18/04/2025
La Ue recalcitra sulle aperture cinesi, Trump punta a isolare la Cina
Alcune delegazioni economiche da Pechino sono state inviate nelle capitali europee nelle ultime settimane, mentre numerose fabbriche cinesi stanno valutando se e come ri-orientare le proprie merci verso i mercati europei.
Il presidente cinese Xi Jinping incontrando la scorsa settimana il premier spagnolo Pedro Sanchez, in visita a Pechino, ha dichiarato che la Cina e la UE dovrebbero “resistere congiuntamente al bullismo unilaterale” del presidente Trump.
Il Financial Times riferisce che anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha affermato durante un colloquio con il premier cinese Li Qiang che le due parti dovrebbero collaborare per offrire “stabilità e prevedibilità” all’economia globale.
Ma, secondo il quotidiano economico britannico, un miglioramento nei rapporti Ue-Cina “dovrebbe superare profonde divergenze riguardo all’enorme surplus commerciale cinese, agli ostacoli per accedere al suo mercato interno e al sostegno implicito di Pechino alla guerra russa in Ucraina”.
Per l’Unione Europea una maggiore interlocuzione con la Cina sarebbe un obiettivo punto di forza nelle trattative con gli USA in materia di dazi commerciali, ma le classi dirigenti europee in questi anni ci hanno abituato a scelte suicide in nome della comune identità occidentale (dalla chiusura in Germania del gasdotto North Stream al congelamento dell’Italia del memorandum sulla Via della Seta). Gli effetti sui costi dell’energia e i progetti infrastrutturali sono stati ben visibili, in negativo.
Contestualmente, un altro articolo sul quotidiano economico statunitense Wall Street Journal, rileva come l’amministrazione Trump punti a sfruttare i negoziati sui dazi con i partner commerciali degli Stati Uniti proprio come leva per convincerli a limitare i loro rapporti economici con la Cina.
L’obiettivo dell’amministrazione Trump, secondo il Wall Street Journal, è quello di ottenere impegni tesi a isolare l’economia cinese da parte degli oltre 70 Paesi che negozieranno una riduzione delle barriere commerciali e tariffarie imposte dalla Casa Bianca.
L’amministrazione Trump intende chiedere a chi plasticamente starebbe in fila per “baciargli il culo”, di non permettere il transito delle merci cinesi, di vietare alle aziende cinesi di stabilirsi sui loro territori per aggirare i dazi Usa, e di non assorbire i beni industriali a basso costo provenienti dalla Cina.
Queste misure, per il Wall Street Journal, dovrebbero costringere Pechino a sedersi al tavolo delle trattative con gli USA da una posizione di debolezza in vista di un possibile incontro tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping. Le richieste avanzate da Washington potrebbero variare notevolmente da paese a paese a seconda del loro grado di interdipendenza con l’economia cinese. Ma su questo pesano anche fattori geopolitici e non solo economici.
Resta da vedere se il “potere di persuasione” degli Usa sia ancora quello che Trump spera di avere nelle sue piene disponibilità. Il mondo di oggi appare piuttosto diverso da quello in cui il Washington consensus era un fattore decisivo.
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USA - Inizia la resistenza alla repressione nelle università
L’Università di Harvard, la più antica università americana e una delle maggiori università private del paese, ha dato il “la” alla resistenza contro Donald Trump.
Il preside dell’ateneo, Alan Garber, ha dichiarato che Harvard “non rinuncerà alla propria indipendenza né rinuncerà ai propri diritti costituzionali” e che “nessun governo, indipendentemente dal partito al potere, dovrebbe dettare cosa possono insegnare le università private”.
La presa di posizione di Harvard è la risposta al diktat da parte dell’amministrazione Trump di uniformarsi alle richieste che vanno dallo smantellamento delle tendopoli degli studenti pro-palestinesi, alla soppressione dei programmi dedicati alla diversità fino alla revisione dei criteri di ammissione di studenti e professori in base alle loro posizioni politiche e alle loro dichiarazioni pubbliche, anche quelle espresse via social. Ma nell’argomentazione emerge con forza anche la contraddizione tra il carattere “privato” dell’ateneo e l’intromissione “federale”, una contraddizione molto, ma molto, amerikana.
Il preside di Harvard Garber ha infatti spiegato il suo rifiuto di ottemperare ai diktat dell’amministrazione Trump perché questi, “vanno oltre il potere del governo federale” e “minacciano i nostri valori come istituzione privata dedicata alla ricerca, alla produzione e alla diffusione della conoscenza”.
La replica di Trump non si è fatta attendere: “Forse Harvard dovrebbe perdere il suo status di esenzione fiscale – ha scritto su Truth – ed essere tassata come un’entità politica se continua a promuovere ‘malattie’ ispirate/sostenute da politica, ideologia e terrorismo”. Qualche ora dopo l’amministrazione ha annunciato di aver congelato più di 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni e 60 milioni di dollari in contratti con l’università di Harvard.
La Columbia University di New York, che si era subito piegata ai diktat dell’amministrazione Trump dopo il taglio di 400 milioni di dollari di sovvenzioni, ha fatto marcia indietro dichiarando che non accetterà alcune delle misure imposte e così annunciano di fare anche le università di Princeton, Yale e il Mit di Boston.
Nei giorni scorsi la Casa Bianca aveva annunciato di aver già congelato più di un miliardo di dollari per la Cornell University.
L’università già a marzo aveva ricevuto una lettera del Dipartimento dell’Istruzione che la esortava ad adottare misure per proteggere gli studenti ebrei, altrimenti sarebbero state soggette a “potenziali misure coercitive”. La stessa lettera era stata inviata anche ad altri atenei.
C’è poi il crescente clima di repressione e intimidazione dentro e intorno alle università. Nelle ultime settimane, diverse decine di studenti stranieri sono stati arrestati dagli agenti dell’Ice, l’agenzia federale sull’immigrazione, e adesso rischiano l’espulsione. I casi più clamorosi sono quelli di Mohammed Khalil, Rumeyza Ozturk e Mohsen Mahdawi arrestati dagli agenti e in attesa di espulsione. A loro sostegno sono state raccolte più di un milione di firme.
È evidente come dietro le pretestuose accuse di antisemitismo e alle nuove indicazioni sui criteri da introdurre per assunzioni, programmi e ammissioni, emerga la precisa volontà dell’amministrazione Trump di sottomettere al proprio controllo le principali università del paese considerate dalla destra americana come le “incubatrici di eversione progressista e ostili ai valori conservatori”.
Una caccia alle streghe in piena regola. Ma, come in passato ha già spiegato qualcuno, anche negli Stati Uniti prima hanno cominciato con i comunisti... e adesso ce n’è per tutti.
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17/04/2025
Gloria e morte alla nuova tecnologia
“Morte a Videodrome, gloria e vita alla nuova carne” era il motto ripetuto da Max Renn, in Videodrome (1983), prima di uccidersi con un colpo di pistola. La “nuova carne” sono le escrescenze tumorali provocate dalla visione della terribile trasmissione Videodrome, che si insinua nei salotti delle case canadesi e americane nei primi anni Ottanta, in un momento in cui si infittiscono – anche qui da noi – le televisioni private che trasformano gli individui in esseri robotici dotati di telecomando, rigorosamente rinchiusi fra le mura domestiche. Al posto dello schermo televisivo e della “nuova carne” provocata dalla visione di Videodrome, nel nuovo film di David Cronenberg, The Shrouds (2024), abbiamo la nuova tecnologia che si insinua nei più reconditi interstizi della morte. Perciò, “gloria e morte alla nuova tecnologia”: “morte”, in questo caso, nel senso antitetico di poter durare di più e di poter essere ancora più pervasiva accompagnando gli individui fin nella tomba. Il produttore di video industriali Karsh, interpretato da Vincent Cassel (fa un po’ impressione vedere Cassel anziano ed elegante – lo ricordiamo soprattutto per la sua interpretazione del ragazzo di banlieue in L’odio di Kassovitz – acconciato per somigliare a Cronenberg), il protagonista del film, non riesce a rassegnarsi alla perdita della moglie Becca e fa allestire un tecnologico cimitero nel quale può osservare, tramite schermi particolari, il processo di decomposizione del corpo. Gli “shrouds” del titolo sono dei sudari dotati degli ultimi ritrovati della tecnologia che avvolgono il corpo dei defunti, permettendo appunto la visione.
Se in Videodrome la tecnologia anni ’80 degli schermi televisivi si insinuava nelle coscienze delle persone, manipolando la sfera sensoriale e percettiva tramite nuove escrescenze di carne, in The Shrouds le nuovissime tecnologie penetrano fin nella tomba, avvolgendo gli esseri umani per l’eternità. Non ci si può staccare dai defunti, lo dimostra pienamente l’angoscia lancinante che avvolge Karsh, elegante uomo d’affari circondato dai più raffinati strumenti tecnologici; ha perfino una specie di avatar della moglie defunta, creato dalla IA, Hunny, che compare nel suo smartphone offrendogli i più svariati consigli. Eppure, Karsh, figlio della più artefatta contemporaneità tecnologica e dei suoi strumenti, non riesce a staccarsi dalla moglie defunta e utilizza quegli stessi strumenti per scendere sottoterra con lei. La credenza nella tecnologia sostituisce la credenza in pratiche magiche, diffusesi largamente nell’Europa orientale del Settecento, legate alla resurrezione dei cadaveri. Come l’uomo del Settecento, nelle remote lande orientali dell’Europa, crede nei vampiri che vengono a cercarlo di notte, così Karsh e gli individui contemporanei credono nella tecnologia che riesce a eliminare la distanza lancinante dai propri cari defunti. I sudari tecnologici non sono troppo diversi dai sudari che, secondo quella stessa credenza, venivano ‘masticati’ dai defunti redivivi (cfr. F. P. de Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino, 2023, p. 120 e seguenti). Non a caso, in alcune sequenze oniriche, Karsh viene visitato nottetempo dalla moglie rediviva, col corpo segnato da orrende ferite, che si corica sul letto vicino a lui: l’immagine del revenant della defunta è provocata dall’ossessione per la tecnologia, dalla valenza ‘demonica’ e magica di essa, che crea figure fantasmatiche e vampiresche.
Gli uomini obnubilati dalla tecnologia sono poco diversi da coloro che ripongono una cieca fede nelle superstizioni e nelle pratiche magiche. Il revenant di Becca non è provocato dall’influsso misterioso di uno sconosciuto pianeta “pensante” come in Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij, tratto dal romanzo di Stanislav Lem ma da una tecnologia divenuta quotidiana, insinuatasi nei più piacevoli e intimi spazi domestici. Così, Hunny, la IA, si insinua negli angoli più reconditi dell’altrettanto ipermoderna casa di Karsh, manipolando e controllando la sua identità. Al posto dello schermo anni ’80 che campeggiava nel salotto di Renn, nella casa di Karsh ci sono smartphone e schermi ultrapiatti dei computer, telecamere e sensori, una intelligenza artificiale parlante che sembra provare emozioni e percezioni umane. Se nel 1961, in cui Stanislav Lem ha scritto Solaris, o nel 1972, in cui Tarkovskij ha realizzato il suo adattamento, i revenant sotto forma di inquietanti cloni dei propri cari defunti potevano provenire solo dalle plaghe più misteriose dello spazio profondo, quindi dalla fantascienza, nel 2024 essi giungono dalla tecnologia e non si tratta più di fantascienza. La tecnologia è reale, non è fantascienza e non è nemmeno più magia o superstizione. È un sostituto di essa che pervade le vite – e anche le morti, come vediamo nel film – degli individui.
Karsh è un burattino nelle mani della tecnologia: come si affida al suo cimitero tecnologico per stare vicino a Becca, così ugualmente si affida a Hunny e alla sua Tesla a guida autonoma nella quotidianità. Il marchio “Tesla” che campeggia sul volante mentre Karsh viene letteralmente condotto dall’auto, è la sineddoche mostruosa dei nuovi stregoni e maghi della contemporaneità, i potenti manager delle corporation globali. Uno di questi è proprio Elon Musk, reggitore dei fili della magia contemporanea, instillatore di nuove credenze nel pubblico dei media, capace di dare adito a sempre nuove teorie di complotto o negazionismi climatici di ogni tipo. C’è un nesso inequivocabile tra crescita esponenziale delle nuove tecnologie e dei loro manager inseriti nella bolla del capitalismo globale e nuove teorie di complotto che vanno ad impattare sull’inesorabile riscaldamento globale che stiamo attraversando. Se in Videodrome nessuno poteva salvarsi dall’avvento della “nuova carne”, dalla pervasività degli schermi televisivi, in The Shrouds la contemporaneità ipertecnologica non ci lascia scampo e ci segue ovunque, senza requie, fin in quella “tomba ignuda” di leopardiana memoria.
