Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
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28/12/2025

New York - “Proteggiamo i nostri vicini dall’ICE”

Da poco ha smesso di nevicare; è il momento più bello in città quando la coltre è ancora immacolata e noi pedoni procediamo seguendo uno le orme dell’altro. Così avvolti nel gelido candore attraversiamo il parchetto del quartiere per raggiungere l’entrata della metropolitana, dove staziona una donnina anziana, imbacuccata e sorridente. Offre una busta di plastica trasparente che contiene un pieghevole informativo e un fischietto e a tutti dice “Proteggiamo i nostri vicini dall’ICE”.

Il suono è lo stesso, ice, ma non si riferisce a pericolosi lastroni di ghiaccio, bensì a qualcosa di ben più letale: l’Immigration and Custom Enforcement, la famigerata agenzia deputata al controllo dell’immigrazione che dall’avvento di Trump al governo sta traumatizzando le città americane.

Il volantino è un vero e proprio mini-manuale di istruzioni. Dice come riconoscere un agente dell’ICE e come comportarsi. La cosa più importante è essere pronti a raccogliere informazioni. Quanti sono. Che cosa fanno. Dove e in che direzione si muovono. Come sono vestiti. Se indossano il passamontagna e il giubbotto anti proiettile. Orario dell’avvistamento. Che equipaggiamento portano (armi, manette, bastoni, ecc.). Se si è in sicurezza, cioè se loro non ti vedono, fare foto e video. Infine inoltrare i dati raccolti al network del quartiere (di cui è dato il numero in hotline).

La sezione dedicata al fischietto è commovente e meriterebbe un posto al museo dadaista (se esistesse). Illustra due codici. Codice Numero 1: bwee! bwee! bwee! Soffiare a ripetizione significa: l’ICE è stato avvistato in zona, state allerta. Codice Numero 2: bweeeeeeeeeeeeeeeeeeee !!! Emettere un suono forte e continuativo significa l’ICE sta effettuando un arresto – massima allerta e pronti ad attivare il servizio legale, di cui ovviamente il manuale fornisce il numero.

Come me anche gli altri passanti ritirano entusiasti il kit anti ICE. Mi chiedo se avremo mai l’occasione e la freddezza di usarlo. Non lo so. Non nascondo che mi piacerebbe assistere alla scena di un gruppo di cittadini che armati di fischietti riescono a gabbare gli energumeni dell’ICE e proteggere i loro vicini di casa, di negozio, di strada.

Perché queste sono le vittime di ICE: il signore gentile che ti saluta mentre spazza la strada dalle foglie, la signora che pulisce le scale del condominio e ti fa la cortesia di raccogliere il tuo pacco mentre sei in vacanza, la ragazza che serve ai tavoli della tua trattoria preferita, il ragazzo che ti shakera alla perfezione la margarita al cocktail bar dell’angolo, il garzone che ti porta la spesa a casa, la mamma del nuovo amichetto di tuo figlio e così via; uomini, donne, famiglie uguali e mischiate a milioni di altre, che da un anno a questa parte vivono nel terrore di essere scoperte come migranti irregolari.

So bene che la propaganda anti-immigrazione italiana e non solo racconta che gli Stati Uniti a causa del lassismo dei democratici (che sono sì lassi e infingardi, ma per altro) sono stati invasi da milioni di immigrati, ovviamente brutti, sporchi e cattivi e che il governo Trump finalmente fa quello che anche da noi si dovrebbe fare, ossia rimandarli a casa loro. Peccato che ciò non corrisponda al vero e che questa sia casa loro.

La maggior parte dei braccati dall’ICE vive stabilmente negli Stati Uniti da molti anni, anche trenta o quaranta, lavora, produce reddito, paga le tasse, affitta case, guida una macchina, possiede conti in banca e manda i figli (americani) a scuola. Capite dunque che cosa significa la frase della signora: “Proteggiamo i nostri vicini”?

Forse qualche lettore si starà chiedendo perché queste persone non si regolarizzano. In Italia tanti da irregolari trovano un lavoro con contratto e iniziano un faticoso, lungo e difficile percorso di regolarizzazione che nel tempo, e purtroppo solo per pochi, se è loro desiderio investire il proprio futuro nel Belpaese, li porterà alla naturalizzazione. Negli Stati Uniti non è così.

Forse sarà un retaggio puritano, ma se hai commesso l’errore di far scadere il visto d’ingresso non puoi riscattarti; devi andartene dal Paese. Per la verità c’è un modo legale per iniziare da capo il percorso di immigrazione: arruolarsi! O tu clandestino o tuo figlio/a, appena raggiunta la maggiore età, potete scegliere la via dell’esercito e andare a morire per una patria che non vi voleva.

Non credo che avrò mai la soddisfazione di assistere alla messa in fuga degli agenti dell’ICE sul campo e so che alla tv come sui giornalacci continueranno a giustificare la caccia al clandestino come giusta e necessaria, ma so anche che c’è un umanità nuova e sveglia, che avanza e aumenta di giorno in giorno, che silenziosamente si organizza per resistere, per aiutarsi l’un l’altro, per sostenere i propri membri più deboli e in difficoltà.

So anche che il fenomeno dei quartieri contro l’ICE non è un’eccezione di Brooklyn e di New York City perché è stato eletto Mamdani, dato che si sta diffondendo a macchia d’olio nelle principali città del Paese. Nel sud della California, tartassata dall’ICE e pure dalla Guarda Nazionale, gruppi di cittadini hanno preso l’abitudine di appostarsi di fronte a grandi magazzini, come Office Depot, Target ecc., così se l’ICE viene avvistata c’è tempo di avvisare i lavoratori dentro il negozio.

L’emergenza sveglia l’essere umano; l’emergenza fa nascere la comunità, la ricompatta. Non importa se non avremo mai l’occasione di usare il fischietto e probabilmente continueremo a essere impotenti davanti alle scorribande dell’ICE. Ma sappiamo che non lo saremo per sempre e possedere quel fischietto, tenerlo nella borsetta o in tasca, rappresenta la possibilità di riscatto di un intero gruppo sociale, anzi di più, della comunità umana che fa onore al nome che porta e rifiuta la barbarie, che si ribella a chi vuole farci tornare indietro, in una società rozza e brutale.

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Cambogia e Thailandia firmano un nuovo cessate il fuoco

I governi della Thailandia e della Cambogia hanno firmato un nuovo accordo di cessate il fuoco per porre fine a quasi tre settimane di intensi scontri armati lungo il confine conteso.

«Le parti concordano di mantenere gli attuali schieramenti di truppe senza ulteriori movimenti» recita una dichiarazione congiunta firmata dai ministri della Difesa dei due paesi asiatici, il thailandese Natthaphon Narkphanit e il cambogiano Tea Seiha. «Qualsiasi rafforzamento aumenterebbe le tensioni e influenzerebbe negativamente gli sforzi a lungo termine per risolvere la crisi», sottolinea invece il ministero della Difesa cambogiano in una dichiarazione pubblicata sui propri profili social.

L’8 dicembre le forze armate dei due paesi avevano ripreso gli scontri infrangendo la precedente tregua negoziata dalla Malesia, in qualità di presidente di turno dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), e dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Entrato in vigore questa mattina, l’accordo ha posto fine a 20 giorni di combattimenti che hanno causato la morte di almeno 101 persone e lo sfollamento di oltre mezzo milione di abitanti su entrambi i lati del confine.

Tra le principali clausole previste dall’intesa, c’è la cessazione immediata di ogni forma di attacco, il mantenimento delle posizioni attuali delle truppe, senza ulteriori rinforzi, e l’impegno della Thailandia a rimpatriare 18 soldati cambogiani catturati in precedenza, nel caso il cessate il fuoco regga per almeno 72 ore.

Un team di osservatori dell’ASEAN monitorerà l’attuazione dell’accordo attuale, afferma l’accordo, aggiungendo che entrambi i paesi hanno anche concordato di mantenere una comunicazione aperta “per risolvere” eventuali problemi sul campo.

Domenica il ministro degli Esteri cambogiano Prak Sokhonn si recherà nello Yunnan, in Cina, per tenere un incontro trilaterale con il suo omologo thailandese e il ministro di Pechino Wang Yi. L’incontro è stato presentato come un’iniziativa volta a rafforzare la “fiducia reciproca” e a ripristinare “pace, sicurezza e stabilità” lungo il confine.

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27/12/2025

Frusciante al (non)Cinema: Frankenstein (2025) di Guillermo Del Toro

Cile - Una sconfitta nella battaglia culturale, prima che elettorale

Cosa spinge un minatore del Nord a votare per l’estrema destra? O un operaio del centro del Paese a optare per José Antonio Kast?

Come si suol dire, la vittoria ha molti padri, ma la sconfitta è orfana. Il risultato negativo del ballottaggio presidenziale non è sfuggito a questa logica. Non appena sono stati resi noti i risultati finali, le spiegazioni hanno iniziato a moltiplicarsi. Alcuni hanno additato l’anticomunismo come causa principale; altri hanno incolpato il governo e la percezione della sua continuità; altri ancora hanno sottolineato la composizione del team elettorale o gli errori tattici commessi durante la campagna elettorale. Un vero e proprio guazzabuglio di interpretazioni che, pur contenendo elementi attendibili, tralasciano una dimensione chiave del problema.

C’è un fattore che non siamo riusciti a stabilire con sufficiente chiarezza. E quando l’abbiamo fatto, non sempre siamo stati in grado di comprenderlo in tutta la sua profondità.

Non è un caso che il leader dell’estrema destra cilena, José Antonio Kast, invochi il “senso comune” come se fosse un mantra. Lo stesso concetto risuona sulle labbra di Donald Trump negli Stati Uniti e di VOX in Spagna; Jair Bolsonaro lo traduce nella sua ormai celebre frase “il popolo sa”; Marine Le Pen parla del “buon senso” francese; e Giorgia Meloni fa appello al “realismo” del popolo italiano.

Non si tratta di slogan isolati, ma di una coerente strategia ideologica della destra radicale. Siamo di fronte, quindi, a una disputa sul senso comune, su come ampi settori della società interpretano la realtà. Siamo, quindi, di fronte a una battaglia ideologica e culturale di lungo periodo che l’estrema destra ha condotto con efficacia. E se guardiamo al panorama internazionale – e ora anche a quello nazionale – è difficile non ammetterlo: su questo terreno, stiamo perdendo con un ampio margine.

Quando parliamo di senso comune, non parliamo di un’astrazione neutrale o spontanea. Antonio Gramsci, scrivendo dal carcere negli anni ’20 del secolo scorso, avvertiva che il senso comune è un terreno in disputa permanente. È, in sostanza, un mix caotico di idee ereditate, pregiudizi, esperienze materiali e narrazioni dominanti. Chiunque riesca a organizzare quel senso comune, riesce anche a dirigere politicamente una società. Questa è egemonia.

L’estrema destra ha compreso questa lezione con una chiarezza che fa male. Non compete solo nelle elezioni; compete soprattutto nella vita di tutti i giorni. Nel linguaggio che usiamo, nelle paure che mettono radici, nelle false certezze che sembrano ovvie. Mentre discutiamo di programmi, cifre e progetti istituzionali, loro si disputano emozioni, identità e risposte semplici... ordine contro caos, merito contro parassitismo, nazione contro minaccia. Non vincono perché hanno ragione; vincono perché riescono ad apparire ragionevoli.

Jason Stanley, nel suo libro “How Fascism Works” [n.d.t.: “Come funziona il fascismo”], lo spiega con chiarezza. Le persone sono frustrate dalle condizioni di vita offerte dal sistema. È innegabile che la radice della criminalità e della precarietà lavorativa risieda nel cuore stesso del modello. Tuttavia, il politico fascista agisce con astuzia, deviando questa rabbia accumulata. Così, professionisti che hanno studiato per anni e non riescono a trovare lavoro finiscono per dare la colpa ai migranti, non a un sistema che precarizza strutturalmente la vita.

