse sul futuro, i titoli speculativi ad alto rischio, ecc. Trasformando cioè l’economia in una immane bisca, finché alcune puntate troppo azzardate – vedi la cartolarizzazione massiva di debiti inesigibili - hanno generato il crac. Il ciclo è sempre il solito: il carattere anarchico del modo di produzione genera la dismisura (in questo caso finanziaria), la dismisura provoca l’interruzione del ciclo, l’interruzione provoca la crisi.

*****

Nella seconda parte di questa quinta e ultima tappa del nostro viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale ci occuperemo della concentrazione e centralizzazione dei capitali, nonché della cosiddetta legge della caduta del saggio di profitto, fenomeni che, come vedremo, Marx mette in relazione. Approcciamo il problema del saggio di profitto partendo dal concetto di composizione organica del capitale. “Un certo numero di operai corrisponde ad una certa quantità di mezzi di produzione; quindi una certa quantità di lavoro vivo ad una certa quantità di lavoro già oggettivato nei mezzi di produzione”, scrive Marx (Libro III, p.191), quindi prosegue: “Questo rapporto è molto diverso in diverse sfere di produzione, spesso in diversi rami di una sola e medesima industria, quantunque occasionalmente possa essere esattamente o quasi lo stesso in rami d’industria assai distanti fra loro. Questo rapporto costituisce la composizione tecnica del capitale, ed è la vera base della sua composizione organica”.
In conclusione, anche se si possono dare, a seconda del valore dei mezzi di produzione messi in moto dalla forza lavoro, differenze più o meno grandi fra composizione tecnica e composizione di valore, la definizione completa del concetto che ci viene data da Marx è la seguente: “Chiamiamo composizione organica del capitale la sua composizione di valore, nella misura in cui è determinata dalla sua composizione tecnica e la rispecchia” (Libro III, p. 192).

A mano a mano che aumenta la concentrazione del capitale, che vengono introdotti nuovi mezzi di produzione, che il progresso tecnologico e scientifico alimentano l’incessante sviluppo della produttività del lavoro, che quantità crescenti di macchine vengono messe all’opera dal lavoro vivo “questo graduale aumento del capitale costante in rapporto al capitale variabile avrà necessariamente per risultato una graduale caduta del saggio di profitto pur restando invariato il saggio di plusvalore, ovvero il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale” (Libro III, p. 272).
La legge appena enunciata, chiarisce Marx poche pagine dopo “non esclude affatto che la massa assoluta del lavoro messo in moto e sfruttato dal capitale sociale (...) cresca; non esclude neppure che i capitali sottoposti al comando dei singoli capitalisti comandino una massa crescente di lavoro e quindi pluslavoro”, infatti la diminuzione è relativa e non ha nulla a che vedere con la grandezza assoluta del lavoro e del pluslavoro messi in moto, dal momento che “La caduta del saggio di profitto non deriva da una diminuzione assoluta, ma da una diminuzione soltanto relativa della parte variabile del capitale totale, dalla sua diminuzione in confronto alla parte costante” (Libro III, pp. 278-279).

L’allargamento della scala della produzione e l’aumento della produttività del lavoro sociale fanno dunque sì che “ogni prodotto individuale preso a sé contiene una somma di lavoro minore che in stadi più bassi della produzione” (Ivi, p. 273). Nello stesso tempo, alla caduta del saggio di profitto associata all’aumento della produttività si accompagna un aumento della massa del profitto. Ciò basta a neutralizzare gli effetti della legge? No, pur se Marx elenca una serie di controtendenze che ne frenano la progressione. Il singolo capitalista può aumentare il saggio di plusvalore sfruttando certe invenzioni prima che si generalizzino (ma prima o poi si generalizzano e il saggio di plusvalore torna a livellarsi); l’aumento della sovrappopolazione relativa “è inseparabile dallo sviluppo della forza produttiva del lavoro che si esprime nella caduta del saggio di profitto e ne è accelerata” (Ivi, p. 303) e consente di abbassare i salari al disotto della media – il che rende più a buon mercato sia gli elementi del capitale costante sia i mezzi di sussistenza (2) – ma essi non possono scendere oltre un certo limite e, d’altro canto “la compensazione del numero ridotto di operai grazie all’aumento del grado di sfruttamento del lavoro si imbatte in confini insuperabili; se quindi può ostacolare la caduta del saggio di profitto, non può annullarla” (Ivi, p. 317).

Infine Marx cita, fra i fattori che operano in controtendenza alla legge, il commercio estero (soprattutto coloniale): “i capitali investiti nel commercio estero possono fornire un più alto saggio di profitto perché (...) qui si è in concorrenza con merci prodotte da paesi con minori facilità di produzione, cosicché il paese più progredito vende le proprie merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato che i paesi concorrenti”; e poche righe sotto, anticipa la tesi dello scambio ineguale che verrà sviluppata nel secondo dopoguerra dai teorici del sottosviluppo (3): “Lo stesso rapporto si può stabilire nei confronti del paese in cui si esportano e da cui si importano merci: avviene che questo dia in natura più lavoro oggettivato di quanto ne riceve, e tuttavia ottenga la merce a un prezzo inferiore a quello al quale potrebbe produrla egli stesso” (Ivi, p. 305); e nella stessa pagina aggiunge che i capitali investiti in colonie “possono fornire saggi di profitto più alti, perché ivi il saggio di profitto è più elevato a causa del più basso sviluppo industriale e, grazie all'impiego di schiavi, coolies, ecc., vi è anche più elevato lo sfruttamento del lavoro”.

Torniamo al Libro II (Capitolo IV, “Le tre figure del processo ciclico”, p. 136) dove leggiamo: “Il processo si svolge in modo del tutto normale se i rapporti di valore restano costanti; si svolge, in realtà, finché le perturbazioni nel ripetersi del ciclo [le discontinuità del ciclo stesso] si compensano; quanto maggiori sono le perturbazioni, tanto più capitale denaro deve possedere il capitalista industriale per poter attendere la compensazione; e poiché (...) la scala di ogni processo di produzione si allarga, e con essa cresce la grandezza minima del capitale da anticipare, quella circostanza si aggiunge alle altre che sempre più trasformano la funzione del capitalista individuale in monopolio di grandi capitalisti monetari, isolati o associati”. Mentre nel capitolo XIV (“Il tempo di circolazione”, p. 310) scrive, a proposito dei vantaggi generati dallo sviluppo di grandi centri nei quali convergono vie e mezzi di trasporto: “questa particolare facilità dei traffici e la rotazione in tal modo accelerata del capitale (...) determinano una più rapida concentrazione sia del luogo di produzione, sia del luogo di smercio. Con la concentrazione così accelerata di masse di uomini e capitali in dati punti, va di pari passo la concentrazione di queste masse di capitali in poche mani”.

Dunque i processi di concentrazione e centralizzazione si alimentano a vicenda, ma qual è la loro relazione con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto? Rieccoci al Libro III (Capitolo XV “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge” pp. 309 e segg.) dove troviamo la risposta: “l’accumulazione accelera la caduta del saggio di profitto in quanto implica la concentrazione dei lavori su grande scala, quindi una più alta composizione organica di capitale (...) la caduta del saggio di profitto accelera a sua volta la concentrazione del capitale e la sua centralizzazione mediante l’espropriazione dei più piccoli capitalisti e degli ultimi resti di produttori immediati...” (4).

Subito dopo, con un crescendo incalzante, il testo accelera verso la sentenza di morte per il modo di produzione capitalista. Ecco la sequenza:
“La contraddizione consiste in ciò, che il modo di produzione capitalistico racchiude una tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive (...) mentre d’altro lato ha come scopo la conservazione del valore capitale esistente e la sua valorizzazione nella misura estrema (...) Il suo carattere specifico è di servirsi del valore capitale esistente come mezzo per la valorizzazione massima possibile di questo valore. I metodi con cui essa raggiunge questo scopo comprendono: la diminuzione del saggio di profitto,la svalorizzazione del capitale esistente e lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte”.

“La svalorizzazione periodica del capitale esistente [che serve a frenare la caduta del saggio di profitto e ad accelerare l’accumulazione con la formazione di nuovo capitale] turba (...) il processo di circolazione e riproduzione del capitale, ed è quindi accompagnata da improvvisi arresti e crisi del processo produttivo”.

“La diminuzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante (...) dà impulsò all’aumento della popolazione operaia, mentre crea di continuo una sovrappopolazione artificiale. L'accumulazione del capitale (...) viene rallentata dalla caduta del saggio di profitto, per accelerare ulteriormente l’accumulazione del valore d’uso; a sua volta, questa dà all'accumulazione considerata quanto al valore un ritmo accelerato”

“La produzione capitalistica tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti”.
Ergo: “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”.

*****

Giunti a questo punto, dobbiamo prendere atto di un inconfutabile dato di fatto: mentre le contraddizioni del modo di produzione capitalistico descritte nel Capitale hanno trovato innumerevoli conferme storiche, la loro mancata soluzione non ha provocato la prevista crisi terminale del sistema.

A cosa possiamo imputare questa errata previsione? Elenco qui di seguito le due cause che considero determinanti:
1) la deformazione prospettica provocata da una concezione teleologica del processo storico, al quale vengono attribuite leggi immanenti, automatismi “oggettivi” che ne orientano le presunte tendenze di fondo (anche se sappiamo che in alcuni testi tardi Marx ha rinnegato tale visone);
2) la descrizione della classe operaia come forza produttiva del capitale, priva di soggettività autonoma, classe in sé e non per sé (un limite cui solo la teoria leninista del partito è riuscita a porre rimedio).

Naturalmente si potrebbe citare anche la prospettiva eurocentrica da cui Marx ha osservato la realtà mondiale, sottovalutando le capacità di resilienza e resistenza di classi, popoli e culture extraeuropee alla colonizzazione da parte del modo di produzione capitalistico; così come si potrebbe citare la sua descrizione del processo di socializzazione del capitale come prodromo della transizione alla società dei produttori associati, un fattore che è stato sfruttato per giustificare sia il gradualismo riformista dei partiti socialdemocratici che i deliri operaisti sul cosiddetto “comunismo del capitale”, ma questi sono limiti imputabili al contesto storico in cui Marx si è trovato a svolgere il suo lavoro teorico. Ciò detto, mi avvio a concludere questo percorso analizzando i contributi di tre autori che hanno provato a spingere la teoria al di là dei limiti appena accennati, vale a dire Rosa Luxemburg, il duo Paul Baran e Paul Sweezy e Giovanni Arrighi.