Gaza - Le autopsie sui 14 soccorritori uccisi da Israele: “Freddati con colpi alla testa e al petto”
Secondo l’autopsia che il New York Times ha potuto consultare, i 14 sanitari e il dipendente delle Nazioni Unite sono stati raggiunti da colpi d’arma da fuoco al capo, alcuni al petto esplosi dai soldati di Tel Aviv che hanno sparato sulle ambulanze e su un camion dei pompieri inviato dalla Mezzaluna Rossa Palestinese e dalla Protezione Civile.
Le autopsie sono state eseguite tra il primo e il 5 aprile dopo che un team di operatori umanitari ha recuperato i corpi. Il New York Times ha esaminato i risultati delle autopsie di tutti gli uomini, tranne quella del dipendente delle Nazioni Unite.
Le autopsie sono state eseguite dal dottor Ahmad Dhair, responsabile dell’unità di medicina legale del ministero della Salute di Gaza. Il dottor Arne Stray-Pedersen, medico legale presso l’ospedale universitario di Oslo in Norvegia, che si era recato a Gaza all’inizio di marzo per formare i medici in medicina legale, ha esaminato le foto delle autopsie e si è consultato con il dottor Dhair per scrivere una relazione di sintesi.
Al momento del decesso, i 14 uomini indossavano le uniformi della Mezzaluna Rossa o della Protezione Civile, secondo quanto riportato dai referti autoptici. Il video di una parte dell’attacco mostra che, quando le truppe israeliane hanno iniziato a sparare contro di loro, alcuni paramedici erano scesi dai loro veicoli ed erano chiaramente visibili nelle loro uniformi.
I referti dell’autopsia hanno rivelato che 11 degli uomini presentavano ferite da arma da fuoco, di cui almeno sei colpiti al petto o alla schiena e quattro alla testa. La maggior parte era stata colpita più volte.
Un uomo presentava diverse ferite da schegge al petto e all’addome. Altri due presentavano ferite che, secondo i referti autoptici, erano “compatibili” con quelle da schegge, probabilmente legate a un’esplosione. Secondo i rapporti, a diversi corpi mancavano arti o altre parti del corpo. Il cadavere di un uomo era stato amputato dal bacino in giù, secondo l’autopsia.
Israele ha ammesso che i suoi militari hanno compiuto l’attacco, solo dopo aver affermato che i mezzi di soccorso procedevano a fari spenti e non si erano resi riconoscibili. Una ricostruzione smentita dai filmati di quella notte.
Dopo la strage, i soldati israeliani hanno seppellito la maggior parte dei corpi in una fossa comune, hanno distrutto le ambulanze, l’autopompa e un veicolo delle Nazioni Unite, per poi seppellire anche questi.
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Missioni militari italiane all’estero 2025
Per l’Italia e per il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano: «il Mediterraneo, i Balcani, il Fianco Est della Nato, il Medio Oriente, il quadrante Sahel/Golfo di Guinea e il Corno d’Africa». Dettagli su Analisi Difesa, da Giovanni Martinelli. Aree influenzate dalla presenza di Russia e Cina «per aumentare la loro sfera di condizionamento, strappando l’influenza occidentale», che si estendono dal Mediterraneo Allargato verso i Balcani dove le due potenze «stanno rafforzando il loro peso alimentando le dispute tra Serbia e Kosovo». In Africa, con «riconfigurazione degli allineamenti e degli equilibri di potere, con una diversificazione delle partnership di Cina e Russia. Stabilità della Libia per noi rimane prioritaria».
Operazioni in corso
Operazione Aspides nel Mar Rosso, per la sicurezza del traffico marittimo attraverso Suez. «Si potrebbe pensare di integrarla con l’operazione anti pirateria Atalanta, in quanto complementari e quindi si potrebbe pensare ad unico comando». In Niger: «evitare un effetto contagio per la destabilizzazione dell’area trasformando la cintura saheliana in uno strumento ibrido puntato verso l’Italia e l’Ue». «Collaborazione con il Paese, che è crocevia di tutti i flussi migratori, facendo acquisire all’Italia un ruolo di interlocutore privilegiato». «La Russia genera in Africa le future posizioni per attività non solo in quel continente ma anche sul lato sud dell’Alleanza». Intervento a Gaza: «Operazione Levante è stata avviata per sostenere la popolazione civile palestinese a seguito dello scoppio del conflitto Israele-Hamas».
Unifil in Libano e ‘strade sicure’
«L’Italia ha svolto un ruolo fondamentale in Libano durante la crisi, in occasione della presenza [eufemismo di parte Ndr] israeliana nell’area sud. Il problema è che UNIFIL ha un mandato adeguato ma manca di strumenti, ovvero di regole di ingaggio, che devono essere cambiate». Rinnovo dell’Operazione Strade Sicure sul territorio nazionale. «Strade Sicure nacque in un momento di crisi, d’emergenza. Ora c’è da chiedersi se l’emergenza continua». 2025 anno giubilare e i campionati di tennis. In prospettiva però, si deve cambiare. Per esempio il ‘pattugliamento dinamico’, su più punti sensibili.
Missioni internazionali
«l’Italia in un mondo sempre più complesso, in cui con l’intensificarsi della competizione strategica porta a una situazione di tensione internazionale permanente». «In questo contesto, l’Italia resta concentrata sulla propria aerea di interesse geografico prioritario: il ‘Mediterraneo Allargato’», ma non solo. L’Indo-Pacifico dove la presenza militare italiana è sempre meno sporadica con la partecipazione alle missioni delle diverse organizzazioni internazionali di rifermento (NATO, UE e ONU), «con priorità alla sicurezza energetica, alla stabilità dell’Africa e alla centralità del Mediterraneo».
Nulla di nuovo per il 2025
Di fatto, il 2025 non registra nessuna nuova missione vera e propria, salvo utilizzo delle ‘Forze ad alta e altissima prontezza Operativa’, per intervento nei Paesi in cui operano personale e contingenti nazionali. Seguono molti dettagli sulla spartizione dei costi tra i diversi ministeri che continueranno a rendere praticamente illeggibile il totale dei costi dell’Italia. «Ricapitolando dunque le missioni militari per il 2025 avranno un costo complessivo di 1.480,2 milioni per quanto di pertinenza del Ministero della Difesa». Più i 32 milioni per il ‘Supporto info-operativo delle Forze Armate’ svolto dall’AISE (spionaggio estero). Ma la somma tra tutti i diversi ministeri resta un enigma.
Una difficile chiarezza
L’intreccio di diverse missioni per diverse forze militari. Sintesi proposta, 35, più le 12 civili UE ma che prevedono comunque la presenza di Personale Militare. 8 di queste NATO, 7 Unione Europea, 5 ONU e 3 in una coalizione. Le restanti 12 sono nazionali. Le missioni riferite all’Europa sono raggruppate in 2 sole schede. La prima fa riferimento all’impegno nei Balcani Occidentali, Kosovo e Bosnia Erzegovina in particolare. Nella stessa aerea ‘Joint Enterprise’, Nato, (Kosovo) più la EUFOR Althea in Bosnia Erzegovina (Ue). Il numero massimo dei militari autorizzati è di 1.848 unità, con 689 mezzi terrestri più 5 aerei per un costo di 150,5 milioni.
Ucraina
«Partecipazione nazionale alle iniziative NATO, UE, di coalizione e bilaterali di supporto all’Ucraina», missione di assistenza militare, sostegno e addestramento delle Forze Ucraine condotte dalla Unione Europea, ‘EUMAM Ucraina’, più la partecipazione alla simile iniziativa NATO denominata ‘NATO Assistance and Training for Ukraine’. Tutto con un massimo di 213 unità di personale, per un costo di 14,8 milioni a fronte degli 80 militari autorizzati lo scorso anno per la sola EUMAM Ucraina.
Missioni in casa europea
Destreggiandosi poi in una disposizione un po’ caotica, ecco il ‘teatro Europeo’. Elenco: ‘Mediterraneo Sicuro’ (su base nazionale), quella NATO ‘Sea Guardian’, quella UE nota EUNAVFORMED Irini, NATO per la sorveglianza aeronavale dell’area Sud dell’Alleanza e (oltre a tutte queste missioni incentrate sul Mediterraneo) anche la presenza navale nel Golfo di Guinea (e qui siamo negli spazi marittimi Atlantici, in Africa). Il totale dei militari autorizzati è di 2.039, con 11 mezzi navali e 18 aerei; il tutto per un costo di 234,7 milioni e un deciso aumento degli organici rispetto al 2024.
Fronte Russia
Sorveglianza dello spazio aereo dell’Alleanza stessa. 375 i militari impegnati, con 15 mezzi aerei a un costo di 105,2 milioni. Impegni assunti dal nostro Paese con la NATO, per il suo rafforzamento sul Fianco Est che si traduce nello schieramento in Slovacchia, Bulgaria, Romania, Ungheria, Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia. Un totale di ben 2.323 militari, ai quali si aggiungono 1.046 mezzi terrestri e 9 aerei, per un costo complessivo di 188,2 milioni.
Controlettura degli stessi dati
L’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Osserva Maurizio Simoncelli, vicepresidente: «Le missioni italiane all’estero costano ai cittadini e chiedono grandi energie agli uomini e alle donne che le realizzano sul campo. Il tutto in un quadro internazionale nel quale la forza militare prevale drammaticamente sulla diplomazia. Le crisi contemporanee, spesso alimentate da complessi fattori politici ed economici, non possono essere risolte sulla base della forza delle armi che, al contrario, riesce soltanto ad aggravarle. L’Italia e l’Unione Europea devono rimanere fedeli ai propri valori costitutivi. Le missioni multilaterali di pace, che contribuiscono a percorsi di pace e di dialogo, conferiscono al nostro Paese un ruolo tanto più autorevole nell’ambito internazionale quanto più aderente alla tutela dei diritti umani».
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USA - L'impossibile ritorno al passato dell'amministrazione Trump
Il ritorno radicale al protezionismo non solo è possibile ma necessario per un impero in declino, un fatto denunciato da analisti critici ma confermato da intellettuali di spicco dell’establishment statunitense, come Zbigniew Brzeziński in un testo del 2012 e, successivamente, da diversi rapporti della Rand Corporation (think tank ultra-reazionario Usa).
Il declino, o dissoluzione se si preferisce, è arrivato insieme a fattori interni critici: la lenta crescita economica, la perdita di competitività nei mercati globali e il gigantesco indebitamento del governo federale.
Se nel 1980 il debito pubblico degli Stati Uniti rispetto al PIL era del 34,54%, oggi ha raggiunto un livello astronomico del 122,55%. A questo si aggiunge l’insostenibile deficit commerciale, che continua a crescere e nel 2024 ha raggiunto i 131,4 miliardi di dollari, circa il 3,5% del PIL. Questo perché gli USA consumano più di quanto producono.
A questa costellazione di fattori interni di indebolimento imperiale si somma il deterioramento della legittimità democratica, evidenziato dall’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 e dai recenti e diffusi perdoni concessi da Trump a favore di circa 1.500 assalitori condannati dalla magistratura.
Invece del consenso bipartisan, oggi c’è una profonda frattura che mina il sistema politico, di cui il trumpismo è solo un’espressione.
A questo quadro già complesso si aggiungono i cambiamenti epocali nell’ambiente esterno agli Stati Uniti, trasformazioni che hanno modificato irreversibilmente la morfologia del sistema internazionale e i suoi imperativi geopolitici.
La crescita economica fenomenale della Cina e i significativi progressi di altri paesi del Sud Globale, come l’India e diverse nazioni asiatiche, hanno creato barriere oggettive alle pretese di Washington.