Qui sta il nocciolo della nostra sconfitta. Non basta denunciare le fake news o attribuire l’esito a una “cattiva campagna elettorale”. C’è una classe operaia stanca, precaria, fisicamente e mentalmente esausta, che non si sente rappresentata da un progetto di trasformazione che molte volte è espresso in termini estranei, eccessivamente tecnici o moralizzanti. In questo vuoto, l’estrema destra offre risposte facili, colpevoli chiari e un’illusione di controllo (dato che è molto più facile incolpare un migrante per le proprie disgrazie che il settore imprenditoriale che accumula ricchezza, non è vero?). Il fascismo non offre futuro, ma promette un sollievo immediato.

Tuttavia – e questo è fondamentale – niente di tutto ciò è irreversibile. La storia non procede in linea retta, né è predeterminata. Proprio come oggi stiamo assistendo a un’offensiva reazionaria globale, sappiamo anche che i momenti di maggiore regressione sono stati, molte volte, il preludio di profonde ricomposizioni popolari. Ma queste ricomposizioni non avvengono da sole. Devono essere ricostruite.

E qui è fondamentale chiarire una cosa. Se il nostro obiettivo è il superamento del capitalismo, non possiamo permetterci una frammentazione permanente. In “La trappola della diversità”, Daniel Bernabé sostiene con chiarezza che il sistema opera attivamente per atomizzare la classe lavoratrice, disperdendola in molteplici lotte parziali che, scollegandosi l’una dall’altra, perdono la loro capacità reale di contestare il potere.

Ciò non implica – e va detto senza ambiguità – negare o relativizzare lotte fondamentali come il femminismo, l’ambientalismo, la difesa della diversità sessuale e di genere o i diritti degli animali. Tutte esprimono reali contraddizioni del capitalismo e legittime richieste di emancipazione. Il problema non sono queste lotte in sé, ma il loro isolamento, la loro depoliticizzazione o la loro disconnessione da un progetto condiviso di trasformazione sociale.

Dall’inizio di questo secolo, una parte della sinistra ha teso a perdere di vista questo filo conduttore: la condizione comune di coloro che vivono della loro forza lavoro e subiscono, in modi diversi, lo sfruttamento e il dominio della classe dominante. Al di là delle nostre differenze – che esistono e devono essere riconosciute – c’è un fattore comune che ci attraversa e ci unisce: la subordinazione al capitale.

È proprio lì, in quella base materiale condivisa, che risiedono la nostra principale forza e la reale possibilità di vittoria. Non nella negazione delle lotte, ma nella loro consapevole articolazione all’interno di un progetto collettivo capace di sfidare l’egemonia e trasformare la società nel suo complesso.

Fare appello alla speranza non significa negare la sconfitta, ma comprenderla in tutta la sua profondità. È riconoscere che il compito che ci attende è più impegnativo di vincere un’elezione. È ricostruire un senso comune solidale, collettivo ed emancipatore. Tornare a parlare di dignità senza scusarsi. Tornare a organizzare dove oggi c’è solo frustrazione. Tornare a politicizzare la vita quotidiana senza disprezzarla.

Perché anche nel vuoto – e, a volte, proprio lì – c’è spazio per la ricostruzione. E questa ricostruzione, se vuole essere reale e duratura, deve essere radicata nella classe lavoratrice e mirare a disputarsi, gomito a gomito, la coscienza del nostro popolo. Infine, il giorno in cui potremo dire “abbiamo trionfato”, non come risultato esclusivo di un’elezione, ma come frutto di un’organizzazione popolare orientata al superamento del capitalismo, quel giorno avremo vinto la battaglia culturale.

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Prove di accordo sull’Ucraina, “europei” fuori dalla porta

Capodanno col botto o come al solito? Sulla possibilità di metter fine alla guerra in Ucraina si è alzata una brezza ottimistica davvero stramba, che assume connotazioni molto differenti a seconda della collocazione di protagonisti e comprimari.

Partiamo da chi conta. Trump ha convocato Zelenskij, stavolta direttamente a casa sua, in quel di Mar-a-lago, in Florida. Lo stesso presidente ucraino ha dato il la alle ipotesi più speranzose, parlando del piano in 20 punti su cui stanno lavorando i rappresentanti degli Stati Uniti e dell’Ucraina come «pronto al 90%». «Il nostro compito è garantire che tutto sia pronto al 100%. Non è facile e nessuno dice che sarà pronto al 100% subito. Ma nonostante ciò, dobbiamo avvicinarci al risultato desiderato con ogni incontro, ogni colloquio», ha affermato.

I due nodi ufficialmente ancora da districare sarebbero il destino delle parti di Donbass ancora non riconquistate da Mosca e la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Tutto il resto, a cominciare dai territori perduti, non ci sarebbe più un contenzioso plausibile… Ma non è proprio così, come stiamo per vedere.

Sui territori del Donbass il governo di Kiev vorrebbe partire dall’attuale linea del fronte per disegnare una zona smilitarizzata in parti uguali sui due lati, mentre Mosca ufficialmente pretende di arrivare al confine dell’oblast di Donetsk.

Sulla gestione della centrale nucleare – fisicamente nelle mani dei russi da quattro anni – Trump vede un menage a trois con Ucraina, Usa e Russia, mentre Zelenskij sogna ancora di escludere Mosca, la quale ovviamente non ne vuole neanche sentir parlare, ammettendo al massimo una compartecipazione statunitense.

Sulle “garanzie di sicurezza” invece la nebbia è fitta, anche perché la junta ucraina parla di solito soltanto di quelle che pretende da Mosca ma non di quelle che la Russia vuole dall’Occidente. La questione è sempre quella dell’ingresso, oppure no, di Kiev nella Nato, che si porta dietro quella della presenza o meno di truppe Nato sul territorio ucraino, a diretto contatto con quelle russe.

È sempre da ricordare che questo è stato il principale motivo della guerra, per Mosca. E qualunque soluzione che permetta alla Nato di ammassare truppe e basi da quelle parti non può trovare nessuna approvazione dal Cremlino.

Il quale però – evidentemente in possesso delle bozze “vere” del piano statunitense – sembra a sua volta cautamente ottimista. La portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, lo ha detto in modo estremamente chiaro: “Siamo pronti a firmare un patto di non aggressione [con la Nato e l’Ucraina, ndr]. Nero su bianco, giuridicamente vincolante“. Niente più giochetti come per Misnk 1 e 2, stipulati dall’Occidente solo per avere il tempo di riarmare i neonazisti in fregola per la guerra, che hanno continuato per otto anni ad attaccare le due repubbliche autonomiste del Donetsk e di Lugansk.

Messa così sembrerebbe quasi fatta. Al 90%, diciamo...

E invece chi non conta prova ancora a mettere ostacoli seri su un percorso comunque non facile.

Sentite come se ne è uscito ieri Manfred Weber, capogruppo tedesco del Partito Popolare Europeo a Strasburgo: «Vorrei vedere soldati con la bandiera europea sulle uniformi, lavorare a fianco dei nostri amici ucraini per garantire la pace». Ossia soldati tedeschi, francesi, placchi, ecc, direttamente al fronte. «Dopo un cessate il fuoco o un accordo di pace, la bandiera europea deve sventolare lungo la linea di sicurezza».

Siamo sicuri che Weber non ignora il fatto, piuttosto semplice, che “l’Europa” ha agito fin qui come parte in causa nella guerra e quindi non può pretendere nessun ruolo “fintamente neutrale”. Ossia la condizione minima per selezionare – eventualmente – quali paesi potranno mandare soldati a garantire la pace interponendosi tra i contendenti.

È quello che fa l’Onu, insomma, quando forma i contingenti Unifil. Pretendere invece di mandare “alleati” significa voler riprendere la guerra appena possibile (dopo aver ricostruito strade, ferrovie e un po’ di esercito ucraino, ormai agli sgoccioli.

Persino il rozzo fascistone che guida l’Ungheria, Viktor Orbàn, sembra quasi un essere ragionevole quando commenta questa “esternazione” tedesca: «Die Zeit ha pubblicato un’intervista in cui Manfred Weber dichiara apertamente che vorrebbe vedere i soldati tedeschi in Ucraina sotto una bandiera Ue. […] In realtà, questa non è pace, è una chiara escalation verso la guerra».

Coerentemente, la sedicente “coalizione dei volenterosi” prosegue nell’organizzazione di altri vertici “per l’Ucraina”, già in gennaio, con Macron tuttora impegnatissimo nel mediare il “dispiegamento di un contingente multinazionale deterrente” in Ucraina.

La pace ha molti nemici, a quanto pare. Deve essere per questo che “i volenterosi” restano esclusi dalle trattative vere e proprie.

«Sarò in contatto costante con loro, vorremmo [noi ucraini, ndr] che gli europei fossero presenti», ha detto Zelenskij ammettendo che Trump non li vuole in presenza. «Come minimo, ci collegheremo online e i nostri partner saranno in contatto». Così forse prenderanno atto di quanto sono inutili… Anzi. Dannosi.

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L’azione a senso unico del governo italiano: i terroristi sono i palestinesi

Nuovo attacco alle organizzazioni palestinesi presenti in Italia con l’arresto di nove persone, con la solita accusa di sostenere Hamas. Questa volta gli elementi a carico sarebbero i finanziamenti che queste associazioni avrebbero inviato direttamente o indirettamente all’organizzazione combattente palestinese. Non siamo ovviamente in grado di entrare nel merito dell’inchiesta giudiziaria ma il dato che balza agli occhi è sempre lo stesso: la completa sudditanza del governo italiano alle operazioni militari del governo genocida di Netanyahu. Mentre è sempre più esplicita la collaborazione con Israele sul piano economico e militare, con una fitta di rete di interscambi commerciali ma anche sul piano della compravendita di armamenti, le forze di polizia italiane sono attive per colpire il mondo della diaspora palestinese, immancabilmente accusato di terrorismo.

Il ministro Piantedosi si è ben guardato dall’indagare su quei cittadini italiani con doppio passaporto israeliano che avrebbero partecipato come militari al genocidio dei palestinesi, nonostante le interrogazioni parlamentari. Né si è preoccupato di intervenire a proposito delle vacanze italiane di militari israeliani, segnalate sui media in diverse occasioni, con tanto di protezione della polizia italiana. Il dato più evidente è che il genocidio dei palestinesi viene derubricato a diritto di Israele a difendersi mentre la resistenza del popolo palestinese è indiscutibilmente definita terrorismo.

Naturalmente dietro queste operazioni di polizia si cela anche l’intento di mettere la museruola al movimento di solidarietà con la Palestina, che negli ultimi mesi ha dato un’ampia dimostrazione di incontrare il sostegno di larga parte del Paese. Mentre sul genocidio in atto i riflettori mediatici si sono spenti, è forte l’amplificazione della notizia degli arresti, per lasciar intendere che i milioni di italiani scesi in piazza siano stati manipolati dal terrorismo.

Ma il terrorismo di cui siamo tutti vittime è quello di Israele e dei suoi alleati, complici del massacro della popolazione palestinese e oggi mobilitati in una impressionante campagna generale di riarmo.

Gli arresti di oggi puzzano di complicità con il governo di Netanyahu: quando arresteranno i vertici della Leonardo per le armi vendute ad Israele?

Unione Sindacale di Base

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L’Algeria dichiara la colonizzazione un “crimine di Stato” e chiede risarcimenti alla Francia

Il 24 dicembre l’Assemblea Popolare Nazionale di Algeri, cioè il parlamento algerino, ha approvato all’unanimità una legge che indica la colonizzazione francese, che ha riguardato il paese dal 1830 al 1962, un “crimine di Stato”. Il presidente dell’Assemblea, Brahim Boughali, ha indicato il testo come un modo per fissare la responsabilità storica dello stato francese nel processo di colonizzazione.

Nei 27 articoli della norma vengono esplicitamente citati alcuni dei crimini commessi da Parigi contro il popolo algerino: gli esperimenti nucleari nel deserto e gli annessi danni ambientali, le esecuzioni extragiudiziali, la tortura fisica e psicologica e il saccheggio sistematico delle risorse naturali e culturali del paese. La lista non ha solo un valore storico, però.

