Nell’ultimo periodo è emersa con forza e da più parti l’esigenza di capire in che direzione Potere al Popolo può lavorare sul piano europeo. In vista delle prossime elezioni europee del maggio 2019, ma non solo.
Come abbiamo sempre detto, cosa fare alle elezioni sarà una decisione delle e degli aderenti, sulla base di una discussione che attraverserà tutte le assemblee territoriali. Lo scopo di queste paginette è proprio quello di dare delle coordinate minime per questo confronto.
Mettiamo subito in chiaro quello che è l’auspicio di noi tutte e tutti: che questa discussione possa essere innanzitutto sulle linee strategiche che Potere al Popolo deve darsi. E, solo in secondo luogo, sulla tattica da mettere in campo. Per essere chiari: ci interessa dibattere soprattutto intorno ai contenuti e non tanto intorno ai contenitori. Che nessuno nega abbiano la loro importanza. Ma non possiamo permetterci di lasciare che monopolizzino il nostro confronto. Potere al Popolo è per noi tutte e tutti un progetto strategico, per il quale il fronte elettorale rimane uno dei fronti di lotta. Non l’unico, e nemmeno il più importante. Invitiamo tutte e tutti ad affrontare il dibattito con serenità, rispetto e tranquillità, giacché non esistono “soluzioni facili”. Ci muoviamo in un quadro difficilissimo, non solo per una forza giovane come la nostra, ma per tutti.
LA SITUAZIONE NELL'UNIONE EUROPEA
Dieci anni di crisi e, soprattutto, di “gestione della crisi” nella Unione Europea, ci restituiscono un panorama desolante e paradossale: una ricchezza enorme che si accompagna ad un aumento vertiginoso della povertà. Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.
Le classi popolari dell’intero continente hanno sofferto la durezza delle politiche di austerità che ovunque hanno portato gli stessi frutti: aumento di disoccupazione, tasso di sfruttamento, disagio mentale, povertà, precarizzazione del mondo del lavoro, diseguaglianze, emigrazione; la distruzione dei servizi sociali, sanità e istruzione in primis; devastazione ambientale; il deterioramento delle forme democratiche; l’aumento dell’età pensionabile. In sostanza, stanno conducendo alla distruzione delle conquiste ottenute dalle classi subalterne in decenni di lotte.
Questa rapida carrellata non esaurisce gli effetti delle politiche imposte dalle classi dominanti. L’austerità ha infatti indebolito i legami di solidarietà tra chi sta “in basso”, ha aumentato la frammentazione e la solitudine. Non si tratta solo di una condizione esistenziale, ma politica. Soli e divisi abbiamo più difficoltà ad articolare risposte collettive. Soli siamo più deboli.
Ci sono riusciti costruendo consenso intorno al mantra del T.I.N.A. (Thereisnotalternative) di thatcheriana memoria: le risorse sono “scarse”. Di qui la concorrenza tra gli sfruttati. Di qui le affermazioni di Wolfgang Schäuble che sintetizzava il senso della democrazia e della possibilità di cambiamenti: «Le elezioni non devono permettere che si cambi la politica economica.»
LA FALSA CONTRAPPOSIZIONE “EUROPEISTI” VS. “NAZIONALISTI”
L’accettazione di questo mantra e della consequenziale guerra tra poveri accomuna Macron e Orban, gli europeisti liberisti e i nazionalisti.
Da una parte il presidente francese Macron ha avanzato la proposta di un fronte repubblicano dalla Merkel a Tsipras in nome del rafforzamento delle istituzioni liberali e della “resistenza” all’avanzata della ondata nera. Nella sua idea si riunirebbero così tutti coloro che hanno gestito il massacro sociale dovuto alle misure di austerity imposte alle popolazioni europee, con particolare accanimento contro i paesi della periferia, insieme a quelli che si sono illusi di poterlo mitigare ma senza risultati.
Dall’altra parte, invece, ci sono i nazionalisti con la loro declinazione razzista, xenofoba e antidemocratica dell’Europa. Con le frontiere chiuse e il filo spinato lungo i confini. A completare e rafforzare quella “Fortress Europe” messa in piedi dai fratelli coltelli degli europeisti liberali.
La conferma che gli uni e gli altri non hanno ipotesi diverse viene anche dalle scelte di politica internazionale e militare. Né i liberali né i nazionalisti mettono in discussione l’appartenenza alla Nato o gli aumenti della spesa militare a livello nazionale ed europeo. Le stesse ambizioni di una politica di potenza e di una Unione Europea cardine del nuovo ordine internazionale sono comuni a entrambi gli schieramenti, così come in entrambi sono perfettamente leggibili la visione e le ingerenze colonialiste in Medio Oriente e in Africa.
Noi dovremo essere capaci di combattere contemporaneamente contro questa duplice faccia del nemico. La nostra non è una terza opzione. Piuttosto, di fronte all’opzione bi-fronte (europeista liberista o nazionalista) delle classi dominanti del continente europeo, dovremo essere in grado di costruire la strada della alternativa, della transizione a un sistema diverso. La narrazione mediatica ci relega all’irrilevanza, pompando invece questa “ingannevole contrapposizione” – come l’ha definita Serge Halimi qualche mese fa su Le Monde Diplomatique. Ma Macron/Renzi e Salvini/Orban hanno bisogno gli uni degli altri. Macron ha bisogno di Salvini per porsi come presunta ultima trincea di fronte all’arrivo dei barbari; Salvini ha bisogno di Macron perché può additare lui e le sue politiche come responsabili del malcontento della gente. La strada per noi è molto stretta.
COSA DEVE FARE POTERE AL POPOLO?
“Hanno cercato di abituarci a che ogni elezione si trasformi in una scelta tra uno status quo liberale o la minaccia dell’estrema destra. È arrivata l’ora di rompere il giogo dei trattati europei che impongono l’austerità e favoriscono il dumping fiscale e sociale. È arrivata l’ora in cui quelli che credono nella democrazia superino una nuova tappa per rompere questa spirale inaccettabile”.
(dal Manifesto di Lisbona)
Tutti i passaggi che abbiamo svolto finora, dalla stesura del programma alle discussioni collettive in occasione delle assemblee nazionali di Napoli, Marina di Grosseto e Roma, convergono nel mettere al centro della nostra iniziativa politica lo “svelamento” di questo inganno, di questa falsa contrapposizione.
Come lo facciamo? Su quali forze possiamo contare? Ecco due delle domande su cui siamo chiamati a ragionare e riflettere insieme.
Da questo punto di vista va completato il quadro proposto all’inizio di queste paginette. Se è vero che dieci anni di austerità ci hanno consegnato una sorta di “decennio perduto” sulla falsariga dell’America Latina degli anni ‘80, col corollario di dolore e sofferenze che hanno portato con sé, è pur vero che faremmo un enorme regalo ai nostri nemici se ci lasciassimo prendere semplicemente dallo sconforto. Perché vorrebbe dire essere incapaci di leggere la realtà, di individuare e valorizzare le contro-tendenze. Come quella dei movimenti femministi che negli ultimi anni sono stati in grado di costruire enormi livelli di partecipazione e protagonismo. Hanno riempito le piazze di diversi paesi, ma non solo: sono stati anche capaci di raggiungere obiettivi concreti, come la storica vittoria di maggio in Irlanda nel referendum sull’aborto. O, ancora, dobbiamo essere capaci di leggere i tentativi di costruzione di scioperi internazionali, come quelli che hanno avuto per protagonisti i piloti di Ryanair o i lavoratori di Amazon. Non è vero che un cielo plumbeo domini su tutta l’Unione Europea. Sprazzi di sole ce ne sono.
In diversi paesi europei queste lotte hanno fatto sì che iniziasse a soffiare un vento nuovo. Sono infatti nate forze popolari e di rottura: in Francia, nello stato spagnolo e in Portogallo in primis.
Nei mesi scorsi La France Insoumise, Podemos e Bloco de Esquerda hanno promosso il Manifesto di Lisbona “E ora il Popolo!”, successivamente sottoscritto da altre forze della sinistra scandinava e che noi abbiamo tradotto in italiano e sottoscritto.
Spesso queste nuove formazioni la prima rottura l’hanno operata in seno alla stessa tradizione da cui muovevano le mosse. Non più intente a scrivere belle quanto innocue dichiarazioni di principio, ma disposte a mettere in discussione le regole dell’Unione Europea. Perché se ci si trova di fronte all’impossibilità della trasformazione in accordo alle norme esistenti bisogna porsi una domanda: e ora che facciamo? Cerchiamo di adeguarci, provando a ritagliarci margini di manovra o, invece, proviamo ad avere il coraggio di spingerci oltre? Si tratta di un quesito che dobbiamo porci anche noi. Mettendo in campo il ragionamento che ruota intorno al “Piano B”, esattamente come fanno queste forze. Perché la possibilità di portare a più miti consigli l’UE si è rivelata una falsa speranza (vedi il caso della Grecia o la ritirata dello stesso governo gialloverde italiano). E necessitiamo dunque di elaborare strategie che ci permettano di evitare la resa e il massacro delle classi popolari. In quest’ottica di difesa e contrattacco, l’impossibilità della trasformazione in accordo alle norme esistenti ci spinge a rafforzare la pressione per una completa riscrittura delle regole europee, non per trattative tra governi, ma sotto la spinta di un movimento popolare di grandi dimensioni.
Allo stesso tempo, crediamo ci sia tanto da fare, coniugando la battaglia per l’abolizione dei trattati europei “ingiusti” a quelle per una lotta senza quartiere all’evasione fiscale (i promotori del Manifesto di Lisbona hanno lanciato una campagna internazionale su questo tema), per un piano europeo di diritti per il lavoro, per un controllo sui capitali, per il divieto di delocalizzazioni e del dumping fiscale tra gli Stati. Per continuare con la libertà di nazionalizzare le imprese (si badi che nell’intesa trovata tra UE e UK sulla Brexit ci sono norme che potrebbero impedire il piano di nazionalizzazioni che vorrebbe promuovere Corbyn), la cancellazione del divieto di aiuti di Stato nella UE, la libertà per le politiche di bilancio di ogni stato, il superamento del divieto per la BCE di sostenere gli stati in difficoltà. Nella sostanza un programma di rottura con l’austerità e i suoi vincoli UE.
