03/01/2025
[Contributo al dibattito] - Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale della “utopia capitale”
di Sandro Moiso
“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)
È davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.
Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.
Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’“Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.
Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.
In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.
Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.
L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi contendenti.
Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.
Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).
Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di altri beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'“utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.
Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.
Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partit i centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava a svolgere il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.
Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.
Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei, fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.
Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.
A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e con gli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.
Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.
Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.
Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).
Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.
Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.
Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000.[Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.
Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.
È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.
All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’artico pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.
Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.
A questo punto, esponiamo le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.
Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.
Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per gatti, non illudiamoci.
Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti”, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.
Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica politica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.
Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.
In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia”, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.
Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.
Note
Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.
Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.
M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.
Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune decine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere i quadro politico tedesco.
M. Karnitschnig, cit.
Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.
M. Karnitschnig, cit.
F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.
G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.
La storia della Supercoppa italiana a Riad
L’anno 2025 del calcio italiano inizierà con la Supercoppa nazionale, che ha preso il via giovedì sera a Riad presso il King Saud University Stadium. È la quinta volta che la competizione è ospitata dall’Arabia Saudita e per la seconda volta avrà quattro squadre invece delle classiche due, seguendo l’esempio spagnolo lanciato nel 2020.
La Serie A italiana è stata una pioniera degli accordi con Riad, e in generale con i Paesi stranieri, soprattutto quelli che hanno una preoccupante storia di diritti umani. Il calcio italiano ha anche un gusto particolarmente sensibile per i Paesi in procinto di organizzare la Coppa del Mondo.
La Supercoppa è stata ospitata per la prima volta all’estero nel 1993 negli Stati Uniti, poi nel 2014 si è svolta in Qatar e nel 2018 già in Arabia Saudita. Nel 2003 il torneo si è svolto anche nella Libia di Gheddafi, mentre nel 2009 è approdato in Cina.
La prima volta all’estero invece per il Trophée des Champions francese è stata in Cina nel 2014, mentre la Supercopa de España ha varcato i confini non prima dell’edizione del 2020, svoltasi in Arabia Saudita. Il calcio italiano ha quindi un’enorme responsabilità nel legittimare questo fenomeno.
La migrazione della Supercoppa in Arabia Saudita nel 2018 è stata giustificata con l’argomento denaro. La Serie A aveva bisogno di nuove fonti di investimento e di espandersi in nuovi mercati per recuperare terreno rispetto agli altri campionati europei più ricchi.
Ma non possiamo dimenticare che la competizione ha spiccato il volo verso l’estero già nel 1993, e ancora nel 2002 e nel 2009, quando la Serie A era all’apice della sua popolarità.
L’ormai dimenticata edizione del 2002, ospitata a Tripoli, fu motivata soprattutto da esigenze commerciali (il petrolio della Libia) e dall’amicizia tra Gheddafi e Berlusconi: un anno dopo, Al-Saadi Gheddafi – il figlio di Muammar Gheddafi – venne in Italia a giocare a calcio in Serie A con il Perugia. Il calcio italiano non ha mai avuto particolari problemi a sacrificare i suoi valori di fronte agli interessi economici.
La polemica dimenticata sulla Supercoppa in Arabia Saudita
Nel gennaio 2019 la Supercoppa è di nuovo volata via dall’Italia. All’improvviso i politici italiani scoprirono che la competizione si sarebbe svolta dopo pochi giorni a Gedda. L’intero spettro politico esplose contro l’appuntamento tra Juventus e Milan.
A sinistra, la Presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini (PD) dichiarò che “i signori del calcio possono vendere i diritti delle partite, ma non possono barattare i diritti delle donne”, mentre il viceministro alle Pari Opportunità Vincenzo Spadafora (M5S) aggiunse il suo “più vivo disaccordo” con la decisione.
A destra, il vicepremier Matteo Salvini (Lega) affermò che “avere la Supercoppa in un Paese musulmano dove le donne non possono andare allo stadio senza un uomo è disgustoso”.
“Abbiamo venduto secoli di civiltà europea e di battaglie per i diritti delle donne per i soldi dei sauditi? La Federcalcio deve fermare questa vergogna assoluta e portare la Supercoppa in un Paese che non discrimini le nostre donne e i nostri valori” scrisse su Facebook Giorgia Meloni, all’epoca leader del partito di opposizione di destra Fratelli d’Italia.
Inspiegabilmente, nessuno aveva parlato del brutale assassinio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso appena tre mesi prima.
Il fatto divertente è che l’allora presidente della Serie A, Gaetano Micciché, dovette intervenire per riportare un po’ di serietà nella discussione. Micciché chiarì che era falso quanto affermato da Salvini e da altri politici sul divieto per le donne di andare allo stadio se non accompagnate da un uomo.
“Il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può agire diversamente, soprattutto nei rapporti internazionali, dal Paese a cui appartiene. L’Arabia Saudita è il maggior partner commerciale italiano in Medio Oriente”, affermò.
In poche parole, i politici ipocriti attaccavano il sistema calcistico italiano ma tacevano sui propri rapporti con Riad.
“L’Arabia Saudita è un elemento di stabilità e affidabilità in Medio Oriente” aveva detto infatti Salvini solo sei mesi prima, incontrando l’ambasciatore saudita a Roma e aggiungendo di voler “rilanciare la collaborazione tra i due Paesi” su sicurezza, economia, commercio e cultura.
Contrordine, dunque: l’Arabia Saudita è un partner italiano fondamentale e la Supercoppa è qualcosa di buono per tutti, anche per le donne saudite suggeriva Micciché, aggiungendo che “il nostro torneo sarà ricordato nella storia come la prima competizione calcistica internazionale ufficiale a cui le donne saudite potranno assistere dal vivo”.
Per la Serie A, il governo di Riad pagò 7 milioni di euro per ottenere la partita e altri 14 milioni di euro sarebbero stati versati per le successive due edizioni.
Nella controcronaca sportiva italiana della Supercoppa, il giornalista di Sky Sport Alessandro Alciato fece un resoconto benevolo della situazione dei diritti delle donne nel Paese del Golfo, elogiando il fatto che “molte restrizioni contro le donne sono state eliminate” e che la trasformazione “è solo all’inizio”.
Alciato aveva motivato il suo ottimismo intervistando due sole donne: un’arabo-italiana e la moglie dell’ex ambasciatore italiano a Riad, la quale dichiarò che “eventi come la Supercoppa incoraggiano il cambiamento”.
Purtroppo, non è successo nulla di tutto ciò e i cambiamenti sono stati solo superficiali. “Sebbene queste riforme abbiano avuto un impatto positivo sulle donne, la mancata abolizione del sistema di tutela maschile da parte delle autorità e la sua codifica nella legge rischiano di compromettere questi modesti guadagni” ha denunciato Amnesty International nel marzo 2022, dopo che il governo saudita aveva approvato una nuova legge contro i diritti delle donne.
Dopo le polemiche del 2019, tranne alcune ONG nessuno ha più protestato contro la Supercoppa in Arabia Saudita. Il patron del Napoli Aurelio De Laurentiis, che inizialmente aveva criticato la competizione (ma non per motivi di diritti umani), nel gennaio 2023 ha esaltato la “straordinaria democratizzazione” del Paese arabo.
Nessuna parola dall’attuale vicepremier Salvini e nemmeno dall’attuale presidente del Consiglio Meloni, che tanto si erano arrabbiati sei anni fa. Nel gennaio 2024 il ministro dello Sport Andrea Abodi ha detto: “dobbiamo cogliere l’occasione per illuminare quei Paesi e contribuire all’alfabetizzazione civile”.