Con l’indicazione di azioni specifiche, infatti, l’Algeria pretende dalla Francia anche il risarcimento dei danni materiali e morali causati dal suo imperialismo, considerandolo un diritto inalienabile dello stato e del popolo algerino. Algeri vuole indietro gli archivi sottratti dopo l’indipendenza, così come i beni culturali rubati e anche i resti dei combattenti della resistenza ancora in possesso dei francesi.

Tra le altre cose, viene anche richiesta la bonifica dei siti dei test nucleari. Con la legge vengono inoltre stabilite misure penali per chi si macchia di apologia del colonialismo, con pene detentive da cinque a dieci anni, e sanzioni pecuniarie che si estendono anche a chi lo glorifica attraverso i media, i social o pubblicazioni di vario genere.

Ovviamente, la legge algerina non ha un potere vincolante verso l’Eliseo, ma allo stesso tempo rappresenta un importante cambiamento nel quadro delle relazioni tra l’ex colonia e “l’ex” colonialista, con importanti ripercussioni sulla situazione diplomatica dell’intera regione, la quale si è fatta sempre più complessa negli ultimi mesi.

Il ministro degli Esteri della Francia, Jean-Noël Barrot, ha detto di non voler commentare “dibattiti politici in corso in paesi stranieri”, a ribadire che il provvedimento non ha nessun potere vincolante nei confronti di Parigi. Ma ha anche affermato che si tratta di “un’iniziativa chiaramente ostile alla volontà di riprendere il dialogo franco‑algerino”.

In passato Macron ha definito la colonizzazione algerina come un crimine contro l’umanità, mentre Algeri aveva proseguito su una linea che chiedeva il riconoscimento storico, piuttosto che scuse formali e il risarcimento dei danni. Ma appunto, il dialogo franco-algerino si è fatto molto più complesso per una serie di dossier intrecciati nello scenario geopolitico.

Il riconoscimento delle mire marocchine sul Sahara occidentale; il diverso posizionamento dei due paesi del Maghreb riguardo alla causa palestinese; le accuse sull’immigrazione diretta verso la UE attraverso l’Algeria; l’inasprimento del regime dei visti per i diplomatici algerini e la preoccupazione per le relazioni intrattenute dal paese africano con Mosca, in particolare sul nucleare.

La politica imperialista europea, che vuole stringere il proprio controllo sul Mediterraneo allargato con uno sguardo al Sahel, ha trovato nell’Algeria un ostacolo non facilmente controllabile. La nuova legge algerina si inserisce in questa cornice diplomatica, e segnala la netta opposizione alle politiche neocoloniali, oltre a sollevare le responsabilità storiche delle potenze coloniali proprio nel momento in cui la loro estrema propaggine sionista ne mostra l’attualità dei crimini.

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Le società pubbliche fanno speculazione finanziaria. Il caso di Poste italiane

di Alessandro Volpi

Il valore complessivo delle società partecipate pubbliche quotate in Borsa era a luglio di quest’anno pari a quasi 264 miliardi di euro di cui lo Stato e Cassa Depositi e Prestiti possedevano quasi 90 miliardi.

In un anno il valore di questa partecipazione dello Stato solo per effetto dell’aumento del valore dei titoli di tali società è salito di quasi dieci miliardi. Tutto bene allora? Non proprio. Il Governo Meloni, infatti, ha deciso un piano di privatizzazioni di oltre 20 miliardi di euro, di cui ha già messo in atto una parte con dismissioni tra Eni, Mps e altri per cinque-sei miliardi, ceduti a grandi fondi Usa o al salottino buono della finanza nostrana (Delfin e Caltagirone in primis).

Questo piano sta proseguendo: è in rampa di lancio la cessione di un ulteriore 14% di Poste italiane, a cui potrebbe seguire quella di Ferrovie dello Stato, magari attraverso lo strumento di uno spin off dedicato. Intanto si parla di imminente cessione della Banca del Mezzogiorno, naturalmente dopo averla risanata a spese dei contribuenti e dopo che è tornata a distribuire dividendi, di una quota parte di Enav, l’ente che gestisce il traffico aereo civile, e persino della Zecca di Stato dopo averla portata in Borsa.

In estrema sintesi, la presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Economia scelgono con cura le società che garantirebbero maggiori introiti allo Stato in termini di utili e ne vendono pezzi crescenti a privati -grandi fondi statunitensi e “grandi famiglie”- in modo da trasferire loro gli utili pubblici.

In quest’ottica emerge un altro dato, costituito dalla crescente finanziarizzazione delle partecipate pubbliche. Un caso davvero eclatante è quello costituito da Poste che ha preso parte alla nota operazione di acquisizione da parte del fondo americano Kkr della rete fissa Tim. In quell’operazione la quota dei francesi di Vivendi è stata sostituita da Poste che ha raggiunto il 27% della società, per effetto anche dell’acquisizione del 10% posseduto da Cassa depositi e prestiti, e si è legata al processo di ridefinizione del perimetro delle attività della stessa Tim.

È interessante notare che oggi Tim ha una capitalizzazione di quasi 12 miliardi di euro, più del doppio di luglio, e che tale aumento ha, assai probabilmente, molto a che fare con la presenza nell’azionariato proprio di Poste, a cui si affianca la quota conservata dal ministero dell’Economia. In altre parole, le società pubbliche fanno “speculazione” finanziaria comprando pezzi di società che erano in passato monopolistiche e ora sono diventate private, contribuendo al successo della speculazione con la garanzia della presenza dello Stato proprietario visto che i settori di cui si occupano sono “regolati”. Naturalmente dal momento che ragionano in termini finanziari tali società pubbliche, come avviene per Poste, abbandonano ogni altra attività che riguardi il loro core business e la loro natura di servizio pubblico per cercare la remunerazione a breve del capitale, la cui massimizzazione è poi propedeutica alla dismissione di porzioni significative di quello stesso azionariato.

Un esempio analogo proviene da Eni che ha realizzato in nove mesi 2,5 miliardi di utili e ha deliberato un’operazione di buy-back, cioè di riacquisto delle proprie azioni, per 1,8 miliardi di euro. In pratica un regalo senza alcuna tassazione agli azionisti che si troveranno con azioni dal valore decisamente accresciuto. È bene ricordare che lo Stato ha il 31,8% di Eni, mentre il secondo e il terzo azionista sono BlackRock e Vanguard, a cui si aggiungono altri fondi battenti bandiera statunitense per una quota proprietaria non lontana dal 10%.

Il problema è che questi utili dipendono in buona parte anche dalle bollette dell’energia pagate da italiani e italiane; circa il 48% della bolletta dipende dal costo della materia prima e in questo ambito Eni, tramite Plenitude, di cui ha ceduto di recente il 20% a un fondo, ha un grande rilievo. Di nuovo, dunque, le partecipazioni pubbliche si inoltrano in continue operazioni finanziarie, godendo della natura monopolistica delle attività di cui si occupano, e traducono la loro azione in dividendi che sono il vero elemento in grado di rendere possibile la loro privatizzazione. Finanza e privatizzazioni non possono andare disgiunte.

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I legami profondi tra Jeffrey Epstein e Israele

La biografia postuma di Virginia Giuffre – vittima centrale del network di Jeffrey Epstein – espone abusi sessuali e violenza fisica sistemica. Le sue memorie costituiscono un’accusa formale contro l’élite di individui potenti coinvolti nel traffico sessuale. Giuffre documenta un regime di sfruttamento, afferma di essere stata violentata e brutalmente percossa da un “noto Primo Ministro” non identificato, dichiarando di aver temuto la morte durante la violenza sessuale. La vittima specifica che negli anni trascorsi con Epstein e il suo entourage è stata regolarmente “prestata a decine di persone ricche e potenti”. Descrive l’uso e l’umiliazione abituali subiti, includendo atti di strangolamento, percosse e lesioni fisiche. Il libro è stato pubblicato in Australia, a sei mesi dalla morte di Giuffre, e offre una ricostruzione dettagliata degli abusi subiti in adolescenza e del suo successivo impegno per ottenere giustizia.

Vi è però una discrepanza tra le versioni editoriali: l’edizione statunitense identifica l’aggressore come un “noto Primo Ministro”, mentre quella britannica lo definisce un “ex ministro”. La violenza protratta da questo politico non specificato è descritta con una Giuffre che implora Epstein: “Mi sono inginocchiata e l’ho supplicato. Non so se Epstein temesse quell’uomo o se gli dovesse un favore, ma non ha voluto promettere nulla, dicendo freddamente della brutalità del politico: a volte ti capiterà”.

Le informazioni contenute nelle memorie esacerbano anche lo scandalo che coinvolge il Principe Andrew. Nonostante la sua recente decisione di rinunciare ai titoli reali, il rilascio del testo di Giuffre aggraverà la situazione del membro della famiglia reale. Il Principe Andrea ha precedentemente negato di averla mai incontrata, ma ha risolto la causa civile nel 2022 con un accordo multimilionario.

Quello che coinvolge Jeffrey Epstein è un intrigo internazionale che riguarda finanza, politica e celebrità, traffico sessuale, droga e spionaggio nelle proprietà di lusso di un finanziere la cui ascesa sociale è un mistero. Possedeva persino un’isola Jeffrey Epstein, ci si arrivava con un Boeing 727-100 ribattezzato dalla stampa “Lolita express” per il coinvolgimento di minorenni: la lista passeggeri coinvolge Stati Uniti e Regno Unito. Un caso di kompromat e honey trap: gli invitati erano attratti da giovani ragazze (spesso minorenni) usate come esche, poi venivano filmati e ricattati secondo schemi tipici dell’intelligence. Le giovani erano reclutate da Ghislaine Maxwell – compagna di Epstein e figlia dell’ex agente del Mossad Robert Maxwell – che le adescava promettendo networking, denaro e carriere nella moda.

È qui entra in gioco Victoria’s Secret: Epstein si spacciava per talent scout di Victoria’s Secret per adescare aspiranti “angeli” proponendo casting fasulli. Il miliardario proprietario del brand, Leslie Wexner, è stato il primo sponsor del finanziere, figlio di immigrati ebrei-russi e figura centrale nell’establishment filantropico e sionista americano.

La Wexner Foundation finanzia programmi universitari per giovani leader ebrei israeliani e americani. Il Mega Group, da lui fondato, viene associato a operazioni di soft power e lobbying, fonti giornalistiche parlano di legami col Mossad. Ad ottobre 2023, dopo 34 anni, Wexner taglia i finanziamenti ad Harvard per le proteste pro Palestina.

Il colpo di grazia a Victoria’s Secrets – e alla cultura tossica e patriarcale di cui era incarnazione – è stato il #MeToo, movimento nato da un caso analogo: il caso di Harvey Weinstein, produttore cinematografico e predatore seriale protetto da Hollywood e dall’élite (media, agenzie, studi legali e Pr). Secondo il New Yorker il magnate avrebbe ingaggiato la società di intelligence privata israeliana Black Cube, fondata da ex agenti Mossad, per ricattare le vittime e metterle a tacere.

Israele come rifugio per predatori

Israele, negli ultimi decenni, si è configurato come una vera e propria fortezza per predatori sessuali. La Legge del Ritorno (Aliyah), infatti, consente agli ebrei che vivono fuori da Israele – ad eccezione di quelli con “precedenti penali suscettibili di mettere in pericolo il benessere pubblico” – di stabilirsi nel paese, in tempi rapidi, portando con sé i propri coniugi, figli e nipoti.

Già nel 2016 sorgevano forti preoccupazioni in Israele sui presunti arrivi di molti predatori sessuali: Manny Waks – fondatore del gruppo di advocacy Kol V’Oz – in un’intervista a The Independent, ha dichiarato: “Israele sta diventando un rifugio sicuro per i pedofili a causa dell’opportunità unica, disponibile a tutti gli ebrei, di emigrare lì. Questo fornisce un modo relativamente rapido ed efficace per sottrarsi alla giustizia in altri paesi”. 