Se ci dicono che non si può, che questa alternativa non è possibile all’interno delle istituzioni e dei trattati europei, risponderemo che la reazione di fronte all’ingiustizia, e la volontà democratica e organizzata della gente, è sempre stata il motore che ha fatto cambiare le cose. Questa è la nostra priorità: costruire un’alleanza internazionale che metta la solidarietà e i diritti sociali al centro della politica e al di sopra di tutto. A questo scopo è nostro compito valutare in modo approfondito e non pregiudiziale tutte le proposte e i programmi che provengono da forze sicuramente contrarie all’austerità e i suoi vincoli UE2, anche se non aderenti al Manifesto di Lisbona.
Buon dibattito a tutte e tutti!
APPENDICE 1: ROAD MAP E INDICAZIONI TECNICHE
Abbiamo scritto queste paginette pensandole come traccia di discussione per il confronto che avverrà all’interno delle assemblee territoriali.
Pensiamo che debbano essere convocati al più presto degli appuntamenti così da poter cominciare subito il dibattito. Sicuramente non oltre la seconda settimana di dicembre.
Il 15 dicembre stiamo provando ad organizzare a Roma un incontro internazionale con le organizzazioni promotrici del Manifesto di Lisbona “E ora il Popolo!”, così da poter avere un incontro che ci permetta di confrontarci con altre forze impegnate nelle nostre stesse battaglie. Una volta che avremo la conferma, ne daremo notizia pubblica. Invitiamo fin d’ora alla massima partecipazione possibile.
Il 16 dicembre, in sede di Coordinamento Nazionale, torneremo a confrontarci su quanto venuto fuori dal dibattito collettivo.
Agli inizi di gennaio sintetizzeremo il dibattito in posizioni che saranno messe a voto sulla piattaforma.
Per sintetizzare:
– Prime due settimane di dicembre: cominciamo il dibattito!;
– Sabato 15 dicembre, Roma: Incontro internazionale con altre forze europee (da confermare);
– Domenica 16 dicembre, Roma: Coordinamento Nazionale di Potere al Popolo!
– Inizio di gennaio: sintetizziamo il dibattito in posizioni che saranno messe a voto sulla piattaforma poterealpopolo.net.
Perché queste tempistiche?
Perché nel caso decidessimo di volerci candidare autonomamente come Potere al Popolo! Dovremmo procedere alla raccolta delle firme necessarie alla presentazione della lista. La legge che regola il tutto è la Legge 24 gennaio 1979 n. 18.
L’ultimo giorno utile per la presentazione delle firme è il 17 aprile 2019.
Le circoscrizioni elettorali sono 5:
– Nord Ovest, comprendente le Regioni Valle d’Aosta, Liguria, Piemonte e Lombardia (20 candidati);
– Nord Est, comprendente le Regioni Emilia-Romagna, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia (14 candidati);
– Centro, comprendente le Regioni Toscana, Marche, Umbria e Lazio (14 candidati);
– Sud, comprendente le Regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria (17 candidati);
– Isole, comprendente le Regioni Sicilia e Sardegna (8 candidati).
Per ogni circoscrizione elettorale bisogna raccogliere minimo 30.000 firme, aumentabili fino a 35.000, di cui almeno il 10% (3.000/3.500 firme) in ogni Regione della Circoscrizione elettorale. Il che significa che bisognerà raccogliere almeno 3000 firme anche in regioni piccole come Valle d’Aosta e Molise, giusto per fare due esempi. Ci si può presentare anche in una sola Circoscrizione elettorale. Il totale delle firme da raccogliere sul territorio nazionale è dunque tra le 150.000 e le 180.000 firme.
Sono esentati dal raccogliere le firme i partiti che hanno eletto almeno un deputato europeo (ovviamente presentando lo stesso simbolo, es. L’altra Europa), i partiti che hanno un gruppo parlamentare alla Camera o al Senato o che hanno eletto almeno un parlamentare (ovviamente presentando lo stesso simbolo). Il simbolo grazie a cui non si raccolgono le firme può essere contenuto anche in un simbolo che abbia insieme a questo anche altri simboli (il così detto “simbolo composto”).
I seggi vengono attribuiti con il metodo proporzionale tra le liste che hanno superato lo sbarramento del 4% dei voti validi.
APPENDICE 2: MATERIALI DI APPROFONDIMENTO
1) Liberali contro populisti. Una contrapposizione ingannevole
2) Il Manifesto di Lisbona e l’adesione di Potere al Popolo!
3) Contro Macron e Salvini un’Europa per la gente
4) Incontro di Potere al Popolo! con Miguel Urbàn, europarlamentare di Podemos
5) “E ora il popolo!” si allarga
Fonte
30/11/2018
Lo stupro “non-stupro” ne “L’ultimo tango a Parigi” – ricordando Bertolucci
Quante ne abbiamo sentite su questo particolare “avvenimento” cinematografico?
Ho adorato Bertolucci e i suoi film. A suo tempo adorai anche il film di cui parlo. Fino a quando non lessi le prime dichiarazioni dell’attrice. Come dubitare d’altronde del fatto che la scena di violenza fosse in qualche modo stata vissuta dall’attrice Maria Schneider come una violenza reale. Che le sue lacrime e il suo stato di shock fossero reali. Che la depressione conseguente fosse reale. Lo stesso Bertolucci disse qualche tempo dopo che aveva concordato con Brando di usare il burro per facilitare la sodomia (finta, per i perfezionisti del cinema). Nel copione c’era lo stupro ma non era descritto il modo in cui sarebbe stato commesso e non erano specificati alcuni dettagli aggiunti senza informare l’attrice, come lo stesso Bertolucci dichiara, ed ecco che quei dettagli resero lo stupro talmente credibile al punto da aver fatto diventare la scena cinematograficamente indimenticabile.
In “Novecento” bravissimi attori interpretano la scena di una violenza compiuta su un bambino che dopo viene orribilmente ucciso. Il senso stava nella totale assenza di morale e di coscienza di una classe sociale completamente acritica rispetto al male fatto nei confronti di chi era più debole. Quella scena era una finzione, come tanti delitti visti e filmati in molti altri film. Ma ne L’ultimo tango a Parigi i dettagli di quella particolare scena di violenza non furono concordati con l’attrice la quale si sentì come fosse stata realmente stuprata. Il fatto che qualcuno abbia ritenuto di non cercare di ottenere il consenso dell’attrice per una scena che la provò così tanto non può essere preso alla leggera.
Avete mai sentito parlare di una ripresa su una sodomia vissuta da un attore come una reale violenza, con dettagli dell’ultimo minuto, affinché la sua reazione fosse quella “vera” da “uomo”? No. Perché non esisteva culturalmente la reazione “vera, da uomo”. Esisteva invece la reazione vera e da donna, quella ricercata per quella particolare scena a costo di non avvisarla su tutti i dettagli che sarebbero stati applicati. Chi non coglie il senso dell’umiliazione realmente subita dall’attrice continua a dire che non ci fu penetrazione o che era un’attrice e dunque in nome di questo avrebbe dovuto essere ben contenta di farsi pagare per aver così ben interpretato una scena del genere. Ma del neanche poi tanto sottinteso sessismo insito in chi ragiona in questo modo non si rendono conto. Ovvero non si rendono conto del fatto che essere sorprese da gesti inaspettati, non consensuali, può comunque essere vissuto come una violenza.
Car*, se qualcuno decide nel corso di una qualunque performance artistica di stirarvi sul pavimento, spalmarvi del burro e costringervi ad una reazione “vera… da donna”, cosa ne pensereste? Ci sono stati altri casi di questo tipo con commenti indecenti sebbene la vittima sia stata un uomo. Parlo di Shia LaBeouf il quale dichiarò di essere stato stuprato durante una performance artistica. Ricordo che all’epoca quei commenti furono scritti da uomini e donne. Cose del tipo a chi non sarebbe piaciuto, che maschio sei, e via di seguito sembrarono normali per quel che non era stato consensuale. Si fosse trattato anche di qualcosa di meno, giacché non consensuale, lui sarebbe comunque stato una vittima.
Dunque, il punto è: che limite porre quando abbiamo a che fare con l’arte? L’arte può giustificare tutto? Anche l’umiliazione subita da una donna? Può una donna essere trattata come un pezzo di carne affinché essa viva una reazione “vera... da donna”?
Non so voi ma io, dopo aver riflettuto su questo, non ho più visto Bertolucci e quel film allo stesso modo. D’altronde – come dicono alcun* – noi femministe siamo talmente folli da voler vedere la violenza anche dove non c’è. Peccato che qui di violenza abbia parlato Maria e non le femministe. E sono convinta del fatto che se Maria fosse ancora viva avrebbe dedicato il suo #metoo a quell’episodio.
Ps: ricordo che in Italia la legge contro lo stupro fu cambiata nel 1996, tanto per capire quale fosse la cultura prima di quell’anno.
Fonte
Ho adorato Bertolucci e i suoi film. A suo tempo adorai anche il film di cui parlo. Fino a quando non lessi le prime dichiarazioni dell’attrice. Come dubitare d’altronde del fatto che la scena di violenza fosse in qualche modo stata vissuta dall’attrice Maria Schneider come una violenza reale. Che le sue lacrime e il suo stato di shock fossero reali. Che la depressione conseguente fosse reale. Lo stesso Bertolucci disse qualche tempo dopo che aveva concordato con Brando di usare il burro per facilitare la sodomia (finta, per i perfezionisti del cinema). Nel copione c’era lo stupro ma non era descritto il modo in cui sarebbe stato commesso e non erano specificati alcuni dettagli aggiunti senza informare l’attrice, come lo stesso Bertolucci dichiara, ed ecco che quei dettagli resero lo stupro talmente credibile al punto da aver fatto diventare la scena cinematograficamente indimenticabile.