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Nella sua ponderosa Accumulazione del capitale (5) Rosa Luxemburg, oltre a ricostruire – e a criticare – gli schemi della riproduzione semplice e della riproduzione allargata che Marx formula nella Terza Sezione (“La riproduzione e circolazione del capitale totale sociale”) del Libro II del Capitale, ripercorre le controversie teoriche sull’argomento che si sono susseguite fra gli economisti classici ed altri autori a lei contemporanei. Non la seguirò in questo accidentato percorso, né tantomeno nelle complicate argomentazioni logico-matematiche con cui la grande teorica e leader comunista cerca di dimostrare che gli schemi marxiani non funzionano. Anche perché, come lei stessa osserva giustamente nella sua “Anticritica”, l’appendice in cui replica ai critici che ne contestavano le tesi, gli schemi matematici in quanto tali non possono dimostrare alcunché, visto che lo stesso Marx non li intendeva come una dimostrazione delle proprie teorie, bensì come un modello, un esempio del modo in cui pensava che funzionassero i meccanismi della riproduzione sociale totale. La mia critica, argomenta Luxemburg, non riguarda tanto gli schemi, quanto il fatto che il loro presupposto storico è insostenibile.

Il vero nodo della questione, scrive, è il fatto che: “Nel II, come anche nel I Libro del Capitale, Marx parte dal presupposto che la produzione capitalistica sia l’unica ed esclusiva forma di produzione” (6). Ciò è confermato dalle seguenti parole di Marx (si tratta di una citazione dal Libro I): “Per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purezza, liberi da circostanze perturbanti accessorie, dobbiamo considerare tutto il mondo commerciale come una nazione e presupporre che la produzione capitalistica si sia imposta dovunque e abbia conquistato tutti i rami dell'industria”. Il guaio, commenta Luxemburg, è che il presupposto da cui muove Marx “per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purezza” è palesemente falso, perché in realtà come tutti sanno e come lo stesso Marx ammette, aggiunge la Luxemburg poche righe sotto, la produzione capitalistica “non è affatto l’unica, né il suo dominio è esclusivo e totale (...) in tutti i paesi capitalistici [anche i più sviluppati] esistono numerose aziende artigiane e contadine fondate sulla produzione semplice delle merci (...) esistono anche in Europa paesi in cui la produzione contadina e artigiana è tuttora prevalente, come la Russia, i Balcani, i Paesi scandinavi, la Spagna. Infine (...) esistono giganteschi continenti nei quali la produzione capitalistica ha appena cominciato a mettere radici in piccoli punti sparsi, mentre per il resto i loro popoli presentano tutte le forme economiche possibili, dalla comunistica primitiva, alla feudale, contadina, artigiana” (7).

Che l’osservazione appena citata fosse valida ai tempi in cui l’autrice scriveva è incontestabile. Ma, come abbiamo a nostra volta sostenuto sulle pagine di questo blog, analizzando le tesi di Gabriele e Jabbour sulla convivenza fra modi di produzione (8), quelle di vari autori afro marxisti (9) e quelle di Giovanni Arrighi, ispirate all’opera del grande storico dell’economia Fernand Braudel (10), la sua validità permane intatta ai giorni nostri. Se la produzione capitalistica fosse acquirente illimitata di se stessa, se cioè produzione e mercato di sbocco si identificassero in un continuo gioco di scambi reciproci fra settori produttivi di mezzi di produzione e settori produttivi di mezzi di sussistenza, argomenta Luxemburg, le crisi periodiche non avrebbero ragione di esistere, l’accumulazione capitalistica sarebbe un processo illimitato esente da conflitti e contraddizioni, e ogni discorso sulla necessità della transizione al socialismo perderebbe senso. Viceversa noi sappiamo che questa armonia sistemica non esiste, “che ogni imprenditore produce alla cieca, in concorrenza con altri, e vede solo ciò che gli passa davanti al naso (...) che l’attuale produzione assolve il proprio scopo al modo dei sonnambuli, attraverso un eccesso o un difetto, entro continue oscillazioni dei prezzi e crisi”(11). Sappiamo d’altro canto che la produzione capitalistica, “pur con le sue diversità dalle altre forme storiche di produzione, ha questo in comune con esse, che, sebbene il suo scopo determinante sia, soggettivamente, il profitto, essa deve oggettivamente soddisfare i bisogni materiali della società” (12).

Anarchia della produzione, necessità di soddisfare i bisogni materiali della società aumentando nel contempo i profitti: una contraddizione che può essere affrontata solo garantendo un continuo allargamento della produzione, pena interruzioni catastrofiche del ciclo. Perché il meccanismo stia in piedi ad onta delle sue contraddizioni immanenti, occorre dunque che esista la possibilità di un continuo allargamento del fabbisogno sociale: nel nostro magazzino “dovremo trovare anche un terzo gruppo di merci non destinate né al rinnovo dei mezzi di produzione consumati né al mantenimento degli operai o della classe capitalistica, merci contenti il plusvalore estorto ai lavoratori, che rappresenta il vero obiettivo del capitale: il profitto destinato all’accumulazione” (13).

La soluzione sta nel fatto che, contrariamente al modello immaginato da Marx, che si fonda sul presupposto che la produzione capitalistica sia l’unica ed esclusiva forma di produzione, l’accumulazione capitalistica si compie in un ambiente fatto di diverse forme precapitalistiche, per cui “la produzione capitalistica conta su acquirenti di origine contadina e artigiana dei vecchi paesi e su consumatori di tutti gli altri, e a sua volta non può fare tecnicamente a meno di prodotti di questi strati e paesi (...) perciò fin dall’inizio si svolse fra la produzione capitalistica e il suo ambiente non-capitalistico un rapporto di scambio, in cui il capitale trovò la possibilità sia di realizzare il proprio plusvalore ai fini di una ulteriore capitalizzazione in denaro, sia di rifornirsi di tutte le merci necessarie per l'allargamento della sua produzione, sia infine di assorbire nuove forze-lavoro proletarizzate mediante la decomposizione violenta di forme di produzione non capitalistiche” (14)

Le argomentazioni teoriche di Rosa Luxemburg non sono mai piaciute agli economisti marxisti in quanto considerati scientificamente approssimativi e “ideologici”. Eppure è evidente che la teoria leninista dell’imperialismo (benché Lenin abbia a sua volta criticato l’opera della Luxemburg) trova qui un’amplificazione che, da un lato, corrobora la tesi della convergenza di interessi fra proletariato dei paesi industrialmente avanzati e masse dei paesi sottosviluppati, dall'altro lato offre spunti di riflessione in merito alla possibilità di costruire blocchi di classe anticapitalisti all’interno dei singoli paesi (non a caso le tesi luxemburghiane hanno goduto di ampi favori nei paesi dell’America Latina, dove la convivenza fra diversi modi di produzione è una diffusa realtà di fatto). Né è un caso se le sue idee hanno goduto della simpatia di autori come Paul Sweezy (che firmò l’Introduzione alla Accumulazione), il quale ha inaugurato una generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, sono tornati a riflettere sul concetto di imperialismo.

Chiudo con un’annotazione critica: se la Luxemburg ha il merito di avere messo in luce gli “automatismi riproduttivi” che, in certe sezioni del Capitale, rischiano di oscurare la conflittualità immanente al modo di produzione capitalistico, dall’altro lato ha il demerito di avere elaborato un’ennesima variante della teoria del “crollismo”. Infatti, ipotizzando che arrivi una fase storica in cui si avveri il presupposto marxiano della sparizione dei modi di produzione precapitalistici, scrive: “Ma attraverso questo processo il capitale prepara in duplice modo il proprio crollo. Da una parte, allargandosi a spese di tutte le forme di produzione non-capitalistiche, si avvia verso il momento in cui l’intera umanità consisterà unicamente di capitalisti e salariati e perciò un'ulteriore espansione risulterà impossibile; dall’altra parte nella misura in cui questa tendenza s’impone [realizzando il dominio assolto e indiviso della produzione capitalistica nel mondo] dovrà provocare la rivolta del proletariato internazionale...”(15).
E qui è difficile evitare la tentazione di citare l’ironica battuta di Giorgio Ruffolo: il capitale ha i secoli contati...

*****

Nell’articolo su lavoro produttivo e lavoro improduttivo, abbiamo anticipato alcune idee di Paul Baran e Paul Sweezy sul capitale monopolistico e sull'imperialismo. In particolare, abbiamo introdotto il concetto di surplus – definito come “la differenza fra ciò che la società produce e i costi per produrlo” – grandezza che comprende il plusvalore. Per Marx quest’ultimo rappresenta la somma di profitto, interesse e rendita ad esclusione delle entrate dello stato, delle spese per trasformare le merci in denaro e dei salari dei lavoratori improduttivi, ma Baran e Sweezy sostengono che mentre tale esclusione è giustificata finché si ragiona di economia concorrenziale, diviene anacronistica nell’era del capitale monopolistico, in cui la quota del plusvalore rispetto al surplus sociale complessivo tende a contrarsi, mentre quest’ultimo tende a crescere in misura tale da compensare, se non neutralizzare, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Ciò riduce o elimina il rischio di crisi? No, rispondono Baran e Sweezy: seppure l’unità tipica del mondo capitalistico non è più la piccola impresa, bensì la grande società per azioni che produce una parte importante del prodotto di una o più industrie, e seppure quest'ultima dispone di un orizzonte temporale più esteso di quello del singolo capitalista, per cui compie i suoi calcoli in modo più razionale, resta il fatto che “il capitalismo monopolistico è altrettanto privo di un piano quanto il suo predecessore concorrenziale. Le grandi società per azioni sono in rapporto fra loro, con i consumatori, con il lavoro, con le imprese minori principalmente attraverso il mercato. Il funzionamento del sistema è tuttora il risultato non intenzionale delle azioni egoistiche delle numerose unità che lo compongono” (16).

Permane quindi il carattere anarchico della produzione, ovvero la prima causa potenziale di crisi. Che dire del secondo fattore, cioè della possibilità di rallentamento o interruzione del ciclo? A provocarlo è ora soprattutto l’eccesso di surplus che non trova sbocco, sono cioè quei profitti che, se non vengono investiti né consumati, non sono tali: “il problema di realizzare il plusvalore è in realtà più cronico oggi che ai tempi di Marx”. Ciò che ha impedito a Marx e agli economisti classici di interrogarsi più a fondo sull'adeguatezza dei modi di assorbimento del surplus è stata probabilmente la loro convinzione che il dilemma centrale del capitalismo si riassumesse nella caduta tendenziale del saggio di profitto: “Viste da questo angolo visuale – scrivono Baran e Sweezy – le barriere allo sviluppo capitalistico sembravano consistere più in una carenza del surplus necessario per mantenere il ritmo dell’accumulazione che in una insufficienza dei modi caratteristici di utilizzazione del surplus” (17). Se invece la barriera principale diventa quest’ultima, il rischio è che l’eccesso di capacità finisca per scoraggiare ulteriori investimenti e che, con il venir meno degli investimenti, calino reddito, occupazione e surplus, per cui ecco la crisi. La soluzione consiste, a questo punto, nello stimolare con ogni mezzo la domanda, pena la stasi e la morte del sistema.