Le connessioni economiche tra Italia e Arabia Saudita
Riad ha investito 21 milioni di euro nel giugno 2018 per ottenere tre edizioni della Supercoppa italiana; nel marzo 2023 ha firmato con la Serie A un rinnovo più impegnativo del valore di 100 milioni di euro per quattro edizioni, compresa l’innovazione delle “final-four” già utilizzata con la Supercoppa spagnola.
Questo accordo è piaciuto a tutti nel calcio italiano, più redditizio delle opzioni Ungheria ed Emirati Arabi. Come aveva detto l’allora presidente della Serie A Micciché nel 2019, l’Italia fa affari con l’Arabia Saudita da molto tempo, non solo nel calcio.
Da sinistra a destra, tutte le personalità politiche del Paese hanno sostenuto i crescenti legami con Riad. “L’Italia e l’Arabia Saudita hanno molto in comune”, disse nel 2013 Emma Bonino, all’epoca ministro degli Esteri in un governo di centro-sinistra.
“Penso che l’Arabia Saudita possa essere il luogo di un nuovo rinascimento”, ha dichiarato l’ex premier Matteo Renzi, parlando con il principe ereditario Mohammad bin Salman nel 2021.
Renzi è stato pagato 1,1 milioni di euro dal governo arabo come consulente e pochi mesi dopo quel colloquio ha negato che Bin Salman abbia ordinato l’assassinio di Jamal Khashoggi (cosa che differisce completamente dal dossier della CIA sul caso).
La partnership italo-saudita è di lunga durata e si è rafforzata negli ultimi anni. Nel 2017, i flussi economici tra i due Paesi sono cresciuti del 9%. L’Italia è diventata il nono esportatore a Riad nel mondo e il secondo nell’UE, scambiando beni per 3,9 miliardi di euro, per lo più prodotti alimentari, vino, arredi, macchinari, prodotti elettrici e – ovviamente – armi.
L’export di armamenti verso l’Arabia Saudita valeva 45,6 milioni di euro nel 2017. Nei quattro anni precedenti, Riad aveva acquistato l’1,5% delle sue armi dall’Italia. Questo era avvenuto nonostante l’Arabia Saudita fosse impegnata in una guerra in Yemen dal 2014.
Il commercio di armi si era interrotto nel luglio 2019 sotto il governo di Giuseppe Conte e l’embargo era stato nuovamente confermato nel gennaio 2021. Ma nel giugno 2023, con il governo Meloni, l’Italia è tornata a vendere missili e bombe a Riad.
Pochi mesi prima, Meloni aveva telefonato a Bin Salman per parlare di strategie sull’energia e sulle armi e il settembre successivo Milano ospitò il primo Forum degli investimenti italo-sauditi.
Tra gennaio e settembre 2024 l’export italiano verso Riyadh ha superato i 4 miliardi di euro, con un incremento del 27,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Questo legame economico sta rapidamente trovando spazio anche sui campi di calcio, come si è visto con la sponsorizzazione di Riad Season per l’AS Roma firmata nell’ottobre 2023, seguita poco dopo dall’ingaggio del difensore saudita Saud Abdulhamid.
In soli sei anni, i discutibili rapporti italiani con l’Arabia Saudita si sono completamente normalizzati, ma questo è avvenuto perché l’Italia aveva già deciso di scendere a patti con i regimi autoritari negli anni precedenti.
Fonte
Apologia di Lukacs
È per questo che ho deciso di rimettere mano a una sua lunga intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo) pubblicata in edizione italiana dagli Editori Riuniti nel 1983. Nelle pagine che seguono ne richiamerò alcuni passaggi perché ritengo che, da questa “confessione”, emerga un profilo di straordinaria coerenza personale, politica, ideale e morale, anche – se non soprattutto – nelle discontinuità e nei ripensamenti autocritici: la sua storia è quella di un intellettuale e militante comunista che, pur consapevole delle contraddizioni e delle storture emerse nel corso del grande esperimento sociale inaugurato nell’Ottobre 1917, non ha mai voluto “salvarsi l’anima” (e intraprendere una ricca carriera in qualche università occidentale) indossando i panni del “dissidente”, perché, dichiara, è sempre rimasto convinto che “sia meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”.
Nato a Budapest nel 1885, in una ricca (il padre dirigeva una banca di investimento) famiglia ebraica (ma pare che in casa vigesse una totale indifferenza per la religione) il piccolo Lukacs manifestò una precoce insofferenza nei confronti di ogni forma di imposizione (rifiutava sistematicamente di sottoporsi al rigido “protocollo” domestico che la madre cercava di imporre). Le aspettative famigliari erano concentrate sul fratello maggiore che però, malgrado l’assiduo impegno nello studio, non ottenne mai grandi risultati, mentre a lui, dotato di una memoria prodigiosa, bastavano poche ore per eccellere a scuola (anche se evitava accuratamente di apparire come il primo della classe).
Ignorando il desiderio paterno di avviarlo a studi economico-giuridici (la sua prima laurea fu effettivamente in diritto, ma nell’intervista rivela di avere nutrito fin da giovanissimo un profondo disprezzo per il mondo della finanza e per i valori borghesi in generale), si appassionò soprattutto alla letteratura e al teatro (a quindici anni scriveva drammi che bruciò pochi anni dopo) ma ben presto, confessa, dovette prendere atto con sua grande delusione di non avere abbastanza talento per aspirare ad essere uno scrittore o un regista. Il che non gli impedì di continuare a occuparsi di arte e letteratura, come testimoniano testi come L’anima e le forme e Teoria del romanzo, anche se la passione filosofica (in particolare per la grande filosofia tedesca – Hegel su tutti – della quale subirà l’influsso per tutta la vita) si accompagnerà sempre più alla passione letteraria, finendo per prevalere. Suo compagno di studi a Berlino, dove ebbe per maestro Georg Simmel (ma Lukacs subì anche l’influsso di Max Weber) fu Ernst Bloch (un’amicizia destinata a durare tutta la vita, sia pure con momenti di allontanamento reciproco) al quale riconosce il merito di avergli insegnato a “filosofare al modo di Aristotele ed Hegel”.
L’avvicinamento al marxismo, e più in generale alla problematica politica, fu lento e progressivo. Negli anni precedenti alla Grande Guerra, viene a conoscenza del socialismo francese e riconosce nel teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel “l'unico serio movimento socialista di opposizione”. Sconvolto dallo scoppio della Prima guerra mondiale, assume una posizione di condanna radicale nei confronti del carnaio provocato dalle potenze europee. In quegli anni, racconta, lui e la cerchia dei suoi amici pacifisti pensavano che se i regimi feudali avessero perso la guerra sarebbero caduti ma, a differenza della maggior parte degli altri, egli non condivideva l’auspicio che venissero rimpiazzati da regimi democratici. “Chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale?, pensavo, né ero disposto ad accettare come ideale il parlamentarismo inglese”. Così, quando scoppia la Rivoluzione russa del 1917, capisce immediatamente che quella è la vera alternativa e, a partire da quel momento, il suo interesse si rivolge esclusivamente ai temi etici e politici, cessando di attribuire importanza alle questioni estetiche al centro della sua attenzione nel decennio precedente. Nel 1918 viene costituito il Partito Comunista ungherese e Lukacs aderisce, anche se non fu fra i fondatori. Nell’intervista dichiara che la sua immagine del comunismo era allora “settaria e ascetica”, cioè fortemente connotata in termini morali e caratterizzata da aspettative “messianiche”, motivo per cui si trovò spesso in contrasto con Bela Kun che, dal suo punto di vista, incarnava la logica burocratica del funzionario di Partito (in alcune occasioni, in seguito a tale conflitto fu indotto a compiere autocritica). In ogni caso durante la Rivoluzione del 1919, in quanto figura intellettuale di spicco, viene chiamato a svolgere l’incarico di Commissario all’Istruzione e assume addirittura il ruolo di commissario politico di una divisione dell'esercito rosso (nell’intervista ricorda che, mentre esercitava tale funzione, ordinò di fucilare otto soldati di un reparto che si era ritirato senza combattere durante la guerra civile con i Bianchi).