In “Novecento” bravissimi attori interpretano la scena di una violenza compiuta su un bambino che dopo viene orribilmente ucciso. Il senso stava nella totale assenza di morale e di coscienza di una classe sociale completamente acritica rispetto al male fatto nei confronti di chi era più debole. Quella scena era una finzione, come tanti delitti visti e filmati in molti altri film. Ma ne L’ultimo tango a Parigi i dettagli di quella particolare scena di violenza non furono concordati con l’attrice la quale si sentì come fosse stata realmente stuprata. Il fatto che qualcuno abbia ritenuto di non cercare di ottenere il consenso dell’attrice per una scena che la provò così tanto non può essere preso alla leggera.
Avete mai sentito parlare di una ripresa su una sodomia vissuta da un attore come una reale violenza, con dettagli dell’ultimo minuto, affinché la sua reazione fosse quella “vera” da “uomo”? No. Perché non esisteva culturalmente la reazione “vera, da uomo”. Esisteva invece la reazione vera e da donna, quella ricercata per quella particolare scena a costo di non avvisarla su tutti i dettagli che sarebbero stati applicati. Chi non coglie il senso dell’umiliazione realmente subita dall’attrice continua a dire che non ci fu penetrazione o che era un’attrice e dunque in nome di questo avrebbe dovuto essere ben contenta di farsi pagare per aver così ben interpretato una scena del genere. Ma del neanche poi tanto sottinteso sessismo insito in chi ragiona in questo modo non si rendono conto. Ovvero non si rendono conto del fatto che essere sorprese da gesti inaspettati, non consensuali, può comunque essere vissuto come una violenza.
Car*, se qualcuno decide nel corso di una qualunque performance artistica di stirarvi sul pavimento, spalmarvi del burro e costringervi ad una reazione “vera… da donna”, cosa ne pensereste? Ci sono stati altri casi di questo tipo con commenti indecenti sebbene la vittima sia stata un uomo. Parlo di Shia LaBeouf il quale dichiarò di essere stato stuprato durante una performance artistica. Ricordo che all’epoca quei commenti furono scritti da uomini e donne. Cose del tipo a chi non sarebbe piaciuto, che maschio sei, e via di seguito sembrarono normali per quel che non era stato consensuale. Si fosse trattato anche di qualcosa di meno, giacché non consensuale, lui sarebbe comunque stato una vittima.
Dunque, il punto è: che limite porre quando abbiamo a che fare con l’arte? L’arte può giustificare tutto? Anche l’umiliazione subita da una donna? Può una donna essere trattata come un pezzo di carne affinché essa viva una reazione “vera... da donna”?
Non so voi ma io, dopo aver riflettuto su questo, non ho più visto Bertolucci e quel film allo stesso modo. D’altronde – come dicono alcun* – noi femministe siamo talmente folli da voler vedere la violenza anche dove non c’è. Peccato che qui di violenza abbia parlato Maria e non le femministe. E sono convinta del fatto che se Maria fosse ancora viva avrebbe dedicato il suo #metoo a quell’episodio.
Ps: ricordo che in Italia la legge contro lo stupro fu cambiata nel 1996, tanto per capire quale fosse la cultura prima di quell’anno.
Fonte
Le molte facce della scuola assediano un governo inerte
“Siamo venuti a chiedere il conto al governo del cambiamento” ci dice un giovane studente marchigiano arrivato a Roma insieme ad altri per manifestare sotto il Miur. Giovanissimo ma con le idee chiare. Oggi il governo è praticamente sotto assedio da parte di tutte le componenti sociali di un mondo: quello della scuola.
Sotto al Miur ci sono gli insegnanti (di ruolo e precari) e gli studenti, sotto al ministero della Funzione Pubblica gli educatori (precari), sotto a Montecitorio il personale Ata, ossia quel personale non docente che manda avanti segreterie e manutenzione quotidiana (in larghissima parte ex Lsu, precari e sottopagati).
Il problema posto da questa giornata di mobilitazione sulla scuola non è, una volta tanto, il contrasto ai danni fatti dal governo di turno sulla scuola ma il fatto che nella manovra del governo sulla scuola c’è poco o niente. Eppure in campagna elettorale, soprattutto il M5S, aveva promesso l’abolizione della “Buona scuola” di Renzi. Ma tra le scarsissime righe dedicate alla scuola sia nel contratto di governo che nella manovra questo passo non c’è. Ci sono solo annunci di modifiche “a costo zero” (sull’obbligatorietà delle prove Invalsi agli esami di maturità e un ridimensionamento della contestata Alternanza Scuola Lavoro). Poi basta, a parte 39 milioni di tagli al capitolo di spesa sulla scuola.
Sotto al Miur i decibel della protesta sono altissimi. Gli studenti della campagna BastAlternanza danno valore aggiunto e decisivo alla protesta. Ce ne sono tanti delle scuole di Roma con le bandiere dell’Osa (Organizzazione Studentesca d’Alternativa) ma sono venuti in delegazioni più o meno numerose anche dalle Marche, dalla Toscana, dalla Campania e perfino dalla Sicilia e al megafono spiegano le loro ragioni.
L’Usb scuola che, convocando lo sciopero, ha creato la condizione per una giornata di mobilitazione generale e ci sono i precari della terza fascia, in pratica i “parìa” del mondo della docenza, quelli che sopravvivono con le supplenze nelle graduatorie d’istituto. I megafoni spiegano in una specie di speaker corner le ragioni della mobilitazione di oggi. Una delegazione di insegnanti e studenti verrà ricevuta dal Ministero e, come dice lo studente, “presenterà il conto” al governo su quello che c’è ma soprattutto su quello che manca sulla scuola.
Un esecutivo che non investe sulla pubblica istruzione (e che si guarda bene dal mettere mano ai generosissimi finanziamenti alle scuole private), è un governo più attento alla trappola dei sondaggi e del consenso immediato che con capacità di progettare un futuro per il paese. La sortita “piduista e liberista” di Salvini sull’abolizione del valore legale della laurea, ha fatto suonare l’allarme rosso anche tra gli studenti universitari. Noi Restiamo ha lanciato su questo un appello nazionale alla mobilitazione, soprattutto nelle università ritenute “di serie B” dai nuovi parametri di valutazione che selezionano non tanto il titolo di studio ma l’università in cui è stato preso. Con qualche malcelato retro pensiero razzista contro le università del Meridione.
Ma la scuola è un mondo, fatto di tante figure sociali, in larghissima parte bistrattate. Ci sono gli educatori che quotidianamente assistono gli alunni disabili. I tagli al sostegno e le esternalizzazioni del servizio hanno lasciato proliferare cooperative e precarietà, retribuzioni che gridano vendetta e insicurezza totale sulla continuità del lavoro. Pur dovendo differire lo sciopero, l’Usb ha convocato sempre questa mattina un loro presidio sotto Palazzo Vidoni
E poi ci sono i non docenti. Negli anni sono stati ridotti all’osso. Fondi per le assunzioni non ce ne sono mai e i buchi lasciati da chi se ne va (in pensione o all’altro mondo) approfondiscono le carenze in organico. Eppure si pretendono scuole pulite, anzi linde e pinte nonostante le infiltrazioni d’acqua, impianti elettrici a rischio, intonaci e tetti che crollano sulle classi. Non solo. La “semplificazione” ha invece triplicato le funzioni e gli obblighi di segreterie amministrative perennemente sotto organico e sotto stress. Nelle settimane scorse si era accesa una luce sulla stabilizzazione di queste lavoratrici e lavoratori, poi si è appannata e adesso rischia di spegnersi. Anche in questo caso lo sciopero dell’Usb ha consentito di convocare la manifestazione del personale Ata questa mattina sotto Montecitorio.
In compenso la scuola è diventata oggetto di una attenzione, niente affatto richiesta, delle misure sulla sicurezza. Non quella che serve a tutelare la salute e l’incolumità di studenti, insegnanti e non docenti, ma quella che spettacolarizza i blitz della polizia con o senza i cani, dentro e davanti le scuole alla “ricerca del crimine”, con risultati talmente ridicoli che dovrebbero portare rapidamente alla parola fine di questa allucinazione securitaria. Eppure mai come in questi ultimi anni (prima con Minniti, adesso con Salvini) gli studenti medi si trovano sotto pressione (e repressione) da parte della polizia. Assemblee, assembramenti ai cancelli, tentativi di occupazione, vedono l’intervento immediato e asfissiante della polizia. Una forma di deterrenza esplicita per far capire alle nuove generazione che devono e dovranno tenere la testa bassa anche se le classi dominanti non hanno da mettere sul piatto alcun futuro dignitoso per i giovani, anzi li stanno portando al di sotto e all’indietro rispetto alle aspettative dei loro genitori e dei loro nonni.
La complessa “questione della scuola” oggi si è materializzata in forma inaspettata, ancora al di sotto del grido necessario, ma in un settore finora rimasto sullo sfondo nell’agenda politica del paese, si è aperta una rottura portando in campo tutti i soggetti che, in un modo o nell’altro, fanno quotidianamente la scuola ossia un fattore centrale della società e della sua auspicabile emancipazione. Chi vuole portare indietro la ruota e gestire solo la regressione sociale del paese è stato avvisato.
Fonte
Per Salvini il bacio della morte. Da parte di Freda, stragista smemorato
Ognuno si merita i tifosi che ha. Nello stadio in cui gioca Salvini entra a testa alta la feccia più fetente della storia italiana.