È a partire da qui che l’analisi di Baran e Sweezy tende a convergere con quella della Luxemburg: al pari di costei, i due sono infatti convinti che, se fossero disponibili soltanto gli sbocchi endogeni, il capitalismo monopolistico sarebbe in uno stato permanente di depressione. Bisogna cioè abbandonare il modello riproduttivo che si fonda esclusivamente sugli scambi reciproci fra diversi settori produttivi, nonché sui consumi di capitalisti, operai e percettori di rendita. Per spiegare il modello alternativo che emerge dalla loro analisi con concetti a noi più familiari, potremmo dire che esso si fonda su fenomeni quali la terziarizzazione, la finanziarizzazione, l'economia del debito, il keynesismo di guerra (inteso come effetto combinato di imperialismo, sistema militare-industriale, neocolonialismo). Ma ascoltiamo le loro parole.

La lotta contro gli spettri di sottoconsumo, sottoinvestimento e sottoccupazione cronici, argomentano Baran e Sweezy, richiede la crescita di nuovi strati improduttivi di forza lavoro, che vanno ad aggiungersi ai tradizionali ceti divoratori di surplus: “si è avuto un aumento di stratificazione all’interno della classe lavoratrice in senso stretto e molte categorie di impiegati e di operai specializzati hanno conseguito redditi e posizioni sociali che fino a non molto tempo fa erano godute solo dai componenti delle classe medie. Contemporaneamente, sono aumentati i vecchi ceti ‘divoratori di surplus’ e sono sorti nuovi ceti: tecnocrati delle imprese e dell’amministrazione, banchieri e avvocati, redattori pubblicitari ed esperti di relazioni pubbliche, agenti di cambio e assicuratori, esperti immobiliari e così via” (18).

Paradigma del nuovo terziario parassitario, scrivono Baran e Sweezy, è la pubblicità e tutto quanto vi ruota attorno (promozione delle vendite, marketing, packaging, design del prodotto, ecc.): “l’importanza economica della pubblicità non sta fondamentalmente nel fatto che essa determina una ridistribuzione della spesa dei consumatori tra differenti beni, ma nei suoi effetti sul volume della domanda effettiva globale e quindi sul livello dell’occupazione e del reddito” (19). Quindi, da un lato, creazione di reddito e assorbimento di surplus, ma dall'altro “gli effetti indiretti sono forse non meno importanti e agiscono nella stessa direzione (...) essi sono di due specie: quelli che riguardano la disponibilità e la natura delle occasioni di investimento, e quelli che riguardano la divisione del reddito sociale complessivo fra consumo e risparmio [leggasi la propensione al consumo]... Permettendo di creare la domanda di un prodotto, la pubblicità incoraggia l’investimento in impianti e attrezzature che altrimenti non si farebbero”. Infine funzione della pubblicità è “quella di condurre per conto dei produttori e venditori di beni di consumo, una guerra incessante contro il risparmio e a favore del consumo [utilizzando a tale scopo] i cambiamenti della moda, la creazione di nuovi bisogni, l’introduzione di nuovi mezzi di distinzione sociale” (21).

La guerra contro i risparmi implica, a sua volta, la crescita esponenziale di quell'altro settore improduttivo che va sotto la voce di attività finanziarie, assicurative e immobiliari: “l’intera attività parassitaria di compravendita e speculazione immobiliare (...) non avrebbe alcuna ragione di esistere in un ordinamento sociale razionale. La maggior parte di ciò che la nostra società spende per l’attività finanziaria assicurativa e immobiliare è una semplice forma di assorbimento del surplus, caratteristica del capitalismo in generale e (...) del capitalismo monopolistico in particolare” (22). Detto che Baran e Sweezy hanno assistito solo alla fase iniziale di un processo che, pochi anni dopo, al culmine della rivoluzione neoliberale, avrebbe toccato vertici parossistici, fino all'esplosione della bolla del 2008, gli va comunque riconosciuto di avere intuito lo stretto legame fra terziarizzazione e finanziarizzazione.

Passiamo al tema dell’imperialismo, rispetto al quale si potrebbe dire che l’approccio di Baran e Sweezy rappresenta un ponte fra le tesi di Lenin e della Luxemburg e quelle dei teorici del sistema mondo. Sappiamo (vedi nota 3) che Baran e Sweezy lamentano il fatto che Marx non abbia ampliato il suo modello teorico fino a comprendere le regioni sottosviluppate del mondo. Ciò è vero solo in parte (23), ma è innegabile che Marx abbia parzialmente trascurato il fatto che, scrivono Baran e Sweezy, “fin dai suoi primissimi inizi nel Medioevo, il capitalismo è sempre stato un sistema internazionale e gerarchico costituito da una o più metropoli al vertice e da alcune colonie completamente dipendenti alla base, ordinate secondo molti gradi di classificazione e subordinazione. Queste caratteristiche sono di fondamentale importanza per il funzionamento del sistema nel suo complesso e dei suoi singoli componenti (...) La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso (..) abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori” (24).

Prima di concludere, credo vada infine riconosciuto a Baran e Sweezy – benché non abbiano potuto assistere alla caduta dell’Unione Sovietica, al successivo tentativo degli Stati Uniti di ergersi a unica potenza mondiale, e all’ascesa della Cina che ne ha frustrato il progetto – il merito di avere messo in luce il duplice meccanismo per cui la metropoli imperiale gode, da un lato, dei mostruosi sovraprofitti che le multinazionali realizzano a spese delle nazioni periferiche e semiperiferiche, dall'altro dell’ancora più mostruoso assorbimento di surplus garantito dal gigantesco apparato militare che la potenza egemone mantiene per conservare il proprio ruolo. Il sistema militare industriale non serve solo in vista di eventuali conflitti interimperialistici, serve anche e soprattutto a conservare il controllo sul proprio dominio imperiale. Ma serve soprattutto ad assorbire le eccedenze di capitali: lo si è visto con la Seconda guerra mondiale, che ha realizzato ciò che le politiche keynesiane seguite alla crisi del '29 non erano riuscite a fare, e lo stiamo vedendo oggi, dal momento che la crisi della globalizzazione e la conseguente contrazione dell’area di controllo imperiale spingono il sistema a scommettere di nuovo sul keynesismo di guerra.

A coronamento del loro modello di auto-riproduzione sistemica, Baran e Sweezy, concentrano l’attenzione sulle nuove forme che tale modello impone alla lotta di classe: “Se si assume la stabilità del capitalismo monopolistico, con la sua provata incapacità di fare uso razionale (...) del suo enorme potenziale produttivo, è necessario decidere se si preferisce la disoccupazione di massa e le caratteristiche della grande depressione, o la relativa sicurezza di occupazione e di benessere materiale assicurata dagli enormi bilanci militari [e dalla creazione di ampi strati di lavoro improduttivo e altri parassiti “divoratori di surplus” NdA]. Poiché la maggior parte degli americani, operai compresi [ma vale purtroppo anche per larga parte dei cittadini europei] assumono ancora senza discussione la stabilità del sistema, è del tutto naturale che essi preferiscano la situazione che personalmente e privatamente è più vantaggiosa per loro [o meglio: che continuano a credere tale contro ogni evidenza...] (25). Ecco perché, argomentano, l’iniziativa rivoluzionaria contro il capitalismo, un tempo nelle mani del proletariato dei paesi avanzati, è passata in quelle delle masse periferiche che lottano contro l’oppressione e lo sfruttamento imperialistici.

*****

Nella parte su socializzazione e socialismo, avevo elogiato un articolo di Bellamy Forster che lamenta il ripudio del concetto di imperialismo da parte dei marxisti occidentali. Qui devo però precisare che dissento da alcuni suoi giudizi. In particolare, Bellamy elenca David Harvey e Giovanni Arrighi fra gli autori che hanno “tradito” il concetto in questione. L’accusa ha qualche fondamento nel caso di Harvey (26), mentre mi pare francamente ingiustificata nel caso di Arrighi, il quale, anche se nei suoi ultimi lavori non usa quasi mai il termine imperialismo, ha dato, assieme a Wallerstein e altri autori (27), un contributo decisivo alla comprensione alle dinamiche del funzionamento del capitalismo come sistema mondiale, a partire dai rapporti di dipendenza fra centri e periferie. Se preferisce ricorrere al concetto gramsciano di egemonia per descrivere tali rapporti, è perché cerca di estendere l’analisi ai fattori socioculturali, e non limitarsi a quelli economici. Questa scelta lo pone sulla scia di autori come Karl Polanyi (28) e Fernand Braudel (29) e, nel contesto degli argomenti di cui stiamo qui discutendo, ha notevoli implicazioni nei confronti di tre concetti marxiani discussi in precedenza:
1) l’idea che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico tenda a stabilire il primato del capitale industriale sui capitali finanziario e commerciale;
2) l’idea che tale sviluppo (in assenza di una rivoluzione socialista) comporti l’annientamento di tutti gli altri modi di produzione (visione che il diamat staliniano ha “canonizzato” nella concezione della storia come successione di stadi: comunistico primitivo, schiavistico, medioevale, capitalistico);
3) l’idea che la concorrenza sia la causa principale di gran parte delle contraddizioni sistemiche.

Che Marx abbia descritto l’industria moderna come la forma più evoluta del modo di produzione capitalistico, argomenta Arrighi, è dovuto al fatto che, nel XIX secolo, il capitalismo era sembrato “specializzarsi” in tale ramo d’attività, per cui si comprende perché, secondo Marx, questo particolare settore economico rappresenti il “vero volto” del capitale. Eppure non va dimenticato che, soprattutto nel Libro III, lo stesso Marx ribadisce in varie occasioni che i capitalisti prediligono – e scelgono appena possibile – la forma D-D’ rispetto ai rischi dell’avventura industriale, che considerano come un male necessario per valorizzare il proprio capitale. Arrighi, al pari di Braudel, batte ancora più decisamente su questo tasto, mettendo in luce come il capitalismo, in tutto il corso della sua lunga storia, non si sia mai lasciato ingabbiare nella produzione e nel commercio di singole merci, né in particolari settori di attività, ma abbia costantemente mantenuto un rapporto “strumentale” nei confronti dei mondi del commercio e della produzione. Le sue caratteristiche sono invece sempre state la plasticità, l'eclettismo, l'adattabilità camaleontica, doti che gli hanno consentito di sfruttare le più svariate opportunità di esercitare quella capacità di “procreare” (il termine è di Marx), che più di ogni altra ne connota l’essenza.