Dopo il fallimento della Rivoluzione riparò a Vienna, dove ebbe modo di frequentare dirigenti e intellettuali comunisti di tutta Europa, e dove si rese conto che la sua cultura marxista era ancora insufficiente, e che ancora più insufficiente era la sua comprensione del leninismo. A posteriori, definisce la sua posizione di allora come “un miscuglio di settarismo e messianesimo” (“credevamo che la rivoluzione mondiale fosse un fatto tanto inevitabile quanto imminente”, racconta). Da un lato, simpatizzava con l’ala sinistra della III Internazionale (di cui facevano parte, fra gli altri, Bordiga e Pannekoek), tanto che fu criticato da Lenin per avere difeso posizioni astensioniste di principio. Ma dall'altro lato, il bagno di concretezza cui era stato costretto dall’esperienza di Commissario della Repubblica ungherese dei Consigli, lo costringeva talvolta a contraddirsi, assumendo posizioni realiste. Come avvenne nel 1928, allorché si trovò di nuovo costretto a fare autocritica per avere scritto le “Tesi di Blum” (uno pseudonimo adottato per l’occasione), nelle quali sosteneva che il Partito avrebbe dovuto opporsi al regime reazionario di Horthy al fianco dei socialdemocratici per instaurare una Repubblica democratica, e solo in un secondo tempo lottare per il socialismo (posizione contraria alla linea sostenuta in quel momento dalla III Internazionale, che di lì a non molto l’avrebbe però cambiata).
Proiettandoci fino al '28 abbiamo tuttavia saltato un passaggio fondamentale: nel 1923, usciva infatti Storia e coscienza di classe, una raccolta di saggi che ancora oggi rappresenta l’opera di Lukacs più conosciuta (e celebrata) dai marxisti di tutto il mondo. Eppure, nell’intervista autobiografica che sto qui illustrando, come nella Prefazione a una ristampa del 1967 dell’opera in questione (3), e come nei riferimenti che egli le dedica nella Ontologia dell’essere sociale, Lukacs è a dir poco severo nei confronti del lavoro del '23. Pur riconoscendovi un certo valore, perché in esso venivano affrontati per la prima volta alcuni problemi – come quello dell’estraneazione – fino ad allora evitati dal marxismo, e perché inquadrava la teoria leniniana della rivoluzione nella concezione generale del marxismo, il Lukacs maturo la considerava infatti inficiata da residui idealisti (in quelle pagine ero “più hegeliano di Hegel”).
In particolare, come ho messo in luce in varie occasioni (4), l’ultimo Lukacs punta il dito contro l’ipostatizzazione del ruolo “oggettivamente” rivoluzionario del proletariato (5), ma soprattutto contro la mancata integrazione del ricambio organico fra uomo e natura nell’economia, la quale viene in tal modo ridotta alla forma storicamente determinata che essa assume nella società capitalista, invece di essere concepita come totalità costituiva dell’essere sociale, come prodotto del processo evolutivo che fa derivare dalla natura inorganica la natura organica e da quest'ultima l’essere sociale attraverso il lavoro, che costituisce l’unica manifestazione di un’attività teleologica nell’universo naturale.
Nelle ultime battute dell’intervista Lukacs sintetizza la propria visione più o meno così: “seguendo Marx io mi rappresento l’ontologia come la vera filosofia basata sulla storia. Storicamente è indubbio che l’essere inorganico viene per primo e che da esso viene fuori l’essere organico. Da questo stato biologico viene fuori attraverso molti passaggi l’essere sociale umano la cui essenza è la posizione teleologica, cioè il lavoro. Questa è la categoria più decisiva perché comprende tutto. Quando parliamo della vita umana parliamo con le più diverse categorie di valore. Qual è il primo valore? Il primo prodotto? Un mazzuolo di pietra o corrisponde allo scopo o non corrisponde nel primo caso è valido, nel secondo non ha valore (...) la seconda differenza fondamentale è il dover-essere cioè le cose non si trasformano da sé ma in seguito a posizioni consapevoli, lo scopo precede il risultato”.
Questa visione ha radicali conseguenze sul modo in cui l’ultimo Lukacs tratta concetti come libertà, necessità, oggettivazione, alienazione, ideologia, ecc. Ma questi temi esulano dallo scopo del presente articolo il quale, come chiarivo all’inizio, consiste nel mettere in luce la coerenza personale, politica, ideale e morale dell’uomo di cui stiamo parlando. I cambiamenti di approccio metodologico e di posizione ideologica sin qui descritti, fanno parte della normale dialettica di un percorso biografico. Ma le critiche dei detrattori si appuntano in altre direzioni, sollevando interrogativi associati al fatto che il nostro, dopo l’ascesa al potere di Hitler, ha vissuto ininterrottamente a Mosca dal 1933 alla fine della Seconda guerra mondiale senza incappare in qualche “purga”, e che, pur avendo assunto un incarico ministeriale nel governo Nagy nel 1956, dopo l’invasione sovietica se l’è cavata con un paio d’anni di esilio in Romania, dopodiché è potuto rientrare a Budapest e riprendere il proprio lavoro di insegnamento e ricerca.
Opportunismo, mancanza di coraggio, complicità con lo stalinismo e più in generale con i regimi di “socialismo reale”? Queste accuse, esplicite o implicite, sono state usate da destra (ma anche da certi ambienti intellettuali della “Nuova Sinistra”) per svalutare e/o rimuovere il contributo di Lukacs al marxismo, per cui mi pare giusto affrontarle a partire da ciò che lo stesso filosofo ungherese racconta sulla seconda parte della propria vita.
A Mosca Lukacs aderisce al partito comunista russo e lavora all’istituto Marx-Engels. La sua è un’attività prevalentemente se non esclusivamente teorica, mentre sul piano politico mantiene un basso profilo, evitando di impegnarsi nei conflitti di potere interni alla dirigenza bolscevica. Ciò non gli impediva di nutrire le proprie opinioni in merito, opinioni che espone chiaramente rispondendo alle domande dell’intervistatore.
Su Stalin, in particolare, afferma che l’idea diffusasi dopo il XX Congresso del PCUS, secondo cui egli avrebbe detto solo cose sbagliate e antimarxiste è un pregiudizio. Ciò detto, egli è radicalmente critico nei confronti della visione filosofica staliniana, che definisce iper razionalista, anche se, a suo avviso, non priva di precedenti nella tradizione marxista. In particolare, la visione di un processo storico che incorpora un principio di necessità logica (Lukacs cita per esempio il concetto di “negazione della negazione” mutuato da Hegel, che egli considera appunto una categoria puramente logica, priva di consistenza reale: “per Marx, dice, un ente non oggettivo è un non ente, l’essere è identico alla oggettività”) era a suo avviso già presente in Engels e negli esponenti della socialdemocrazia tedesca. La storia, analizzata da tale punto di vista, appare come una successione di tappe di un processo determinato da una ferrea legalità immanente (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, socialismo) e non come l’esisto di una serie di trasformazioni concrete rese di volta in volta possibili (e non necessarie) da specifici meccanismi causali (ma anche da fattori contingenti e soggettivi). Il materialismo dialettico (diamat) staliniano concepisce solo soluzioni imposte dalle leggi “oggettive” della storia e non scelte fra possibilità alternative, la sua idea di “socialismo scientifico” è ispirata a una legalità simile a quella delle leggi naturali e non contempla, marxianamente, la complessità dinamica dei concreti processi storici.