Ultimo in ordine di apparizione – non certo di criminalità – Franco Freda, terrorista nazifascista indicato tra i responsabili della strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Materialmente quella strage sarebbe stata compiuta da Delfo Zorzi, appartenente al gruppo Ordine Nuovo, di cui Freda era ideologo indiscusso, poi “esfiltrato” in Giappone, dove si fa chiamare Hagen Roy (l’Italia non ne ha mai richiesto l’estradizione, chissà perché...).
Le indagini sulla strage furono depistate dai servizi segreti italiani e statunitensi, anche perché il gruppo veneto di Ordine Nuovo era pilotato dal comando Ftase (Nato) di Verona, il cui comandante più noto fu quel generale Dozier sequestrato una decina di anni dopo dalle Brigate Rosse.
Ciò nonostante, e malgrado l’assoluzione decretata dopo tre gradi di giudizio nei confronti dello stesso Zorzi, Freda e Giovanni Ventura (poi “esfiltrato” in Argentina, dove fino a qualche anno fa gestiva un locale-civetta per attirare la sinistra di Buenos Aires in qualche trappola), un secondo processo giunse a provare che effettivamente quei tre ed altri comprimari – tra cui Carlo Digilio, agente doppio Italia/Usa, poi “pentito” – erano coloro che avevano organizzato e messo in atto la strage. Lo scopo era chiaro fin da subito, davanti all’avanzata del movimento operaio e studentesco del ‘68-’69: accusare gli anarchici (ci pensò il commissario Luigi Calabresi), favorire la consegna del potere ai militari italiani sotto controllo Nato, reprimere i movimenti.
Ora Freda si sente più leggero e in condizione di dare interviste. E di benedire il neoministro dell’interno: “Matteo Salvini? È il salvatore della razza bianca in Europa. Il suo stesso nome è una profezia”.
E non solo lui: “Pare che a capo dello stato maggiore di Salvini ci sia un tale Giorgetti, e che l’elemento, mi è stato detto che sia stato un devoto lettore, addirittura ideologico, delle edizioni da me costituite 55 anni fa. Sono fedele alla mia razza ma non disprezzo le altre. Ci sarà uno scontro di civiltà”.
Giusto per sapere cosa c’è nel “bagaglio culturale” di chi ci governa in questo momento…
Freda, però dimentica una cosa essenziale: il secondo processo per Piazza Fontana non si concluse con una nuova assoluzione, ma con l’accertamento della sua colpevolezza. Perciò non può neanche giuridicamente dirsi “innocente”. La condanna – come da codice di procedura penale – non poté essere pronunciata soltanto perché vige il ne bis in idem (un giudice non si può esprimere due volte sulla stessa azione), e lui nel primo processo era stato assolto.
Una curiosità, che Freda omette di ricordare. Il pubblico ministero che condusse per oltre 10 anni l’indagine che determinò senza ombra di dubbio la sua colpevolezza come stragista ha un cognome che è una profezia: Salvini, ma di nome fa Guido. Ed è persona di tutt’altra statura.
Fonte
Ultimo in ordine di apparizione – non certo di criminalità – Franco Freda, terrorista nazifascista indicato tra i responsabili della strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Materialmente quella strage sarebbe stata compiuta da Delfo Zorzi, appartenente al gruppo Ordine Nuovo, di cui Freda era ideologo indiscusso, poi “esfiltrato” in Giappone, dove si fa chiamare Hagen Roy (l’Italia non ne ha mai richiesto l’estradizione, chissà perché...).
Le indagini sulla strage furono depistate dai servizi segreti italiani e statunitensi, anche perché il gruppo veneto di Ordine Nuovo era pilotato dal comando Ftase (Nato) di Verona, il cui comandante più noto fu quel generale Dozier sequestrato una decina di anni dopo dalle Brigate Rosse.
Ciò nonostante, e malgrado l’assoluzione decretata dopo tre gradi di giudizio nei confronti dello stesso Zorzi, Freda e Giovanni Ventura (poi “esfiltrato” in Argentina, dove fino a qualche anno fa gestiva un locale-civetta per attirare la sinistra di Buenos Aires in qualche trappola), un secondo processo giunse a provare che effettivamente quei tre ed altri comprimari – tra cui Carlo Digilio, agente doppio Italia/Usa, poi “pentito” – erano coloro che avevano organizzato e messo in atto la strage. Lo scopo era chiaro fin da subito, davanti all’avanzata del movimento operaio e studentesco del ‘68-’69: accusare gli anarchici (ci pensò il commissario Luigi Calabresi), favorire la consegna del potere ai militari italiani sotto controllo Nato, reprimere i movimenti.
Ora Freda si sente più leggero e in condizione di dare interviste. E di benedire il neoministro dell’interno: “Matteo Salvini? È il salvatore della razza bianca in Europa. Il suo stesso nome è una profezia”.
E non solo lui: “Pare che a capo dello stato maggiore di Salvini ci sia un tale Giorgetti, e che l’elemento, mi è stato detto che sia stato un devoto lettore, addirittura ideologico, delle edizioni da me costituite 55 anni fa. Sono fedele alla mia razza ma non disprezzo le altre. Ci sarà uno scontro di civiltà”.
Giusto per sapere cosa c’è nel “bagaglio culturale” di chi ci governa in questo momento…
Freda, però dimentica una cosa essenziale: il secondo processo per Piazza Fontana non si concluse con una nuova assoluzione, ma con l’accertamento della sua colpevolezza. Perciò non può neanche giuridicamente dirsi “innocente”. La condanna – come da codice di procedura penale – non poté essere pronunciata soltanto perché vige il ne bis in idem (un giudice non si può esprimere due volte sulla stessa azione), e lui nel primo processo era stato assolto.
Una curiosità, che Freda omette di ricordare. Il pubblico ministero che condusse per oltre 10 anni l’indagine che determinò senza ombra di dubbio la sua colpevolezza come stragista ha un cognome che è una profezia: Salvini, ma di nome fa Guido. Ed è persona di tutt’altra statura.
Fonte
“Questo Potere al Popolo non s’ha da fare”. Il triste epilogo di Maurizio Acerbo
Si usava dire, nei secoli scorsi, che “dio confonde coloro che vuole perdere”. E “la sinistra” è riuscita a dimostrarlo innumerevoli volte.
Però, a quanto ci risulta, è la prima volta che il segretario di un partito comunista diffida i suoi ex compagni di strada dall’usare nome e simbolo di un movimento politico più vasto da cui è voluto uscire, con decisione libera, per nulla sollecitata e presa dai suoi massimi organi dirigenti.
La lettera che Maurizio Acerbo ha inviato a Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi – “soci” con lui davanti al notaio, prima di marzo, per poter legalmente presentare la lista – sancisce questa non brillante “prima volta”.
Sappiamo benissimo che intorno a simboli e nome di partito ci sono stati, in Italia, (rari) altri litigi molto poco entusiasmanti. C’è il caso del Movimento Sociale Italiano (Msi), quello della Democrazia Cristiana (Dc). E qualche discussioncella scabrosa anche intorno a nome e simbolo del Pci, ai tempi della “svolta” di Occhetto, della nascita del Pds da un lato e di Rifondazione dall’altra.
In tutti quei casi, però, dietro nome e simbolo, c’era “la roba”: conti, sedi, appartamenti (anche a Montecarlo, nel caso di Fini), ecc. Svariati miliardi di lire, insomma, non solo idee, bandiere e valori politici.
Nel caso di Potere al Popolo, invece, non c’è alcun bene materiale da dividere. C’è solo la credibilità politica di un movimento cresciuto a dispetto della non entusiasmante prima prova elettorale e delle “nostalgie” di alcune componenti organizzate, che avevano scambiato questo progetto per l’ennesima – dunque dimenticabile – lista elettorale. Credibilità che valorizza un nome e un logo altrimenti destinato alla subitanea rottamazione, come avvenuto per “Rivoluzione civile”, liste arcobaleno, l’altra Europa per Tsipras (con il leader greco da cancellare dopo il luglio 2015) e altre sigle che non ricordiamo neanche più...
Che questa credibilità possa essere inficiata da una diffida avvocatesca sembra davvero improbabile. Che attivisti, idee, militanti, assemblee, simpatie accumulate in questi primi dodici mesi di vita possano essere dissolti per decreto della magistratura, anche (perlomeno fin quando non si insedierà un junta militar a Palazzo Chigi).
Capiamo che, per chi sogna un nuovo listone elettorale, ci sia il problema di eliminare anche quel poco che i sondaggi continuano ad accreditare a Potere al Popolo (più del doppio del risultato elettorale, comunque, e senza che l’addio del Prc sia stato rilevato dai sensori). Ma di solito il consenso elettorale va conquistato con la forza della propria proposta politica, con la serietà del proprio lavoro nei territori, nel blocco sociale, nella società intera.
Confidare in una sentenza che elimini il problema, non è degno di una forza politica comunista. Ma soprattutto non può funzionare.
Pensare che i consensi alla forza che si vorrebbe eliminare in questo modo possano poi comunque convergere verso chi ha lavorato per eliminarla... è davvero al di là della più sfrenata fantasia.
Anche il “calcolo machiavellico” sottostante questa diffida appare – diciamo così – quantomeno claudicante. La credibilità di Rifondazione come “socio” in altre avventure elettorali ne può uscire forse rafforzata? Chi sarà mai così ingenuo da sottoscrivere con quel partito altri “patti”, con questo precedente alle spalle?
E immaginiamo l’entusiasmo – esageruma nen... – con cui saranno accolti, tra i tanti attivisti sociali, gli iscritti del Prc che andranno in futuro a proporre “un movimento di lavoratrici e lavoratori, di giovani, disoccupati e pensionati, di competenze messe al servizio della comunità, di persone impegnate in associazioni, comitati territoriali, esperienze civiche, di attivisti e militanti, che coinvolga partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale e politica, antiliberista e anticapitalista, comunista, socialista, ambientalista, femminista, laica, pacifista, libertaria, meridionalista”. Ma come lo voglio io – Prc – altrimenti ti faccio causa...