Per decenni, gli USA si sono abituati a imporre le proprie condizioni globalmente senza trovare ostacoli. Per quanto Trump possa rimpiangerlo, quell’“epoca d’oro” è finita per sempre, cancellata dal rafforzamento economico e tecnologico dei paesi del Sud Globale. Oggi, i vecchi atti di forza non hanno più lo stesso effetto, tanto meno le guerre commerciali, in cui l’aggressore finisce per essere vittima delle proprie decisioni.
Come se non bastasse, la “scacchiera mondiale” è ulteriormente complicata dall’inaspettato “ritorno” della Russia come potenza globale. Questo ha colto di sorpresa gli esperti ideologizzati dell’impero, convinti dell’eccezionalità degli USA come “nazione indispensabile”.
A causa dei loro paraocchi ideologici, credevano che dopo l’implosione dell’URSS, la Russia fosse condannata in eterno a essere uno spettatore passivo degli affari mondiali. Invece, la capacità militare russa (dimostrata nella guerra in Ucraina) e i successi diplomatici, come la formazione di ampie alleanze (i BRICS+, ad esempio), hanno ribaltato l’equilibrio geopolitico globale a sfavore degli interessi americani.
Il multipolarismo è arrivato ed è qui per restare.
Non sorprende che, di fronte a questi cambiamenti minacciosi (emersi già all’inizio del fallito “nuovo secolo americano”), alcuni studiosi e consulenti governativi abbiano invocato l’esercizio del potere nudo, senza convenzioni o rispetto per la legalità internazionale.
Robert Kagan, in un influente articolo pubblicato dopo l’11 settembre 2001, sostenne che, a differenza dell’Europa, gli USA devono agire in un “mondo hobbesiano anarchico”, dove la sicurezza dipende dall’uso della forza militare. Per lui, il mondo aveva bisogno di un “gendarme globale”, ruolo che solo Washington poteva ricoprire. Da qui la dottrina della “Guerra Preventiva” di George W. Bush, che giustificava l’annientamento di paesi considerati fuorilegge secondo gli standard della Casa Bianca.
Kagan riprende il ragionamento spregiudicato del diplomatico britannico Robert Cooper, secondo cui, fuori dall’Europa o dall’“Anglosfera”, bisogna usare “metodi brutali: forza, attacchi preventivi, inganni”. Vent’anni dopo, Josep Borrell, rappresentante dell’UE, ripeterà questa logica paragonando il “giardino europeo” al “resto della giungla”.
Tuttavia, già prima di Kagan e Cooper, Samuel P. Huntington aveva avvertito dei limiti degli USA come “sceriffo solitario” e dell’insostenibilità dell’unipolarismo. Secondo lui, il comportamento aggressivo di Washington avrebbe finito per creare una vasta coalizione anti-USA, comprendente non solo Russia e Cina ma anche il Sud Globale.
Inoltre, come gendarme del capitalismo mondiale, gli USA sono costretti a imporre i propri interessi con metodi discutibili: pressioni per adottare valori americani, sanzioni extraterritoriali illegali, etichette di “stati canaglia” per chi non si piega. Il risultato? Una crescente resistenza globale.
Militarmente, lo “sceriffo solitario” ha fallito in Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan, e non è riuscito a piegare Cuba né a rovesciare il Venezuela. Oggi, il “guardiano del capitalismo” è più debole e deve affrontare uno scenario internazionale molto più complesso.
Nella sua disperazione, Trump cerca di fermare il tempo, vestendo i panni dello sceriffo e usando la forza bruta come argomento diplomatico principale (“pace attraverso la forza”, come dice Marco Rubio). Ma il suo tentativo di resuscitare l’“ordine mondiale basato su regole” (già morto) è vano.
Trump ne è solo il becchino: ha abbandonato gli accordi di Parigi e l’OMS, tagliato i fondi al WTO e minacciato di lasciare l’ONU. Le sue guerre commerciali, con dazi a effetto boomerang, hanno solo peggiorato le cose.
Nel suo delirio imperiale, gli USA minacciano di imporre la loro volontà su chiunque: dalla Groenlandia (non in vendita) al Canale di Panama (non riconquistabile con la forza), fino al Messico (che rifiuta di etichettare i cartelli come “terroristi”).
Trump aveva promesso di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore, ma due mesi dopo le sue parole sono svanite, perché Putin non rinuncerà alla vittoria militare. E nonostante le pretese pacifiste, Trump continua a finanziare il genocidio israeliano a Gaza.
Finora, Trump e la sua cerchia oligarchica hanno limitato le loro ambizioni a gesti simbolici, ma sul campo delle relazioni internazionali hanno ottenuto poco o nulla. Anzi, il fronte interno si sta indebolendo: il 50% degli americani disapprova il suo operato (sondaggio dell’Economist del 27 marzo).
Tuttavia, in America Latina e nei Caraibi dobbiamo restare vigili. Come avvertivano Fidel e Che, quando le cose vanno male altrove, Washington si ritira nella sua “retroguardia strategica”: la nostra regione. Non esiterebbe a scatenare offensive politiche, mediatiche e militari per instaurare governi “amici” (o dittature feroci) e tenere lontane potenze rivali come Cina, Russia e Iran.
È successo in passato, e potrebbe ripetersi oggi.
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Chi sarà a Mosca nel Giorno della Vittoria e chi invece celebra gli avi filo-hitleriani
«L’Alto rappresentante UE per gli affari esteri Kaja Kallas mette in guardia i leader UE dal partecipare alle celebrazioni del Giorno della Vittoria a Mosca in maggio... Io andrò a Mosca il 9 maggio...Con queste dirette e univoche parole il Primo ministro slovacco Robert Fitso ha respinto al mittente il vero e proprio “Verbot”, diramato in perfetto stile squadrista, con cui l’estone Kallas (erede, ricordiamolo, di Komplizen estoni filo-hitleriani e non, come ripete la lacrimevole versione europeista, “vittime innocenti dello stalinismo”) minaccia “conseguenze” per quei rappresentanti di paesi europei che si azzardassero ad andare a Mosca il 9 Maggio per le celebrazioni in occasione della vittoria sul nazismo.
Signora Kallas, vorrei informarla che sono il legittimo Primo ministro della Slovacchia – uno Stato sovrano. Nessuno può dirmi dove devo o non devo andare. Andrò a Mosca per rendere omaggio alle migliaia di soldati dell’Esercito Rosso morti nella liberazione della Slovacchia. Così come milioni di altre vittime della furia nazista. Proprio come ho reso omaggio alle vittime dello sbarco in Normandia o nel Pacifico, o come andrò a rendere omaggio ai piloti della RAF.
Ricordo anche che, tra i pochi nella UE, parlo sempre della necessità della pace in Ucraina e non sono tra gli ardenti sostenitori della continuazione di questa guerra insensata. Le parole della signora Kallas sono irrispettose e le respingo».
Con ciò stesso, si può dire, l’erede di quei Komplizen, se ancora ce ne fosse stato bisogno, sbandiera la vera natura, sua e dell’intero impianto “liberal-europeista” degli organismi di vertice UE.
Alla riunione dei ministri, ha digrignato la signora Kallas «vari stati membri hanno detto molto esplicitamente che qualsiasi partecipazione alla parata o alle celebrazioni in occasione del 9 maggio a Mosca non rimarrà senza reazioni da parte degli europei».
Uno di quei «vari stati membri» è la Lettonia, paese in cui, ogni 16 marzo, sfilano ufficialmente a Riga i continuatori della legione lettone filo-hitleriana: 15° e 19° Waffen-Grenadier-Divisionen der SS che in quella data, nel 1944, ebbero il primo scontro con l’Esercito Rosso.
Il suo Ministro degli esteri, Baiba Braže, ha vietato a una serie di paesi di partecipare alle celebrazioni, in quanto tale passo «non corrisponde ai valori UE». Più chiaro di così. Ricordare la vittoria sul nazismo contraddice i «valori UE» che, evidentemente, vanno in direzione opposta.
Ha quindi “buon gioco” Julija Vitjazeva, su quella che Bruxelles definisce “l’ammiraglia della propaganda russa”, ossia RT, a replicare come le parole delle due “babe baltiche” non rappresentino affatto una novità e quanto le celebrazioni per il 9 maggio rimangano loro in gola di traverso. Purtuttavia, è questa la prima volta che arrivano a rivolgere aperte minacce a chi contraddica il “Verbot”: segno che sono costretti a ricorrere agli «ultimi argomenti».
Specificamente per le celebrazioni in occasione dell’anniversario della Vittoria e dell’acrimonia che quelle suscitano nei liberal-retrivi di Bruxelles, c’è da dire che se RT parla quasi principalmente di russofobia da parte dei portatori di “valori UE”, non si può però dimenticare il vecchio livore antisovietico che anima tutt’oggi quei signori.
Un astio dovuto alla consapevolezza – a dispetto di ogni affermazione contraria – di come la vittoria sul nazifascismo, ottenuta a carissimo prezzo dal popolo sovietico, sia stata possibile proprio grazie all’azione non di fetidi “valori UE”, ma di ben più limpide aspirazioni scaturite dalla Rivoluzione d’Ottobre, vive e operanti nelle coscienze di ogni cittadino dell’URSS e di come quegli stessi sentimenti e aspirazioni di rivoluzione sociale avessero animato la stragrande maggioranza dei combattenti antifascisti e antinazisti degli altri paesi europei.
Ammettere questo, per i guerrafondai reazionari e antipopolari delle cancellerie europee, significherebbe screditare se stessi e ridurre a zero (cioè: a quello che davvero valgono) quei “valori” che altro non esprimono se non gli interessi dei monopoli. Ha quindi buon gioco, ancora una volta, nel caso in questione, Julija Vitjazeva, a qualificare la signora Kallas per quello che è: la «nazista Kallas e i suoi scagnozzi».
Concretamente, pare si apprestino a disobbedire al vero e proprio “Bannfluch” squadrista ben pochi leader di paesi UE (al momento, il solo Robert Fitso), i cui rappresentanti, invece, come d’obbligo “europeista”, verrebbero “caldamente invitati” a prender parte alla “parata” indetta a Kiev dal nazigolpista Vladimir Zelenskij.
A oggi, stando a Komsomol’skaja Pravda, è prevista la partecipazione a Mosca di Xi Jinping, del Presidente serbo Aleksandar Vucic, del brasiliano Lula da Silva, del kazakho Tokaev, del palestinese Mahmoud Abbas, del premier indiano Narendra Modi, del bielorusso Alexandr Lukašenko, del premier armeno Nikol Pašinjan, del Segretario generale del PC del Vietnam Tho Lam, oltre ai presidenti di Tadžikistan, Cuba, Repubblica Srpska, Burkina Faso, Kirghizistan, Uzbekistan, Azerbaidžan, Turkmenistan, Venezuela, Egitto, Mongolia, Etiopia, insieme al Primo ministro della Malesia.
Insomma, non proprio una “misera” rappresentanza” di una “piccola parte” del mondo: solo in termini di PIL, ci sarà il nucleo forte dei BRICS e dei paesi che guardano a quell’organismo, infischiandosene dei “valori UE”.
E se il convenire a Kiev dei leader di quella davvero misera parte del mondo che si reputa al centro dell’Universo dovrebbe servire a ribadire alla cerchia nazigolpista ucraina l’impegno a sostenerla nella prosecuzione della guerra, pare proprio, però, che le aspirazioni di quella cerchia vengano frustrate nel suo maggior anelito: l’adesione alla NATO.
Il segretario dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, ha ribadito che «all’Ucraina non è mai stato promesso che parte dell’accordo di pace sarà costituito dall’adesione alla NATO». Per Kiev, scrivono gli osservatori di Cronache di guerra, la NATO è l’unico modo per continuare a ricevere sostegno esterno, senza il quale crollerebbero fronte, bilancio, apparato statale e lo stesso Stato.
Le élite ucraine sanno bene che nessuno farà entrare Kiev a pieno titolo nella NATO; ma «non ne hanno bisogno. Hanno bisogno del rituale dell’attesa, con cui possono spiegare tutto: mobilitazione, repressione, distruzione dell’economia, totale militarizzazione della vita e una politica della “guerra fino all’ultimo uomo”. Dopo di che non potranno più vivere in Ucraina»; si metteranno in tasca abbastanza denaro, oltre tutto quello che hanno già accumulato in questi anni con le creste sulle forniture di guerra, con le laute bustarelle per sfuggire alle mobilitazioni, con le truffe ai danni dei cittadini, e lasceranno il paese.