Sul piano politico, tuttavia, Lukacs non nasconde di essere stato dalla parte di Stalin – contro Trockij – sulla questione del socialismo in un paese solo e, quanto al ruolo della opposizione di sinistra guidata dallo stesso Trockij e da altri esponenti della vecchia guardia bolscevica, come Zinoviev, Bucharin e Kamenev, dichiara di avere condiviso l’opinione di altri amici e compagni che frequentava in Russia: in primo luogo, rimprovera loro di avere offerto argomenti alla campagna antisovietica delle potenze imperialiste occidentali, ma soprattutto esprime la convinzione che una loro dittatura di partito non sarebbe stata diversa, né migliore, di quella imposta da Stalin. Ricorda che a un certo punto Bucharin cercò di contattarlo per coinvolgerlo nella lotta intestina del partito ma egli si negò (per inciso: Lukacs e Bucharin si erano precedentemente scontrati in una polemica sulla questione del ruolo storico dello sviluppo delle forze produttive che Bucharin, sostiene Lukacs, riduceva allo sviluppo tecnologico. Tuttavia il motivo del rifiuto – che con buona probabilità evitò a Lukacs di finire nella tagliola dei processi di Mosca – fu piuttosto il giudizio negativo sul ruolo dell’opposizione appena ricordato).
Ciò detto, quando l’intervistatore sollecita la sua opinione sui processi di Mosca, Lukacs non si sottrae: “li giudicai una mostruosità”, dice, ma mi consolai dicendomi che in quel momento “stavamo dalla parte di Robespierre” e che il processo contro Danton non era stato meno ignobile. Ma soprattutto afferma che in quel periodo considerava l’annientamento di Hitler come la questione di gran lunga più importante e che gli pareva evidente che solo l’URSS avrebbe potuto garantirlo (6).
Quanto alla rivolta ungherese del 1956, Lukacs afferma di averla interpretata come un grande movimento spontaneo che, sostiene, aveva bisogno di un inquadramento ideologico, per cui non esitò ad accettare l’incarico di ministro anche se Nagy non aveva, a suo avviso, uno straccio di programma politico. In ogni caso, il suo punto di vista non era in alcun modo quello di un rottura con il sistema socialista bensì quello della necessità di riformarlo (vedi la già citata affermazione “meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”), tanto è vero che egli si oppose alla, e votò contro la, proposta di uscire dal Patto di Varsavia. Un atteggiamento che, dopo l’invasione sovietica, lo aiutò a pagare il prezzo relativamente mite di qualche anno di esilio in Romania, prima di tornare a insegnare a Budapest.
Opportunismo, mancanza di coraggio? I primi a formulare l’accusa di non avere esplicitamente condannato il socialismo reale sono stati, ahimè, alcuni suoi allievi, lo si evince dal tono malevolo e insinuante di certe domande rivoltegli da Istvan Eorsi (il curatore dell’intervista appena descritta), ma soprattutto, lo si evince da quanto scrive Nicolas Tertulian nella Introduzione alla Ontologia, facendoci capire perché il testo di quest'opera fondamentale sia apparso con tanto ritardo dalla stesura definitiva, preceduto da recensioni negative di quegli allievi (fra i quali tale Agnes Heller, poi felicemente approdata sulle sponde del liberalismo occidentale) che avevano fretta di certificare la propria volontà di ripudiare il marxismo e il socialismo.
Lukacs non piace ai comunisti dogmatici, che lo considerano un dissidente filo occidentale camuffato da marxista critico (e lo avrebbero magari volentieri visto sul banco degli imputati dei processi di Mosca). Non piace ai postcomunisti convertiti al liberalismo, che non capiscono la sua ostinazione nel volersi schierare fino alla fine dalla parte del socialismo contro il capitalismo occidentale. Non piace ai marxisti accademici di ogni risma che, dall’alto delle loro cattedre universitarie, si considerano i soli legittimati a interpretare l’autentico lascito di Marx. Non piace agli intellettuali e ai militanti di nuove sinistre e nuovi movimenti, i quali quando leggono affermazioni come “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsene con intensità sempre maggiore, sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana” (Ontologia, vol IV, p. 649), sospettano che le sue parole potrebbero essere usate contro la loro esaltazione acritica della tecnologia, del consumismo santificato come “nuovi bisogni”, del gusto piccolo borghese della trasgressione, del “diritto di avere diritti” (7), ecc.
Credo che tutte queste antipatie rappresentino il miglior attestato dell’integrità politica, morale e intellettuale di Lukacs. Concludo limitandomi ad aggiungere che ignoro in che misura i marxisti non occidentali (cinesi, africani e latinoamericani) abbiano avuto modo di conoscere e studiare l’ultimo Lukacs o se conoscano solo Storia e coscienza di classe, ma penso che i teorici post maoisti lo avrebbero sicuramente apprezzato, così come lui avrebbe guardato con estremo interesse alla riforme cinesi degli anni Settanta.
Note
(1) Vedi, in particolare, Guerra e rivoluzione, 2 voll. Meltemi, Milano 2023; Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019; Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.
(2) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.
(3) Cfr. Prefazione dell’autore a Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, Milano 1970.
(4) Vedi in particolare Ombre rosse, op. cit. Vedi anche la mia Prefazione alla seconda edizione della Ontologia.
(5) Nella Prefazione del 1967 (vedi nota 3) Lukacs scrive che in Storia e coscienza di classe il proletariato veniva presentato come l’incarnazione storica della hegeliana unità metafisica soggetto-oggetto descritta nella Fenomenologia dello spirito.
(6) Anche il Patto di non aggressione fra Hitler e Stalin appare giustificato come mossa tattica per sventare il piano delle potenze occidentali di usare la Germania nazista per distruggere l’Unione Sovietica.
(7) Cfr S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012. In un libro a due mani del 2019 (Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi editore) il sottoscritto e Onofrio Romano hanno criticato l’ideologia della sinistra liberal progressista che rivendica un’estensione illimitata dei diritti individuali, la quale finisce inevitabilmente per alimentare una altrettanto illimitata estensione del mercato delle merci-servizio (maternità assistita, utero in affitto, ecc.).
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I medici del mondo boicottino Israele
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina, ha invitato i professionisti medici di tutto il mondo a interrompere ogni collaborazione con Israele in risposta alla distruzione del sistema sanitario di Gaza. «Esorto i professionisti medici a livello globale a rompere tutti i legami con Israele come gesto concreto per condannare fermamente la distruzione totale del sistema sanitario palestinese a Gaza, una componente chiave del genocidio in corso perpetrato da Israele», ha dichiarato Albanese sulla piattaforma X. L’appello di Albanese arriva in uno dei momenti più bui per il sistema sanitario gazawi, che sta venendo colpito sempre più duramente: soltanto nell’ultima settimana, sei neonati palestinesi sono morti di ipotermia nella Striscia a causa della mancanza di strutture sanitarie.