I processi politici reali creano le proprie strutture, i simboli, le icone, gli attivisti e i dirigenti che servono temporaneamente allo scopo. Molta gente li attraversa, con aspettative anche diverse; alcuni se ne separano, molti altri si avvicinano. Se ogni abbandono potesse fermare il convoglio, si resterebbe sempre fermi nella stazione di partenza (fa molto “sinistra”, vero?). Come le molte liste elettorali degli ultimi anni. E Potere al Popolo è stato fin dall’inizio un processo reale, un organismo collettivo che prova a fare quel che dice e rifiuta la logica della “promessa elettorale” scambiata con poltrone o accordicchi rinunciatari, una volta eletti.
E non ci sono simboli gloriosi, bandiere sventolate in mille battaglie, “nomi famosi”, che possano garantire un ruolo politico rilevante quando si smarrisce il filo della Storia, delle trasformazioni sociali, della funzione e del ruolo dell’attività politica.
La storia del comunismo italiano è fatta di tante lotte, di innumerevoli sacrifici individuali e collettivi, di molte carognate e di lotte all’ultimo sangue. Ma tutte, fino ad un certo punto, sotto il segno della grandezza.
E’ quella che sembra ora del tutto assente. Nei percorsi degli ultimi anni e in questa triste iniziativa, al di sotto di ogni critica seria.
Qui di seguito il post di Potere al Popolo che rende pubblica la lettera di Acerbo e la risposta di Viola e Giorgio, oltre all’“originale” spedito dal segretario del Prc.
Socializziamo con l’intera comunità di Potere al Popolo quello che sta accadendo in questi giorni. Si tratta di una lettera inviata da Maurizio Acerbo, attuale segretario del PRC, e che non riguarda soltanto i due destinatari a cui è stata inviata, Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi.
Riguarda tutte e tutti quelli che hanno a cuore il progetto di Potere al Popolo, e che hanno speso per questo anche solo un’ora di tempo, che profondono nell’orizzonte di Potere al Popolo fiducia e speranze. Riguarda tutte le migliaia di aderenti, perché Potere al Popolo appartiene a tutte e tutti loro. Lo facciamo perché crediamo che il futuro di un movimento, di un’organizzazione a cui tante e tanti, di ogni età, provenienza geografica, hanno contribuito, e in cui storie e culture diverse si sono intrecciate e arricchite vicendevolmente, non sia una faccenda per burocrati o – che squallore! – per i tribunali. Maurizio Acerbo, infatti, ci diffida dall’utilizzo del nome e del simbolo di Potere al Popolo.
Di seguito la nostra risposta, in calce la lettera di Acerbo. Ognuno può farsi l’idea che ritiene opportuna. Sia chiaro, Potere al Popolo non si farà intimidire né fermare.
Caro compagno Acerbo,
ti chiamiamo così anche se per te siamo diventati “signora” e “signore”, abbiamo da te ricevuto una lettera-diffida che preannuncia azioni legali. La rendiamo pubblica, primo perché non abbiamo nulla da nascondere e secondo per marcare le distanze abissali che ci separano da questo tuo modo di agire.
Visto che ci hai convocati come i soci di un’azienda, vogliamo ricordarti e dirti che:
1) Potere al Popolo va avanti e cresce e non saranno quattro persone e un tesoriere, seppure autorevoli, che potranno metterlo in discussione.
2) Il processo democratico che ha portato allo statuto di PaP ha visto la partecipazione di oltre quattromila aderenti. Tu assieme ad altri hai abbandonato tale processo dopo aver partecipato ad esso fino al giorno prima dell’inizio delle votazioni on line, affidate ad una piattaforma scelta e gestita di comune accordo.
Successivamente l’organismo dirigente del PRC ha deciso a maggioranza di abbandonare l’esperienza di Potere al Popolo, giudicandola non più rispondente ai suoi disegni.
3) È davvero singolare che si scelga (legittimamente) di separarsi da una forza di cui si é fatto parte fino ai massimi livelli, e poi (assurdamente) si pretenda che quella forza da cui ci si separa non esista più. Al di là della assoluta inconsistenza formale della pretesa, essa è alquanto azzardata sul piano politico. Tu vorresti che PaP cambiasse il proprio statuto, annullando il voto di migliaia di persone, sulla base delle tue indicazioni. Altrimenti Potere al Popolo dovrebbe rinunciare ad esistere. Sinceramente, non ti pare di esagerare?
4) A differenza della segreteria del PCI che, sulla base delle proprie decisioni congressuali, ha correttamente abbandonato PaP senza mettere in discussione il percorso dell’organizzazione da cui si separava, tu ora minacci di portarci in tribunale se non facciamo, in quattro più il tesoriere, il Potere al Popolo che vuoi tu. Bene, ti rispondiamo subito: vacci in tribunale.
Sai, noi siamo spesso coinvolti nelle aule di giustizia per lotte sociali e politiche, andarci anche per la denuncia aziendalista di un segretario di partito ci preoccupa solo per il ridicolo, senza precedenti nel nostro mondo. Però se di questo ridicolo vuoi proprio coprirti, noi non siamo in grado di impedirtelo.
5) Quanto a vederci il 10 dicembre come ci hai chiesto, siamo naturalmente disponibili ad incontrarci, però rendendo pubblica la riunione con diretta streaming… Sai, non siamo un’azienda…
Fraterni saluti
Viola Carofalo
Giorgio Cremaschi
Gentile Signora Viola Carofalo - Napoli
Egregio Sig. Giorgio Cremaschi - Brescia
Egregio Sig. Francesco Antonini - Roma
E p.c. Sig. Roberto Morea (tesoriere PAP) - Roma
Oggetto: convocazione dell’assemblea dell’associazione “Movimento Politico Potere al Popolo” per il giorno lunedì 10 dicembre alle ore 15 presso la Sala Bianca a Via Flaminia 53 Roma.
Premessa
Il vigente atto costitutivo del “Movimento Politico Potere al Popolo “ (rogato dal Notaio Atlante in data 9 gennaio 2018) prevede all’art. 5 par.4 che l’assemblea possa essere convocata “oltre che per accordo unanime , anche da uno dei soci , con richiesta scritta da fare pervenire almeno 5 (cinque) giorni liberi dalla data di convocazione”.
Allo stato attuale, l’assemblea è composta da: Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi, Francesco Antonini, Maurizio Acerbo. Gli stesso soggetti compongono l’organo associativo denominato ‘presidenza’ di cui all’art.7 dello statuto.
Ed, infatti, nell’unica assemblea dell’associazione formalmente valida, tenutasi il 19 luglio 2018, l’assemblea ha ratificato le dimissioni di Mauro Alboresi.
Allo stato attuale, in termini giuridici, l’associazione è, quindi, composta delle suddette quattro persone.
E’ opportuno ricordare che la previsione di cinque soci originari rispondeva ad una precisa logica e ragione, tipica della alleanze plurali, ogni socio, indipendentemente dalle dimensioni, rappresentava un gruppo, un movimento o partito di riferimento.
Per tale ragione Assemblea e Presidenza possono decidere le modifiche statutarie solo con la maggioranza dei 4/5, ai sensi degli art. 5 e 7 dell’atto costitutivo stesso. Tale previsione statutaria non è casuale. Infatti essa indica la volontà dei soci fondatori di non lasciare le decisioni sulle regole statutarie ad una maggioranza semplice, ma di rispettare non solo i diritti delle minoranze, particolarmente importanti quando si tratta di regole relative alla coesistenza, ma anche del carattere ‘federale’ dell’associazione.
Tutti i soci aderenti erano dunque consapevoli, al momento della fondazione, del fatto che modifiche statutarie non potessero essere effettuate con maggioranza semplice.
L’approvazione delle modifiche statutarie, poi, doveva essere approvata tanto dall’assemblea che dalla presidenza, sempre con tale maggioranza qualificata.
Per quanto riguarda gli associati, a norma dell’art. 5, è compito dell’assemblea deliberare sull’ingresso di nuovi soci.
Allo stato attuale, in via formale, nessun nuovo socio è stato approvato dall’assemblea.
Le norme dello statuto sono chiare, le modifiche statutarie hanno un quorum perfettamente determinato, e la coincidenza dei membri dell’assemblea con quelli della presidenza rende il computo ancora più semplice.
E’ appena il caso di ricordare poi che, sempre con maggioranza di 4/5, l’assemblea delibera in merito all’uso del simbolo (art. 5 ultimo paragrafo).
E’ ben noto come siano sorte diversità di vedute in merito alla prosecuzione dell’attività del movimento politico. L’ipotesi di abbandono del modello plurale, per costituire un’associazione di tipo diverso, non ha trovato l’accordo di tutti i soggetti fondatori. Non vi nascondo che molti hanno vissuto questa proposta di modifica come una forzatura.
Ciò che più conta è che oggi, alla luce di quanto accaduto, è opportuno assumere talune decisioni, anche di ordine formale, nella speranza che si possa giungere ad una soluzione condivisa.
Infatti nella modifica statutaria del 19 luglio si afferma che “L’associazione potere al popolo ha inoltre lo scopo di dar vita ad un movimento politico-sociale di alternativa dentro il quale convivono posizioni e culture diverse impegnate nella costruzione di uno spazio e un soggetto unitario. Con il nostro manifesto ci siamo infatti impegnati a costruire “un movimento popolare che lavori per un’alternativa di società ben oltre le elezioni (…) Un movimento di lavoratrici e lavoratori, di giovani, disoccupati e pensionati, di competenze messe al servizio della comunità, di persone impegnate in associazioni, comitati territoriali, esperienze civiche, di attivisti e militanti, che coinvolga partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale e politica, antiliberista e anticapitalista, comunista, socialista, ambientalista, femminista, laica, pacifista, libertaria, meridionalista che in questi anni sono stati all’opposizione e non si sono arresi”;
Riteniamo invece che la modifica statutaria proposta alla approvazione della piattaforma on line configuri un nuovo partito e non un soggetto unitario e plurale.