Passiamo a un altro punto. Secondo Braudel, il capitalismo non è mai stato in grado di esaurire l’intera vita economica, di “contenere” l’intera società produttiva. Ancora nell’Europa di oggi (scrive alla fine degli anni Settanta) esistono larghe fasce di autoconsumo, così come esistono piccole imprese artigianali e commerciali, nonché vari tipi di attività che esulano dalla contabilità nazionale. Certo, è soprattutto nel Medioevo che la quasi totalità della produzione è assorbita dall’autoconsumo della famiglia e del villaggio e non entra nei circuiti del mercato. Ed è sempre nel Medioevo che i principali agenti del mercato sono venditori ambulanti e bottegai; ma già allora su questo livello inferiore si elevava l’élite dei grandi mercanti, che dominavano fiere e borse e controllavano il commercio di lunga distanza. Grazie alla concentrazione di masse crescenti di denaro nelle loro mani, costoro iniziarono a svolgere funzione di finanziatori di altri mercanti e di principi, nonché ad acquistare direttamente da contadini e artigiani i loro prodotti per esercitare la funzione di grossisti (è il primo passo verso lo sfruttamento del lavoro a domicilio che nel Libro I del Capitale Marx descrive come l'antenato della manifattura).

Questa sfera superiore della circolazione che si innalza al di sopra degli scambi quotidiani dei mercati elementari e dei traffici a breve distanza, secondo Braudel, è già capitalismo (siamo a cavallo dei secoli XIV e XV, ma in alcune regioni d’Europa si può risalire più indietro). Un fenomeno che lo stesso Braudel definisce contromercato, in quanto, grazie alla sua dimensione internazionale, si sbarazza delle regole dei mercati tradizionali (locali), aggira barriere politiche e giuridiche, gestisce “scambi ineguali in cui la concorrenza... ha poco spazio ed in cui il mercante gode di due vantaggi: in primo luogo quello di avere interrotto il rapporto diretto e lineare tra il produttore ed il consumatore (...); in secondo luogo, dispone del denaro in contanti che è il suo principale alleato” (30). Come dire che la cosiddetta libera concorrenza è sempre stata un mito degli economisti liberal borghesi, mentre il capitalismo è nato tendenzialmente monopolista e tale è rimasto.

Torneremo fra poco sull’argomento, ma prima occorre prendere atto di un corollario di questo modo di approcciare la storia del capitalismo. La coesistenza fra il livello inferiore dell’economia di mercato e il livello superiore del protocapitalismo non è una fase transitoria, contingente. Contrariamente a Marx, il quale prevede che, a mano a mano che il proto capitalismo mercantile evolve in modo di produzione capitalistico maturo, il livello inferiore sia destinato a sparire, nella concezione che abbiamo appena descritto, il livello superiore non può distruggere il livello inferiore per il semplice motivo che la sua natura è quella di un parassita che sfrutta tutto ciò che gli sta sotto, che ne succhia le risorse per metterle a frutto e valorizzare alla seconda potenza il valore creato dagli altri modi di produzione, del quale si appropria. Al modello del marxismo ortodosso, basato sulla successione di stadi (schiavitù, servaggio, capitalismo), subentra la visione di una coesistenza fra modi di produzione diversi – visione condivisa da Luxemburg, Baran e Sweezy, i teorici della dipendenza, Gabriele e Jabbour, oltre che da Braudel e Arrighi.

Riprendiamo il tema del monopolio come tendenza originaria. Per Arrighi, come per Braudel, l’argomento è intrecciato con la questione del rapporto fra concentrazione del potere capitalistico e stato; questione che Marx, ricorda Arrighi, affronta nel Libro I del Capitale a partire dal ruolo del debito pubblico nel sostenere l’espansione iniziale del capitalismo. Ecco la citazione in questione: “Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica (...) Come con un colpo di bacchetta [il debito pubblico] conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero altrettanto denaro in contanti” (31).

Ragionando su questo rapporto storico fra stato e capitale, e sul ruolo che esso ha svolto nella costruzione del dominio europeo sul resto del mondo, Arrighi scrive a sua volta: “la transizione realmente importante che esige una spiegazione non è quella dal feudalesimo al capitalismo, ma quella da un potere capitalistico diffuso a uno concentrato. E l'aspetto più rilevante di questa transizione (...) è la singolare fusione di stato e capitale (sottolineatura mia) che in nessun luogo fu realizzata in modo tanto favorevole al capitalismo come in Europa” (32). Ecco perché, aggiunge Arrighi citando Braudel, il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando è lo stato. Non solo il capitalismo monopolistico, ma anche il capitalismo monopolistico di stato si rivela dunque come una caratteristica originaria del capitalismo; “la concorrenza fra gli stati per il capitale mobile è stata il complemento di questo processo”, aggiunge Arrighi poche righe sotto, e alla pagina successiva scrive: “la concorrenza interstatale è stata una componente decisiva in ciascuna fase di espansione finanziaria e un fattore fondamentale nella formazione di questi blocchi di agenti governativi e imprenditoriali che hanno guidato l’economia-mondo capitalistica attraverso le sue successive fasi di espansione” (33).

Per non dilungarmi eccessivamente, evito di entrare nel merito dell’alternanza di cicli egemonici (Genova, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti) che Braudel e Arrighi considerano il modo in cui l’economia mondo si è sviluppata negli ultimi cinque secoli, né discuterò la tesi secondo cui le fasi di finanziarizzazione marcano le crisi di passaggio da un ciclo egemonico all’altro, né tantomeno metterò a confronto il pensiero di Braudel e Arrighi in merito alla previsione sul modo in cui potrà risolversi la crisi dell’ultimo di questi cicli, egemonizzato dagli Stati Uniti (ricordo solo che Braudel non offre risposte chiare, mentre Arrighi ha prima ragionato sull’emergenza dell’area asiatica, per poi concentrarsi sulla Cina).

Siamo così arrivati alla fine di questo lungo percorso in cinque tappe attraverso il II e III Libro del Capitale, e attraverso il pensiero di alcuni autori che si sono cimentati con le questioni sollevate da questa monumentale opera. Chi si fosse aspettato una conclusione deve rassegnarsi: l’intento di questo lavoro, come ho chiarito sin dall’inizio, era stilare un elenco di quelli che ritengo i principali nodi problematici che Marx ci ha lasciato in eredità, e di indicare alcune direzioni di ricerca per affrontarli e approfondirli. Immaginare di estrarne una “sintesi” sarebbe folle, dal momento che vorrebbe dire pensare di riscrivere un Capitale dei giorni nostri, impresa assai al di là delle mie capacità (e penso di quelle di chiunque altro).

Note

(1) L’intera teorizzazione operaista in merito alla possibilità di rovesciare il modo di produzione capitalistico a partire dalla fabbrica, invece che dal rapporto complessivo fra tutte le classi sociali (cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi 1966), si fonda sulla capacità delle lotte dell’operaio massa di interrompere il ciclo produttivo della grande fabbrica fordista.

(2) Un altro modo in cui si è realizzato tale risultato, è stato quello reso possibile dalla cosiddetta Walmart Economy, vale a dire dall’importazione massiccia di prodotti cinesi a buon mercato (distribuiti dalla catena commerciale Walmart) che hanno consentito di abbassare drasticamente i costi di riproduzione della forza-lavoro americana.

(3) Vedi, fra gli altri, G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1959. Un secolo dopo Marx, Baran e Sweezy lamenteranno il fatto che le intuizioni marxiane sul tema dello scambio ineguale fra centri e periferie e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo siano rimaste episodiche, mentre la sua attenzione si è concentrata quasi esclusivamente sul mondo capitalistico sviluppato.

(4) A questa citazione segue un passaggio già citato in precedenza: “Una volta di più, non si tratta che della separazione, ma alla seconda potenza, delle condizioni di lavoro di produttori, ai quali questi più piccoli capitalisti appartengono perché in essi il lavoro personale recita ancora una sua parte”.

(5) R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale e Anticritica, (Introduzione di Paul Sweezy, Traduzione di Bruno Maffi), Einaudi, Torino 1960.

(6) Op. cit.,p. 478.

(7) Ivi, p. 479.

(8) Cfr. A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21 Century, Routledge, London 2022.

(9) Vedi, in particolare, C. Robinson, Black Marxism, Alegre 2023.

(10) Cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, Bologna 1977.

(11) Op. cit., p. 474.

(12) Ivi, p. 468.

(13) Ivi, p. 475.

(14) Ivi, p. 480.

(15) Ivi, p. 481.

(16) P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, p. 46.

(17) Ivi, p. 97.

(18) Ivi, pp. 107 e segg.

(19) Ibidem.

(20) Ibidem.

(21) Ibidem.

(22) Ivi, p. 119.

(23) Vedi, fra gli altri testi, i saggi suoi e di Engels raccolti nel volume India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960.

(24) Il capitale monopolistico, cit., pp. 151, 152.

(25) Ivi, p. 177.

(26) Mi riferisco in particolare alle critiche che Harvey ha rivolto al libro di Prabhat e Utsa Patnaik, Una teoria dell’imperialismo (Meltemi) negando che il rapporto fra Gran Bretagna e India sia classificabile come un caso di tipico di imperialismo.

(27) Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(28) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(29) Cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, cit.

(30) Ivi, p. 57.

(31) Questo brano, con qualche minima differenza di traduzione, si trova alle pagine 942 e 943 (Libro I) dell’edizione del Capitale che sto utilizzando qui (UTET 1974, Traduzione di Bruno Maffi).

(32) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 1996, p. 30.

(33) Ibidem, p. 31.

Fonte

Dopo un anno e mezzo di atrocità genocide...

Il primo passo lo ha fatto la scorsa settimana il Financial Times, in un articolo del comitato editoriale intitolato: “Il Vergognoso Silenzio dell’Occidente su Gaza”, che denuncia gli Stati Uniti e l’Europa per aver “dichiarato a malapena una parola di condanna” per la criminalità del loro alleato, affermando che “dovrebbero vergognarsi del loro silenzio e smettere di permettere a Netanyahu di agire impunemente”.

Poi è arrivato l’Economist con un articolo intitolato: “La Guerra a Gaza Deve Finire”, in cui sosteneva che Trump avrebbe dovuto fare pressione sul Regime di Netanyahu per un cessate il fuoco, affermando che “Gli unici che traggono beneficio dal proseguimento della guerra sono Netanyahu, che mantiene intatta la sua coalizione, e i suoi alleati di estrema destra, che sognano di svuotare Gaza e ricostruirvi insediamenti ebraici”.

Sabato è uscito un editoriale dell’Independent intitolato: “Fine del Silenzio Assordante su Gaza: È Ora di Parlare”, in cui si sosteneva che il Primo Ministro britannico Keir Starmer “dovrebbe vergognarsi di non aver detto nulla, soprattutto perché Netanyahu ha annunciato nuovi Piani per espandere il già devastante bombardamento di Gaza”, e si affermava che “è ora che il mondo si svegli su ciò che sta accadendo e chieda la fine delle sofferenze dei palestinesi intrappolati nell’enclave”.