Anche l’ex consigliere militare dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, Erich Wade, generale di brigata a riposo della Bundeswehr, ha dichiarato al podcast “Im Gespräch” che, oggi, il succo della questione, è quello di come le trattative possano riflettere gli interessi di sicurezza russi.
E, in sostanza, tali interessi consistono nell’escludere l’adesione di Kiev alla NATO, il dispiegamento di sistemi d’arma occidentali ai suoi confini e di garantire il controllo strategico su Donbass, Crimea e regioni del mar Nero.
Del resto, ricorda Wade, anche lo statuto della NATO non consente a un paese in guerra di aderire all’organizzazione. Persino l’avvicinamento di Kiev alla UE è «ovviamente possibile a lungo termine, ma credo che si tratterà di un partenariato privilegiato piuttosto che di una piena adesione», dal momento che l’adesione significherebbe per la UE «l’emergere di obblighi d’alleanza molto seri nei confronti dell’Ucraina».
Alla UE rimane comunque un’alternativa: se Bruxelles venisse esclusa dai colloqui USA-Russia – proclamano al European Council on Foreign Relations (ECFR) – allora si dovrà far di tutto per far saltare le trattative e «indirizzarle sulla giusta strada»: parola dell’ex diplomatica francese, Marie Dumoulin.
A suo dire, risultato del processo negoziale russo-americano dovrebbe essere una sorta di garanzia «di conservazione di un’Ucraina sovrana e vitale», in grado di combattere, ricostituirsi e integrarsi nell’Unione Europea; di contro, dovrebbero essere invece limitate le possibilità della Russia. Questo, attraverso l’impegno europeo a fornire «future garanzie di sicurezza all’Ucraina, contribuire finanziariamente alla sua ricostruzione e a integrarla nella UE»; con ciò, l’Europa riuscirebbe a «influenzare l’esito dei negoziati USA-Russia».
Anche questo ennesimo “piano brillante” europeo, però, nota Elena Panina su News-front.su, dimentica un piccolo particolare: l’assenso di Mosca a conservare un’efficiente Ucraina nazista, che la UE si incarica di ripristinare per futuri attacchi alla Russia.
In breve, l’Europa può davvero “disturbare” i negoziati Russia-USA solo capovolgendo il tavolo delle trattative; ad esempio, organizzando una serie di attacchi terroristici da parte degli ucraini, su una scala tale che i negoziati divengano semplicemente impossibili.
Il che, dopotutto, è proprio quello a cui hanno teso sin dal 2022 i tagliagole anglo-europeisti e cui tendono tutt’oggi i guerrafondai delle cancellerie europee, impegnati a rimpinguare le casse dei complessi militar-industriali, mentre strangolano le masse popolari pesino nei loro i minimi bisogni vitali: sociali e privati.
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Gli alawiti scappano, la nuova Siria è al palo
Massaoudiye è un passaggio di frontiera illegale come tanti altri nel mondo. Non solo per i traffici di merci e armi, anche per gli esseri umani. Posto sul confine tra Siria e Libano, è diventato da un mese una delle strade verso la salvezza, un percorso per sfuggire alla violenza settaria, aperto a chi non ha il permesso per uscire legalmente dalla Siria.
Come l’alawita Basel, che in una testimonianza inviata a un suo conoscente in Italia racconta ciò che ha visto il 6, 7 e 8 marzo, e nei giorni successivi, durante le stragi di centinaia di uomini, donne e bambini della sua comunità (circa il 10% dei 24 milioni di siriani), passate alla cronaca come «i fatti della costa siriana» sul Mediterraneo.
«Ho visto con i miei occhi più di 400 corpi. I cadaveri erano ovunque: per le strade, nelle case, sui tetti degli edifici. Nella maggior parte dei casi i civili venivano giustiziati con un colpo alla testa. Ho sentito uccidere nelle case e le donne urlare», ha riferito Basel, parlando dei miliziani, anche stranieri, inviati dal ministero dell’Interno e dalla Sicurezza generale, giunti sulla costa per annientare i «resti del passato regime» di Bashar Assad, che avevano compiuto attacchi armati – con numerosi morti – contro le postazioni dei governativi.
Il racconto di Basel è simile a quello di tutti gli alawiti fuggiti in Libano in queste settimane, convinti che nella nuova Siria non troveranno mai pace né sicurezza. Nessuno prova a convincerli a rimanere, anzi, ad alcuni in quella che è considerata la nuova Siria vederli andar via è addirittura un sollievo. Perché sono considerati alleati di Assad, anch’egli alawita, e pertanto sarebbero «colpevoli» quanto lui.
Nei primi giorni di marzo si è materializzata una enorme rappresaglia, che potrebbe aver segnato il futuro della Siria. I civili alawiti sono stati considerati tutti complici dell’ex presidente fuggito a Mosca ai primi di dicembre sotto l’incalzare dell’avanzata dei jihadisti guidati dal gruppo qaedista Hay’at Tahrir al-Sham (Hts).
Tanti sono stati uccisi perché considerati «apostati». «Porco nusayrita», urlavano i miliziani all’alawita di turno, prima di sparargli un colpo alla testa o una raffica di mitra, descrivendolo come un seguace di Ibn Nusayr, il religioso che nel IX secolo si sganciò dallo sciismo ponendo le basi per la nascita della sua setta.
Almeno 20mila siriani alawiti sono passati per Massaoudiye e hanno trovato rifugio nella regione libanese di Akkar. I più fortunati, entrati dai valichi ufficiali e in possesso di un visto, si recano all’aeroporto di Beirut e partono.
«Quelli che sono rimasti in Siria invece vivono nella paura. A Homs, Hama, nelle campagne, le famiglie alawite più isolate sono minacciate ogni giorno di morte e le autorità non fanno nulla. Vogliono vendicarsi per quello che ha fatto Assad, che è un alawita come noi. Ma non abbiamo colpe, siamo civili, siamo siriani, siamo parte dello stesso popolo», ci dice Suheila (nome di fantasia), che vive in Italia da alcuni anni e che ogni giorno è in contatto con la sua famiglia in una città sulla costa siriana.
«Prima di minacciarle o di ucciderle, uomini armati hanno chiesto alle persone se fossero alawite... Le prove che abbiamo raccolto indicano che milizie affiliate al governo hanno intenzionalmente preso di mira civili della minoranza alawita, uccidendoli a sangue freddo e da distanza ravvicinata. Per due giorni le autorità non sono intervenute per fermare le uccisioni», ha denunciato nei giorni scorsi Agnès Callamard di Amnesty International.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani, il 22 marzo, ha comunicato di aver documentato 62 massacri sulla costa siriana, in cui sono morti 1.614 civili. Il Centro siriano per i media e la libertà di espressione riferisce di 1.169 vittime civili, di cui 732 a Latakia, 276 a Tartous e 161 a Hama. Tra le vittime, 103 donne e 52 bambini. Uccisi anche 218 membri della sicurezza colpiti dai lealisti di Bashar Assad.
Il presidente autoproclamato Ahmad al-Sharaa – noto fino allo scorso anno come Al Julani, leader di Hts – a metà settimana ha rinnovato per altri tre mesi i lavori della commissione d’inchiesta che aveva formato per indagare su quanto accaduto sulla costa. I lavori procedono lentamente, troppo, e i siriani alawiti non credono che il governo islamista abbia la sincera intenzione di punire i responsabili delle stragi di civili, compiute – secondo indiscrezioni – soprattutto da affiliati «non regolamentati» alle forze di sicurezza del nuovo governo. Almeno 420 civili, ad esempio, sarebbero stati uccisi dalle cosiddette «divisioni» Abu Amsha e Hamzat, gruppi di jihadisti indipendenti.
L’organizzazione Syrians for Truth and Justice (Stj) in un suo rapporto, conferma l’autenticità di decine di video che documentano i massacri di civili e i miliziani affiliati al governo che distruggono luoghi di culto delle minoranze religiose. Stj sottolinea che la commissione d’inchiesta non è stata formata da un organo legislativo eletto o da un’alta autorità giudiziaria, bensì dalla presidenza autoproclamata, e ciò ne compromette l’imparzialità e la capacità di individuare i criminali da punire.
Sull’inchiesta in corso pesano gli orientamenti diversi che attraversano una società – soprattutto i più giovani – che in parte ha fiducia nella nuova leadership e in parte è disillusa e crede poco alla possibilità di veder emergere una Siria nuova, inclusiva e garante dei diritti fondamentali. Accanto ai siriani favorevoli a punire gli autori delle carneficine e il rispetto delle leggi, altri invece affermano che sulla costa è stato solo sventato un colpo di stato dei pro-Assad con inevitabili conseguenze in tutte quella zona. Altri non condannano le uccisioni degli alawiti.
Una visione che si riflette anche nella contrarietà generale alla punizione e deportazione dei foreign fighters, i jihadisti stranieri alleati di Hts provenienti da Caucaso, Asia centrale e paesi arabi, ritenuti i primi responsabili di molti degli eccidi di marzo. Il nuovo regime tenta di presentarsi pronto a voltare pagina, ma gestisce presenze armate e ideologicamente radicalizzate arrivate in Siria dopo il 2011 per combattere Assad e ora infiltrate nei ranghi della sicurezza. Damasco vorrebbe concedere la cittadinanza ai jihadisti che si sono «integrati nella società».
La Siria che gli islamisti al potere stanno plasmando garantisce sempre meno il rispetto dei diritti reclamati dalla storica opposizione laica al potere di Assad e neppure la diversità del paese. Mentre il presidente è visto all’estero come l’espressione di una Siria avviata verso la democrazia, non pochi siriani hanno accolto con delusione e preoccupazione la dichiarazione costituzionale approvata il 13 marzo.
Il documento concentra il potere nel presidente, mina l’indipendenza dei giudici e avvia la trasformazione della Siria da uno Stato sostanzialmente laico a uno in cui la fonte di legge sarà la religione. La deriva autoritaria è alle porte. Artisti, attori, cantanti e tanti intellettuali che prima dovevano mostrarsi devoti ad Assad per poter lavorare, ora fanno altrettanto nei confronti delle nuove autorità pur di garantirsi la sopravvivenza. La Rete siriana per i diritti umani ha registrato a marzo 117 casi di detenzioni arbitrarie, tra cui sette minori. Le prigioni rischiano di riempirsi di nuovo di prigionieri politici.
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[Contributo al dibattito] - Il prezzo dell’amicizia
Ci sono azioni che possono sembrare sciagure evitabili figlie della umana ingenuità, ma che in realtà svelano verità profonde di cui non si vuol prender atto. I dazi di Donald Trump serbano la stessa potenza educativa che ha in sé il mito greco del vaso di Pandora. Atto apparentemente scellerato ma scritto nel destino del mondo – o, se si preferisce, nelle condizioni materiali che segnano questa epoca – e pertanto inevitabile.
La reazione quasi immediata che ha dominato gli organi di informazione dopo l’annuncio del così detto liberation day è stata per lo più poco meditata. Molti rappresentanti della politica europea hanno utilizzato parole imprudenti e belligeranti, dichiarandosi pronti ad una guerra commerciale.
Gli economisti hanno definito “folle” la fissazione dei dazi
annunciati dal Presidente degli Stati Uniti. Una formula, pubblicata dal
dipartimento del commercio statunitense, è circolata ovunque:
∆τi = (xi – mi)/ε*φ*mi
La spiegazione del dipartimento del commercio statunitense è la
seguente: si consideri un contesto in cui gli Stati Uniti impongono una
tariffa di aliquota τi al Paese i.
∆τi riflette la
variazione dell’aliquota tariffaria.
ε<0 rappresenta l’elasticità
delle importazioni rispetto ai prezzi delle importazioni;
φ>0
rappresenta l’ammontare delle tariffe che si trasmette ai prezzi delle
importazioni;
mi>0 rappresenta le importazioni totali dal paese i ed xi>0
rappresenta le esportazioni totali.