Per tutto quanto sopra, in ottemperanza ed applicazione dell’art. 5 par.4 dello statuto
convoca
l’assemblea dell’associazione Potere al Popolo, con sede a Roma Via Flaminia 53, per il giorno lunedì 10 dicembre alle ore 15 presso la Sala Bianca a Via Flaminia 53 Roma.
con il seguente ordine del giorno:
1. Deliberazioni inerenti al futuro associativo ed all’uso del nome e simbolo dell’Associazione;
2. Eventuali azioni di tutela avverso soggetti diversi dalla associazione Potere al Popolo che intendessero utilizzarne nome e/o simbolo;
3. Varie ed eventuali
In merito alle deliberazioni le opzioni sono essenzialmente due.
- Procedere con l’attuale statuto PLURALE, ed all’interno delle regole statutarie, trovare quelle eventuali modifiche che fossero largamente condivise.
- Separare le strade. In tale seconda ipotesi, tuttavia, è chiaro che l’esperienza Potere al Popolo va considerata finita, e non sarebbe giusto che alcuna delle sue componenti fondatrici continuasse ad utilizzarne il nome ed il simbolo, come se nulla fosse avvenuto.
L’assemblea è indispensabile per comprendere se vi sia una possibilità di intesa, anche mediatrice, sulle due opzioni.
Un’ulteriore puntualizzazione è d’obbligo. Ove, senza previa intesa, sorgesse una nuova associazione denominata Potere al Popolo è chiaro che dovrebbero essere adottati strumenti giudiziari di tutela della confondibilità. Lo stesso dovrebbe dirsi in caso di modifiche statutarie assunte in violazione del presente statuto. Violazione che sarebbe doppiamente grave se praticata da chi ha sottoscritto lo statuto vigente, e che si è obbligato anche in via negoziale al suo rispetto.
Fermo restando quanto sopra è chiaro che l’auspicio è quello di una intesa e di una soluzione concordata, che permetta di non disperdere il patrimonio politico che l’esperienza di Potere al Popolo ha comunque generato.
Per tali ragioni auspico realmente una vostra presenza all’assemblea sopra convocata. Ovviamente in caso di volontà di partecipare e di impedimenti potrà essere concordata una diversa data o orario.
Maurizio Acerbo
della Presidenza di Potere al Popolo
Fonte
Però, a quanto ci risulta, è la prima volta che il segretario di un partito comunista diffida i suoi ex compagni di strada dall’usare nome e simbolo di un movimento politico più vasto da cui è voluto uscire, con decisione libera, per nulla sollecitata e presa dai suoi massimi organi dirigenti.
La lettera che Maurizio Acerbo ha inviato a Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi – “soci” con lui davanti al notaio, prima di marzo, per poter legalmente presentare la lista – sancisce questa non brillante “prima volta”.
Sappiamo benissimo che intorno a simboli e nome di partito ci sono stati, in Italia, (rari) altri litigi molto poco entusiasmanti. C’è il caso del Movimento Sociale Italiano (Msi), quello della Democrazia Cristiana (Dc). E qualche discussioncella scabrosa anche intorno a nome e simbolo del Pci, ai tempi della “svolta” di Occhetto, della nascita del Pds da un lato e di Rifondazione dall’altra.
In tutti quei casi, però, dietro nome e simbolo, c’era “la roba”: conti, sedi, appartamenti (anche a Montecarlo, nel caso di Fini), ecc. Svariati miliardi di lire, insomma, non solo idee, bandiere e valori politici.
Nel caso di Potere al Popolo, invece, non c’è alcun bene materiale da dividere. C’è solo la credibilità politica di un movimento cresciuto a dispetto della non entusiasmante prima prova elettorale e delle “nostalgie” di alcune componenti organizzate, che avevano scambiato questo progetto per l’ennesima – dunque dimenticabile – lista elettorale. Credibilità che valorizza un nome e un logo altrimenti destinato alla subitanea rottamazione, come avvenuto per “Rivoluzione civile”, liste arcobaleno, l’altra Europa per Tsipras (con il leader greco da cancellare dopo il luglio 2015) e altre sigle che non ricordiamo neanche più...
Che questa credibilità possa essere inficiata da una diffida avvocatesca sembra davvero improbabile. Che attivisti, idee, militanti, assemblee, simpatie accumulate in questi primi dodici mesi di vita possano essere dissolti per decreto della magistratura, anche (perlomeno fin quando non si insedierà un junta militar a Palazzo Chigi).
Capiamo che, per chi sogna un nuovo listone elettorale, ci sia il problema di eliminare anche quel poco che i sondaggi continuano ad accreditare a Potere al Popolo (più del doppio del risultato elettorale, comunque, e senza che l’addio del Prc sia stato rilevato dai sensori). Ma di solito il consenso elettorale va conquistato con la forza della propria proposta politica, con la serietà del proprio lavoro nei territori, nel blocco sociale, nella società intera.
Confidare in una sentenza che elimini il problema, non è degno di una forza politica comunista. Ma soprattutto non può funzionare.
Pensare che i consensi alla forza che si vorrebbe eliminare in questo modo possano poi comunque convergere verso chi ha lavorato per eliminarla... è davvero al di là della più sfrenata fantasia.
Anche il “calcolo machiavellico” sottostante questa diffida appare – diciamo così – quantomeno claudicante. La credibilità di Rifondazione come “socio” in altre avventure elettorali ne può uscire forse rafforzata? Chi sarà mai così ingenuo da sottoscrivere con quel partito altri “patti”, con questo precedente alle spalle?
E immaginiamo l’entusiasmo – esageruma nen... – con cui saranno accolti, tra i tanti attivisti sociali, gli iscritti del Prc che andranno in futuro a proporre “un movimento di lavoratrici e lavoratori, di giovani, disoccupati e pensionati, di competenze messe al servizio della comunità, di persone impegnate in associazioni, comitati territoriali, esperienze civiche, di attivisti e militanti, che coinvolga partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale e politica, antiliberista e anticapitalista, comunista, socialista, ambientalista, femminista, laica, pacifista, libertaria, meridionalista”. Ma come lo voglio io – Prc – altrimenti ti faccio causa...
I processi politici reali creano le proprie strutture, i simboli, le icone, gli attivisti e i dirigenti che servono temporaneamente allo scopo. Molta gente li attraversa, con aspettative anche diverse; alcuni se ne separano, molti altri si avvicinano. Se ogni abbandono potesse fermare il convoglio, si resterebbe sempre fermi nella stazione di partenza (fa molto “sinistra”, vero?). Come le molte liste elettorali degli ultimi anni. E Potere al Popolo è stato fin dall’inizio un processo reale, un organismo collettivo che prova a fare quel che dice e rifiuta la logica della “promessa elettorale” scambiata con poltrone o accordicchi rinunciatari, una volta eletti.
E non ci sono simboli gloriosi, bandiere sventolate in mille battaglie, “nomi famosi”, che possano garantire un ruolo politico rilevante quando si smarrisce il filo della Storia, delle trasformazioni sociali, della funzione e del ruolo dell’attività politica.
La storia del comunismo italiano è fatta di tante lotte, di innumerevoli sacrifici individuali e collettivi, di molte carognate e di lotte all’ultimo sangue. Ma tutte, fino ad un certo punto, sotto il segno della grandezza.
E’ quella che sembra ora del tutto assente. Nei percorsi degli ultimi anni e in questa triste iniziativa, al di sotto di ogni critica seria.
Qui di seguito il post di Potere al Popolo che rende pubblica la lettera di Acerbo e la risposta di Viola e Giorgio, oltre all’“originale” spedito dal segretario del Prc.
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“Questo Potere al Popolo non s’ha da fare”. Il segretario di Rifondazione ci minaccia
Socializziamo con l’intera comunità di Potere al Popolo quello che sta accadendo in questi giorni. Si tratta di una lettera inviata da Maurizio Acerbo, attuale segretario del PRC, e che non riguarda soltanto i due destinatari a cui è stata inviata, Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi.
Riguarda tutte e tutti quelli che hanno a cuore il progetto di Potere al Popolo, e che hanno speso per questo anche solo un’ora di tempo, che profondono nell’orizzonte di Potere al Popolo fiducia e speranze. Riguarda tutte le migliaia di aderenti, perché Potere al Popolo appartiene a tutte e tutti loro. Lo facciamo perché crediamo che il futuro di un movimento, di un’organizzazione a cui tante e tanti, di ogni età, provenienza geografica, hanno contribuito, e in cui storie e culture diverse si sono intrecciate e arricchite vicendevolmente, non sia una faccenda per burocrati o – che squallore! – per i tribunali. Maurizio Acerbo, infatti, ci diffida dall’utilizzo del nome e del simbolo di Potere al Popolo.
Di seguito la nostra risposta, in calce la lettera di Acerbo. Ognuno può farsi l’idea che ritiene opportuna. Sia chiaro, Potere al Popolo non si farà intimidire né fermare.
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Caro compagno Acerbo,
ti chiamiamo così anche se per te siamo diventati “signora” e “signore”, abbiamo da te ricevuto una lettera-diffida che preannuncia azioni legali. La rendiamo pubblica, primo perché non abbiamo nulla da nascondere e secondo per marcare le distanze abissali che ci separano da questo tuo modo di agire.
Visto che ci hai convocati come i soci di un’azienda, vogliamo ricordarti e dirti che:
1) Potere al Popolo va avanti e cresce e non saranno quattro persone e un tesoriere, seppure autorevoli, che potranno metterlo in discussione.