Domenica la redazione del Guardian ha pubblicato un articolo intitolato: “Il Punto di Vista del Guardian su Israele e Gaza: Trump Può Fermare Questo Orrore. L’alternativa è Impensabile”, affermando che “Il Presidente degli Stati Uniti ha la forza per imporre un cessate il fuoco. Se non lo fa, darà implicitamente il via libera a quello che sembra un piano di distruzione totale”.

“Cos’è questo, se non un Genocidio?”, si chiede il Guardian. “Quando agiranno gli Stati Uniti e i loro alleati per fermare l’orrore, se non ora?”

Per essere chiari, si tratta di editoriali, non di commenti. Ciò significa che non sono l’espressione dell’opinione di una singola persona, ma la posizione dichiarata di ciascuna testata nel suo complesso. Abbiamo visto occasionalmente editoriali critici nei confronti delle azioni di Israele durante l’Olocausto di Gaza sulla stampa occidentale tradizionale, ma vedere le testate stesse denunciare aggressivamente Israele e i suoi sostenitori occidentali contemporaneamente è una novità assoluta.

Alcuni sostenitori di Israele di lunga data hanno inaspettatamente iniziato a cambiare idea anche a livello individuale.

Il deputato conservatore Mark Pritchard ha dichiarato la scorsa settimana alla Camera dei Comuni di aver sostenuto Israele “a tutti i costi” per decenni, ma poi ha aggiunto: “Mi sbagliavo”, e di aver ritirato pubblicamente tale sostegno in merito alle azioni di Israele a Gaza.

“Per molti anni, sono in questa Camera da vent’anni, ho sostenuto Israele praticamente a tutti i costi, a dire il vero”, ha dichiarato Pritchard. “Ma oggi voglio dire che mi sono sbagliato e condanno Israele per ciò che sta facendo al popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania, e vorrei ritirare immediatamente il mio sostegno alle azioni di Israele, a ciò che sta facendo in questo momento a Gaza”.

“Sono davvero preoccupato che questo sia un momento storico in cui le persone guarderanno indietro e scopriranno che abbiamo sbagliato come Paese”, ha aggiunto Pritchard.

L’opinionista filo-israeliana Shaiel Ben-Ephraim, che aveva denunciato con aggressività i manifestanti universitari e accusato i critici di Israele di “Infamia del Sangue” (antisemitismo) durante l’Olocausto di Gaza, ora ha fatto una dichiarazione pubblica e ha ammesso che Israele sta commettendo un Genocidio a cui bisogna opporsi.

“Ci ho messo molto tempo per arrivare a questa considerazione, ma è ora di ammetterlo. Israele sta commettendo un Genocidio a Gaza”, ha twittato di recente Ephraim. “Tra i bombardamenti indiscriminati degli ospedali, la fame della popolazione, i piani di Pulizia Etnica, il Massacro degli operatori umanitari e gli insabbiamenti, non c’è scampo. Israele sta cercando di sradicare il popolo palestinese. Non possiamo fermarlo se non lo ammettiamo”.

È strano che a tutte queste persone sia servito un anno e mezzo per arrivare a questa considerazione. Io stessa ho una tolleranza molto inferiore per il Genocidio e l’Omicidio di Massa di bambini. Se si è appoggiato il Genocidio per diciannove mesi, sembra un po’ strano iniziare improvvisamente a urlare di quanto sia terribile e chiedere di frenare all’improvviso.

Queste persone non hanno improvvisamente sviluppato una coscienza, stanno solo fiutando cosa c’è nell’aria. Una volta che il consenso supera un certo punto, è naturale che si scateni una corsa folle per evitare di essere tra gli ultimi a opporsi, perché sanno che porteranno quel marchio in pubblico per il resto della vita, dopo che la storia avrà esaminato con chiarezza ciò che hanno fatto.

Dopotutto, questo avviene in un momento in cui l’amministrazione Trump sta iniziando a irritare Netanyahu, spingendo di recente il Primo Ministro israeliano a dichiarare: “Penso che dovremo disintossicarci dall’assistenza alla sicurezza degli Stati Uniti”, quando Washington ha scavalcato Tel Aviv e ha negoziato direttamente con Hamas per ottenere il rilascio di un ostaggio americano.

A quanto pare, gli Stati Uniti stanno escludendo Israele da un numero sempre maggiore di negoziati di affari internazionali in Paesi come Yemen, Arabia Saudita e Iran. Qualcosa sta cambiando.

Quindi, se dopo tutto questo tempo qualcuno sta ancora sostenendo Israele, il mio consiglio è di cambiare finché può. C’è ancora tempo per essere i primi tra i mascalzoni in questa folle corsa, ed evitare di essere gli ultimi a iniziare a comportarsi come se si fossero sempre opposti all’Olocausto di Gaza.

P.s. Tra quanti cercano di prendere l’ultimo treno utile per far dimenticare 19 mesi di sostegno al genocidio non c’è sicuramente il governo italiano, il cui ministro dell’interno – il prefetto Piantedosi – insiste nel dar ordine di fermare, identificare ed eventualmente arrestare chiunque, anche in perfetta solitudine (e anzi, soprattutto se da soli...) sventola o espone una bandiera palestinese.

Che, ricordiamo, è la bandiera di uno Stato riconosciuto dall’Onu, cui l’Italia ha accordato da decenni – anche durante i precedenti governi di destra – la possibilità di tenere aperto un ufficio di rappresentanza ufficiale, accreditato.

Un esempio di quanto stiamo dicendo:

*****

A Putignano (Bari), bandiera palestinese fatta rimuovere dal balcone per il passaggio del Giro d’Italia

La polizia fa togliere la bandiera della Palestina dal balcone: “Deve passare il Giro d’Italia” È successo in Puglia a Putignano (Bari) a denunciarlo Sofia Mirizzi, proprietaria della casa.

Deve passare il Giro d’Italia, vietato esporre bandiere della Palestina. Anche se sono su un balcone di proprietà privata. Questa è la linea seguita dalla polizia a Putignano, in Puglia

Così succede che a Putignano, comune di 25 mila abitanti in provincia di Bari famoso per il suo carnevale, le forze dell’ordine bussino alla porta di una residente chiedendo di rimuovere quella bandiera. Senza altre spiegazioni.

La denuncia di Sofia Mirizzi

La denuncia è arrivata dall’interessata, Sofia Mirizzi, che sui social ha spiegato quanto avvenuto: “Oggi (ieri, 13 maggio, ndr.) la polizia è salita a casa nostra per chiederci di rimuovere la bandiera della Palestina esposta sul nostro balcone privato. Non stavamo disturbando nessuno. Non stavamo violando alcuna legge. Stavamo semplicemente esercitando il nostro diritto di espressione in uno spazio che ci appartiene. Ci è dato ad intendere – ha aggiunto – che la bandiera doveva essere tolta perché il Giro d’Italia sarebbe passato proprio sotto casa nostra e la bandiera sarebbe stata inquadrata dalle telecamere nazionali”.

Poi, nel suo post di denuncia, Mirizzi continua con due domande: “Da quando esporre una bandiera che rappresenta un popolo e una causa umanitaria è diventato motivo d’intervento delle forze dell’ordine? In quale momento il sostegno civile e pacifico a un popolo sotto occupazione è diventato un problema di ordine pubblico? Chiediamo chiarezza, rispetto e il riconoscimento di un principio fondamentale in una democrazia – ha concluso –. Nessuno dovrebbe essere intimidito per aver espresso la propria solidarietà in modo pacifico e legittimo”.

Un episodio inquietante e di enorme gravità. Dopo Il 25 aprile ad Ascoli dove uno striscione antifascista era stato fatto rimuovere alla fornaia che lo aveva esposto e a Mottola (Taranto) 10 cittadini sono stati identificati per aver intonato “Bella Ciao”, a Roma attivisti della Cgil fermati per un volantinaggio sui referendum, ora questo nuovo episodio che ci dice chiaramente che siamo dentro uno Stato di polizia dove non è più consentito neanche esporre una bandiera dal balcone se questa non è gradita al governo.

Tra qualche settimana (il 26 maggio è prevista la votazione alla Camera) il decreto sicurezza sarà convertito in legge. Iniziamo concretamente a disobbedire esponendo le bandiere Palestinesi in ogni balcone come atto di solidarietà alla Palestina e contro lo Stato di Polizia.

Fonte

Italia a marcia indietro

Un’analisi spietata del “modello economico” italiano ed europeo. Ma fatta su un giornale economico, non su un opuscolo “antagonista”. La miseria profonda del capitalismo nazionale emerge ormai senza alcun velo.

Non c’è molto da aggiungere, anche se crediamo che il risultato dei referendum sul jobs act – anche se non cambierebbero la situazione dei salari, nell’immediato – potrebbero diventare una spinta politica per rimuovere la “passività” dei lavoratori, che sembrano da anni tramortiti da una condizione di vita e reddituale ai limiti della sopravvivenza.

Buona lettura. E tenete d’occhio i corsivi...

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di Guido Salerno Aletta

Prima i numeri, che già da soli dicono tutto: perché questo è il risultato di mezzo secolo di polemiche sull’“alto costo del lavoro” in Italia, il problema che veniva sbandierato come la fonte di tutti i mali.

A valori concatenati con anno di riferimento il 2020, e quindi sterilizzando la dinamica dei prezzi [facendo comunque finta che l’inflazione reale, per i redditi bassi, sia davvero quella ufficiale registrata dall’Istat, ndr], la spesa per consumi finali delle famiglie italiane era stata nel 2007 di 1.111 miliardi di euro, un livello mai registrato successivamente. Diciassette anni dopo, nel 2024, è stata ancora di appena 1.085 miliardi, dunque inferiore del 2%.

La spesa per consumi finali delle P.A. è rimasta inchiodata per via della ultradecennale questione del debito insostenibile, passando da 364 miliardi del 2007 ai 363 miliardi di euro del 2024 [anche qui, probabilmente, lo scarto rispetto all’inflazione ufficiale è sensibilmente maggiore, ndr].

Gli investimenti fissi netti, quelli che si aggiungono al rimpiazzo degli esistenti, sono crollati: passando dai +99 miliardi del 2007 ad un valore negativo che è stato registrato continuamente dal 2012 al 2020. Il che significa che per otto anni di fila è stata ridotta la dotazione degli investimenti fissi esistenti per l’importo cumulato pazzesco di 185 miliardi.

Ancora nel 2023 e 2024, nonostante il contributo del PNRR, gli investimenti netti sono stati ancora inferiori a quelli del 2007, rispettivamente pari a 85 ed a 83 miliardi.

Le esportazioni di beni e servizi (fob) sono invece passate dai 492 miliardi del 2007 ai 605 miliardi del 2024, con un incremento di 113 miliardi, ovvero del 23% rispetto al dato iniziale.