Allora la diminuzione delle
importazioni dovuta a una variazione delle tariffe è pari al prodotto
∆τi*ε*φ*mi<0
Assumendo che gli effetti compensativi del tasso di cambio e
dell’equilibrio generale siano abbastanza piccoli da essere ignorati, la
tariffa reciproca che determina un saldo commerciale bilaterale pari a
zero è proprio
∆τi = (xi – mi)/ε*φ*mi
Tommaso Monacelli dell’Università Bocconi ha parlato di dazi farlocchi, di pura propaganda, “per la Casa Bianca se l’Ue ha un surplus equivale a dire che sta scorrettamente danneggiando gli Usa con dazi e barriere, ma è falso”.
In effetti il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale presuppone che il saldo commerciale degli Stati Uniti sia tendenzialmente in disavanzo e che invece il saldo finanziario della bilancia dei pagamenti sia in attivo. Questo dilemma fu per la prima volta esposto da Robert Triffin nel novembre del 1960 davanti al Congresso degli Stati Uniti: se gli Stati Uniti avessero smesso di registrare disavanzi nella bilancia dei pagamenti, la comunità internazionale avrebbe perso la sua più grande fonte di dollari. La conseguente carenza di liquidità avrebbe potuto trascinare l’economia mondiale in una spirale recessiva. D’altro canto, se i deficit della bilancia commerciale statunitense fossero cresciuti nel tempo, un flusso costante di dollari avrebbe continuato ad alimentare la crescita economica mondiale, ma un disavanzo commerciale eccessivo degli Stati Uniti avrebbe potuto erodere la fiducia nel valore del dollaro. Senza la fiducia nel dollaro, questo avrebbe rischiato di non essere più accettato come valuta di riserva internazionale. Per uscire da questo dilemma, l’economista belga professore all’Università di Yale, proponeva la creazione di nuove unità di riserva, emesse da un’istituzione internazionale, che non fossero dipese né dall’oro né da altre valute nazionali, ma che avrebbero comunque svolto la funzione di liquidità internazionale. La creazione di questa nuova unità di riserva avrebbe consentito agli Stati Uniti di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti, pur preservando l’espansione economica globale. La montagna partorì il topolino dei diritti speciali di prelievo che non hanno mai avuto la forza di imporre quella “riforma fondamentale del sistema monetario internazionale attesa da tempo” che Triffin considerava urgente e necessaria.
Egli si esprimeva così quando era ancora in vigore il sistema di cambi fissi e aggiustabili stabilito a Bretton Woods. A partire dal 15 Agosto 1971 quel sistema non c’è più, il disavanzo commerciale statunitense ha continuato a crescere, tutte le volte che il dollaro è stato implicitamente messo in discussione come valuta di riserva internazionale, il circuito monetario internazionale centrato sugli Stati Uniti è stato difeso anche militarmente, e verso Washington e Wall Street sono confluiti i capitali del resto del mondo. Questi hanno funzionato dal punto di vista contabile come una forma di finanziamento dell’economia americana.
Un circuito monetario del genere definisce un ordine internazionale laddove fra il grande debitore – che emette la valuta di riserva internazionale – e i suoi creditori, vi sono dei patti impliciti che non vengono messi in discussione. Se i creditori, e in particolare il principale creditore (oggi la Cina), non si limitano a finanziare il debito statunitense acquistando titoli federali a lunga scadenza ma cominciano ad acquisire pacchetti azionari delle corporation a stelle e strisce che operano in settori strategicamente rilevanti, se i creditori diventano economie in grado di controllare i settori delle materie prime necessarie a sviluppare le nuove tecnologie (per esempio le terre rare), e se diventano anche particolarmente competitivi nei settori a più alto valore aggiunto e tecnologicamente più avanzati (per esempio le telecomunicazioni, i semiconduttori o le energie alternative), se al contempo i creditori aumentano le proprie spese militari ed ambiscono ad avere un ruolo politico nella sfera internazionale, allora non si può più parlare di un ordine internazionale durevole[1].
I dazi di Trump – in linea con la logica neo-protezionistica statunitense che affonda le sue radici già nel secondo mandato di Obama[2] – hanno un fine meramente politico: verificare quali siano davvero i Paesi amici degli Stati Uniti. Verificare quali fra questi Paesi siano disposti a smarcarsi definitivamente dalle aspirazioni della Cina e dei BRICS+[3]. Trump sta, in altri termini, dando un significato preciso al neologismo proposto da Janet Yellen, la Segretaria del Tesoro uscente: friend-shoring. “Io tendo a vedere il friend-shoring come un gruppo di partner con i quali sentiamo sintonia con la nostra geopolitica ... dobbiamo approfondire i nostri legami con quei partner e lavorare insieme per assicurarci di poter soddisfare le nostre esigenze di materie prime essenziali.”[4]
Escludo che questi dazi possano favorire una reindustrializzazione significativa all’interno degli Stati Uniti e possano davvero realizzare un riequilibrio della bilancia commerciale di Washington. Il modello produttivo statunitense si basa sulle delocalizzazioni. Ciò che è in gioco è una ridefinizione dei Paesi partner per le delocalizzazioni delle corporation statunitensi. Le società localizzate in Oriente si rilocalizzeranno ai costi più contenuti possibili e in linea con l’esito delle trattative bilaterali che avverranno. In parte si sono già osservati spostamenti delle sedi estere di grandi aziende statunitensi dalla Cina.
Con l’abilità del piazzista che detta i tempi e i modi delle contrattazioni, e in linea con la sua cultura imprenditoriale, Trump ha concesso al mondo tre mesi di tempo per riconfermare a Washington la fedeltà che pretende la potenza egemone. Non è un caso che la sospensione dei dazi annunciati riguardi tutti meno la Cina.
La transizione dall’epoca dell’egemonia americana indiscussa ad un nuovo ordine internazionale continuerà ad essere difficile. Il contrasto di obiettivi politici ed economici, intuibile anche da un semplice confronto fra le condizioni in cui si trovano gli Stati Uniti e le condizioni in cui si trovano i principali Paesi europei, rende improbabile che si giunga ad una reale cooperazione internazionale. Washington lavorerà ad una regionalizzazione dell’economia mondiale, e forse questo renderà più difficile il funzionamento dell’Unione Monetaria Europea secondo le regole (decisamente stupide) che si è sinora data[5]. Tuttavia, i disordini del sistema monetario internazionale – che svelano la necessità di ridare un ordine alle relazioni fra grande debitore statunitense e grandi creditori orientali – potranno difficilmente risolversi in modo durevole senza affrontare esplicitamente il tema già posto da Triffin: il ripensamento completo delle regole che reggono il sistema dei pagamenti internazionali. Questa la speranza che resta chiusa in fondo al vaso di Pandora...
[1] Rinvio a quanto argomentato in Brancaccio, E. e Lucarelli, S. Risposta ai critici de “La guerra capitalista“, in Brancaccio E., Le condizioni economiche per la pace, Mimesis, 2024.
[2] Georgiadis, G., J. Gräb. “Growth, real exchange rates and trade protectionism since the financial crisis.” ECB Working Paper no. 1618, November 2013.
[3] Quando verrà accolta la domanda del Kazakistan, della Nigeria e del Bahrain, i BRICS+ copriranno la maggioranza della produzione petrolifera del pianeta e oltre un terzo di quella del gas naturale. A tal riguardo si veda quanto ha scritto Joseph Halevi a commento del XV vertice BRICS.
[4] J. Yellen “Transcript: US Treasury Secretary Janet Yellen on the next steps for Russia sanctions and ‘friend-shoring’ supply chains”, Atlantic Council.
[5] Mi sia consentito rinviare al numero speciale del Forum for Social Economics che ho curato nel 2024 insieme a Marco Rangone, “Recent Crises and the Evolution of European Policies”.
Immagine di copertina: Composizione di quadri arte astratta “Foresta incantata, Diptych” – Artista Pittore Davide De Palma
16/04/2025
L’effetto dazi statunitensi sull’economia italiana: cosa accadrà
Durante la campagna elettorale per le presidenziali degli Stati Uniti del 2024 la promessa di introdurre alti dazi alle importazioni è stata centrale nei discorsi di Donald Trump. Le motivazioni del ricorso ad alti dazi sono numerose. In primo luogo, l’introduzione di alti dazi è mirata alla riduzione del deficit commerciale statunitense che ha superato la cifra enorme di 1.151 miliardi di dollari nel 2023 e alla reindustrializzazione degli Usa che negli ultimi vent’anni, con la globalizzazione, hanno subito una forte delocalizzazione delle produzioni manifatturiere all’estero.
Inoltre, Trump mira a finanziare la riduzione delle imposte, specialmente quelle dirette alle imprese, con il ricavato dell’imposizione dei dazi, e a sostenere la sicurezza nazionale, reinternalizzando la produzione di componenti strategici per la difesa. Infine, i dazi possono essere utilizzati come strumento di pressione geopolitica non solo sugli avversari ma anche sugli alleati, in particolare per distogliere alcuni paesi, in particolare i Brics+, dall’abbandonare il dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale, aspetto che contribuisce a rendere centrale l’economia degli Usa a livello mondiale.
I dazi avranno un riflesso sull’economia statunitense e dei paesi contro il cui export sono stati elevati. Per questa ragione è importante valutare l’entità dell’impatto dei dazi sull’economia italiana. Qui di seguito prendiamo in esame le previsioni di alcuni centri studi, che delineano i vari scenari di previsione.
Secondo uno studio della banca del Fucin, l’impatto negativo dell’innalzamento dei dazi sarà riscontrabile soprattutto nel breve periodo, mentre l’imposizione generalizzata di dazi da parte degli Usa non costituirebbe una minaccia esistenziale per le esportazioni italiane per due ordini di motivi.
Il primo risiede nel ruolo del dollaro come riserva globale di valore e moneta di scambio internazionale, che lo rafforza nei confronti delle altre valute, specie nelle situazioni di incertezza. Infatti, subito dopo la vittoria di Trump, il dollaro si è apprezzato contro le altre valute. Come avvenuto durante il precedente mandato di Trump (2017-2020), si prevede che anche questa volta proseguirà l’apprezzamento nei confronti delle principali valute internazionali, euro compreso, la cui svalutazione potrebbe arrivare fino al 10%, secondo proiezioni di Goldman Sachs. In questo modo, il dollaro forte contribuirebbe a bilanciare gli effetti dei dazi sul costo finale dei prodotti italiani per gli acquirenti statunitensi. Tuttavia, gli ultimi dati, che riportano una svalutazione del dollaro del 5% dall’inizio dell’anno rispetto a un paniere di valute in cui c’è anche l’euro, negano che il dollaro si stia rafforzando, contraddicendo, almeno per il momento, le previsioni che il dollaro forte possa contrastare l’effetto dei dazi.
Un altro fattore che stempererebbe le preoccupazioni per i dazi statunitensi è la composizione delle esportazioni italiane, formata da produzioni manifatturiere altamente sofisticate e con un forte grado di specializzazione, come, oltre ai prodotti tradizionali del Made in Italy, macchinari, mezzi di trasporto, e articoli farmaceutici. È, quindi, presumibile che gli Usa nel breve-medio periodo non saranno in grado di rimpiazzare le forniture italiane posizionate entro nicchie di mercato difficilmente contendibili. Anche la sostituzione delle importazioni italiane con produzioni domestiche risulterebbe difficile a causa del basso tasso di risparmio nazionale degli Usa. Infine, i dazi andrebbero a colpire allo stesso modo anche i concorrenti dell’Italia che si troverebbero ad affrontare le stesse difficoltà.
Un’altra analisi, sempre per quanto riguarda l’Italia, è stata svolta dallo Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno), che delinea due scenari, uno che prevede dazi al 10% su tutti i prodotti e uno con dazi al 20%, che è quello attualmente in atto. Nel primo scenario l’export si ridurrebbe del -4,3%, con una contrazione in valore di 2,9 miliardi di euro, nel secondo scenario la riduzione dell’export sarebbe del -8,6%, con una contrazione di 5,8 miliardi di euro. Per quanto riguarda i settori produttivi, a essere maggiormente colpiti sarebbero i beni che presentano una maggiore sostituibilità, cioè quelli agroalimentari, farmaceutici e chimici, che nello scenario con dazi al 20% si contrarrebbero tra il -13,5% e il -16,4%. Per i beni tipici del Made in Italy e perciò meno sostituibili, come la moda e il mobilio, la contrazione sarebbe del -2,6%, sempre nel secondo scenario. Una posizione intermedia occuperebbero, invece, la meccanica e i mezzi di trasporto che calerebbero del -10%. Dal momento che l’export del Mezzogiorno si concentra su agroalimentare e automotive, qui la contrazione sarebbe maggiore rispetto al Centro-Nord: -4,7% contro -4,2% nel primo scenario e -9,3% contro -8,5% nel secondo scenario.