2) Il processo democratico che ha portato allo statuto di PaP ha visto la partecipazione di oltre quattromila aderenti. Tu assieme ad altri hai abbandonato tale processo dopo aver partecipato ad esso fino al giorno prima dell’inizio delle votazioni on line, affidate ad una piattaforma scelta e gestita di comune accordo.
Successivamente l’organismo dirigente del PRC ha deciso a maggioranza di abbandonare l’esperienza di Potere al Popolo, giudicandola non più rispondente ai suoi disegni.
3) È davvero singolare che si scelga (legittimamente) di separarsi da una forza di cui si é fatto parte fino ai massimi livelli, e poi (assurdamente) si pretenda che quella forza da cui ci si separa non esista più. Al di là della assoluta inconsistenza formale della pretesa, essa è alquanto azzardata sul piano politico. Tu vorresti che PaP cambiasse il proprio statuto, annullando il voto di migliaia di persone, sulla base delle tue indicazioni. Altrimenti Potere al Popolo dovrebbe rinunciare ad esistere. Sinceramente, non ti pare di esagerare?
4) A differenza della segreteria del PCI che, sulla base delle proprie decisioni congressuali, ha correttamente abbandonato PaP senza mettere in discussione il percorso dell’organizzazione da cui si separava, tu ora minacci di portarci in tribunale se non facciamo, in quattro più il tesoriere, il Potere al Popolo che vuoi tu. Bene, ti rispondiamo subito: vacci in tribunale.
Sai, noi siamo spesso coinvolti nelle aule di giustizia per lotte sociali e politiche, andarci anche per la denuncia aziendalista di un segretario di partito ci preoccupa solo per il ridicolo, senza precedenti nel nostro mondo. Però se di questo ridicolo vuoi proprio coprirti, noi non siamo in grado di impedirtelo.
5) Quanto a vederci il 10 dicembre come ci hai chiesto, siamo naturalmente disponibili ad incontrarci, però rendendo pubblica la riunione con diretta streaming… Sai, non siamo un’azienda…
Fraterni saluti
Viola Carofalo
Giorgio Cremaschi
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Gentile Signora Viola Carofalo - Napoli
Egregio Sig. Giorgio Cremaschi - Brescia
Egregio Sig. Francesco Antonini - Roma
E p.c. Sig. Roberto Morea (tesoriere PAP) - Roma
Oggetto: convocazione dell’assemblea dell’associazione “Movimento Politico Potere al Popolo” per il giorno lunedì 10 dicembre alle ore 15 presso la Sala Bianca a Via Flaminia 53 Roma.
Premessa
Il vigente atto costitutivo del “Movimento Politico Potere al Popolo “ (rogato dal Notaio Atlante in data 9 gennaio 2018) prevede all’art. 5 par.4 che l’assemblea possa essere convocata “oltre che per accordo unanime , anche da uno dei soci , con richiesta scritta da fare pervenire almeno 5 (cinque) giorni liberi dalla data di convocazione”.
Allo stato attuale, l’assemblea è composta da: Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi, Francesco Antonini, Maurizio Acerbo. Gli stesso soggetti compongono l’organo associativo denominato ‘presidenza’ di cui all’art.7 dello statuto.
Ed, infatti, nell’unica assemblea dell’associazione formalmente valida, tenutasi il 19 luglio 2018, l’assemblea ha ratificato le dimissioni di Mauro Alboresi.
Allo stato attuale, in termini giuridici, l’associazione è, quindi, composta delle suddette quattro persone.
E’ opportuno ricordare che la previsione di cinque soci originari rispondeva ad una precisa logica e ragione, tipica della alleanze plurali, ogni socio, indipendentemente dalle dimensioni, rappresentava un gruppo, un movimento o partito di riferimento.
Per tale ragione Assemblea e Presidenza possono decidere le modifiche statutarie solo con la maggioranza dei 4/5, ai sensi degli art. 5 e 7 dell’atto costitutivo stesso. Tale previsione statutaria non è casuale. Infatti essa indica la volontà dei soci fondatori di non lasciare le decisioni sulle regole statutarie ad una maggioranza semplice, ma di rispettare non solo i diritti delle minoranze, particolarmente importanti quando si tratta di regole relative alla coesistenza, ma anche del carattere ‘federale’ dell’associazione.
Tutti i soci aderenti erano dunque consapevoli, al momento della fondazione, del fatto che modifiche statutarie non potessero essere effettuate con maggioranza semplice.
L’approvazione delle modifiche statutarie, poi, doveva essere approvata tanto dall’assemblea che dalla presidenza, sempre con tale maggioranza qualificata.
Per quanto riguarda gli associati, a norma dell’art. 5, è compito dell’assemblea deliberare sull’ingresso di nuovi soci.
Allo stato attuale, in via formale, nessun nuovo socio è stato approvato dall’assemblea.
Le norme dello statuto sono chiare, le modifiche statutarie hanno un quorum perfettamente determinato, e la coincidenza dei membri dell’assemblea con quelli della presidenza rende il computo ancora più semplice.
E’ appena il caso di ricordare poi che, sempre con maggioranza di 4/5, l’assemblea delibera in merito all’uso del simbolo (art. 5 ultimo paragrafo).
E’ ben noto come siano sorte diversità di vedute in merito alla prosecuzione dell’attività del movimento politico. L’ipotesi di abbandono del modello plurale, per costituire un’associazione di tipo diverso, non ha trovato l’accordo di tutti i soggetti fondatori. Non vi nascondo che molti hanno vissuto questa proposta di modifica come una forzatura.
Ciò che più conta è che oggi, alla luce di quanto accaduto, è opportuno assumere talune decisioni, anche di ordine formale, nella speranza che si possa giungere ad una soluzione condivisa.
Infatti nella modifica statutaria del 19 luglio si afferma che “L’associazione potere al popolo ha inoltre lo scopo di dar vita ad un movimento politico-sociale di alternativa dentro il quale convivono posizioni e culture diverse impegnate nella costruzione di uno spazio e un soggetto unitario. Con il nostro manifesto ci siamo infatti impegnati a costruire “un movimento popolare che lavori per un’alternativa di società ben oltre le elezioni (…) Un movimento di lavoratrici e lavoratori, di giovani, disoccupati e pensionati, di competenze messe al servizio della comunità, di persone impegnate in associazioni, comitati territoriali, esperienze civiche, di attivisti e militanti, che coinvolga partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale e politica, antiliberista e anticapitalista, comunista, socialista, ambientalista, femminista, laica, pacifista, libertaria, meridionalista che in questi anni sono stati all’opposizione e non si sono arresi”;
Riteniamo invece che la modifica statutaria proposta alla approvazione della piattaforma on line configuri un nuovo partito e non un soggetto unitario e plurale.
Per tutto quanto sopra, in ottemperanza ed applicazione dell’art. 5 par.4 dello statuto
convoca
l’assemblea dell’associazione Potere al Popolo, con sede a Roma Via Flaminia 53, per il giorno lunedì 10 dicembre alle ore 15 presso la Sala Bianca a Via Flaminia 53 Roma.
con il seguente ordine del giorno:
1. Deliberazioni inerenti al futuro associativo ed all’uso del nome e simbolo dell’Associazione;
2. Eventuali azioni di tutela avverso soggetti diversi dalla associazione Potere al Popolo che intendessero utilizzarne nome e/o simbolo;
3. Varie ed eventuali
In merito alle deliberazioni le opzioni sono essenzialmente due.
- Procedere con l’attuale statuto PLURALE, ed all’interno delle regole statutarie, trovare quelle eventuali modifiche che fossero largamente condivise.
- Separare le strade. In tale seconda ipotesi, tuttavia, è chiaro che l’esperienza Potere al Popolo va considerata finita, e non sarebbe giusto che alcuna delle sue componenti fondatrici continuasse ad utilizzarne il nome ed il simbolo, come se nulla fosse avvenuto.
L’assemblea è indispensabile per comprendere se vi sia una possibilità di intesa, anche mediatrice, sulle due opzioni.
Un’ulteriore puntualizzazione è d’obbligo. Ove, senza previa intesa, sorgesse una nuova associazione denominata Potere al Popolo è chiaro che dovrebbero essere adottati strumenti giudiziari di tutela della confondibilità. Lo stesso dovrebbe dirsi in caso di modifiche statutarie assunte in violazione del presente statuto. Violazione che sarebbe doppiamente grave se praticata da chi ha sottoscritto lo statuto vigente, e che si è obbligato anche in via negoziale al suo rispetto.
Fermo restando quanto sopra è chiaro che l’auspicio è quello di una intesa e di una soluzione concordata, che permetta di non disperdere il patrimonio politico che l’esperienza di Potere al Popolo ha comunque generato.
Per tali ragioni auspico realmente una vostra presenza all’assemblea sopra convocata. Ovviamente in caso di volontà di partecipare e di impedimenti potrà essere concordata una diversa data o orario.
Maurizio Acerbo
della Presidenza di Potere al Popolo
Fonte
La geopolitica della Germania, ossia giocare col fuoco
La maschera della menzogna di Merkel è caduta.
Nei giorni tragici in cui la piccola Grecia si batteva per evitare il commissariamento tutti gli esperti di politica militare notarono l’enorme pressione turca sui confini greci: continui sconfinamenti nello spazio aereo greco da parte dell’aeronautica militare turca e altrettanto continue violazioni da parte della Marina Militare.
Una forma di pressione fortissima, un messaggio mafioso alla piccola Grecia: o accetti la Trojka o, se esci dall’Euro, aspettati la guerra in casa scatenata dai turchi.
Non pare questa un’affermazione azzardata in considerazione del fatto che il Sultano della Sublime Porta è uno dei più fedeli alleati della Germania da almeno cento anni.