Sono dunque referendum praticamente inutili, quelli che si svolgeranno ai primi di giugno con l’obiettivo ampiamente condivisibile di difendere i lavoratori sotto il profilo legale, eliminando da una parte le normative che a partire dal Jobs Act hanno ridotto le tutele reali nei confronti dei licenziamenti illegittimi, e dall’altra quelle che hanno reso via via sempre più semplici le assunzioni temporanee.

Anche se venissero approvati e conseguentemente abrogate le normative messe in discussione, i risultati concreti sarebbero pressoché nulli sia in termini di maggiore occupazione che di salari più elevati. La possibilità di aumentarli dipende dall’incremento della produttività del lavoro: cioè dal fatto di essere stati capaci di “produrre di più” per ogni ora lavorata.

Ma, in Italia, questa dinamica è stagnante per una ragione precisa: le imprese non investono per produrre di più, o per produrre merci o servizi di migliore qualità da vendere a prezzi superiori, il che consentirebbero loro un aumento dei margini di ricavo e di conseguenza un aumento dei salari. Per vendere, puntano sulla competitività, e l’unico fattore di costo su cui possono agire liberamente è il salario.

La ragione di questo disastro sta nel modello economico, profondamente sbagliato, che è stato adottato in Italia da diciassette anni a questa parte, a partire dalla Grande Crisi Finanziaria americana del 2008: la deflazione dei salari è divenuta il modello di riferimento di un Paese in cui mancano drammaticamente gli investimenti netti, quelli che accrescono o migliorano la quantità e la qualità del prodotto.

Le imprese italiane si limitano a rimpiazzare gli impianti ed i macchinari esistenti per rendere più efficiente la produzione, con una conseguenza pericolosissima: visto che la domanda interna è stagnante per via dei salari che non crescono, devono puntare tutto sulle esportazioni, e così la tenuta di interi comparti produttivi, dall’alimentare alla meccanica, dipende dalla domanda estera.

Con la crisi del modello tedesco e con la guerra dei dazi in corso, c’è ben poco da stare tranquilli. Con i costi elevati del credito bancario e dell’energia, c’è da tirare ancora la cintura.

Come se tutto questo non bastasse, l’attivo commerciale strutturale dell’Italia viene reinvestito in asset finanziari all’estero, con impieghi diretti o di portafoglio: per la prima volta nella Storia, siamo diventati creditori netti ed esportatori di capitali. Finanziamo dunque le economie dei nostri competitori.

Ecco perché l’Italia non cresce, anzi si è profondamente impoverita da diciassette anni a questa parte.

Ecco perché i salari italiani sono bassi: più che merci e servizi, esportiamo lavoro a basso costo.

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Brothers In Arms, i 40 anni della fratellanza antimilitarista che fece rinascere i Dire Straits

Due novembre 1984. Nel giorno che in Italia è dedicato al ricordo dei morti, in terra d'Albione si ha la reviviscenza ufficiale di una band che da qualche tempo non dà più notizie di sé, tanto da aver fatto temere a qualcuno di esser anche lei passata a miglior vita, o quantomeno di non essere più in perfetta salute. Una reviviscenza in sordina, però, della quale i più vengono a conoscenza solo in un secondo momento, visto che, in tempo reale, in pochi sanno che quel venerdì torna a radunarsi il nucleo dei Dire Straits, sparito dai radar da un annetto e mezzo circa, cioè dalla fine del tour promozionale dell'ultimo lavoro in studio, “Love Over Gold”, pubblicato a settembre 1982.

Quel tour peraltro ha fruttato una testimonianza, l’ottimo live “Alchemy”, uscito anche per sopperire commercialmente al lungo (per gli standard dell'epoca) periodo di allontanamento dalle scene del gruppo, un periodo durante il quale l’attenzione per i propri progetti solisti da parte del leader e fondatore Mark Knopfler aveva fatto temere la fine della sigla musicale da egli coniata. Per questo, il suo ricostituirsi in pieno autunno 1984 è tutt'altro che scontato e, tenendo fede allo stile del fondatore, avviene senza clamori, anche perché il gruppo sceglie un posto non proprio dietro l'angolo per tornare al lavoro insieme: il Mar dei Caraibi. Il ritrovo si tiene infatti a Montserrat, nelle Piccole Antille, isola facente parte del territorio d'oltremare del Regno Unito. Qui, e più precisamente a Salem, città più popolosa dell'agglomerato, George Martin, il leggendario “quinto Beatle”, all'inizio degli anni '70 ha fatto costruire gli studi di registrazione AIR (Associated Independent Recording), dal nome dell'omonima casa discografica a sua volta fondata dal produttore britannico insieme ad alcuni suoi colleghi circa un lustro addietro.

Va detto che quando si ritrovano insieme i Dire Straits non sono più quelli di prima, non del tutto almeno. Della formazione che ha inciso “Love Over Gold” sono rimasti, oltre ovviamente a Knopfler, i soli Alan Clark alle tastiere e il fido John Illsley al basso. I nuovi volti sono invece quelli di Guy Fletcher, subentrato come addetto a tastiere e synth, e Terry Williams in qualità di percussionista aggiuntivo, stranamente accreditato come membro della formazione ufficiale, ma il cui contributo su disco sarà ridotto alla sola, famosissima, intro di batteria di “Money For Nothing”, per poi essere accantonato in favore di un turnista (Omar Hakim) in tutte le altre parti. Nella line-up ufficiale figura anche un altro componente presente solo in uno stralcio di brano, il chitarrista newyorkese – nonché amico di lunga data di Knopfler – Jack Sonni (che subentrerà a Hal Lindes dopo l'abbandono di quest'ultimo in dicembre) al quale sarà ascritto il solo passaggio di guitar synth di “The Man's Too Strong”. Sonni si aggregherà comunque alla band nel tour relativo al disco e, in qualità di chitarrista ritmico, si guadagnerà la fama di “other guitarist” del combo per tutto l'anno a seguire. D'altronde – si sa – alla sei corde la parte del leone non può che farla il capitano della ciurma, quel Mark Knopfler che è anche il principale compositore del gruppo. In verità c'è anche un altro elemento di continuità con l'ultimo album dei Dire Straits ed è Neil Dorfsman, promosso al rango di co-produttore insieme al frontman, dalla sua precedente posizione di ingegnere del suono.

In studio di registrazione la band inglese ci arriva con tutti i pezzi non solo già scritti ma anche già provati in ensemble, evidentemente in qualche riunione ufficiosa proprio a ridosso della partenza per i Caraibi. Il materiale viene poi registrato in digitale, una tecnica nata di recente, utilizzando il nuovissimo DASH (Digital Audio Stationary Head), formato di nastro audio digitale a bobina appena introdotto dalla Sony. Proprio Dorfsman dichiarerà in proposito: “Una delle cose che rispettavo di più di Mark Knopfler era il suo interesse per la tecnologia come mezzo per migliorare il suono della propria musica. Voleva sempre la migliore qualità in fatto di attrezzature”. Anche il meglio, però, a volte può tradire. “Dopo tre settimane che eravamo in studio – ricorderà Illsley – avemmo un problema con il registratore digitale, che dalla sera alla mattina decise di cancellare circa il 70% di tutto il materiale che avevamo registrato. Erano gli albori del digitale e dovemmo ricominciare a registrare da capo”.

A Salem il gruppo resta fino a febbraio 1985, poi torna in Inghilterra, ma solo per involarsi di nuovo, alla volta di New York, dove si tiene la seconda tranche di incisioni (e dove viene “imbarcato” Sonni). La band arriverà a includere in queste session una gran quantità di musicisti aggiuntivi, con Knopfler che stavolta esagera chiamando a raccolta una decina di profili esterni – con anche qualche sorpresa, come vedremo – laddove in passato era stato molto più parco nell'“appaltare”. Ne risulterà uno degli album pop-rock più “partecipati” di sempre, di sicuro il più collettivo del complesso londinese, con un cameo addirittura di Sting nei cori della summenzionata “Money For Nothing”, seconda traccia in scaletta nonché secondo estratto (dopo “So Far Away”) dell’album e che diventerà una delle più grandi hit in assoluto dei Dire Straits. L’afflato collettivista è elevato al punto che due tra i riff più iconici dell’album, quello di tastiera nell’allegra “Walk Of Life” e quello di sax nella struggente “Your Latest Trick”, si dovranno rispettivamente al succitato Clark e al jazzista americano Michael Brecker, uno degli ospiti del disco. Resta però – come detto – Knopfler il centro di gravità: è lui il comandante che guida la missione; ma come ogni buon comandante non si prende tutti i meriti e rifugge le medaglie, preferendo condividere oneri e onori con i suoi commilitoni.

I lavori terminano a fine marzo, e dopo un mese e mezzo circa ecco finalmente nei negozi la quinta prova sulla lunga distanza dei Dire Straits, “Brothers In Arms”, destinata a divenire uno dei dischi più celebri della storia del rock e che il 16 maggio 2025, a quarant’anni esatti dalla sua pubblicazione, tornerà in una nuovissima Anniversary Edition, comprendente la ripubblicazione in vinile per la prima volta dall'anno di uscita originario, con alcune tracce rieditate per adattarsi al formato vinilico.

Non che a Knopfler siano mai interessate le celebrazioni. Che sia sempre stato a disagio sotto i riflettori non è un mistero. Il carattere del resto è noto: schivo, poco incline al compromesso e ai sorrisi di facciata, avverso a preamboli e ghirigori, riluttante alle mode e ironico, per non dire sprezzante, nei confronti del music business (cosa che negli anni '80 era una specie di sacrilegio).

“Adoro il successo – dichiarerà – significa che posso comprarmi una Gibson Les Paul del 1959 e una motocicletta. Ma detesto la fama: interferisce con quello che fai e non ha nulla di positivo”. E ancora, qualche anno più tardi: “La stampa dice che siamo la band più grande del mondo. Ma questo non ha a che fare con la musica, bensì solo con la popolarità”. E la musica della sua formazione, alla quale Knopfler dona tutto se stesso a partire da testi molto personali e decisamente uncool, è come un capo d’abbigliamento che il nostro si cuce addosso con sapienza sartoriale, ma con uno stile che bada al sodo e non si cura – metaforicamente, ma non solo – della manica strappata o della tasca scucita. E non per moda: questa vena “ciancicata” è tutto fuorché concepita a tavolino.