Lo Svimez ha calcolato anche l’impatto dei dazi su Pil e occupazione italiani. Nel caso di dazi al 10% la perdita del Pil sarebbe di 1,9 miliardi (-0,1%) e quella di posti di lavoro sarebbe di 27mila unità di lavoro a tempo pieno. Nel caso di dazi al 20% il Pil si contrarrebbe di 3,8 miliardi mentre i posti di lavoro a rischio sarebbero 57mila. Infine, se l’amministrazione Trump decidesse di imporre dazi al 100% sull’automotive, mantenendo al 20% la tariffa sugli altri beni, l’impatto dei dazi sull’economia italiana sarebbe ancora maggiore, soprattutto sul Mezzogiorno. In questo caso la contrazione dell’export sarebbe di 8 miliardi (-12%), comprensiva di una riduzione dell’export di auto del valore di 2,9 miliardi, provocando un calo del Pil di 5,4 miliardi (-0,3%) e una perdita di 76mila posti di lavoro.
Anche Prometeia ha elaborato delle previsioni sull’Italia. Secondo questo istituto di ricerca, nel 2023 il costo dei dazi fronteggiati dall’Italia è stato di 2 miliardi di euro. Con i nuovi scenari, il costo dei dazi salirebbe tra i 4 e i 7 miliardi. La prima cifra corrisponde a un aumento di 10 punti percentuali solo su prodotti che sono già sottoposti a dazi. La seconda cifra risulta da un aumento generalizzato di 10 punti percentuali su tutti i prodotti. Tra i maggiori paesi europei, la Germania subirebbe un impatto superiore a quello dell’Italia, mentre Francia e Spagna ne subirebbero uno inferiore. Per quanto riguarda i settori manifatturieri, in caso di aumenti limitati a prodotti già colpiti da dazi sarebbero la moda e l’agroalimentare a essere maggiormente penalizzati. Invece, nell’ipotesi di aumenti generalizzati sarebbero i prodotti ad alta e media intensità tecnologica (farmaceutica e meccanica) a subire più intensamente l’impatto dei dazi.
Secondo Prometeia la strada dei dazi rimane scarsamente praticabile, per varie ragioni. In primo luogo, per le ritorsioni dei partner esteri. In secondo luogo, i dazi sono controproducenti per le aziende statunitensi che importano 1,5mila miliardi di beni di investimento e intermedi, soprattutto nel settore automotive dal Messico e dal Canada.
Infine, i dazi prospettati da Trump presentano varie anomalie: applicano una stessa tariffa a settori manifatturieri diversi, colpiscono con l’inflazione e la conseguente perdita di potere d’acquisto i più poveri (il 20% più basso vedrebbe ridursi il reddito del 2,5%), mentre la rimodulazione prospettata da Trump sotto il profilo fiscale è insostenibile, dal momento che i dazi medi dovrebbero più che triplicare per coprire anche solo una diminuzione del 10% delle entrate sui redditi delle persone fisiche.
Infine, come ricorda l’ISTAT nel Rapporto sulla competitività dei settori, nelle stime di Intesa San Paolo (2025), per l’economia italiana si utilizzano diverse elasticità della domanda statunitense al prezzo dei beni importati e si ipotizza che, su ogni bene, venga applicato un dazio al 10 per cento, mentre si lasciano invariate le aliquote correnti nel caso in cui esse siano già superiori a tale soglia. L’impatto di dazi orizzontali sul Pil italiano sarebbe inferiore a 4 decimi di punto, indipendentemente dal grado di elasticità utilizzato. La perdita di export sarebbe quantificabile in circa 3 miliardi di euro, quasi un miliardo rappresentato da macchinari e relativa componentistica (circa il 5 per cento dell’export totale del settore negli Stati Uniti), mezzo miliardo per veicoli leggeri (come automobili e motocicli) e 370 milioni per la farmaceutica.
A ogni modo, l’impatto effettivo dei dazi statunitensi sull’economia italiana rimane ancora incerto. Bisogna, infatti, tenere conto dell’evoluzione di due variabili ancora piuttosto incerte.
La prima, come si è accennato sopra, è il dollaro. Se questo, a differenza di quanto sta facendo ora, si rafforzerà rispetto all’euro, allora il potere d’acquisto del consumatore americano rispetto ai prodotti importati dall’Italia aumenterà, attutendo l’impatto dei dazi. Se, invece, il dollaro continuerà a svalutarsi, come vorrebbe Trump, le esportazioni statunitensi verranno facilitate, mentre diventeranno più costose le importazioni dall’Italia, accentuando l’effetto negativo dei dazi.
La seconda variabile è rappresentata dalla disponibilità dell’amministrazione Trump a negoziare condizioni migliori per la Ue, riducendo o revocando i dazi del 20%. Del resto, lo stesso Trump ha detto che sarebbe stato disponibile a rinegoziare le tariffe con chiunque volesse fare concessioni importanti agli Usa. In ogni caso, la Ue e soprattutto l’Italia, all’interno della Ue, stanno assumendo una posizione morbida nei confronti dei dazi Usa, dicendo di voler evitare rappresaglie che innescherebbero una guerra commerciale.
Questo, come la disponibilità ad acquistare più gas naturale liquefatto o più titoli di stato dagli Usa, forse potrebbe disporre Trump ad ammorbidire i dazi. Inoltre, è notizia di questi giorni la proposta della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di portare a zero le tariffe reciproche tra Usa e Ue. Dall’altra parte, c’è, però, la netta sensazione che questa volta Trump faccia sul serio. Quindi, bisognerà vedere nel futuro se ci saranno spazi di manovra per ridurre o addirittura annullare i dazi sulle importazioni statunitensi dall’Ue e dall’Italia.
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L’Asia agli asiatici
Per provare a costruire una comunità di libero scambio che possa mantenere più o meno inalterato il suo surplus commerciale (992 miliardi di USD nel 2024), in attesa che la domanda interna contribuisca maggiormente alla crescita del paese, e per migliorare le relazioni anche con i paesi dell’area sedi di basi militari statunitensi (Giappone, Corea del Sud, Singapore), per allontanare lo spettro di uno scontro nel Pacifico.
Aumentare e mantenere fluidi gli scambi tra gli stati dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) e della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) per Pechino ha dunque una duplice valenza strategica: economica e di sicurezza, come evidenziato dai discorsi che Xi Jinping sta pronunciando durante le sue visite di stato in Vietnam, Malesia e Cambogia.
I vicini asiatici – in particolare i dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (oltre al Giappone e la Corea del Sud) – rappresentano quelli con cui la diplomazia e la leadership cinese puntano a rafforzare ulteriormente la cooperazione per minimizzare gli effetti del protezionismo di Donald Trump.
Questa strategia, delineata da Pechino da diversi anni (in risposta al ‘Pivot to Asia’ obamiano del 2011) è diventata più urgente dopo l’imposizione di dazi sulle importazioni cinesi che il presidente degli Stati Uniti ha elevato fino al 145 per cento (la rappresaglia di Pechino si è fermata al 125 per cento, ndr).
Non a caso il primo viaggio all’estero del 2025 (14-18 aprile) ha portato Xi Jinping in tre stati dell’Asean: Vietnam, Malesia e Cambogia. La Cina e l’Asean sono stati il primo partner commerciale l’una dell’altro negli ultimi cinque anni, con un interscambio di 953 miliardi di dollari nel 2024, quasi il doppio dei 582 miliardi tra Cina e Stati Uniti.
Se le tariffe sul made in China dovessero essere confermate al livello attuale o comunque mantenute molto alte, secondo le prime stime Pechino avrà bisogno di uno-due anni per riassorbire la perdita di tutti o parte dei 439 miliardi di USD ricavati dalle esportazioni negli Usa nel 2024.
Incontrando ad Hanoi il segretario generale del partito comunista, To Lam, Xi ha parlato di un mondo «turbolento che sta cambiando», invitando il Vietnam a rafforzare il legami con la Cina non solo nelle catene di fornitura e nell’industria, ma anche nella sicurezza.
Pechino vede il Pacifico anche come il terreno di un possibile scontro futuro con gli Usa e, in quest’ottica, il presidente cinese ha auspicato col Vietnam un coordinamento strategico “3+3”: su diplomazia, difesa e sicurezza pubblica.
Quasi tutti i paesi dell’Asean si sono finora tenuti in equilibrio tra Usa e Cina. I dazi di Trump avranno l’effetto di avvicinarli maggiormente a Pechino, che propone, tra l’altro, di potenziare la Rcep (della quale fanno parte, oltre all’Asean, anche Cina, Giappone e Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda: 15 paesi in tutto, che ospitano il 30 per cento della popolazione e producono il 30 per cento del Pil globale)?
Nella seconda tappa del suo viaggio, a Kuala Lumpur, Xi ha esortato Cina e Malesia a:
promuovere una cooperazione di alta qualità nell’ambito della Belt and Road Initiative e a rafforzare la cooperazione nelle catene industriali e di approvvigionamento. Le due parti devono sostenere il sistema commerciale multilaterale, mantenere stabili le catene industriali e di approvvigionamento globali e preservare un ambiente internazionale di apertura e cooperazione.I suoi vicini asiatici potrebbero assecondare la strategia di Pechino, trattandosi in molti casi di paesi esportatori, in particolare di prodotti tecnologici, pesantemente colpiti dai dazi di Trump, come riassunto nel seguente grafico.
La Cina collaborerà con la Malesia e gli altri paesi dell’Asean per contrastare le correnti sotterranee di scontro geopolitico e di schieramento, nonché le controcorrenti di unilateralismo e protezionismo. La cooperazione Cina-Asean è la più orientata ai risultati e la più produttiva nella regione, la Cina sostiene fermamente l’unità e la costruzione della comunità dell’Asean e ne sostiene la centralità nell’architettura regionale.
Tuttavia Pechino è anche alle prese con una serie di annose controversie territoriali con alcuni paesi dell’Asean. In base al “confine” della cosiddetta “Nine Dash Line” (linea di nove tratti, ndr), la Cina rivendica la sovranità sul 90 per cento del Mar cinese meridionale (Mcm), fondamentale per la pesca di tanti paesi e i cui fondali sono ricchissimi di idrocarburi. Contenziosi che sono fonte di frizioni con le Filippine, il Vietnam la Malesia e Brunei.
Le Filippine, con le quali è più alta la tensione con la Cina sui territori contesi nel Mcm, hanno appena ricevuto dalla Corea del Sud la “Miguel Malvar”, una corvetta armata di missili, per difendere le loro rivendicazioni assieme agli alleati Usa.
Di fronte alla possibilità, offerta dal protezionismo di Trump, di rafforzare ulteriormente i legami con l’Asean, Pechino ha subito gettato acqua sul fuoco di queste dispute. Il presidente cinese ha invitato a «perseguire un modello di sicurezza per l’Asia che si basi sulla condivisione della prosperità come delle difficoltà, sulla ricerca di un terreno comune accantonando le differenze e dando priorità al dialogo e alla consultazione come supporto strategico».
La Cina si consola con il Pil a +5,4 per cento nel primo trimestre, in attesa della tempesta dei dazi
Il prodotto interno lordo della Cina è aumentato oltre le aspettative nel primo trimestre 2025: +5,4 per cento, in linea con l’obiettivo indicato dal governo di raggiungere quest’anno una crescita “intorno al 5 per cento”. Nel frattempo però, questo mese, è cambiato il mondo, con la guerra commerciale senza precedenti dichiarata alla Cina dagli Stati Uniti.
Dunque nel nuovo contesto internazionale segnato dai dazi (145 per centro quelli contro le importazioni cinesi negli Usa) raggiungere una crescita intorno al 5 per cento richiederebbe un forte stimolo fiscale. Per capire le intenzioni di Pechino in proposito bisognerà attendere la riunione del mese prossimo dell’ufficio politico del Partito comunista cinese.