L’Associazione Matzof, che monitora la pedofilia in Israele, stima che ogni anno decine di migliaia di molestatori siano attivi, con circa 100.000 vittime annuali. Un caso che ha fatto molto scalpore è quello di Malka Leifer, ex preside di una scuola religiosa ebraica a Melbourne, fuggita in Israele dopo le accuse di abusi sessuali su oltre 70 studentesse. Per sette anni, Leifer è riuscita a evitare l’estradizione in Australia per infermità mentale.

La polizia israeliana ha spinto sull’incriminazione per frode e abuso di fiducia dell’ex ministro della Salute Yaakov Litzman, sospettato di aver fatto pressioni sui dipendenti del ministero affinché manipolassero le valutazioni psichiatriche di Leifer. Litzman, potente politico ultra-ortodosso, si dichiara innocente. Successivamente, una commissione psichiatrica israeliana ha stabilito che Leifer mentiva sulle proprie condizioni mentali, queste prove portarono poi al suo nuovo arresto e alla successiva estradizione in Australia nel 2021.

Un altro caso significativo riguarda Tomás Zerón, ex capo dell’Agenzia di Investigazione Criminale del Messico, ricercato per il suo coinvolgimento nella sparizione di 43 studenti nel 2014 dalla Scuola rurale di Ayotzinapa e per accuse di tortura. Un articolo pubblicato nel maggio 2022 da Calcalist, quotidiano economico israeliano, affermava che Tomás Zerón vivesse con il gigante tecnologico israeliano David Avital nelle Neve Zedek Towers, un lussuoso complesso residenziale a Tel Aviv. In un articolo del New York Times, l’ex sottosegretario messicano per i diritti umani, Alejandro Encinas, ha poi dichiarato che Zerón aveva legami con potenti aziende israeliane di sorveglianza che lo avevano aiutato a fuggire dal Messico.

Nel 2016, i media locali riportarono che Zerón era l’interlocutore principale nelle trattative per l’acquisto, da parte del Messico, del software spia Pegasus della società israeliana NSO Group: lo stesso software utilizzato per spiare diversi gruppi, tra cui attivisti e giornalisti, che avrebbero potuto minacciare la posizione del governo sul caso Ayotzinapa, secondo i ricercatori del Citizen Lab dell’Università di Toronto.

Molti autori di reati sessuali, tra cui Malka Leifer, trovano rifugio negli insediamenti illegali ultra-ortodossi in Cisgiordania: in queste aree risiedono illegalmente oltre 700.000 coloni israeliani, occupando le terre palestinesi. Ma la questione dei network globali di individui privilegiati non si limita a Israele. C’è, infatti, un italiano nei documenti Epstein: Flavio Briatore.

Un vero schema di spionaggio e ricatti

C’è un italiano nei documenti Epstein: Flavio Briatore. Nessuna accusa nei suoi riguardi ma il suo nome compare nella cosiddetta “associate list” e dimostra come il jet set europeo fosse parte integrante del network globale del finanziere.

Secondo Naomi Campbell – mai indagata, ma tra le celebrità più presenti nei documenti declassificati – fu proprio Flavio Briatore, all’epoca suo compagno, a presentarla a Jeffrey Epstein durante la festa per il suo trentunesimo compleanno, nel 2001, su uno yacht a Saint Tropez. Il party di Campbell in Costa Azzurra è un nodo centrale della vicenda.

Virginia Giuffre ha dichiarato di aver partecipato come accompagnatrice di Epstein, selezionata da Ghislaine Maxwell prima di essere portata a Londra, il giorno successivo, e costretta a un rapporto sessuale con il Principe Andrea. Giuffre descrive Campbell come una delle migliori amiche di Maxwell: la modella ha però sempre negato ogni coinvolgimento. Campbell è una storica amica di Sean “Diddy” Combs, le cui feste sembrano lo spin off del caso Epstein: celebrità, traffico sessuale, dossieraggio. Nello scandalo che lo riguardava, è finito anche Sir Lucian Grainge, CEO di Universal Music Group, citato in giudizio con l’accusa di essere il finanziatore dei “freak-off parties”.

Le accuse contro l’uomo più potente dell’industria musicale – sostenitore di organizzazioni come FIdf e con un ruolo di primo piano nella lobby culturale pro-Israele a Hollywood – sono state poi ritirate. Nel processo mediatico, ma mai citato in giudizio, appare spesso il nome di Clive Davis, mentore di Combs, considerato il suo burattinaio. Parte della comunità afroamericana critica con l’industria si riferisce a lui come “l’uomo bianco ebreo” che ha dato potere a Combs per controllare dall’interno l’hip hop e neutralizzarne il potenziale rivoluzionario: notoriamente, Clive Davis è aperto sostenitore di Israele.

Lo stretto legame tra Epstein e l’intelligence israeliana

Jeffrey Epstein oltre ad essere stato un molestatore e pedofilo seriale protetto da potenti amici, era un nodo strategico in una rete molto più oscura, fatta di affari, intelligence e geopolitica. I legami tra Epstein, Israele e le figure chiave dell’establishment israeliano, come Ehud Barak e la famiglia Maxwell, non sono dettagli marginali, ma elementi centrali di una storia che i media mainstream evitano appositamente di raccontare fino in fondo.

Nel 2015, Barak – ex Primo Ministro, ex Capo di Stato Maggiore dell’IDF, e volto rispettabile della politica israeliana – ha fondato una società veicolo con cui ha investito milioni nella startup israeliana “Carbyne”, una società che sviluppa tecnologie per le emergenze basate sulla raccolta e l’analisi dei dati in tempo reale. Un progetto con implicazioni chiare nel campo della sorveglianza, della sicurezza e quindi potenzialmente utilizzato dagli apparati di intelligence. Dietro ad alcuni dei fondi che hanno alimentato l’investimento, secondo quanto riportato da Haaretz, c’era proprio Jeffrey Epstein.

Epstein non aveva solo capitali da investire: aveva relazioni strategiche, capacità logistiche, jet privati e proprietà isolate, l’habitat perfetto per operazioni di compromissione e controllo. Chiunque indaghi su Carbyne, sul suo potenziale uso duale civile-militare e sui suoi uomini chiave (tra cui Pinchas Buchris, ex Direttore Generale del Ministero della Difesa israeliano) capisce che non si trattava solo di una “start-up innovativa”. Era, piuttosto, un’infrastruttura ideale per chi volesse raccogliere informazioni in tempo reale e manipolare il flusso di dati sensibili.

Epstein e Maxwell come asset dell’ombra sionista

Ma il legame tra Epstein e Israele non si ferma qui. È impossibile ignorare il ruolo di Ghislaine Maxwell, la sua sodale e reclutatrice, figlia di Robert Maxwell, magnate dei media britannici e agente del Mossad, che molti considerano un asset centrale per i servizi israeliani negli anni della Guerra Fredda.

Robert Maxwell, morto in circostanze opache e sepolto con onori sul Monte degli Ulivi nella Gerusalemme occupata – un privilegio riservato a personaggi di altissimo rilievo nella narrativa sionista – fu salutato con funerali di Stato a cui parteciparono il presidente Chaim Herzog, il primo ministro Yitzhak Shamir, il capo dello Shin Bet Ya’akov Peri e altre figure di spicco dell’intelligence e della politica israeliana: un segnale preciso del suo ruolo nei servizi.

Alla luce di questo, il coinvolgimento diretto di Ghislaine con Epstein non è affatto una coincidenza. Lei e Jeffrey operavano come un’unità solida che non si limitava a soddisfare i desideri predatori dei potenti, ma che costruiva archivi compromettenti – video, registrazioni, dossier – potenzialmente utilizzabili come leva di potere o ricatto. È legittimo domandarsi se questi archivi, i famigerati “Epstein Files”, contengano nomi di personaggi legati a Israele, al Mossad o alla diaspora sionista d’élite che ha finanziato operazioni più o meno opache nel mondo.

La Wexner Foundation, finanziata dall’amico e cliente di Epstein, Leslie Wexner, è un altro anello chiave. La fondazione ha riversato milioni in programmi di formazione delle élite israeliane. Nel 2004, secondo il giornalista israeliano Erel Segal, proprio questa fondazione avrebbe trasferito ben 2,3 milioni di dollari a Ehud Barak per una “ricerca” mai meglio definita. Barak si è rifiutato di fornire dettagli, dichiarando solo che si trattava di un’attività privata e regolare. Ma cosa giustifica una simile somma? E perché l’ex premier israeliano aveva bisogno del denaro di un molestatore pedofilo statunitense per finanziare una sua iniziativa imprenditoriale?

Tutto questo si svolge in un contesto in cui Netanyahu e Barak si scambiavano accuse reciproche di corruzione e collusioni con criminali. Al di là della loro faida, resta il fatto che Epstein rappresentava un asset trasversale. Un uomo che aveva accesso a Bill Clinton, Donald Trump e altri membri dell’élite israeliana, in un arco che non si spiega solo con il fascino della ricchezza.

È dunque plausibile che Epstein, con Ghislaine al suo fianco, abbia operato anche in funzione di raccolta d’intelligence, costruendo una banca dati fatta di compromessi, pedofilia e segreti. Una banca dati che, nelle mani sbagliate, è una bomba geopolitica.

Le connessioni tra Epstein, Barak, Maxwell e il Mossad sono fatti, documentati da investimenti, legami familiari, sepolture d’onore e silenzi imbarazzati. Ciò che resta ancora sigillato negli Epstein Files, potrebbe contenere la chiave per decifrare uno dei più grandi sistemi di controllo del potere dell’era moderna, con nomi che molti non vogliono assolutamente vedere rivelati.

I dossier Epstein, un cappio al collo della élite mondiale

In questo contesto, è essenziale comprendere come il meccanismo messo in piedi da Epstein e Ghislaine Maxwell fosse, prima ancora che un semplice traffico di minori, una vera e propria operazione di intelligence costruita su un modello di “honey trap” (o trappola sessuale), storicamente utilizzata dai servizi segreti per compromettere e ricattare figure chiave del potere. Non si trattava, quindi, solo di soddisfare le perversioni delle élite, ma di costruire un archivio vivente di ricatti, in grado di condizionare scelte politiche, alleanze internazionali e orientamenti strategici.

Tutto era progettato per documentare ogni incontro, ogni abuso, ogni caduta. L’ipotesi che Israele – tramite i suoi asset Epstein e Maxwell – abbia utilizzato questi materiali per condizionare leader americani, incluso Donald Trump, non è affatto peregrina. Anzi, è un’ipotesi supportata da numerosi segnali: i rapporti tra Trump e Epstein, documentati da foto, testimonianze e frequentazioni, cessano bruscamente proprio quando l’ambizione politica di Trump comincia a prendere forma.

Non è un caso se, ogni qualvolta che Trump alza la voce contro lo “Stato profondo” o critica gli interessi israeliani più estremi, nei media e nei tribunali americani riemerga, puntualmente, l’eco del “caso Epstein” e dei suoi legami torbidi. La guerra legale che lo perseguita potrebbe essere solo il volto pubblico di una pressione molto più oscura e silenziosa, fatta di dossier segreti, minacce implicite e promemoria inviati attraverso le corti e i titoli di giornale. Chi possiede gli “Epstein Files” – ammesso che siano ancora completi – detiene una chiave d’accesso a un potere senza volto, in grado di alterare la direzione della politica americana ed estera, non tanto per “idealismo”, ma per interesse strategico. E se tale chiave fosse oggi nelle mani di apparati legati a Israele, ciò spiegherebbe molto di più sull’assoluta reticenza di certi settori dell’establishment nel far emergere tutta la verità. I nomi custoditi in quei file sono potenzialmente molto letali per l’equilibrio tra potenze globali.

Little Saint James, l’hub degli orrori di Epstein e non solo

L’isola di Little Saint James, proprietà personale di Jeffrey Epstein nelle Isole Vergini americane, è molto più di una semplice location estiva. È stata, a tutti gli effetti, il cuore pulsante di un’operazione globale di compromissione protetta da una rete di complicità trasversali. L’isola, acquistata da Epstein nel 1998 per circa 7 milioni di dollari, venne rapidamente trasformata in una fortezza isolata, dotata di eliporto, porto privato, sistemi di sicurezza avanzati, personale fidelizzato e, soprattutto, una struttura logistica pensata per garantire totale riservatezza a ospiti di altissimo profilo.