L’esercito israeliano sta attaccando senza sconti il sistema sanitario della Striscia di Gaza. Il 28 dicembre, dopo giorni di assedio, le IDF hanno arrestato Hossam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya, nel nord della Striscia, assieme al resto del personale sanitario della struttura. Fonti riprese da attivisti per i diritti umani riportano dell’uccisione del figlio di 8 anni del primario. In seguito a un appello della famiglia, è sorto un movimento di supporto ad Abu Safiya che richiede la sua liberazione: c’è chi, come la giornalista e attivista per i diritti umani dell’organizzazione Euro-Mediterranean Human Rights Monitor Maha Hussaini, teme che il medico possa incontrare la stessa sorte del dottor Adnan al-Bursh, direttore dell’ospedale Al-Shifa, morto nella prigione israeliana di Ofer, e secondo molti torturato. Sul web sta girando una foto che ritrae Abu Safiya solo, davanti a una schiera di carri armati, qualche minuto prima di venire arrestato «per essersi rifiutato di abbandonare colleghi e pazienti».
Presso l’ospedale di Kamal Adwan, secondo delle testimonianze, l’ossigeno è stato negato ai pazienti, e i presenti sono stati spogliati, trascinati e torturati. L’ospedale di Kamal Adwan era uno dei pochi funzionanti all’interno della Striscia, e, riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’ultima grande struttura attiva nel Governatorato di Nord Gaza. L’ospedale è finito al centro di molteplici assedi, che si sono intensificati sempre di più a partire dal lancio dell’operazione israeliana sull’intero Governatorato. Nelle ultime settimane, Kamal Adwan è stato bersaglio di pesanti attacchi, per poi venire reso oggetto di un ordine di evacuazione; dal 28 dicembre non è più attivo. Kamal Adwan non è l’unico ospedale a essere stato colpito dalle forze israeliane. A Nord Gaza analoghe operazioni si sono susseguite lungo tutto il periodo dell’assedio anche nelle strutture dell’Indonesian Hospital, sempre a Beit Lahiya, e dell’ospedale di Al-Awda, a Jabaliya.
A rendere allarmante la situazione sanitaria – e in generale quella umanitaria – a Nord Gaza, non ci sono solo i continui assalti a strutture civili e cittadini, ma vi si aggiunge anche il problema alimentare: una settimana fa, l’OXFAM ha riportato che negli ultimi due mesi e mezzo Israele ha concesso l’entrata di soli dodici camion di cibo e acqua nel Governatorato. La carenza di ospedali, cibo e acqua, e gli attacchi alle strutture sanitarie proseguono in tutta la Striscia. Ieri, lunedì 30 dicembre, presso l’ospedale dei martiri di Al-Aqsa, nel centro della Striscia, è morto per freddo il sesto neonato nell’arco di una manciata di giorni. Questo inverno si sta rivelando ben più duro del precedente: l’agenzia statale palestinese Wafa riporta che tra ieri e oggi, martedì 31 dicembre, centinaia di tende nei campi profughi in diverse aree della Striscia di Gaza sono state allagate a causa delle forti piogge.
La crisi umanitaria, comunque, non si limita agli ospedali, esattamente come gli attacchi. Oggi le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in un attacco alla città assediata di Jabaliya, dopo una giornata di bombardamenti che ha ucciso almeno 27 persone in tutta la Striscia. Dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 45.541 persone, anche se il numero di morti totale potrebbe superare le centinaia di migliaia di persone, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet, e da una recente lettera di medici volontari nella Striscia.
“Contro la sinistra liberale” di Sahra Wagenknecht. Quali insegnamenti per l’italia?
“Contro la sinistra liberale” di Sahra Wagenknecht è senza dubbio uno dei più importanti libri di critica delle società del capitalismo cosiddetto avanzato, specialmente di quelle dell’Europa occidentale, usciti negli ultimi anni. Non è un caso se in Germania il libro, il cui titolo originale è Die Selbstgerechten, ossia i Presuntuosi, è stato in cima alle classifiche di vendita per molto tempo.
Il testo è scritto, infatti, in modo molto semplice, in grado di essere recepito da parte di un vasto pubblico anche se i temi trattati sono complessi. L’interesse principale del libro consiste nel fatto che l’autrice svolge una critica alla sinistra oggi dominante, sviluppando una analisi delle società a capitalismo avanzato, della ideologia di sinistra e soprattutto della composizione delle classi sociali derivata dalle modificazioni dovute alla modernizzazione capitalistica degli ultimi decenni.
A incuriosire alla lettura di questo libro è, però, anche il fatto che l’autrice non è una semplice intellettuale, bensì una politica molto nota in Germania, che ha raccolto risultati positivi con la sua forza politica di recente costituzione. BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit, in italiano Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia) è una scissione dal partito Die Linke ed è stata fondata il 26 settembre 2023 come associazione e l’8 gennaio 2024 come partito. Nel giro di soli sei mesi BSW ha dimostrato inaspettatamente di essere un partito capace di raggiungere risultati lusinghieri. Alle elezioni europee di giugno 2024 è risultato essere il quinto partito con il 6,2% dei voti, mentre Die Linke scivolava al 2,7%. Le roccaforti di BSW sono nella ex Germania est, la zona più povera del Paese, dove alle europee era il terzo partito con il 13,8%. Il risultato positivo nella ex Germania est si è ripetuto alle regionali tenutesi a settembre in Turingia (15,8%) e in Sassonia (11,8%), dove BSW si è confermata la terza forza politica.
Tali risultati, molto differenti da quelli raggiunti dalla sinistra radicale italiana, destano quantomeno curiosità per l’impostazione e il programma che hanno consentito a BSW di ottenerli. Ovviamente l’Italia non è la Germania e tra i due paesi ci sono differenze significative, ma come vedremo, ci sono anche somiglianze notevoli e quanto scritto dalla Wagenknecht merita attenzione.
L’autrice parte dalla affermazione della estrema destra di AfD che è stata confermata alle recenti europee, dove è risultato essere il secondo partito con il 15,3% dei voti, superando i partiti della sinistra di governo, in particolare i socialdemocratici della Spd (13,9%) e i Verdi (11,9%). Indipendentemente dal fatto che AfD sia un partito neonazista, come alcuni denunciano, o un “semplice” partito di estrema destra si tratta di un risultato preoccupante e significativo del terremoto politico in corso in Germania.
Mentre la maggior parte degli osservatori e commentatori dei mass media attribuiscono i risultati elettorali di Afd allo spostamento a destra dell’elettorato, la Wagenknecht dà una spiegazione controcorrente: il terreno per l’ascesa della destra è stato preparato dai partiti di sinistra sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista politico e culturale.
La sinistra alla moda
Questo è accaduto perché la sinistra ha subito negli ultimi decenni una trasformazione genetica. Un tempo la sinistra si caratterizzava per la difesa delle classi subalterne. Oggi, la Wagenknecht definisce la sinistra con il termine di sinistra alla moda, nell’originale tedesco Lifestyle-Linke, letteralmente “sinistra dello stile di vita”, in quanto non pone più al centro della sua azione problemi sociali e politico-economici bensì lo stile di vita, le abitudini di consumo e i giudizi morali sul comportamento. Il cammino per arrivare a una società più giusta non passa più per le lotte sociali ma soprattutto attraverso simboli e linguaggio come evitare il maschile per indicare il plurale dei nomi sostituendolo con gli asterischi.