Sheng Laiyun, vicedirettore dell’Ufficio nazionale di statistica (Nbs), nell’annunciare oggi i dati relativi al periodo gennaio-marzo 2025 ha affermato che l’economia «ha avuto un avvio positivo e costante e ha mantenuto lo slancio di ripresa, con l’innovazione che gioca un ruolo sempre più determinante».
Sheng ha però avvertito che «il contesto esterno sta diventando più complesso e grave, la spinta alla crescita della domanda interna effettiva è insufficiente e le basi per una ripresa economica e una crescita sostenute devono ancora essere consolidate».
«Dobbiamo attuare politiche macroeconomiche più proattive ed efficaci, espandere e rafforzare l’economia interna, stimolare appieno la vitalità delle entità di mercato di ogni tipo e rispondere attivamente alle incertezze del contesto esterno», ha aggiunto Sheng.
Il Nbs ha reso noto che le vendite al dettaglio sono aumentate del 5,9 per cento su base annua a marzo, rispetto alla crescita del 4 per cento registrata nei primi due mesi.
È nella domanda interna, in particolare nei consumi, che Pechino ripone grande speranza per trainare la crescita economica quest’anno, in un contesto nel quale è altamente improbabile che la Cina raggiunga un surplus commerciale simile a quello del 2024 (992 miliardi di USD). Nel tentativo di stimolare la domanda interna, il mese scorso governo ha varato un piano in 30 punti volto a stimolare la spesa dei consumatori.
Zhang Zhiwei, presidente e capo economista di Pinpoint Asset Management, ha avvertito che, sebbene l’economia abbia superato le previsioni nel rimo trimestre, «i danni della guerra commerciale si faranno sentire nei dati macroeconomici del mese prossimo». «Le catene di approvvigionamento sono interrotte e probabilmente si manifesteranno effetti a catena in molti paesi. L’incertezza è estremamente elevata per aziende e investitori», ha sostenuto Zhang.
Gli investimenti in capitale fisso da gennaio a marzo sono aumentati del 4,2 per cento rispetto all’anno precedente, a fronte di un aumento del 4,1 per cento nei primi due mesi. Persiste la crisi immobiliare, con gli investimenti nel settore che sono diminuiti del 9,9 per cento nel primo trimestre, rispetto a un calo del 9,8 per cento nei primi due mesi.
Gli investimenti privati, un indicatore della fiducia degli investitori, sono cresciuti dello 0,4 per cento nel primo trimestre del 2025.
Gary Ng, economista di Natixis, ha avvertito che «la persistente pressione sul settore immobiliare e la geopolitica causeranno un rallentamento nei prossimi trimestri. A meno che i tassi di interesse non scendano ulteriormente con un maggiore stimolo fiscale dal lato della domanda, la ripresa potrebbe non durare».
Goldman Sachs ha dichiarato giovedì in una nota che Pechino dovrebbe intensificare le misure di allentamento monetario nel corso dell’anno, con tagli dei tassi di interesse pari a 60 punti base e un ulteriore aumento del deficit fiscale (già portato nel 2025 al 4 per cento dal governo).
Tuttavia – a giudizio della banca d’investimento – «è improbabile che anche queste significative misure di allentamento possano compensare completamente gli effetti negativi dei dazi». La banca d’affari Usa ha abbassato le previsioni di crescita del Pil per la Cina al 4 per cento nel 2025 e al 3,5 per cento nel 2026, in entrambi i casi in calo di 0,5 punti percentuali rispetto alle precedenti previsioni.
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Il Corriere della Sera e la «nuova improvvisazione putiniana» per invadere l’Europa
Il gioco sarebbe fatto: nel 1945 gli “alleati”, e solo loro, sconfissero la Germania nazista, mentre i “cosacchi” non fecero altro che “dilagare in Europa”.
Vorrebbero dunque scrivere “Armata Rossa”, ma si limitano a scrivere “Armata”: a buon intenditor, pensano quei ciarlatani, l’Armata rimane comunque e sempre quella dei cosacchi che abbeverano i cavalli a San Pietro e che oggi, coi raid missilistici, uccidono i civili ucraini e massacrano addirittura gli artisti che cercano «di portare l’Ucraina fuori dai confini».
Ma i “cosacchi del’Armata” non danno tregua: «Domenica è toccata a Sumy. Ieri a Kharkiv», lacrima sul Corriere della Sera il signor Paolo Mieli, che non ci sembra abbia speso tante lagrime sui civili del Donbass, che tutt’oggi rimangono vittime delle artiglierie di Kiev.
Ma, «A dispetto di una costante pioggia di missili sul suo Paese... Zelensky resiste. Incurante di chi gli suggerisce di accettare, per il suo bene ovviamente, una “pace ingiusta”».
Prode guerriero, che manda al macello diciottenni e sessantenni pur di continuare una guerra che poteva essere fermata nell’aprile del 2022. Il fatto che si sia proseguito nella mattanza – sia stata un’imposizione di Boris Johnson o una “decisione autonoma” di Kiev, stando alle contraddittorie dichiarazioni dell’allora capo delegazione ucraino a Istanbul, David Arakhamija, o che Macbeth-Boris si fosse fatto latore di un ordine della von der Leyen – cambia poco alla «ricostruzione storica disinvolta»: quella cioè del signor Mieli.
Che, in realtà, tra le varie ipocrite formule d’occasione, come quella secondo cui «Resiste, Zelensky, per sé, per il suo popolo» (quel popolo che viene accalappiato in strada a suon di manganelli e sbattuto in prima linea, quando non riesce a emigrare o dispone di soldi sufficienti a pagarsi l’esonero dalla ferma) spiattella anche la “rivelazione” che la “resistenza” ucraina serva a «dare all’Europa il tempo di armarsi in modo acconcio così da poter eventualmente reagire a qualche nuova improvvisazione putiniana».
Certo, serve proprio a quello, l’agognato «armarsi in modo acconcio»: a reagire all’invasione dell’Europa che avverrà tra cinque anni, o forse anche prima. È dunque tempo che «l’Europa, finalmente ricongiunta alla Gran Bretagna, faccia il proprio dovere nel prendere fin d’ora le giuste contromisure».
Mica la brama di profitti dei monopoli militar-industriali; mica la tenaglia reazionaria che si stringe sempre più al collo delle masse popolari, per toglier loro diritti sociali, economici, politici; no: bisogna «armarsi in modo acconcio» in modo da poter «reagire a qualche nuova improvvisazione putiniana».
Su questa strada, «La resistenza ucraina darà a quel che resta del mondo occidentale una consapevolezza nuova dei propri doveri», che sono quelli di armarsi per la guerra.
Nel frattempo, si auspica che «Giorgia Meloni trovi le parole giuste per non dissociarsi, al cospetto di Trump, da Ursula von der Leyen e, con lei, dall’Europa tutta (o quasi) che ha votato il suo piano di riarmo», a dispetto di un’Italia in cui, «più che nel resto d’Europa, l’armata dei “miti” dilaga a destra e a sinistra».
Fottuti “miti”, lavativi e codardi che non siete altro; anche se, ammette inconsapevolmente il signor Mieli, siete un’intera «armata».
Per fortuna, sospira lo “storico disinvolto”, la «parte più consistente del PD al Parlamento europeo (parte che in questa occasione ha preso il volto di Pina Picierno) lascia anch’esso sperare che non tutta la politica italiana si arrenda»: si arrenda, cioè, vigliaccamente di fronte al nemico, che oggi «ha preso il volto» dell’«autocrate del Cremlino».
Il cerchio delle «fandonie storiche disinvolte» del Corriere è così chiuso: non c’era bisogno di scomodare Sumy o Khar’kov – dio ce ne scampi dal ricordare i quasi dieci anni di bombardamenti nazigolpisti sulle città del Donbass, le bombe a grappolo su Stakhanov, Gorlovka, Jasinovataja, Lozovoe, Kalinovka, Logvinovo, Pervomajsk, i droni su Donetsk, Belgorod, Sudža... – per arrivare al nocciolo della questione: finirla con le “pretese assistenziali” delle masse popolari e dirottare tutto sulle armi; orientare le menti alla guerra e instillare nelle coscienze l’ineluttabilità della guerra, contrabbandando le proprie brame belliciste per le mire russe, asserendo che la «meta finale di Putin è ricostruire l’impero russo. Intende riprendersi anche i territori protetti dalla Nato, col rischio di fare esplodere la terza guerra mondiale».
Ecco chiuso il cerchio dei pruriti guerrafondai che da più di un secolo distinguono il Corriere della Sera: è da Mosca che arriva il pericolo di guerra mondiale; è dai russi e solo da essi che si spara deliberatamente sui civili e chissenefrega se gli stessi nazionalisti ucraini dicono il contrario: il 13 aprile, a Sumy, assicurano le “fonti” del Corriere, non c’erano che civili, poiché le cerimonie coi soldati ucraini, è vero che si svolgono, «ma in zone segrete e protette».
Esattamente il contrario di quanto denunciato dalle voci ucraine più ostili al Cremlino.
E se guerra deve essere, che si inviino dunque a Kiev le armi più micidiali, quelle finora tenute in serbo per tempi più “propizi”. Ecco allora che, secondo Die Welt, il primo paese che con ogni probabilità verrà visitato da Friedrich Merz in qualità di nuovo cancelliere tedesco, sarà proprio l’Ucraina, cui potrebbe portare “in dono” la fornitura di missili “Taurus”, con portata di 500 km.
Questo aiuterà i naizgolpisti di Kiev a «uscire dalla difensiva», assicura Merz e attaccare il ponte di Kerc, come del resto già teorizzato dall’ex comandante yankee in Europa Ben Hodges, secondo il quale l’elemento chiave nel conflitto in Ucraina è costituito dalla Crimea e la chiave per eliminare dai giochi la penisola, è mettere completamente fuori uso il ponte che collega Kerc alla terraferma.
A Bruxelles, ricorda PolitNavigator, il piano di Merz per i “Taurus” è già stato approvato, per bocca della lituana Kaja Kallas: «Dobbiamo fare di più, affinché l’Ucraina possa difendersi e i civili non debbano morire».
Ipocriti! Politici da cassetta e pennivendoli al loro servizio. Vogliono la guerra; fanno di tutto per scatenare la guerra e versano lacrime ipocrite sulla morte dei civili, che loro stessi affrettano ogni giorno di più.
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L’automazione non ci ha reso liberi dal lavoro, e dallo sfruttamento
Il timore che le intelligenze artificiali (IA) possano sostituire i lavoratori è al centro di un dibattito acceso. Un dibattito che però trascura l’impatto di queste tecnologie sulla qualità delle condizioni di lavoro esattamente come in passato è avvenuto per varie forme di automazione industriale.
Per approfondire questo tema, ci siamo avvalsi della lente di ingrandimento di Jason Resnikoff, professore di Storia contemporanea all’Università di Groninga (Paesi Bassi) e autore del libro “Labor’s End: How the Promise of Automation Degraded Work”.
Resnikoff è specializzato in storia del lavoro, storia del capitalismo globale, storia intellettuale e storia della tecnologia e ha un’esperienza pregressa tra le file della United Auto Workers, sindacato statunitense che rappresenta i lavoratori dell’industria automobilistica, oltre ad altri settori come l’istruzione superiore, la sanità e il gaming.
Le ricadute dell’automazione secondo Resnikoff
Secondo Resnikoff, l’automazione porta con sé un paradosso: presentata come una spinta verso una società migliore, in realtà ha contribuito ad aumentare, accelerandolo, lo sfruttamento del lavoro. Un argomento che appare molto attuale in relazione all’odierno dibattito sull’impatto dell’IA. In poche parole, si parla molto di come l’IA renderà le imprese più produttive o competitive, o di come le macchine sostituiranno dei lavoratori o faranno lavori noiosi al posto nostro, e si parla molto poco di come invece questa nuova ondata tecnologica potrebbe ampliare lo sfruttamento del lavoro (umano).