Qui, secondo innumerevoli testimonianze e documenti processuali, si svolgevano abusi sistematici, incontri riservati e sessioni di registrazione audiovisiva: materiale potenzialmente utilizzato per creare un archivio di ricatti trasversale a politica, finanza, mondo accademico e non solo. Un altro aspetto che rende Little Saint James ancor più inquietante è la sua geografia simbolica e architettonica. Il misterioso “tempio” costruito sull’isola – una struttura cubica con cupola dorata, porte blindate e innumerevoli simboli ambigui – è stato oggetto di indagini, speculazioni e teorie, oltre che per il suo aspetto bizzarro anche per la funzione che poteva avere all’interno della struttura coercitiva.

Secondo diverse fonti, avrebbe ospitato stanze di isolamento acustico, molto probabilmente progettate per registrazioni compromettenti. Il tempio, crollato misteriosamente subito dopo l’arresto di Epstein, è stato liquidato come “magazzino musicale” dai suoi avvocati, un’affermazione ridicola, smentita dalle immagini satellitari, dai registri edilizi e dalla presenza costante di personale armato nei dintorni della struttura.

A rendere ancora più evidente il livello di protezione dell’isola vi è il fatto che, nonostante innumerevoli voli privati, testimonianze dirette e una lista di ospiti che includeva il Principe Andrea, Bill Clinton, banchieri, scienziati e altri personaggi di fama mondiale, per anni nessuna agenzia federale statunitense ha ritenuto necessario indagare realmente sull’attività dell’isola.

I voli del “Lolita Express” atterravano regolarmente lì, trasportando giovani ragazze e ospiti selezionati, in un traffico aereo che sembrava muoversi in uno spazio legale parallelo, immune da ogni controllo.

L’ipotesi che l’isola fosse non solo un luogo di abusi ma un hub operativo per attività di intelligence, legate ai servizi segreti israeliani o ad altri servizi “alleati”, diventa quindi un’ipotesi sempre più plausibile, soprattutto alla luce dei silenzi assordanti che ancora circondano le sue attività.

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Dai Caraibi all’Africa guerre americane crescono

«Un attacco potente e letale»

Trump ha scritto sul social network Truth che, su suo ordine, è stato lanciato un attacco «contro i terroristi dell’Isis che hanno preso di mira e ucciso brutalmente, soprattutto, cristiani innocenti». Secondo le iperboli di Trump «il Pentagono ha eseguito numerosi attacchi perfetti». «Sotto la mia guida, il nostro Paese non permetterà al terrorismo islamico radicale di prosperare», ha aggiunto. E il buon Natale con una contorta e discutibile preghiera: «Che Dio benedica il nostro esercito e BUON NATALE a tutti, compresi i terroristi morti, che saranno molti di più se il loro massacro di cristiani continuerà». Buon Natale di morte? Parlando da delegato di giustizia dall’Alto, «Avevo già avvertito questi terroristi che se non avessero fermato il massacro dei cristiani avrebbero pagato l’inferno, e stasera è successo. Il Dipartimento della Guerra ha eseguito numerosi attacchi perfetti, come solo gli Stati Uniti sono in grado di fare», riporta l’ANSA. Fraseggio moderato.

Fatti noti senza aggettivi

«L’Africom ha condotto un attacco su richiesta delle autorità nigeriane nello Stato di Sokoto uccidendo diversi terroristi dell’Isis», dichiara il Comando militare statunitense in Africa. Oltre dodici missili Tomahawk per un attacco di precisione su due campi d’addestramento dell’Isis, lanciati dal cacciatorpediniere USS Paul Ignatius, che nelle scorse settimane si era avvicinata al teatro d’operazioni dell’Atlantico centro-orientale. Il ministero degli Esteri nigeriano ha confermato che gli Stati Uniti hanno lanciato «colpi di precisione contro obiettivi terroristici in Nigeria tramite attacchi aerei». «Le autorità nigeriane rimangono impegnate in una cooperazione strutturata in materia di sicurezza con i partner internazionali, compresi gli Stati Uniti d’America, per affrontare la persistente minaccia del terrorismo e dell’estremismo violento», ha affermato il Ministero degli Esteri in una nota diffusa stamattina.

Che nuovo anno ci prepara Trump?

Parole roboanti del solito Trump, e critiche preoccupare interne. Justin Amash, ex deputato repubblicano del Michigan, ha scritto su X un duro post di critica all’unilateralismo di Trump, sottolineando che «se gli Stati Uniti debbano o meno impegnarsi in conflitti in tutto il mondo è una decisione che spetta ai rappresentanti del popolo al Congresso, non al presidente». L’operazione segue una serie di analoghe operazioni contro lo Stato Islamico in Siria, dove settimana scorsa gli Usa hanno colpito almeno 70 obiettivi riconducibili ai jihadisti e si inserisce nella complessa dialettica con la Nigeria, avverte Andrea Muratore. Negli scorsi mesi Trump ha più volte polemizzato a distanza con il presidente nigeriano Bola Tinbu, accusando Abuja di non fare abbastanza per contrastare il terrorismo e l’insorgenza dell’Isis e di Boko Haram e ponendo in particolare al centro la questione dei massacri di cristiani nigeriani. «Quest’ultimo fronte è molto diffuso nel mondo conservatore statunitense come cavallo di battaglia», denuncia InsideOver.

La guerra interna della Nigeria

«L’insurrezione è in corso da oltre un decennio, uccidendo migliaia di cristiani e musulmani di ogni confessione religiosa», scrive il New York Times. La Nigeria non è ufficialmente in guerra, ma lì vengono uccise più persone che nella maggior parte dei paesi devastati dalla guerra. Solo quest’anno, più di 12.000 persone sono state uccise da vari gruppi violenti, secondo Armed Conflict Location and Event Data, un gruppo di monitoraggio dei conflitti. Un conflitto violento che anche nel mondo delle istituzioni religiose cristiane è letto con cautela, tanto che anche il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ha ribadito che la radice dello scontro è sociale, e non religiosa. Ma per gli Usa quest’ultima chiave di lettura va cavalcata, tanto che il capo del Pentagono Pete Hegseth ha giustificato l’azione dichiarando che «l’uccisione di cristiani innocenti in Nigeria (e altrove) deve finire».

Guerra civile e non religiosa

Il primo Natale del Trump 2.0 si chiude dunque come una giornata di bombe e missili che segna l’intervento Usa in un nuovo conflitto dopo che nel 2025 Washington ha colpito in Yemen, Somalia, Siria, Iran e tra Oceano Pacifico e Mar dei Caraibi contro i presunti narcotrafficanti. Un’espansione della proiezione militare americana che oggi arriva fino all’Africa occidentale, con conseguenze tutte da analizzare sugli equilibri interni della Nigeria.

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26/12/2025

Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Tavani - Minirece

Lo sguardo obliquo del cinema per rappresentare l’irrappresentabile

di Gioacchino Toni

Pierre Dalla Vigna, Rappresentare l’irrappresentabile. Lo sguardo “obliquo” nel cinema sulla Shoah e in altre catastrofi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 120, € 14,00

Su come l’arte e il cinema possano o meno trattare l’enormità della Shoah si sono accumulate nel corso del tempo numerose e importanti riflessioni; diverse voci autorevoli hanno messo in guardia dai tentavi di illustrare, trattare, esprimere la Shoah nelle diverse forme artistiche in quanto destinate a dar luogo, loro malgrado, a forme di estetizzazione, banalizzazione, spettacolarizzazione, inverosimiglianza e voyeurismo. L’enormità della Shoah e le riflessioni che si sono generate attorno ad essa la rendono un ambito privilegiato per indagare come le manifestazioni artistiche e, in particolare, l’ambito cinematografico, abbiano finito per far ricorso a “visioni oblique” per affrontare quanto è stato ritenuto non direttamente rappresentabile.

È proprio alle visioni oblique a cui ha fatto ricorso il cinema per affrontare l’Olocausto nazista ed altri orribili crimini, nel tentativo di evitare di scivolare nella spettacolarizzazione e nel voyeurismo della violenza più estrema, che guarda il volume Rappresentare l’irrappresentabile (Mimesis 2025) di Pierre Dalla Vigna. La disamina proposta dallo studioso prende il via con alcune opere che, evitando di affrontare direttamente il genocidio, incentrano la narrazione su eventi che lo precedono ma che al tempo stesso lo fanno percepire come imminente: Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di Vittorio De Sica, derivato dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, a sua volta ispirato a vicende autentiche di una famiglia ferrarese sterminata ad Auschwitz; Cabaret (1972) di Bob Fosse, musical ambientato durante la Repubblica di Weimar in cui lo spettro dell’Olocausto è evocato da personaggi secondari; La nave dei folli (Ship of Fools, 1965) di Stanley Kramer, film in cui viene messo in scena l’atteggiamento vessatorio ed emarginante nei confronti di un ebreo e un nano da parte di un gruppo di tedeschi dalle esplicite simpatie naziste nel corso di una crociera del 1933.

Della Shoah, ricorda Dalla Vigna, esistono alcuni frammenti visivi e si ritrovano nelle fotografie scattate clandestinamente nel 1944 da appartenenti a un Sonderkommando operante ad Auschwitz-Birkenau e in alcune riprese aeree anglo-americane, oltre che nei documentari girati dalle truppe sovietiche e statunitensi al loro arrivo nei campi di sterminio. Proprio questi ultimi materiali visivi sono poi stati utilizzati da Alain Resnais nel suo docu-film Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1956), insieme a materiali audiovisivi dell’epoca nazista e sequenze a colori girate in Polonia sui luoghi che furono teatro dello sterminio con il commento di una voce fuori campo. «Il tutto è di estremo coinvolgimento e conduce il pubblico a ricostruire il genocidio senza spettacolarizzare l’orrore, ma imprimendo nella memoria il senso più profondo dell’evento» (p. 35).

Dalla Vigna si sofferma anche su Un vivo che passa (Un vivant qui passe, 1999) di Claude Lanzman, opera che riflette sull’ottundimento di quanti pur avendo visto qualcosa non sono stati in grado di comprendere quanto visto in riferimento al campo di Theresienstadt, in Boemia, allestito ad arte dai nazisti per mostrare le buone condizioni di prigionia dei detenuti per essere mostrato attraverso immagini documentarie girate dal regime e, in forma diretta, attraverso le visite pianificate per alcuni osservatori internazionali. Il ricorso a operazioni di mascheramento della realtà, che non di rado sfruttano il credito acritico che si tende a concedere alle immagini nonostante la consapevolezza della loro sempre più facile manipolabilità, caratterizza evidentemente anche la contemporaneità più stretta, ma al di là delle messe in scena esplicitamente truffaldine e delle immagini volutamente falsificanti la realtà, resta il difficile rapporto tra testimonianza-documentazione storica e verosimiglianza cinematografica.

Non potevano mancare riflessioni sul controverso Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, liberamente derivato da Se questo è un uomo scritto da Primo Levi tra il 1945 ed il 1947. Il  film è incentrato su una giovane ebrea francese disposta a tutto pur di sopravvivere al Lager che troverà modo di redimersi sacrificandosi per consentire la fuga di un gruppo di prigionieri. Il ricorso a scene particolarmente crude ha indotto cineasti e critici come Jacques Rivette e Serge Daney ad accusare il film di voyeurismo, ostentazione dell’orrore, estetizzazione della morte, mentre altri, come Alberto Moravia, hanno evidenziato come, a fronte di una corretta ricostruzione scenica, è come se Pontecorvo guardasse più allo spettatore che non al materiale su cui dovrebbe concentrarsi il film. La storia d’amore messa in scena nella seconda parte del film, scrive Dalla Vigna, «costruisce un artificio falsificante che contrasta con una realtà troppo orrorifica per essere rappresentata a freddo. Il divario tra il mettere in mostra l’indicibile di Auschwitz, che rischia di scivolare nel compiacimento dell’orrore, e le necessità di una trama cinematografica consolatoria per rendere più sopportabile l’orrore stesso, ha dunque come risultato una duplice insoddisfazione» (p. 38).