Operai industriali e semplici impiegati pubblici tra 1990 e 2020 hanno smesso di votare per i partiti di sinistra tradizionale da cui non si sentono più difesi a livello socio-economico né rappresentati a livello culturale. Oggi a votare a sinistra sono per lo più persone che abitano nelle grandi città, hanno una buona cultura e stipendi migliori.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta l’organizzazione degli operai, fondata su orientamento alla comunità, solidarietà e responsabilità reciproca, permise di migliorare gradualmente la situazione economica delle classi subalterne. La situazione ha cominciato a cambiare in peggio dal 1975 con una accelerazione negli anni Novanta, che ha determinato il passaggio dalla società industriale a quella del terziario. I principali fattori di questo passaggio sono tre: l’automazione, l’outsourcing e soprattutto la globalizzazione, che ha determinato lo spostamento di molte produzioni industriali all’estero. La responsabilità della globalizzazione è da attribuire alla politica che ha rinunciato al controllo dei capitali. La grande sconfitta della globalizzazione è stata la classe operaia del mondo occidentale mentre ha portato alla crescita enorme della ricchezza delle classi superiori.
Il nuovo ceto medio dei laureati e la loro ideologia
A questo punto la Wagenknecht introduce un concetto originale che rappresenta uno degli aspetti sociologicamente più interessanti della sua analisi: la nascita del nuovo ceto medio dei laureati. Infatti, la globalizzazione e la società dei servizi produce anche nuove professioni ben pagate per i laureati nelle banche d’investimento, nei servizi digitali, nel marketing, nella pubblicità, nella consulenza e nell’attività legale. Questo nuovo ceto medio si differenzia sia dalla piccola borghesia sia dalla classe operaia non solo per formazione, profilo di attività e luogo di residenza ma anche per atteggiamento, valori e stile di vita, basato sull’acquisto di prodotti che trasmettono una identità morale esclusiva. La sensazione che trasmette il mondo del lavoro di questo nuovo ceto è quella di essere liberi, senza legami e cittadini del mondo, ossia il cosmopolitismo.
Tuttavia non tutti quelli che conseguono una laurea fanno parte di questo nuovo ceto medio, essendoci anche un nuovo ceto basso dei laureati che, insieme al ceto medio classico, non può certo essere annoverato tra i vincitori della globalizzazione. Il nuovo ceto medio dei laureati è il prodotto del ritorno del privilegio dell’istruzione. Infatti, i lavori meglio pagati non sono raggiungibili con capacità ottenibili con il normale percorso di formazione pubblica, ma avendo disponibilità finanziarie familiari importanti che permettano la frequentazione delle scuole migliori, ripetuti viaggi di formazione linguistica all’estero e periodi di tirocinio gratuito presso importanti aziende. Il nuovo ceto medio dei laureati è un ambiente esclusivo, in cui è impossibile entrare partendo da posizioni più svantaggiate ed ha influenza sulle opinioni della gente, occupando posizioni chiave nei media e nella politica.
L’ideologia di questo nuovo ceto è il liberalismo di sinistra che deriva dal neoliberismo e si lega ai suoi valori e sentimenti. Il liberalismo di sinistra è divenuto la narrazione dominante. Con l’ingresso degli esponenti di questo pensiero, che si identifica con la generazione del ’68, ha avuto luogo l’allontanamento della socialdemocrazia della Spd dalla classe operaia e la sua trasformazione in partito dell’amministrazione pubblica, degli insegnanti e dei lavoratori del sociale. Ma i partiti di sinistra, in particolare i verdi, in tutti i paesi europei sono i partiti dell’ambiente urbano dei laureati.
Il liberalismo di sinistra si fonda sulla politica identitaria che rivolge la sua attenzione a minoranze sempre più piccole e stravaganti, mirando alla santificazione della disuguaglianza. A essere inficiato è il tradizionale valore di sinistra dell’uguaglianza, che è sostituito dalla differenziazione tra gli individui, e che si traduce nella politica delle quote. La politica identitaria svia l’attenzione dai rapporti di proprietà e dalle strutture sociali per rivolgerla a specificità individuali come l’etnia, il colore della pelle e l’orientamento sessuale. Persino Blackstone, una delle maggiori società finanziarie del mondo, ha adottato la politica delle quote, dichiarando di voler fare in modo che almeno un terzo del suo consiglio d’amministrazione non sia più rappresentato da maschi bianchi e eterosessuali. Per la parte più povera e realmente svantaggiata quote e diversity non cambiano di una virgola la propria situazione. La politica identitaria crea spaccature proprio lì dove sarebbe necessaria la solidarietà e rabbia in chi ha avuto tutto da perdere dai mutamenti sociali della globalizzazione e vede soggetti privilegiati e con reddito elevato recitare pubblicamente la parte delle vittime discriminate.
La politica identitaria ha prodotto disastri anche tra gli immigrati. I liberali di sinistra invece di aiutare gli immigrati a integrarsi hanno finanziato organizzazioni, come quelle estremistiche islamiche, che si ponevano come priorità il consolidamento dell’identità di gruppo distinto dalla maggioranza e dagli altri gruppi etnici. Il multiculturalismo è, in realtà, il fallimento dell’integrazione e la distruzione del senso di appartenenza alla comunità, presupposto più importante per la solidarietà e la giustizia sociale. In base all’ideologia del liberalismo di sinistra il senso di appartenenza e di comunità all’interno di un paese appare come qualcosa di destra e di reazionario. Inoltre, il liberalismo di sinistra introduce un’altra minoranza da tutelare: quella dei poveri e degli emarginati. In questo modo, si ha la cancellazione dello Stato sociale a favore di una assistenza umanitaria per i poveri, che difficilmente si rivelerebbe utile per il ceto medio e medio-basso.
Aspetto importante del liberalismo di sinistra è l’affermazione di una società aperta che, potendo essere estesa oltre i confini nazionali, si accompagna alla rivendicazione di una cittadinanza globale o almeno europea (cosmopolitismo). Lo slogan dell’apertura al mondo e la posa da cosmopoliti sono una giustificazione delle trasformazioni liberali degli ultimi anni e della mancanza di volontà di assumersi le proprie responsabilità di fronte a quella fascia di popolazione autoctona cui sono stati tolti non solo i posti di lavoro ma anche le garanzie sociali.
In realtà la società aperta se, da una parte, porta alla permeabilità dei confini per chi non appartiene a un certo Stato, dall’altra parte innalza tra le classi sociali muri che sono sempre più difficili da superare. Anche la tanto acclamata emancipazione della donna è stata in realtà l’emancipazione della donna laureata del ceto superiore o medio-superiore.
Il neoliberismo di sinistra contribuisce a una politica utile soprattutto ai ricchi, riuscendo nell’intento di dividere il ceto medio dal punto di vista politico-culturale e di impedire la nascita di maggioranze politiche che guardino a un diverso progetto di futuro.
L’immigrazione
Quello dell’immigrazione è un problema delicato che viene agitato dalla estrema destra in tutti i Paesi europei. Questo è particolarmente vero in Germania, che ha accolto una quantità notevole di immigrati, soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Siria e che ha visto l’AfD crescere proprio grazie a questa tematica. BSW ha assunto in proposito una posizione diversa da quella dei liberali di sinistra, che gli è costata diverse accuse di razzismo. Per questa ragione è importante vedere quale sia la posizione reale della Wagenknecht.