Naturalmente c’è tutto Knopfler anche in “Brothers In Arms”, la cui copertina, ormai famosissima, richiama forse non a caso l’altrettanto leggendaria cover di “Tubular Bells” di Mike Oldfield. L'album sorprende fin dall’inizio. Dopo le sperimentazioni e gli accorpamenti quasi prog di “Love Over Gold”, disco che, a dispetto della lunghezza e della complessità dei suoi cinque brani, è riuscito comunque a vendere dieci milioni di copie, suona quasi strano l’accattivante incipit di tastiera di “So Far Away”, midtempo sinuoso e levigato ancorché vivace, squisitamente pop, con tastiera e chitarra in primo piano e caratterizzato da uno scaltro utilizzo di effetti, eco e riverbero in primis. Il brano – come già accennato – al momento dell’uscita del disco è già noto da un mesetto, essendo stato scelto come singolo di lancio. E tutto sommato non se l’è cavata male in tale veste, considerata la diciannovesima posizione raggiunta nella classifica inglese (in Italia è arrivata invece al 33° posto), quarto singolo dei Dire Straits a entrare nella Top 20 della Uk chart.

Molto più in alto nelle graduatorie finisce invece, a partire dal suo rilascio a fine giugno, “Money For Nothing”, che diventerà uno dei singoli (e video) più iconici del decennio: prima posizione per tre settimane consecutive nella Top 100 di Billboard e quarta in quella britannica, ma soprattutto un clip promozionale tra i primi a fare uso della computer grafica e che va in heavy rotation proprio su quella Mtv tanto bistrattata nel testo. Il brano, sorretto da un potente riff di chitarra di stampo hard/southern rock – segnatamente un suono fuzzy accostabile a quello degli ZZ Top – dominato dal suono dell’overdrive e suonato con la consueta (per Knopfler) tecnica del fingerpicking, è infatti scritto dal punto di vista di due operai che guardano dei video musicali e si scambiano commenti a riguardo del tipo: “A noi tocca lavorare e guarda questi che suonano in televisione come si guadagnano i soldi”. “That ain't workin'/ That's the way you do it”, sentenzia il testo, in fondo non a torto. “Il protagonista del brano – spiegherà Knopfler – è un tizio che lavora nel reparto ferramenta di un negozio di elettrodomestici. È lui che canta la canzone, che ho composto quando mi trovavo davvero in un negozio del genere. Ho preso carta e penna e mi sono messo a scriverla lì, usando il linguaggio di quel tizio, un linguaggio molto reale”. Nei credit del brano figura anche Sting: “Veniva a Montserrat per fare windsurf – ricorderà Illsley – e spesso ci raggiungeva in studio per cena. Gli facemmo ascoltare la canzone e ne rimase sbalordito. Ci disse: ‘Ce l'avete fatta, bastardi!’. Al che, Mark se ne uscì dicendo che se davvero la trovava così buona poteva forse aggiungervi qualcosa di suo”. Il qualcosa di suo richiestogli ironicamente da Knopfler è il verso in falsetto “I want my Mtv” presente nell'intro e ripreso durante la canzone come backing vocals che ripropone pari pari la linea melodica di “Don't Stand So Close To Me”, hit dei Police e opening track di “Zenyatta Mondatta”, il loro album del 1980. In verità a Sting non importa molto del copyright, come spiegherà lui stesso: “Mark mi chiese di cantare questo verso, mi diede la melodia e pensai: ‘Oh, fantastico, ‘Don't Stand So Close to Me’ è una bella citazione, divertente". Così la cantai e non ci pensai più, finché i miei editori, la Virgin – con cui sono in guerra da anni e per cui non nutro alcun rispetto – decisero che quella canzone era di loro proprietà. Dissero che volevano una percentuale della canzone, con mio grande imbarazzo. Così se la presero”.

Nel complesso “Brothers In Arms” suona più pop dei precedenti capitoli in studio dei Dire Straits e forse anche per questo diventa il loro manifesto stilistico, presentando in veste più masticabile tutto l’immaginario sonoro classico del collettivo, dal folk al blues, al rock‘n’roll, quest'ultimo splendidamente omaggiato nei suoi capisaldi classici proprio con il terzo brano in scaletta, e terzo singolo, “Walk Of Life”, sia nello stile musicale che nel testo. Il Johnny protagonista è un busker che suona in una stazione della metropolitana, omaggio ai cantastorie che negli anni '50 si spostavano di città in città per guadagnarsi da vivere suonando. “Una volta ho visto la foto di un ragazzo che suonava la chitarra nei sotterranei della metro, con la faccia rivolta verso il muro per ottenere un buon riverbero. Mi ricordava me stesso, perché quando iniziai a suonare la chitarra, siccome non avevo un amplificatore, posizionavo il manico dello strumento sul bracciolo di una sedia e appoggiavo la testa sulla cassa per ottenerne rumore”. Il testo snocciola altresì tutto un rosario di espliciti riferimenti a pietre miliari del rock’n’roll come “I Got A Woman”, “Be-Bop-A-Lula”, “What’d I Say”, “My Sweet Lovin’ Woman” e “Mack The Knife”, ed è, a ben vedere, in special modo per l’iconico riff di tastiera, l’unico pezzo gaio del lotto, peraltro inserito in tracklist in extremis (Knopfler inizialmente voleva usarlo come B-side di un qualche futuro singolo), in una scaletta per il resto intrisa di malinconia.

A tal riguardo non fa eccezione un'altra perla come “Your Latest Trick”, che sarà anche il latest singolo dell'album, un brano romantico, da brividi per intensità emotiva, ideale colonna sonora di un momento intimo di coppia come le migliori ballad di Stevie Wonder, con il sax a giocare un ruolo primario e il cantato di Knopfler – rauco, sussurrato – certamente non da meno in quella che è forse la sua migliore performance vocale. Inizialmente il pezzo doveva avere un tempo più veloce e suonare jazz be-bop, ma poi il manager del gruppo, Ed Bicknell, suggerì di rallentarlo e declinare il tutto in un bossa nova per adattarsi meglio al mood generalmente mesto dell’album, sulla scia di altri passaggi come “Why Worry” (tenera ninna-nanna dalla squassante coda strumentale e dai toni rarefatti, notturni), “Ride Across The River” (dagli aromi tribali e cosmopoliti scaturenti dall’utilizzo combinato di un flauto di Pan, una tromba mariachi, un tappeto ritmico a base di ottone affiancato a una parte di batteria più reggae), “The Man’s Too Strong” (di stampo folk e caratterizzata da improvvisi squarci elettrici a rafforzare i duri concetti espressi in un testo dai toni pacifisti) e “One World” (forse l'episodio meno significativo, in relazione al resto del lotto). Ne scaturisce un quadro fosco, crepuscolare, a rappresentare una tristezza figlia anche dei tempi.

Gli anni Ottanta sono comunemente ricordati come il decennio dell'edonismo e del disimpegno. L'altra faccia della medaglia sono però i problemi politici e sociali che attanagliano la dimensione aggregata, problemi alimentati, se non creati, anche dalla direzione politica ed economica imperialista e iperliberista assunta dalle due maggiori potenze mondiali, Stati Uniti e Gran Bretagna, le cui leadership conservatrici incarnate da Ronald Reagan e Margaret Thatcher iniziano i rispettivi, lunghi percorsi più o meno in contemporanea.

Limitandoci alla Gran Bretagna, “Brothers In Arms” esce in piena era thatcheriana e parla anche di guerra, vedasi la conclusiva, struggente title track, magniloquente e splendida ballad anti-militarista, griffata dalla chitarra elettrica di Knopfler e scritta nel 1982 (infatti lo stile è quello di “Love Over Gold”), ossia nell’anno dello scoppio del conflitto delle Falkland, la guerra combattuta tra Regno Unito e Argentina per il possesso delle isole nell'Atlantico meridionale.

Il testo della canzone è scritto dal punto di vista di un soldato ferito in battaglia e sul punto di morire. Negli istanti finali della sua vita l’uomo si ritrova contornato dai suoi compagni in uniforme e si rivolge a loro: “Queste montagne coperte da foschia da adesso saranno la mia casa/ Un giorno voi tornerete alle vostre valli e fattorie e non dovrete più essere fratelli in armi”, recita un testo perfetto per come si sposa con la straziante controparte musicale. Dalla guerra delle Falkland (o Malvinas, per gli argentini) uscirà vincitrice la Gran Bretagna, ma è probabile che anche Knopfler, magari non da cittadino britannico ma da artista libero sì, godrà nel vedere l'argentino Maradona “vendicare” la sconfitta militare del suo paese segnando un gol di mano all’Inghilterra nel Mondiale del 1986. Del resto la Mano de Dios, nella sua declinazione musicale, è quella che Knopfler può a buon diritto rivendicare per sé come erede della slow hand di Eric Clapton, essendo, secondo l'opinione di molti, il più degno epigono dell'ex-asso dei Cream.

Sul piano dei numeri “Brothers In Arms” sarà un successo, vendendo più di 30 milioni di copie in tutto il mondo e restando per un totale di 14 settimane (non consecutive) in vetta alla classifica del Regno Unito (dove diventerà l’ottavo album più venduto di sempre) e per 9 in vetta a quella americana. In più, sarà il primo disco a superare il milione di copie vendute in cd, un formato che nel 1985 è ancora relativamente giovane e di cui i Dire Straits sono considerati tra i più abili, per sonorità e tecniche di registrazione, a sfruttare le potenzialità.

Al disco seguirà un tour globale di ben 248 date, inclusa la partecipazione al Live Aid il 13 luglio 1985 in cui la band suonerà, oltre a “Money For Nothing” proprio con Sting, anche un brano più datato come “Sultans Of Swing”. La performance dei Dire Straits sul palco di Wembley, tra le altre cose, sarà ricordata per aver preceduto l’esibizione probabilmente più memorabile dell’intera giornata: quella dei Queen. Il momento in cui si sentono le note conclusive della stessa “Sultans Of Swing” mentre Freddie Mercury e soci si apprestano a salire sul palco sarà rimarcato anche nel celebre biopic a loro dedicato, “Bohemian Rhapsody”.

Dopo l’avvio in Jugoslavia e il passaggio in Europa, con date anche in Ungheria (da segnalare a riguardo che il papà di Knopfler, Erwin, era ungherese di religione ebraica) e Cecoslovacchia allora facenti parte del blocco sovietico, il Live 85/6 proseguirà in Nord America per poi, in autunno, fare ritorno nel Vecchio Continente, prima di approdare in Oceania. “Il tour di ‘Brothers In Arms’ fu sicuramente un grande successo. Ci rendemmo conto che la band aveva raggiunto un punto unico e, nel complesso, ci è piaciuto”, dichiarerà ancora John Illsley. Dopo l'ultimo show, tenuto a Sydney il 26 aprile 1986, i Dire Straits si allontaneranno nuovamente dalle scene, stavolta per un lustro abbondante che Knopfler, in solitaria, riempirà in parte con alcuni suoi progetti solisti, tra cui un paio in campo cinematografico (accompagnato in studio da Guy Fletcher), sua vecchia passione: la colonna sonora del film fantasy “La storia fantastica”, uscito a settembre 1987, e quella della pellicola drammatica “Ultima fermata Brooklyn”, arrivato nelle sale circa due anni dopo (quest’ultima soundtrack, tuttavia, pur se composta interamente da Knopfler, conterà un solo brano da questi anche suonato, mentre il resto dei pezzi sarà in massima parte eseguito da Fletcher). Questi ultimi due album abbinati a film saranno rispettivamente il quarto e il quinto per Knopfler, che negli anni precedenti a “Brothers In Arms” aveva già firmato le musiche per “Local Hero”, “Cal” e “Comfort And Joy”.