A modalità oblique di affrontare la Shoah ricorrono anche Il pianista (The Pianist, 2003) di Roman Polanski, derivato dall’autobiografia scritta nel 1946 del musicista ebreo-polacco Władysław Władek Szpilman scampato al genocidio, e Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes, che incentra il film su un membro di un Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau alla ricerca di un rabbino che possa recitare la preghiera funebre per il figlio che crede di aver riconosciuto tra i cadaveri. Sullo sfondo della vicenda messa in scena viene mostrato il tentativo di alcuni detenuti del Sonderkommando di lasciare una testimonianza fotografica degli eventi.

Ad essere preso in esame dallo studioso è anche il recente La zona d’interesse (The Zone of Interest, 2023) di Jonathan Glazer, film liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis che mostra l’ostinazione con cui la famiglia del comandante del Lager di Auschwitz desidera vivere come idilliaca la quotidianità che trascorre in una dimora confinante con il campo di sterminio non vedendo e non volendo vedere ciò che accade oltre le mura di cinta. Se la contiguità tra l’idillio della famiglia nazista e i prigionieri condannati alle camere a gas può rimandare alla “zona grigia” dei privilegiati all’interno dei lager di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati, scritto nel 1986, tuttavia, sottolinea Dalla Vigna, la “zona d’interesse” è di ben altra natura, essendo situata «nel campo dei carnefici meno consapevoli del proprio ruolo, dei parenti degli esecutori diretti, in diretto rapporto con la banalità del male che Hannah Arendt ha voluto riscontrare persino in uno degli artefici più significativi dell’Olocausto, Adolf Eichmann» (p. 42), tesi contrastata da quanti hanno invece preferito insistere sulla malvagità intrinseca del criminale nazista e sulla sua  spietata consapevolezza genocida. Evidentemente, scrive Dalla Vigna, «risulta più facile accogliere la tesi che vi possa essere un male assoluto, e quasi onnipotente, piuttosto che meditare sulla mediocrità di una malvagità più contraddittoria, ma capace di mostruosità illimitate proprio in ragione della sua miseria» (p. 42).

In L’uomo del banco dei pegni (The Pawnbroker, 1964) di Sidney Lumet, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Edward Lewis Wallant nel 1961, l’Olocausto viene evocato indirettamente attraverso i ricordi traumatici dei reduci dei Lager che continuano a manifestarsi anche a distanza di tempo. Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, invece, scrive Dalla Vigna,

può rappresentare in modo paradigmatico un’aporia in cui la verità storica s’infrange nella categoria estetica del bello. Il falso può esser seducente e ammiccante più di una ricostruzione autentica, e questo film, che Primo Levi, in I sommersi e i salvati, definì appunto come “bello e falso”, è una dimostrazione plateale dell’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz, non a causa di un limite estetico, ma proprio a causa della sua piena riuscita. Contro la messa in scena di una fiction sadomasochistica, Levi rivendicava il diritto a definirsi “vittima innocente” e confutava con veemenza l’equazione dell’intercambiabilità dei ruoli di carnefici e vittime (pp. 44-45).

Al film di Liliana Cavani è stato rimproverato di far riferimento all’esperienza dei Lager nazisti come pretesto per affrontare «le complessità dell’attrazione amorosa e delle sue contraddizioni» (p. 45). Susan Sontag individua ne Il portiere di notte una versione “di qualità” di quella erotizzazione dell’estetica nazista a cui fanno ricorso, sin dagli anni Settanta, i film del filone nazi-sploitation.

Dalla Vigna si sofferma su due produzioni hollywoodiane accusate di aver spettacolarizzato la Shoah: la miniserie televisiva Olocausto (Holocaust, 1978) di Marvin J. Chomsky e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg. A quest’ultimo film può essere contestato, tra le altre cose, anche di non aver concesso, del resto in linea con la tradizione hollywoodiana, il ruolo di protagonista a una vittima, preferendo assegnarlo a un tedesco “buono”.

Se opere come Kapò, Olocausto, Il pianista e Schindler’s List contribuiscono a trasformare la mera conoscenza dei fatti del pubblico in percezione intima, film come La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, Il bambino col pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, 2008) di Mark Herman e Il portiere di notte della Cavani, scrive Dalla Vigna,

introducono un regime del falso del tutto fuorviante, poiché anche nel richiamo producono una cesura di tipo negazionista, incentivando buoni sentimenti che azzerano i problemi, nel profluvio di lacrime, e possono convincere gli spettatori stessi di essere nel giusto e dalla parte del bene. Abbiamo quindi anche nel falso un doppio regime di verità, sotteso tra denuncia e consolazione, che non sempre è nettamente separabile. Per un verso c’è una società dello spettacolo che si sovrappone al reale fino a soffocarlo, come ipotizzava Jean Baudrillard, e che costruisce i simulacri ingannevoli di “un inferno costellato di buone intenzioni”. Dall’altro abbiamo il risveglio di una conoscenza epidermica, fisica, certamente l’invenzione di una rappresentazione, che però richiama alla memoria un evento che merita di essere tramandato per impedirne la ripetizione. Infine, come mediazione originata da percorsi altri ed esterni alla dicotomia, abbiamo la costruzione di mondi narrativi autonomi, che pur ricollegandosi alla storia, si sentono esentati dall’aderirvi (p. 50).

Con il venire meno dei testimoni delle atrocità e di quanti ne hanno raccolto il racconto, le immagini dell’Olocausto, anziché risultare funzionali al ricordo e alla denuncia, sono divenute un bacino da cui attingere liberamente per meri scopi narrativi. Tutto ciò, sottolinea Dalla Vigna, non solo è evidente nel filone nazi-splotation di bassa qualità, ma è ravvisabile anche in opere di maggiore spessore, come nel caso di Fuga da Sobibor (Escape from Sobibor, 1987) di Jack Gold (1987), in cui la specificità totalitaria dell’Olocausto è piegata alle esigenze del genere avventuroso.

In uno scenario in cui presidenti ebrei dirigono brigate naziste, oligarchi russi si proclamano eredi di Stalin o di Piero il grande, e il popolo erede della memoria dell’Olocausto finisce col giustificare o addirittura esaltare una strage di oltre duecentomila civili a Gaza, nel Libano e in Siria, con la complicità di buona parte dell’informazione democratica d’Occidente, ogni fiction, per quanto inverosimile e azzardata, finisce con l’apparire un format credibile (p. 52).

Anche la fantascienza, nelle sue varianti distopiche, fantapolitiche e ucroniche, ha strutturato modalità oblique con cui rappresentare la Shoah. In particolare, concentrandosi sul solo ambito audiovisivo, Dalla Vigna fa riferimento al film Delitto di stato (Fatherland, 1994) di Christopher Menaul, liberamente derivato dall’omonimo romanzo del 1992 di Robert Harris, in cui si ipotizza il compimento della soluzione finale hitleriana. Scenari futuri in cui a trionfare sono state le forze naziste si ritrovano anche nelle serie televisive L’uomo nell’alto castello (The Man in the High Castle, 2015-2019) di Frank Spotnitz, derivata dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (titolato inizialmente in italiano La svastica sul sole) e Il complotto contro l’America (The Plot Againist America, 2020) di Minkie Spiro e Thomas Schlamme, serie ispirata all’omonimo romanzo del 2004 di Philip Roth. Mantenendo un finale tutto sommato aperto, le tre opere citate, scrive Dalla Vigna, «malgrado le evidenti differenze di stile, hanno un effetto in qualche modo consolatorio: l’orrore evocato nell’ucronia di una vittoria del male, lascia spazio all’effetto catartico che nella realtà il bene abbia trionfato, ripristinando il corso di una progressione storica positiva» (p. 55).

Se è pur vero che le ucronie citate, proprio in quanto tali, dovrebbero indurre a un sospiro di sollievo, visto che si presentano come l’alternativa che, fortunatamente, non si è data, si potrebbe paradossalmente affermare, scrive Dalla Vigna, che

la vittoria postuma del nazismo, con il suo obiettivo di espellere l’ebraismo dall’Europa, si sia compiuta, infettando le coscienze degli eredi delle vittime, distorcendo la storia e assuefacendo le coscienze occidentali a un crescendo di orrore. Inoltre, com’è stato da più parti sottolineato, la politica di sterminio israeliana, che viene comunque tollerata e sotterraneamente favorita dalle democrazie occidentali, con la fornitura di armi e appoggi diplomatici, produce una ripulsa nel resto del mondo e finirà col provocare nuove ondate di antisemitismo che il movimento sionista voleva combattere (p. 60).

Lo studioso evidenzia come anche la Nakba manifesti problematiche di irrappresentabilità, tanto che il cinema che se ne è occupato lo ha fatto adottando visioni oblique. Tra le diverse produzioni audiovisive che hanno affrontato la questione israelo-palestinese lo studioso ricorda: No Other land (2024), documentario incentrato sulla resistenza araba alle distruzioni dei coloni israeliani realizzato da un collettivo comprendente gli arabi Basel Adra e Hamdan Ballal e gli ebrei Rachel Szor e Yuval Abraham; Israelism (2024), opera documentaria realizzata dai registi ebrei-americani Erin Axelman e Sam Eilertsen che hanno fatto ricorso a interviste di personalità della cultura e attivisti per i diritti umani, diversi dei quali ebrei; Paradise Now (2005) del palestinese cittadino israeliano Hany Abu-Assad, fiction incentrata sulla preparazione di un attentato sucida palestinese che termina prima che questo venga portato a termine lasciando così il dubbio circa la decisione finale presa dal protagonista; Valzer con Bashir (Waltz with Bashir, 2008) di Ari Folman, opera d’animazione che narra delle ferite psichiche di alcuni militari israeliani attivi nei massacri di Sabra e Shatila del 1982; Il giardino dei limoni (Lemon Tree, 2008) dell’israeliano Eran Riklis, film incentrato sulla controversia legale tra le autorità israeliane e una donna palestinese caparbiamente decisa a difendere il suo limoneto sventuratamente confinante con la dimora di un ministro.

A sguardi obliqui hanno fatto ricorso anche i film che hanno voluto occuparsi delle torture statunitensi nella prigione di Abu Ghraib, divenute note grazie alle fotografie scattate e diffuse dai torturatori stessi. Boys of Abu Ghraib (2014) di Luke Moran evita di affrontare direttamente i fatti preferendo imbastire una storia basata su di essi che può dirsi, per certi versi, autoassolutoria. Ne Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021) di Paul Schraderi i tragici eventi compaiono a distanza di tempo e in maniera sfumata nei ricordi di chi vi ha preso parte. Anche in questo caso, sottolinea Dalla Vigna, manca il punto di vista delle vittime: che si tratti dello sterminio dei nativi americani o di quello dei vietnamiti, anche le pellicole mosse da sincero spirito di denuncia non mancano di filtrare gli eventi attraverso il punto di vista, per quanto critico possa essere, degli invasori.

Il documentario I fantasmi di Abu Ghraib (Ghosts of Abu Ghraib, 2007) di Rory Kennedy, che ricorre a interviste sia di vittime che di militari implicati nei soprusi, denuncia come le torture siano derivate, oltre che da precise politiche adottate dalle autorità militari e governative, dal clima di caos e paura regnante nella prigione. Per certi versi, scrive Dalla Vigna, il documentario di Kennedy ricalca il cinema di Lanzmann, con la differenza che in questo caso le immagini sono presenti e sono quelle scattate dagli aguzzini.

Abbiamo qui l’autodenuncia dei torturatori, presi dall’enfasi del loro ruolo e divenuti inconsapevolmente, essi stessi, prove provate delle loro atrocità. I segreti che i capi delle SS si sforzavano di nascondere, distruggendo documentazioni, edifici e financo gli ordini di sterminio, nell’epoca della società dello spettacolo globale sono misfatti rivelati in modo plateale, trasformando i più modesti esecutori nelle incarnazioni del male. Naturalmente, i canali d’informazione, per lo meno quelli dei vincitori, cercheranno poi di raccontare la fiaba di poche “mele marce” intorno a un sistema di per sé sano e democratico, occultando le responsabilità dei mandanti e di un intero sistema (pp. 66-67).