In primo luogo, il liberismo di sinistra è per l’accoglienza di tutti gli immigrati, ritenendo che qualsiasi posizione diversa contravverrebbe ai più elementari comandamenti morali tra cui la disponibilità ad aiutare il prossimo e la solidarietà. Secondo la Wagenknecht, invece, i paesi ricchi esercitano un neocolonialismo bello e buono attirando lavoratori qualificati da paesi poverissimi che hanno speso molti soldi per la formazione di quei professionisti privandosi poi del loro contributo alla società di quei paesi. Ad esempio, la penuria di medici e infermieri ha condotto alla chiusura di molti ospedali in Bulgaria e Romania, di cui si è sentito l’effetto durante il Covid. Inoltre, secondo il Fondo monetario internazionale, in assenza di emigrazione, tra 1995 e 2012, i Paesi dell’Europa dell’Est avrebbero avuto il 7% di crescita in più.
Va, inoltre, operata una distinzione tra immigrati, per cause economiche, e profughi, che vengono costretti a lasciare le loro terre dalla guerra per rifugiarsi in paesi vicini e altrettanto poveri. L’Europa non può accogliere 60 milioni di profughi ma potrebbe fornire le risorse alle associazioni che si occupano di queste persone. Invece, rileva la Wagenknecht, i fondi europei sono pochi e molti paesi europei hanno scalato le spese per l’integrazione degli immigrati dagli aiuti ai paesi in via di sviluppo.
A trarre vantaggio dall’immigrazione sono gli imprenditori cui interessano due cose: disporre di forza lavoro a basso costo e creare divisioni tra i dipendenti. Per questa ragione la sinistra si è battuta nel passato per la riduzione dell’immigrazione. Ciò avvenne durante la repubblica di Weimar e nel ’73 quando il cancelliere socialdemocratico Willy Brandt interruppe il reclutamento dei lavoratori dall’estero. La Spd di oggi – rileva la Wagenknecht – lo avrebbe definito vicino a AfD.
Oggi la prevalenza della narrazione liberista di sinistra ha fatto sì che i sindacati non si azzardino più a problematizzare l’impiego di forza lavoro immigrata: anche solo parlare del legame tra immigrazione e dumping salariale è visto come una blasfemia. Eppure la diminuzione del 20% dei salari registrata in Germania in molti settori, oltre che alle riforme del mercato del lavoro del governo Schröder, può essere attribuito all’alto tasso d’immigrazione. L’ingresso degli immigrati provoca, inoltre, l’aumento degli affitti dove vive la popolazione autoctona meno agiata.
Chi vuole davvero promuovere la sviluppo dei paesi poveri, conclude la Wagenknecht, dovrebbe mettere fine alle guerre interventiste occidentali e al sostegno alle guerre civili e introdurre una differente politica commerciale, impedendo, ad esempio, la fuga dei cervelli dai Paesi poveri.
Viviamo davvero nell’epoca delle destre?
Quali sono le ragioni dell’affermazione dei partiti di destra in Germania e nel resto d’Europa? Secondo alcuni chi vota la destra rappresenta il quinto della popolazione che è contro la società liberale. Tuttavia, ciò non spiega perché solo ora gli elettori votino in massa per AfD, quando pure in precedenza c’erano partiti di destra. La verità è che gli elettori non votano a destra per convinzione ma per protesta. La parte di collettività svantaggiata dalla politica di questi anni ha smesso di votare per i politici che ignorano i suoi interessi e disprezzano le sue concezioni di vita sociale e il modo di vivere, definito retrogrado e provinciale. Gli elettori di destra vivono nelle campagne e in piccoli centri industriali, dove la disoccupazione è elevata, le infrastrutture carenti e l’immigrazione elevata, mentre in città vivono nelle aree di disagio sociale. Questi settori prima si sono rifugiati nell’astensionismo e successivamente hanno dato sfogo alla frustrazione e alla rabbia votando per le destre.
Abbiamo spiegato perché la sinistra alla moda non riesce a raggiungere questi elettori, ma perché la destra ci riesce? La prima ragione è la critica all’immigrazione, che è al centro del programma di tutte le destre, dal momento che la maggioranza degli europei ritiene che ci siano troppi immigrati. Alla base della ostilità di certi settori sociali verso l’immigrazione incontrollata esistono certamente ragioni culturali ma c’è soprattutto un problema concreto: la concorrenza per i posti di lavoro, le case e le prestazioni sociali. Negare questi problemi – sostiene la Wagenknecht – e interpretare il dibattito sull’immigrazione come un problema di atteggiamento morale rende la sinistra alla moda impossibile da votare. Inoltre, se solo la destra prende atto dei problemi legati alla immigrazione e la sinistra critica moralmente i poveri “arrabbiati”, il tenore e il tono del dibattito verranno decisi dalla destra che dipingerà gli immigrati come semplici intrusi malintenzionati.
Un’altra ragione del successo della destra è l’opposizione al liberismo di sinistra che manifesta la massima adesione al neoliberismo, allo smantellamento dello Stato sociale e alla globalizzazione. Per questo la destra parla agli svantaggiati non solo a livello culturale ma anche a livello di interessi materiali. Trump ad esempio ha messo al centro dei suoi discorsi la decimazione dei posti di lavoro da parte della globalizzazione, imponendo dazi sulle importazioni, provvedimenti che molti dei suoi sostenitori hanno apprezzato. Un altro esempio è rappresentato dal PiS, partito di estrema destra polacco che, dopo la sua vittoria nel 2015, formulò il più grandioso programma sociale della storia polacca, distribuendo come assegno sociale una somma elevata, riducendo così la povertà del 40%. Inoltre, il PiS ha introdotto il salario minimo al di sopra di quanto richiesto dai sindacati, ha ridotto l’età di pensionamento per uomini e donne, e varato altre misure che sono espressione di una politica che ci aspetteremmo – nota la Wagenknecht – da partiti socialdemocratici e progressisti.
Ma non si stratta solo della Polonia, in Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen chiede di ridurre i tagli alla spesa sociale, di reintrodurre la tassa patrimoniale, di aumentare gli investimenti statali e le prestazioni sociali, in Olanda il PVV lotta contro l’allentamento delle tutele contro il licenziamento, contro l’innalzamento dell’età pensionabile e contro la riduzione del salario minimo. Infine, in Ungheria il tanto vituperato Fidesz di Orban ha contrapposto al liberismo economico e al controllo dell’economia ungherese da parte degli investitori esteri la sovranità statale e l’interventismo statale. Le misure prese da Fidesz come la rinazionalizzazione di imprese energetiche strategiche, e l’introduzione di tasse speciali per le multinazionali e le transazioni finanziarie sono tutte misure che – nota sempre la Wagenknecht – non esiteremmo a definire di sinistra.
Infine, c’è una terza ragione del successo della destra: la critica all’Unione Europea e ai burocrati che siedono a Bruxelles. Il nucleo centrale dei programmi di tutte le destre della UE è la difesa della sovranità nazionale e il contrasto alla centralizzazione dei poteri portata avanti dai commissari di Bruxelles, figure verso le quali il popolo non nutre alcuna fiducia. Ad esempio la Commissione europea ha chiesto per ben sessantatré volte ai paesi europei di tagliare la sanità e accelerare la privatizzazione degli ospedali, per cinquanta volte di introdurre misure per frenare la crescita dei salari e trentotto volte misure per facilitare i licenziamenti. La Corte di giustizia europea favorisce le grandi multinazionali e peggiora le condizioni dei lavoratori e del ceto medio. La Wagenknecht è stata più volte accusata di essere sovranista e perciò di destra. In realtà il suo sovranismo non è nazionalismo, bensì la richiesta di collocare il potere decisionale laddove è maggiormente possibile decidere in modo democratico, cioè a livello nazionale. La conseguenza di questo sarebbe la ristrutturazione della UE in una confederazione di democrazie sovrane. In questo modo, nei singoli paesi varrebbe soltanto ciò che viene deciso dai rispettivi parlamenti nazionali.