Nel suo libro Resnikoff entra nei meandri dell’automazione negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del secolo scorso, rilevando da subito il paradosso secondo il quale, benché dovesse migliorare la società, l’automazione ha portato a un rapido sfruttamento del lavoro. Per Resnikoff, sono la globalizzazione e la sovrapproduzione a causare le maggiori perdite di posti di lavoro e non l’automazione in sé, alla quale però riconosce il demerito di creare “una razza di schiavi costituzionalmente incapaci di ribellione”.
Tutto ciò malgrado nei decenni passati molti analisti dell’automazione fossero ottimisti e credessero in un mondo utopico in cui si sarebbe lavorato meno a parità di stipendio, nota il professore, ovvero qualcosa di simile a ciò che si ipotizza oggi parlando delle IA e della robotica.
Per capire meglio, gli abbiamo fatto alcune domande.
Professor Resnikoff, come e perché pensa che l’automazione degradi il lavoro?
“I dati storici mi portano a questa conclusione. Il termine ‘automazione’ è stato coniato dal dipartimento motori della Ford negli anni ’40 per evocare l’idea di progresso tecnologico e contrastare il movimento sindacale industriale, che l’azienda aveva da poco dovuto riconoscere per imposizione del governo federale. Nel dopoguerra, la parola ‘automazione’ non indicava una tecnologia specifica. John Diebold, definito dal New York Times l’evangelista dell’automazione, ha affermato che per i dirigenti d’impresa definire l’automazione era complesso quanto per i teologi definire il peccato. Questo dimostra come il termine fosse usato indiscriminatamente per descrivere qualunque cambiamento tecnologico nel luogo di lavoro.
L’automazione è stata soprattutto una narrativa secondo cui il progresso tecnologico porta inevitabilmente a una diminuzione del lavoro umano. Questa idea ha avvantaggiato le grandi aziende, che hanno sfruttato l’utopismo tecnologico e l’ottimismo per sostenere che il lavoro umano non contribuisce (o presto non contribuirà più) al processo produttivo”.
Cosa è quindi l’automazione?
“È tanto una copertura retorica per il degrado del lavoro quanto un processo materiale. Gli esempi del periodo postbellico sono numerosi: l’introduzione dei computer nel lavoro d’ufficio e l’introduzione degli utensili elettrici nel confezionamento della carne sono due esempi particolarmente toccanti. Oggi, tutto ciò viene fatto dai datori di lavoro invocando l’intelligenza artificiale.
Amazon ha affermato che la fatturazione nei negozi fisici fosse automatizzata, ma era svolta da lavoratori in India. Oppure, Presto Automation ha attribuito a sistemi automatizzati il servizio nei fast-food statunitensi, in realtà gestito da lavoratori nelle Filippine.
Ciò che viene chiamato ‘automazione’ si potrebbe definire ‘outsourcing’, che peggiora le condizioni dei lavoratori locali obbligandoli a competere con manodopera a basso costo. Dall’inizio della rivoluzione industriale, i datori di lavoro hanno utilizzato macchine per frammentare lavori qualificati, assumendo manodopera meno costosa e aumentando i ritmi di lavoro. Nel dopoguerra, il termine ‘automazione’ ha camuffato questo fenomeno come risultato naturale del progresso tecnologico, nascondendo il vero intento di controllo del processo lavorativo e compressione dei salari”.
L’automazione può davvero creare dei “nuovi schiavi” o è una provocazione?
“L’automazione, tecnicamente parlando, non fa nulla. Non è un processo tecnologico o storico ben definito. Sostengo che gran parte di ciò che viene chiamato automazione sia ben poco tecnologico, ma piuttosto una narrativa che i datori di lavoro usano per degradare il lavoro (piuttosto che abolirlo tecnologicamente). Piuttosto, suggerirei che questa sia la suggestione legata all’idea di automazione, in particolare per i datori di lavoro, ma talvolta, sorprendentemente, anche per dirigenti sindacali, utopisti di sinistra e alcuni lavoratori stessi.
Aristotele sosteneva che alcune persone fossero ‘schiavi naturali’. Nel XX secolo, spesso si è invocata l’idea dell’automazione per sostenere che i nuovi ‘schiavi naturali’ fossero le macchine. Ritengo che questo modo di pensare sia pericoloso per i lavoratori, poiché presuppone che gran parte del lavoro, in teoria, debba essere svolto in condizioni coercitive e degradate. Il problema principale è che i lavoratori umani rimangono (e rimarranno) essenziali per l’economia e, perpetuando questa idea di lavoro, saranno costretti sempre più a lavorare in condizioni degradanti”.
Secondo lei, le aziende preferiscono l’automazione o la sostituzione dei lavoratori con altri lavoratori (delocalizzando quindi dove il lavoro costa meno)?
“La maggior parte delle aziende non si impegna esclusivamente in una o nell’altra strategia. Generalmente, le aziende di successo puntano a ottenere profitti. Se una macchina aiuta a raggiungere questo obiettivo, utilizzeranno una macchina; se invece è il lavoro umano a essere più vantaggioso, opteranno per quello. In genere, combinano macchine e lavoro umano per ottenere il massimo vantaggio.
Le macchine possono essere molto costose e rappresentano costi fissi, ma possono eseguire alcune fasi del lavoro rapidamente o contribuire a rendere più economico il lavoro umano. Le persone possono essere licenziate, ma possono anche essere più difficili da controllare e potrebbero organizzarsi in sindacati. La combinazione tra macchine e lavoro umano varia costantemente. Storicamente, i datori di lavoro hanno usato le macchine per rendere il lavoro umano più economico, ma quel lavoro umano a basso costo è rimasto (e generalmente rimane) essenziale per il processo produttivo.
Georges Doriot, professore della Harvard Business School negli anni ’40 e ’50, una volta disse che la fabbrica ideale non avrebbe avuto lavoratori. Tuttavia, quando aziende come la Ford iniziarono a considerare l’idea di costruire fabbriche senza lavoratori (cosa impossibile all’epoca), si resero conto che sarebbe stato incredibilmente costoso, impraticabile e fisicamente irrealizzabile.
Quel sogno di automazione completa è semplicemente un sogno manageriale: un sogno in cui non si dovrebbe dipendere da altre persone, ossia dai lavoratori. Quando si tratta di fare profitti, però, quel sogno si rivela essere una fantasia”.
È vero, secondo lei, che essere contrari all’automazione significa essere nemici del progresso?
“No. Il concetto di progresso è, naturalmente, oggetto di dibattito. La vera domanda è: in una società ideale, le persone lavoreranno? E se sì, che tipo di lavoro faranno? Per quale compenso? Per quante ore alla settimana? E sotto la supervisione di chi, se ce ne sarà una?
William Morris immaginava una società utopica in cui le persone lavoravano ancora, ma in condizioni migliori e più significative. In modo molto diverso (e, in parte, inquietante) anche Edward Bellamy aveva una visione simile. Storicamente, lo stesso movimento dei lavoratori ha sostenuto che il progresso significasse ottenere migliori condizioni lavorative per le persone comuni, non necessariamente l’abolizione del lavoro.
L’automazione non è l’unico percorso verso il progresso; il miglioramento del lavoro e delle sue condizioni può essere un’alternativa più significativa e sostenibile per il benessere collettivo”.
La cooperazione uomo-macchina richiede che le macchine si adattino agli esseri umani? Le macchine possono offrire un vantaggio ai lavoratori?
“Le macchine, di per sé, non creano situazioni sociali o politiche. Gli storici della tecnologia definiscono l’idea che le macchine determinino automaticamente tali situazioni come ‘determinismo tecnologico’ e, in generale, hanno respinto questa concezione considerandola un errore storico. Gli esseri umani fanno la propria storia, anche se non sempre nel modo in cui vorrebbero.
Il problema non sono le macchine, ma le strutture gerarchiche (o, come alcuni potrebbero sostenere, il capitalismo). Una società veramente democratica utilizzerebbe le macchine in modo diverso rispetto a una fortemente gerarchica. In quel contesto, le macchine potrebbero offrire molti più benefici ai lavoratori rispetto alla nostra società attuale. Il problema non risiede quindi nelle macchine in sé, ma nell’alienazione delle persone comuni dalle macchine stesse”.
Quali sono gli impatti dell’automazione sulla socialità e sulle capacità democratiche dei governi?
“Questa è una domanda complessa. Il degrado del lavoro ha avuto conseguenze significative nei paesi che hanno costruito il loro stato sociale sul modello fordista, in cui la classe media veniva sostenuta da salari relativamente alti e dal sostegno dell’industria nazionale.
Negli ultimi cinquant’anni, la dissoluzione del modello fordista è andata di pari passo con un aumento delle disuguaglianze di reddito e con l’erosione della classe media. Tuttavia, questo fenomeno non è stato causato direttamente dall’automazione. È stato il risultato di una scelta politica intenzionale da parte della destra, che ha smantellato progressivamente lo stato sociale. Ciò è accaduto contemporaneamente alla frammentazione del modello fordista, che include un uso strategico dei cambiamenti tecnologici per ridurre il potere dei lavoratori. Tra questi, si possono citare la logistica avanzata utilizzata per delocalizzare la produzione, le tecnologie della comunicazione che consentono in modo simile l’esternalizzazione della produzione e l’ascesa dell’economia delle piattaforme che consente la trasformazione di lavori propriamente detti in occupazioni occasionali, eccetera.
Questi processi non solo hanno alterato il panorama economico, ma hanno anche avuto un impatto sulla coesione sociale e sulla capacità dei governi di agire democraticamente, poiché i lavoratori, spesso frammentati, hanno perso una parte del loro potere contrattuale collettivo”.
Cosa dovrebbero fare i governi e i legislatori per sostenere una transizione ordinata?
“Se i governi avessero veramente a cuore il benessere dei lavoratori, dovrebbero prima separare il mantenimento del lavoro dai bisogni più basilari della vita sociale, garantendo che l’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria, all’alloggio, alle attività ricreative e le pensioni non dipendano dall’occupazione.
In secondo luogo, dovrebbero aiutare i sindacati a ottenere un vero potere nel negoziare sui mezzi di produzione stessi. I lavoratori dovrebbero avere un ruolo decisivo nel decidere quali tipi di macchine utilizzare e per quali scopi.
Infine, i governi dovrebbero emanare leggi su come sviluppare e impiegare la tecnologia. Oltre alle condizioni di lavoro (che sono cruciali), questa è attualmente una necessità urgente per evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico. Ovviamente, i governi hanno interesse a legiferare su quali tipi di tecnologie dovrebbero esistere e come dovrebbero essere utilizzate. Allo stesso modo in cui dovrebbero emanare leggi sulle emissioni di carbonio, dovrebbero emanare leggi simili riguardanti l’uso della tecnologia per degradare il lavoro. Se un nuovo software aggiunge lavoro a un compito, innanzitutto un lavoratore dovrebbe avere il diritto di rifiutare quel lavoro extra e, almeno, dovrebbe ricevere una compensazione aggiuntiva per il compito svolto. Se un datore di lavoro vuole abolire tecnologicamente un lavoro completamente, dovrebbe pagare il lavoratore per il lavoro che ha distrutto. Ma soprattutto, i governi dovrebbero sforzarsi di dare ai lavoratori il controllo sui mezzi di produzione. Il controllo dei lavoratori è la risposta più fondamentale a questa questione.”
Le sue previsioni per il futuro e, infine, l’ipotesi di un reddito universale da distribuire specialmente a chi perde il lavoro a causa dell’automazione sono davvero plausibili?
“In un certo senso, ho già risposto a questa domanda. Penso che i datori di lavoro continueranno a usare le nuove tecnologie per degradare il lavoro piuttosto che eliminarlo del tutto, come fanno fin dall’alba della rivoluzione industriale. Il problema non è che le nuove tecnologie verranno utilizzate per fare qualcosa di completamente nuovo, ma che continueranno a essere impiegate per perpetuare le dinamiche di sfruttamento lavorativo esistenti. Questo rappresenta un problema, almeno dal punto di vista della gente comune.
Un reddito universale non è necessariamente un’idea pessima, ma risulta meno efficace rispetto a un solido stato sociale che fornisca servizi indipendentemente dal reddito individuale. Ho scritto di questo argomento di recente: i servizi garantiti da uno stato sociale robusto piacciono a molte persone. Tuttavia, il problema è che, nell’ultimo mezzo secolo, questi servizi sono stati drasticamente sotto finanziati dai neoliberisti”.
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