A dire il vero, nel quinquennio di hiatus che farà seguito a “Brothers In Arms”, i Dire Straits torneranno fugacemente insieme in un paio di occasioni speciali: il concerto tributo a Nelson Mandela per i suoi 70 anni tenutosi sempre a Wembley l’11 giugno 1988 (con lo stesso Clapton ad accompagnare il gruppo on stage) e un’esibizione benefica a Newcastle (città in cui Knopfler, nato in Scozia, è cresciuto fin dall’età di sette anni) nel maggio 1989. Ci vorrà però ancora un annetto prima che la band si riformi davvero, e il doppio del tempo prima che torni a pubblicare un disco, l'ultimo sul serio stavolta. “On Every Street”, dato alle stampe a settembre 1991, sarà infatti il capitolo conclusivo di una discografia dei Dire Straits che per certi versi proseguirà idealmente, sotto altre spoglie, con la carriera solista vera e propria di Mark Knopfler.

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A little british story

Mi chiamo Massimo, ho ormai quarant’anni, insegno sociologia. Origini working class, come si dice qui.

Mio padre era operaio specializzato in una vecchia fabbrica di macchine da scrivere, sulla Doganella, poi chiusa, nonostante un’eroica occupazione finale. Prepensionato baby, un regalo dell’innovazione tecnologica e della primissima digitalizzazione ad inizio anni ’80. Mia madre, lavorava in una delle tante fabbriche abusive di borse e guanti del mio quartiere; pelletteria di qualità, ma nei sottoscala. Prima che arrivassero le filiere produttive globali. Io, il primo a laurearsi in famiglia.

Quando, dopo il dottorato, e qualche anno di precarietà in giro per l’Inghilterra, nel 2012, mi offrono un contratto da lecturer all’università di Sheffield, decido di non affittare un appartamento in centro. Voglio stare vicino a “quelli come me”. Che la feccia liberal dei miei colleghi, quelli che vanno a fare yoga dopo il lavoro, e si bevono il caffelatte da Starbucks (dove io entro solo per andare al bagno), non la sopporto.

A me piace prendermi a cup of coffee – rigorosamente solubile, tanto farebbe schifo lo stesso ovunque – al vecchio Castle Market, 75p, sedermi, e guardare quel mondo di pensionati muniti di carrello, single mothers, migranti di mezza età che mi gira intorno.

Nel cuore proletario della vecchia People’s Republic of South Yorkshire, a poca distanza dalla Town Hall sulla quale, qualche decennio prima, ogni Primo Maggio sventolava la bandiera rossa. Faccio anche la spesa lì, tra banchi di frutta e verdura, improbabili pescivendoli (che non sanno mai dirmi da dove arrivi la loro merce) e venditori di offal (le nostre frattaglie, si trova pure ‘o pere e ‘o musso, che sciccheria), nonostante tutti, al lavoro, mi consiglino di andare da Waitrose, fornitore ufficiale della Royal Family. “You can find real pasta there”, mi dicono. Ma a me non serve, me la porto da Napoli ogni volta che scendo e risalgo. Quella liscia, the real one, uso Gragnano, non si trova manco nel Nord Italia, figuriamoci qui.

Mi stabilisco, quindi, in un vecchio council estate a Manor Park. Numero due nella lista di suburbs snocciolata da Jarvis Cocker in Sheffield Sex City, a un tiro di schioppo dalla sua Intake e da Stanhope Road. Mi sembra anche per questo una scelta felice, anche se di council ci è rimasto poco, sempre sia maledetta Maggie col suo right-to-buy.

Ma è comunque a buon mercato, vicino al centro. Case bi-familiari, a due piani, forse un poco umide, ma belle grandi, con giardini ampi anche se non sempre curati e qualche volta ridotti male assai. Il primo a darmi il benvenuto è Philip, il mio vicino di casa. Sessantenne, pensionato, magro, barba sfatta, sguardo acceso. Mi dice subito, con orgoglio, di essere stato candidato per dieci anni al consiglio comunale per i Verdi. Mai eletto, ma “convinzione ferrea”.

“Labour these days are just red Tories, mate. We deserve something better, reyt?”. Va a piedi ovunque, al limite in bicicletta, nonostante abbia l’abbonamento gratuito per il bus, e coltiva pure l’insalata nel retro. Le Fred Perry d’ordinanza, un po’ usurate, con cui si veste, le compra nei charity shop, un mondo di riuso e riciclo cui mi introduce. E gliene sarò per sempre grato.

Mi redarguisce per la mia simpatia per il Wednesday, ricordandomi che la working class, a Sheffield, tifa United. “And, that Paolo Di Canio was a fascist thug, how can you like the owls?”. Vaglielo a spiegare, di quel 27 Marzo 1994, del San Paolo che sembrava la Bombonera, coi coriandoli sul prato, e di quella serpentina che farebbe perdonare qualsiasi saluto romano.

Nonostante le insormontabili divergenze calcistiche, parliamo spesso, quando ci incontriamo sull’uscio di casa. Di decrescita, reddito di base, trasporti gratuiti. Dell’ultima infamia imposta dal governo conservatore, la bedroom tax, che obbliga chi ha una council house con una stanza vuota ad una decurtazione dei benefit.

Mi fornisce consigli utilissimi su come risparmiare sul riscaldamento, visto che d’inverno le bollette mordono forte. Hot water bottles (le borse dell’acqua calda, un’ossessione tutta inglese), keep your curtains open when there is sun and closed at night; use radiator foils, they make miracles. A me, che mi occupo, per lavoro, anche di indagini sulla povertà energetica, sembrano parole che raccontano, meglio di tante delle mie regressioni lineari, le condizioni delle classi popolari britanniche. Un’inchiesta quotidiana, senza neppure bisogno di ethics approval.

Philip mi invita anche a una riunione del comitato di quartiere al community centre. Età media alta, e ci sono più torte fatte in casa che proposte. Ma a me va bene. Mi piace stare lì. Mi sembra di aver trovato una bolla resistente. Tutti sono gentili. Mi iscrivo come volontario al litter picking group; gli spazzini ormai non esistono più, mi spiegano, il Council ha subito troppi tagli. E quindi dobbiamo fare da noi, per tenere le strade pulite. Mi forniscono anche tutto l’equipaggiamento necessario, incluso un gilet giallo, quando non era ancora di moda.

Di sabato, organizzano anche serate Northern Soul, ma, sinceramente, it’s not my cup of tea, dico a Phil. “I’m a post-punk guy”, dichiaro fieramente: il mio cuore batte tutto across the Pennines, per le band mancuniane a marchio Factory Records, e questo, qui a Sheffield, è un problema. Ci ridiamo su, è comunque solidarietà, vera, scampata alla Thatcher e agli anni rampanti del Blairismo, che hanno a loro volta aperto la strada ad un nuovo inverno di tagli ed austerità conservatrice.

Quando dico ai colleghi che abito a Manor Park, restano spiazzati: “Bloody hell, Massimo, are you staying there for an ethnographic project?”; “How do you cope with all those chavs?”. Chavs, li chiamano così, ormai, i proletari, qui. Suona un po’ come tamarri.

Lo scopro grazie a un bel libro di Owen Jones.

Ma loro mica lo sanno che io vengo da Secondigliano, che sono nato in una specie di basso a Piazza Zanardelli, ‘mmiezo all’arco, e che in ufficio, quella musica che ascolto di pomeriggio e che a volte sentono, a forza, pure i miei vicini di stanza, è di Franco Ricciardi.

Poi arriva la primavera del 2016. Una mattina, porto mia figlia all’asilo. Sul muro, di fronte, è all’improvviso spuntato un murales enorme: bandiera Union Jack, faccia sovrapposta di Boris Johnson, e la scritta in vernice fresca: “Vote Leave – #BREXIT”. Mi fermo. Scatto una foto. Mi sembra di stare in un sogno sbagliato. In un quartiere dove, alle ultime elezioni locali, il Labour aveva preso il 70%; i Tories il 6%.

Vado all’università, partecipo a una riunione su futuri progetti di ricerca. Coordina il mio mentore. Uno dei pochi in quel posto a capirci qualcosa; un cavallo di razza diventato Professor senza dottorato, che doveva iniziare a lavorare presto, e forgiatosi nell’inferno delle post-'92. Inizia, e dice, secco: “We are heading towards a Brexit, so we need to change our approach to fund-raising”.

Niente più finanziamenti europei? Gli altri dieci astanti, tutti chiusi nelle proprie bolle middle-class, convinti remainers per poter andare a svernare in Toscana senza visto, sbiancano. Io dico: “I hear you, I know what you mean, Colin. Really”. E penso al faccione di Boris apparso, nottetempo, in un council estate. Altro che le previsioni di pollsters e bookmakers. Noi sì, che abbiamo il polso della situazione.

Quello che Colin capisce è che la Brexit non è un voto. Al di là del cinismo di Farage e dell’ultra-destra conservatrice, è un grido. Un urlo di chi si sente lasciato indietro e non sa più a chi rivolgersi, ed è determinato ad utilizzare quel referendum, l’unica occasione disponibile in cui ogni voto vale per quello che è, senza distorsioni elettorali, per un sincero “fuck off”.

I miei colleghi, con le loro analisi e i loro progetti di ricerca, non lo vedono. Ma io sì. Io lo vedo ogni giorno al mercato, al community centre, nelle case umide di Manor Park. Gente stanca, alienata, che si sente tradita da tutto: dai sindacati, dai politici, dai professori come me. “Brexit is coming”, dice Colin. Ma non sta arrivando: è già qui, e io sono forse l’unico in questa stanza a saperlo.

A pomeriggio inoltrato, torno a casa. Philip, il mio vicino verde, ha appeso un cartello fuori casa.

Cartone grezzo, pennarello nero: “LEAVE NOW”. Lo guardo. Lui mi guarda. Mi dice: “It’s not what you think. Nothing against you. We’ll still be great friends”. E rientra. Io rimango lì, immobile, con mia figlia per mano, passaporto britannico (dalla nascita, mica per naturalizzazione!), Sheffield accent bello cattivo, ma ancora troppo piccola per capire, e soprattutto per decidere. Con la sensazione che la storia stia compiendosi, mentre siamo in pochi a capirlo.

Resto lì, fedele alla classe, anche se la classe non c’è (almeno per ora, almeno per sé).

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