Mentre il rifiuto popolare dell’orientamento europeista è stato subito colto e sfruttato elettoralmente dalla destra, i liberali di sinistra bollano chiunque critichi l’UE come antieuropeista e nazionalista, cosa che li allontana sempre più dalle classi meno abbienti. La presentazione delle destre come avvocati del popolo contro l’élite corrotta è una componente invariabile della destra, che risulta credibile perché contiene un nucleo di verità: le democrazie occidentali non funzionano più, in quanto potenti lobby esercitano molta più influenza sulla politica dei normali cittadini. Per questa ragione la narrazione dei liberali di sinistra secondo cui tutti i democratici devono unirsi contro i nemici di destra della democrazia suona ipocrita e stonata a chi è stato danneggiato dalla politica della sinistra liberale. Anzi, il fatto di essere odiati dall’establishment e da tutti gli altri partiti rafforza i partiti di estrema destra.
Eppure la maggioranza dei cittadini, nonostante rifiuti le idee dei liberali di sinistra, dal punto di vista socio-economico si colloca a sinistra. Ad esempio il 73% degli interpellati di un sondaggio di Der Spiegel ritiene che vadano aumentate le tasse per i redditi alti e diminuite per quelli bassi e il 60% richiede l’introduzione di una imposta patrimoniale. Non si può parlare, quindi, di epoca delle destre. La maggioranza non è di destra bensì terribilmente insicura e delusa dai liberali di sinistra, che hanno fallito nel parlare a questa maggioranza che è innegabilmente di sinistra dal punto di vista socio-economico. Anche l’idea che atteggiamenti illiberali possa condurre questa gente a votare a destra è priva di fondamento: in Germania il 95% dei cittadini ritiene giusta una legge che protegga gli omosessuali.
La grande maggioranza della popolazione non è costituita da retrogradi e razzisti ma è irritata dal fatto che al centro dell’attenzione pubblica ci siano sempre e solo i progetti di vita delle minoranze e talora di minoranze minuscole. La maggioranza non è neanche nazionalista ma pensa che solo lo Stato nazionale possa garantire la sopravvivenza dello Stato sociale.
L’epoca delle destre è un gigantesco imbroglio in quanto misura l’essere di destra in base al rifiuto dell’ideologia liberale di sinistra e non sulla base dei tratti che l’hanno caratterizzata tradizionalmente, bollando così posizioni condivise da ampie fette di popolazione come di destra. La battaglia culturale dei liberali di sinistra contro la destra la asseconda. Quanto più i toni saranno offensivi e quanto più certe posizioni verranno definite di destra tanto più verranno rivolte simpatie a chi non insulta o disprezza a livello etico l’interlocutore.
Due temi, in particolare, hanno avuto questo un effetto boomerang: la politica dell’immigrazione e il cambiamento climatico. Per quanto riguarda l’immigrazione, molti hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze di flussi migratori molto ampi. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, Fridays for future e i liberali si sinistra hanno reso il dibattito sul clima un dibattito sugli stili di vita e messo al centro di tutto la proposta di una tassa sulla CO2. Di conseguenza il pacchetto sul clima del governo tedesco ha colpito in maniera sproporzionata il ceto medio-basso e i poveri con l’aumento del prezzo del gasolio, dell’energia elettrica e della benzina. Del resto, lo stesso è accaduto in Francia dove le stesse misure hanno rappresentato la miccia che ha fatto divampare la protesta dei “gilet gialli”.
La paura del domani si va diffondendo in ampie fette della popolazione. I liberali di sinistra contribuiscono alla diffusione di questa paura con le loro battaglie culturali che spaccano una maggioranza che, dal punto di vista socio-economico, è di sinistra, innalzano muri di ostilità tra chi ha una laurea e chi non ce l’ha. L’obiettivo è impedire che maggioranze antiliberiste si trasformino in maggioranze politiche.
Non esiste un’epoca delle destre né derive sociali destrorse. Esistono partiti di destra che stanno acquistando forza e influenza a causa dei comportamenti dei liberali di sinistra. La Wagenknecht conclude la prima parte del suo libro con le seguenti parole: “Ma finché la sinistra non offrirà una narrazione progressista credibile e un programma convincente, che non si rivolga soltanto al numero sempre più grande dei laureati meno abbienti, ma anche agli interessi sociali e ai valori degli operai, di chi lavora nel settore dei servizi nonché della classe media tradizionale, sempre più elettori provenienti da questi ultimi ambienti cercheranno una casa sul lato opposto dello spettro politico. A un certo punto, poi, una parte di questi elettori comincerà anche a parlare e a pensare nel modo in cui si parla da quelle parti.”[i]
Conclusioni
L’Italia, la Francia e altri paesi europei presentano le caratteristiche che Sahra Wagenknecht descrive a proposito della Germania. Un po’ in tutta Europa la sinistra si è fortemente indebolita sul piano elettorale a causa dell’essere stata la principale o tra le principali forze politiche che hanno favorito le modificazioni sociali che si sono tradotte nello smantellamento dello Stato sociale, nella precarizzazione, nell’outsourcing e soprattutto nella globalizzazione che ha fortemente ridotto i salari. Di conseguenza gli elettori, compresi molti di sinistra, si sono o rifugiati nell’astensionismo, che in Italia alle ultime politiche del 2022 è stata del 36% nove punti in più rispetto al 2018, o nel voto per l’estrema destra. Secondo Sahra Wagenknecht i partiti di estrema destra sono diventati i nuovi partiti operai se non per gli iscritti sicuramente per gli elettori. A confermare le parole di Wagenknecht c’è stata in Italia l’affermazione di Fratelli d’Italia, che, unico partito a non aver appoggiato il governo Draghi, ha potuto capitalizzare l’insoddisfazione e la rabbia di una parte importante dell’elettorato. Il PD, come gli altri partiti socialdemocratici europei, per anni ha rappresentato l’espressione di quel liberismo di sinistra che viene denunciato nel libro della Wagenknecht. Mentre il Movimento Cinque Stelle ha rappresentato per qualche tempo la risposta alla insoddisfazione e alla rabbia dell’elettorato. Tuttavia, la mancanza di un programma definito e di un personale politico adeguato e soprattutto la partecipazione al governo Draghi da parte del M5S ne ha minato la credibilità, che può essere ulteriormente ridotta dall’abbraccio con il PD della Schlein e dalla ricostruzione di un centro-sinistra, dominato dal PD, che ripeterebbe le scelte sciagurate del passato prodiano. Del resto, su diverse tematiche Schlein e Meloni non sono così distanti, a partire dalla guerra. Entrambe sono perfettamente allineate alla Nato e al sostegno all’Ucraina, nonché favorevoli all’invio di armi. Anche se il nuovo ceto urbano dei laureati è probabilmente meno diffuso in Italia che in Germania, esso rimane la base sociale e politica anche della sinistra italiana, dal PD ai verdi. Allo stesso modo il liberismo di sinistra rimane l’ideologia dominante nel PD, nonostante il maquillage che la Schlein ha imposto al partito. Per queste ragioni il libro della Wagenknecht è uno strumento utile a orientarsi in una fase confusa in cui la categoria di sinistra, completamente rovesciata rispetto alle sue origini, va ridefinita in modo radicale.
Note
[i] Sahra Wagenknecht, Contro la sinistra liberale, Fazi editore, Roma 2022, p.263.
Fonte