La parte finale del volume si concentra su come anche i film che hanno affrontato i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki e più in generale il rischio dell’olocausto nucleare, si siano trovati a fare i conti con le categorie dell’indicibile e dell’irrappresentabile, dunque alla necessità di ricorrere a visioni oblique. Non a caso, sottolinea Dalla Vigna, tra coloro che si sono cimentati sul disastro atomico nipponico, o sul rischio dell’olocausto nucleare, si trovano registi che come Alain Resanis, con il suo Hiroshima mon amour (1959), e Sidney Lumet, con A prova di errore (Fail-Safe, 1964), che si erano precedentemente occupati dei campi di sterminio nazisti. Se Resnais ricorre a una storia d’amore ambientata alcuni decenni dopo la catastrofe nipponica per far affiorare le terribili memorie dell’evento, Lumet mostra come possa generarsi un conflitto nucleare a partire da una serie di fraintendimenti. Se quest’ultimo film rappresenta la versione drammatica di come un conflitto nucleare possa essere generato da un concatenamento di errori, Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick rappresenta invece la versione comico-grottesca di come si possa giungere al disastro. Entrambi i film, evidenzia Dalla Vigna, trattano l’olocausto nucleare limitandosi ad evocare le vittime senza mostrarle.

A modalità oblique di trattare la tragedia nucleare ricorrono anche i film Vivere nella paura (Ikimono no kiroku, 1955) e Rapsodia in agosto (Hachigatsu no kyōshikyoku, 1991) di Akira Kurosawa. Godzilla (1954) di Ishirō Honda inaugura invece un fortunato filone di b-movie giapponesi e americani incentrato su mostri generati o risvegliati dalle esplosioni nucleari. Riferimenti agli ordigni atomici sul Giappone si ritrovano in L’impero del Sole (Empire of the Sun, 1987) di Steven Spielberg, derivato dall’omonimo romanzo parzialmente autobiografico di James G. Ballard, per poi tornare centrale, dopo un periodo di oblio, nel film Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan che, nuovamente, come da tradizione hollywoodiana, evita il punto di vista delle vittime. Dalla Vigna ricorda anche il docu-drama La morte è scesa a Hiroshima (The Beginning or the End, 1947) di Norman Taurog che ricorre all’espediente del ritrovamento di immagini e filmati storici riguardanti la preparazione, l’esplosione e gli effetti degli ordigni. Tornando alle opere di pura fiction, altre modalità oblique di trattare il disastro nucleare si ritrovano in numerosi film hollywoodiani, di qualità decisamente variabile, incentrati sul “dopobomba”, quando davvero i sopravvissuti potrebbero trovarsi a invidiare i morti.

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Il Natale violento del capitale

Perché ogni anno, Una poltrona per due (Trading Places, 1983), di John Landis, viene puntualmente trasmesso dalla televisione italiana in occasione della vigilia di Natale? E perché ogni anno raggiunge altissimi livelli di ascolto tali da superare, come leggiamo nella pagina Wikipedia dedicata al film, la messa di mezzanotte trasmessa quasi contemporaneamente? La visione di questo film, almeno da noi, è diventata un classico natalizio, ancora più natalizio della messa di Natale. Si potrebbe pensare che esso venga associato al Natale perché è una facile commedia che, tra l’altro, si svolge nel periodo natalizio e perché, alla fine, trionfano i buoni sentimenti. Eppure, se lo analizziamo attentamente, si scopre che si tratta di una storia che racconta un feroce spaccato di una altrettanto feroce guerra, quella finanziaria. Due ricchi capitalisti, i fratelli Duke, per una scommessa, decidono di sostituire il loro agente di cambio, il benestante Louis Winthorpe III (Dan Aykroid), con il povero senzatetto Billy Ray Valentine (Eddie Murphy). Winthorpe e Valentine, inizialmente rivali, si alleeranno contro i Duke. Tutto il film è incentrato sul desiderio di arricchirsi a tutti i costi, sull’odio e sulla gelosia che si prova per chi gode una qualsiasi situazione di privilegio, sull’aspirazione al benessere e ai comfort che si possono acquistare con il denaro. In questo senso, si tratta di un film in linea con l’ideologia reaganiana degli anni Ottanta americani ma anche di quelli italiani. Non è un caso che ogni anno a Natale venga programmato da Italia 1 o, comunque, da una rete Mediaset, fondata da Berlusconi, il personaggio simbolo della “Milano da bere” anni Ottanta.

Altro che storia natalizia sui buoni sentimenti. Protagonista assoluta è una guerra fra poveri, fra poveri e ricchi e fra ricchi e ricchi: i Duke vogliono annientare Whintorpe e Valentine, Winthorpe vuole eliminare Valentine e Valentine Winthorpe; infine, entrambi, insieme a una giovane prostituta e al maggiordomo di Winthorpe, si coalizzeranno contro i Duke con l’unico scopo di vendicarsi e di arricchirsi. Su tutta la vicenda narrata dal film campeggia quindi un’atroce guerra all’ultimo sangue: quella della finanza e della borsa; le scene clou si ambientano infatti alla borsa di futures e opzioni sulle materie prime di Chicago. Non è un caso che mentre camminano dirigendosi alla borsa, Whintorpe dica a Valentine: “Qui o uccidi o sei ucciso”. Evidentemente, al pubblico natalizio piace un film di guerra mascherato da fiaba natalizia. Un film sorretto da un’unica ideologia: è terribile e vergognoso essere poveri mentre è bellissimo e appagante essere ricchi. I buoni sentimenti equivalgono alla vendetta e la felicità equivale alla ricchezza. Più anni Ottanta di così si muore.

Ma cosa c’entra il Natale con tutto ciò? C’entra, eccome se c’entra. Il Natale, sotto le parvenze dei buoni sentimenti e della bontà, non è altro che il momento culminante e più feroce della società capitalistica. È il momento in cui si acuisce il divario tra chi ha possibilità economiche e chi non le ha: acquisti, regali, cenoni, feste più o meno sfarzose. È il momento in cui gli individui fanno a gara per accaparrarsi più merce a qualsiasi costo ed è quello in cui i poveri sono ancora più poveri. I buoni sentimenti e la generosità, nel mondo dominato dal capitale, sono soltanto messinscene per creduloni; sono materia da fiaba e da favoletta, né più né meno. Sotto la maschera della bontà e della generosità, il periodo natalizio rappresenta, ogni anno, la guerra mondiale imposta dal capitale. Una guerra che gli stessi paesi ricchi e occidentali dichiarano a quelli più poveri. Se nel ricco Occidente, milioni di individui paffuti e benestanti affollano le strade disposti a massacrarsi a vicenda per un parcheggio dove posteggiare il loro Suv o per accaparrarsi l’ultimo ritrovato tecnologico in vendita presso un superstore, nei paesi emarginati dell’est e del sud del mondo altri milioni di individui stanno morendo di fame o vengono massacrati dalle bombe di governi filo-occidentali, come nella Striscia di Gaza. Quello stesso capitale che produce il Natale, le feste e i regali produce anche le armi da esportare nelle guerre e utilizzate per massacrare popolazioni inermi. Nell’universo capitalistico non c’è nessuna differenza fra produrre un panettone, uno smartphone, una bottiglia di spumante per brindare alle festività e produrre bombe, missili e droni.

Non è un caso che il Natale sia stato sempre al centro dello sguardo della società capitalistica fin dai suoi primordi. Il Canto di Natale (A Christmas Carol) di Charles Dickens esce nel 1843 e racconta la conversione alla bontà di un ricco banchiere e capitalista, Ebenezer Scrooge. Sotto l’involucro dei buoni sentimenti si nasconde l’indicibile violenza della corsa alla ricchezza imposta dal capitale e le orribili condizioni in cui versano gli strati più poveri della società londinese dell’Ottocento. Banche e capitali sono alla base anche di un’altra storia natalizia edificante che rappresenta quasi una rilettura del racconto di Dickens: ci riferiamo al film La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life, 1946) di Frank Capra, in cui la bontà e le buone azioni avvengono sullo sfondo di una furiosa guerra finanziaria (nel film compare anche la crisi di Wall Strett del 1929) fra ricchi e poveri emarginati. Sotto Natale, nel momento dell’euforia degli acquisti, sono ambientate anche alcune sequenze di un altro film, Rapporto confidenziale (Confidential Report, 1955) di Orson Welles: siamo a Monaco di Baviera e il mio omonimo Guy Van Stratten incontra Jakob Zouk, ormai ridotto in miseria, uno degli ultimi a conoscere il segreto del misterioso miliardario Gregory Arkadin (Orson Welles). Fra i fasti natalizi, mentre Van Stratten cerca invano del paté d’oca, cibo di lusso per soddisfare il desiderio dell’ex galeotto Zouk, il potente capitalista Arkadin elimina lo stesso Zouk, piantandogli un coltello nella schiena, in un fatiscente appartamento del centro. Dietro i canti natalizi, la neve e l’atmosfera della festa, il capitale celebra ancora una volta le sue vendette. Ma, in questo grande film, nell’atmosfera natalizia, il capitalista spaccone e prepotente viene inchiodato a una dimensione buffonesca e carnevalesca: Arkadin, pur di prendere l’ultimo aereo in partenza da Monaco ormai già completo, in aeroporto grida ai passeggeri che è disposto ad offrire qualsiasi cifra per un biglietto ma Van Stratten lo tratta come un pazzo esaltato dal Natale. Il tragico potere del capitale, che pretende di comprare qualsiasi individuo per soddisfare i propri capricci, viene in tal modo scoronato e ricondotto a una dimensione funereamente carnevalesca.

Piace così tanto Una poltrona per due sotto Natale, allora, forse perché inconsciamente rappresenta lo status di guerra cui sono sottoposti gli individui asserviti in tutto e per tutto alle dinamiche capitalistiche; uno status che, come abbiamo visto, raggiunge sotto le feste i suoi momenti culminanti. Non ci sono buoni sentimenti che tengono, non ci sono conversioni alla Scrooge che possano proteggere dalla guerra fintamente piacevole che il capitale impone ogni giorno. Perché nessuno proverà un qualsiasi dolore o fastidio se, per sbaglio, cambiando canale per pochi attimi dalla visione natalizia di Italia 1, si troverà di fronte immagini di guerra dalla Striscia di Gaza. Perché nell’irrealtà che ci circonda tutto diventa irreale, illusorio, mediaticamente finto. Tutto una grande favola mediatica e digitale, anche la guerra, la distruzione e la morte. Buona guerra e felice nuova distruzione.

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Guerra in Ucraina - Volevano 210 miliardi per farli combattere altri due anni

di Fulvio Scaglione

Fare pronostici è sempre un azzardo. Lo sanno bene tutti quelli che, dalle stelle alle stalle, da Mario Draghi a Il Foglio passando per tutti i gradi intermedi, hanno via via pronosticato un colpo di Stato contro Putin, la sconfitta sul campo della Russia, il rapido crollo dell’economia russa e via dicendo.

Quindi so bene di rischiare, ora che un pronostico voglio azzardarlo anch’io: dei famosi 210 miliardi di beni russi congelati in Europa, che parte della Ue (Germania, Paesi del Nord e dell’Est, la von der Leyen) voleva trasferire all’Ucraina, sentiremo di nuovo parlare, anche se il Consiglio Europeo ha nei giorni scorsi deciso di lasciarli congelati in banca e destinare all’Ucraina un prestito da 90 miliardi finanziato dal bilancio Ue.

Ne risentiremo parlare, secondo me, per due ragioni. La prima è che gli Usa, in questa fase contrari allo scongelamento pro-Ucraina, potrebbero cambiare idea se non riuscissero a convincere Putin ad arrivare a un accordo di pace.

La seconda è questa: i 90 miliardi del prestito Ue sono una boccata d’ossigeno per l’Ucraina, ma non molto di più.

Se uno si mette nei panni di quelli che, in Europa, pensano che finanziare a oltranza la resistenza ucraina sia la scelta giusta, lo scongelamento con esproprio aveva un sacco di ragioni valide: danneggiava la Russia e le mandava un messaggio molto forte sulla solidarietà Ue all’Ucraina; finanziava le forze armate ucraine che, come si dice spesso, “combattono per noi”, ovvero contribuiscono alla nostra sicurezza; prolungando la resistenza ucraina logorava la Russia e dava modo al riarmo europei di guadagnare tempo; mostrava agli Stati Uniti che molto si può fare anche senza di loro.

In generale si diceva: con quei 210 miliardi garantiamo all’Ucraina la possibilità di combattere per almeno altri due anni. O di arrivare alla famosa “pace giusta” i cui contorni cambiano di settimana in settimana e che comunque, per come viene solitamente descritta, non ha alcuna possibilità di essere accettata dai russi.

Non è un caso, quindi, se molti rimpiangono l’esito del Consiglio europeo e ne definiscono l’esito un errore. È la tesi del premier polacco Donald Tusk: “O i soldi ora o il sangue domani”.

Da quel punto di vista, lo ripetiamo, tante valide ragioni. Però... Mi piacerebbe che i sostenitori di questa linea rispondessero a una domanda: siete sicuri che all’Ucraina (non a noi, a loro che vanno in prima linea) convenga combattere altri due anni? O addirittura: siete sicuri che l’Ucraina possa combattere altri due anni?

Proviamo a guardare un po’ di dati.

Primo tema: più la guerra si prolunga, più l’Ucraina deve fare i conti con la crescente scarsità di uomini atti al combattimento. Secondo un’inchiesta del Telegraph, almeno 650 mila uomini in età di leva sono fuggiti dal Paese; secondo la deputata ucraina Anna Skorokhod sono almeno 400 mila i disertori o gli AWOL (soldati assenti senza permesso); nel solo 2024, scrive il Financial Times, i procuratori militari ucraini hanno aperto 60 mila casi per diserzione o assenza ingiustificata, più di quanti ne erano stati aperti nei due anni precedenti; e secondo il Military Watch Magazine il tasso di diserzione nel 2025 ha raggiunto i 40 mila uomini al mese.

Secondo: oltre ai circa 8 milioni di ucraini che si trovano all’estero (circa 6 milioni nella Ue), ci sono attualmente 1,8 milioni di sfollati interni generati dalla guerra nel Donbass (2014-2022) e altri 5,7 milioni di sfollati interni generati dall’invasione russa del 2022. Ne ho già parlato qui: e anche in questo caso, i dati raccolti dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ci dicono che il fenomeno è in crescita: tra aprile 2024 e febbraio 2025 la percentuale degli sfollati interni sulla popolazione totale dell’Ucraina è cresciuta dal 10,7% all’11,9%.

Terzo: l’Ucraina è in bancarotta. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, nel 2026 e nel 2027 avrà bisogno di almeno 137 miliardi di euro (160 miliardi di dollari), che dovranno esserle consegnati entro la prossima primavera. Come sappiamo, l’Ue si è risolta a un prestito di 90 miliardi, che a questi ritmi basteranno per meno di un anno, mentre la guerra e le sue distruzioni avanzano.

Quarto: il sistema energetico dell’Ucraina (fino al 2021 integrato con quello di Russia e Bielorussia, per passare pochi giorni dopo l’invasione del 2022 a collegarsi alla rete European ENTSO-E) viene colpito dai russi senza sosta. Secondo i dati del Center for European Policy Analysys (CEPA), l’80% degli impianti ucraini di produzione di energia è stato distrutto o danneggiato dai bombardamenti russi.

La centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, è sotto il controllo dei russi, che hanno inflitto colpi durissimi anche alle centrali idroelettriche, a partire da quella di Kakhovka. Altri due elementi: l’Ucraina importa il 44% dell’energia elettrica (e il 58% del gas) da un Paese non certo amico come l’Ungheria. E i recenti scandali corruttivi del “caso Mindich” ci dicono che il settore soffre di clamorosi problemi di governance.

Qualcuno pensa che i russi smetteranno di colpire le centrali ucraine? O che la guerra girerà in modo che i russi non possano più farlo? E non è difficile immaginare che cosa significhi tutto questo per la popolazione.

Siamo davvero sicuri che l’Ucraina possa andare avanti altri due anni a combattere in queste condizioni? Siamo, anzi, siete sicuri che in altri due anni, con quei problemi già drammatici con ogni probabilità destinati a crescere, l’Ucraina nella sua resistenza e assistita in ogni modo da tutto l’Occidente, riesca a non disgregarsi e a non subire danni maggiori di quelli, indubbi, che subirebbe in caso di un accordo più rapido?

Noi certezze non ne abbiamo. È a quelli ultrasicuri, e ultrasicuri da quattro anni, che chiediamo una risposta.

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Il governo cerca di bloccare il gemellaggio tra Riace e Gaza

Incredibile da credersi, eppure il governo – tramite il ministro degli Affari Regionali Calderoli – sta cercando di bloccare l’attuazione del gemellaggio tra il Comune di Riace e Gaza.

Il gemellaggio era stato firmato dal sindaco Mimmo Lucano lo scorso agosto con il sindaco di Gaza City Yahya Sarraj intervenuto in videocollegamento.

Lo schema di gemellaggio con Gaza era poi stato inviato al ministero per gli Affari regionali e le autonomie ma dal ministero è arrivata una risposta negativa in quanto questo gemellaggio potrebbe “arrecare un grave pregiudizio alla politica estera italiana” a causa del “legame esistente tra consigli locali e sindaci di Gaza e l’organizzazione terroristica Hamas, sottoposta a sanzioni da parte dell’Unione europea”.

Nella sua lettera inviata al sindaco di Riace Mimmo Lucano, il ministro Calderoli spiega che “a conclusione dell’istruttoria esperita presso le amministrazioni interessate, si rappresenta che il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale ha espresso parere negativo alla sottoscrizione del gemellaggio”.

Il parere negativo arrivato dalla Farnesina, ha voluto sottolineare che “sussistono rilevanti motivi ostativi, connessi al legame esistente tra consigli locali e sindaci di Gaza e l’organizzazione terroristica Hamas. Pertanto, ove effettivamente concluso, il gemellaggio in questione sarebbe suscettibile di arrecare un grave pregiudizio alla politica estera italiana. L’Italia, infatti, sostiene senza ambiguità la necessità di escludere Hamas da qualsivoglia futuro politico e securitario nella Striscia”.

Dopo la lettera di Calderoli, Mimmo Lucano ha replicato che la lettera ricevuta è “gravissima perché, senza alcuna spiegazione nel merito, il ministero degli Esteri accusa il sindaco di Gaza di essere legato ad Hamas. Come la nostra iniziativa possa arrecare danno alla politica estera italiana dovrebbe chiarirlo il ministro Antonio Tajani che, assieme a tutto il governo, sembra più interessato a capire cosa accade a Riace, piuttosto che impegnarsi in un reale percorso di pace in Palestina”.

Ci auguriamo che il sindaco di Riace proceda sulla sua strada infischiandosene dei diktat del governo e dando materialità al gemellaggio con Gaza.

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Gli USA sanzionano Breton, ex Commissario UE. Si allarga la frattura tra le sponde dell’Atlantico

Se la UE ha raggiunto il proprio punto di non ritorno, riguardo alla trasformazione in una democratura in cui vige la legge della guerra, l’amministrazione Trump ha fatto un passo avanti con le ultime sanzioni da “caccia alle streghe” nella transizione verso una fase nuova della competizione globale, in cui lo scontro è ormai esplicito tra aree macroeconomiche con interessi contrastanti.

Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a cinque personalità europee. Non si tratta di provvedimenti economici, né di sanzioni ad personam devastanti come quelle decise dalla UE contro chi considera “amico di Putin”, ma del divieto di ingresso sul territorio statunitense. Tutti i colpiti sono in un qualche modo legati al campo della cosiddetta “lotta alla disinformazione” e/o alla regolazione delle attività dei giganti del web. Ma il caso assume un peso particolare, poiché tra i sanzionati c’è l’ex Commissario UE Thierry Breton.

Responsabile per il Mercato interno e i Servizi del primo mandato von der Leyen, Breton è considerato l’architetto del Digital Services Act (DSA), che ha definito il quadro entro cui operano le Big Tech del digitale. Il politico francese è stato anche protagonista delle indagini su X, Meta e TikTok, per la presunta diffusione di “notizie false” e “discorsi di odio”.

Per Marco Rubio si è invece trattato di una serie di operazioni progettate per danneggiare gli States. Il Segretario di Stato USA ha scritto su X: “per troppo tempo, gli ideologi europei hanno condotto azioni concertate per costringere le piattaforme americane a sanzionare le opinioni americane alle quali si oppongono”.

La sanzione appare in maniera evidente una ritorsione immediata alla multa da 120 milioni di euro comminata proprio a X, che è anche la prima decisione di non conformità adottata sotto il DSA. Sempre a X anche Breton ha affidato la sua risposta: dopo aver ricordato che il 90% del Parlamento Europeo ha votato quella normativa, si è chiesto se fosse “tornata la caccia alle streghe di McCarthy”. Dimenticando che quella era una “caccia ai comunisti”, mentre questo scontro è tra banditi ex complici...

Von der Leyen e un portavoce di Londra hanno difeso la “libertà di parola”, mentre Macron ha parlato “di intimidazione e coercizione nei confronti della sovranità digitale europea”. Ma altri commenti sono il sintomo dell’estrema difficoltà con cui le capitali europee stanno affrontando questa accelerazione delle tensioni internazionali, anche nel fu campo euroatlantico.

Il ministro degli Esteri tedesco ha scritto su X che l’obiettivo deve essere “chiarire le divergenze di opinione con gli USA nel quadro del dialogo transatlantico, al fine di rafforzare la nostra partnership”, mentre il suo omologo spagnolo ha parlato del provvedimento contro Breton come di una “misura inaccettabile tra partner e alleati”.

Alcuni vertici europei continuano a invocare una parità con gli USA che Washington non intende affatto permettere neanche a parole, come la seconda amministrazione Trump ha chiarito esplicitamente, ma che nei fatti era già evidente, ad esempio sulla questione ucraina, sul Nord Stream, e così via, anche ai tempi di Biden. O si è vassalli piegati in due, o si è avversari. In un mondo multipolare, non c’è interesse ad avere un alleato che rappresenta solo una spesa, e che tenta persino di diventare un competitor alla pari in alcuni settori.

Difatti, la preoccupazione per la “libera informazione” non è davvero nell’agenda né di Washington né di Bruxelles, come dimostra anche la recente stretta sulla libertà di parola che è stata osservata in Europa sia ai livelli nazionali sia a quello comunitario. È pura e semplice propaganda per legittimare la specificità del modello europeo nella sua aspirazione a diventare un impero retoricamente “al servizio di buoni propositi”, come ebbe a dire un altro ex ministro francese, Bruno Le Maire.

È da anni che la UE tenta di limitare lo strapotere delle Big Tech statunitensi, non per bontà di privacy e libertà di pensiero, ma perché è uno di quei settori su cui davvero non c’è nessuno che possa competere. La burocrazia e l’estrema inflazione di regolamentazione tipica della UE è stata quindi usata come arma per limitare in qualche misura le operazioni delle grandi piattaforme nel Vecchio Continente.

La negazione del visto a Breton, per quanto non possa avere risvolti politici immediati su questo quadro regolatorio, è un segnale molto duro rispetto al fatto che i vassalli europei hanno raggiunto il limite, anche in questo ambito. Il messaggio è “fatela finita”, in vista del Digital Omnibus e del pacchetto Cloud, AI and Development Act, che è previsto in arrivo nel 2026. Altrimenti, le ritorsioni potrebbero essere peggiori.

L’insegnamento che però va tratto da queste sanzioni è uno soltanto: siamo in una fase storica completamente nuova, in cui l’illusione euroatlantica è finita. UE e USA hanno interessi contrastanti, ed esprimono linee strategiche che fanno sempre più fatica a procedere in maniera complementare. Nel multipolarismo, sarà una corsa in cui non verrà risparmiato nessun colpo per affermare la propria egemonia. La UE, però, è ancora un vaso di coccio tra vasi di ferro.

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