Andando ancora più avanti in quegli anni, peraltro, viene da domandarsi se i francesi, altri fantocci in mano alla Merkel, avrebbero mai colpito a tradimento l’Italia in Libia senza l’avvallo di Berlino; per non parlare poi della schifosa tratta degli africani fatta per anni con il chiaro intento – tra l’altro – di destabilizzare l’Italia.
Ora, a pochi giorni dal tanto atteso incontro argentino tra Trump e Putin, ecco che ci risiamo: l’Ucraina, vero e proprio protettorato tedesco (il terzo in cento anni; prima Skoropadskij, poi il nazista Bandera e ora Poroshenko), organizza una provocazione che ha l’effetto concreto di mandare a monte il summit.
Certamente è questa una vittoria tedesca nel perseguimento del loro principale obbiettivo geostrategico: evitare che si saldino i due maggiori nemici della Germania, Washington e Mosca.
Questo certamente non vuol dire che i russi e gli americani non sappiano come stiano le cose: anche se ovviamente la Merkel nasconde la mano e spudoratamente e pubblicamente si offre come mediatrice tra russi e ucraini. Mediazione peraltro già respinta in maniera sprezzante dal Cremlino che sa benissimo che Poroshenko è un fantoccio in mano alla Merkel.
Una cosa comunque è chiara; la spregiudicatezza e la doppiezza della politica estera della Merkel e della Germania sono ormai abbastanza scoperte.
Io credo che a Berlino stiano giocando una partita davvero spregiudicata e pericolosissima, che alla lunga pagheranno carissima. E forse nemmeno tanto alla lunga.
Fonte
29/11/2018
USA - Sandres spacca i repubblicani sull'Arabia Saudita
di Chiara Cruciati - il Manifesto
Il fantasma di Khashoggi aleggia sulla testa di Mohammed bin Salman e spacca i repubblicani Usa. Dopo la sospensione della vendita di armi all’Arabia Saudita da parte di Germania, Danimarca, Olanda e Finlandia a seguito del brutale omicidio del giornalista dissidente nel consolato saudita di Istanbul, anche l’alleanza con gli Stati Uniti rischia. Non tanto quella ribadita pochi giorni fa dal presidente Trump (omicidio o no, ha detto, i legami con Riyadh non sono in dubbio), ma quella del Congresso.
A sfidarla ieri è stato il Senato, chiamato a votare una proposta dei senatori Bernie Sanders e Mike Lee per l’interruzione del sostegno Usa alla campagna contro lo Yemen, «fiore all’occhiello» del bellicismo Saud. E stavolta, a differenza dello scorso marzo quando la proposta fu bocciata con 55 no e 44 sì, la mozione per votare il ruolo Usa nella guerra è passata. Con senatori sia democratici che repubblicani – che otto mesi fa votarono contro lo stop della fornitura di intelligence e logistica all’esercito saudita – che hanno cambiato idea, il voto si è concluso 63 a 37 a favore della proposta di Sanders. Khashoggi fa miracoli, a differenza dei 50mila morti yemeniti degli ultimi tre anni e mezzo.
Ieri il segretario di Stato Pompeo e quello alla Difesa Mattis hanno avviato il dibattito in aula, a porte chiuse, senza servizi segreti: esclusi la direttrice della Cia Gina Haspel (mandata un mese fa a Istanbul per incontrare gli investigatori turchi) e il direttore della National Intelligence Dan Coats. La Casa bianca nega di averli lasciati fuori dalla porta, ma il dubbio ai senatori è venuto e alcuni di loro hanno pubblicamente protestato per l’assenza: è stata la Cia a dirsi certa, prove alla mano, del ruolo di mandante del principe ereditario Mohammed bin Salman nel delitto Khashoggi.
L’amministrazione Trump sta facendo pressioni sui senatori repubblicani perché sostengano la politica Usa in Medio Oriente, che ha in Riyadh una delle sue colonne: «Ridurre di grado i rapporti tra Usa e sauditi sarebbe un grave errore per la sicurezza nazionale nostra e degli alleati», aveva scritto Pompeo sul Wall Street Journal alla vigilia della riunione a porte chiuse.
Ieri, invece, ha tirato in ballo il solito capro espiatorio, l’Iran: «Se gli Usa non fossero coinvolti in Yemen – ha detto al Senato – la guerra sarebbe peggiore. La coalizione a guida saudita non beneficerebbe dei nostri consigli e del nostro addestramento, e i più civili morirebbero. Quello che otterremmo è un Iran più forte e Isis e al Qaeda rinvigoriti nella Penisola arabica».
Bernie Sanders ha risposto in aula rivolgendosi direttamente al presidente: «Il messaggio che il Senato degli Stati Uniti dovrebbe mandare al governo saudita e a tutto il mondo è che non continueremo a sostenere una guerra catastrofica guidata da un regime dispotico che ha una politica militare pericolosa, distruttiva e irresponsabile. Il Congresso non ha autorizzato questa guerra, è incostituzionale».
E siccome le brutte notizie non vengono mai sole, Mohammed bin Salman ha lasciato la Tunisia – dove ha concluso il suo tour mediorientale – con un’indagine preliminare aperta. Secondo l’agenzia online Tunis Webdo, che cita il sindacato dei giornalisti Snjt, il pubblico ministero del tribunale di primo grado di Tunisi ha aperto un’indagine contro MbS per i crimini commessi in Yemen, dietro denuncia dello stesso sindacato. Che festeggia: «Un’altra vittoria per la magistratura tunisina», scrive su Facebook il Snjt che nella denuncia chiedeva «un’inchiesta sulla violazione dei diritti umani in Yemen e il lancio di misure legali per inviare il file alla Corte penale internazionale».
I tunisini non mollano MbS nonostante la felice accoglienza che gli aveva riservato il presidente Essebsi. Con il principe ha discusso di «economia e finanza, promozione di investimenti e cooperazione militare e di intelligence», mentre fuori risuonavano le grida dei manifestanti: «Il popolo vuole che bin Salman sia giudicato».
Mentre il mondo inizia a muoversi, in Yemen si continua a combattere. Ieri il governo del presidente Hadi, alleato saudita, si è detto contrario a cedere il porto di Hodeidah, città sulla costa del Mar Rosso e principale scalo del paese insieme ad Aden, al controllo delle Nazioni unite, ipotesi sul tavolo che dovrebbe aprirsi in Svezia a dicembre. “La consegna del porto a un’entità che non sia il governo legittimo – ha detto il ministro Al Amiri – è una violazione di sovranità e in contrasto con il diritto internazionale”.
Come se Hodeidah fosse un luogo qualsiasi: teatro dei durissimi scontri tra ribelli Houthi e coalizione a guida saudita, probabile chiave di volta del conflitto per la sua posizione strategica, è lo scalo a cui arriva il 70% degli aiuti umanitari fondamentali a non far morire l’intero popolo yemenita di fame. Di aiuti ne arrivano già pochissimi, a causa del blocco navale e aereo imposto da Riyadh, e ieri l’Onu ha lanciato un nuovo allarme: il poco che arriva è diventato quasi niente, con le importazioni di grano calate di quasi il 50% nelle ultime due settimane.
Le compagnie marittime finora operative nel porto non intendono farlo più per ragioni di sicurezza (la città è oggetto dei bombardamenti sauditi). Il World Food Programme, che fornisce cibo a 8 milioni di persone, non nasconde la preoccupazione: la carestia non farà che dilagare.
Fonte
Il fantasma di Khashoggi aleggia sulla testa di Mohammed bin Salman e spacca i repubblicani Usa. Dopo la sospensione della vendita di armi all’Arabia Saudita da parte di Germania, Danimarca, Olanda e Finlandia a seguito del brutale omicidio del giornalista dissidente nel consolato saudita di Istanbul, anche l’alleanza con gli Stati Uniti rischia. Non tanto quella ribadita pochi giorni fa dal presidente Trump (omicidio o no, ha detto, i legami con Riyadh non sono in dubbio), ma quella del Congresso.
A sfidarla ieri è stato il Senato, chiamato a votare una proposta dei senatori Bernie Sanders e Mike Lee per l’interruzione del sostegno Usa alla campagna contro lo Yemen, «fiore all’occhiello» del bellicismo Saud. E stavolta, a differenza dello scorso marzo quando la proposta fu bocciata con 55 no e 44 sì, la mozione per votare il ruolo Usa nella guerra è passata. Con senatori sia democratici che repubblicani – che otto mesi fa votarono contro lo stop della fornitura di intelligence e logistica all’esercito saudita – che hanno cambiato idea, il voto si è concluso 63 a 37 a favore della proposta di Sanders. Khashoggi fa miracoli, a differenza dei 50mila morti yemeniti degli ultimi tre anni e mezzo.
Ieri il segretario di Stato Pompeo e quello alla Difesa Mattis hanno avviato il dibattito in aula, a porte chiuse, senza servizi segreti: esclusi la direttrice della Cia Gina Haspel (mandata un mese fa a Istanbul per incontrare gli investigatori turchi) e il direttore della National Intelligence Dan Coats. La Casa bianca nega di averli lasciati fuori dalla porta, ma il dubbio ai senatori è venuto e alcuni di loro hanno pubblicamente protestato per l’assenza: è stata la Cia a dirsi certa, prove alla mano, del ruolo di mandante del principe ereditario Mohammed bin Salman nel delitto Khashoggi.
L’amministrazione Trump sta facendo pressioni sui senatori repubblicani perché sostengano la politica Usa in Medio Oriente, che ha in Riyadh una delle sue colonne: «Ridurre di grado i rapporti tra Usa e sauditi sarebbe un grave errore per la sicurezza nazionale nostra e degli alleati», aveva scritto Pompeo sul Wall Street Journal alla vigilia della riunione a porte chiuse.
Ieri, invece, ha tirato in ballo il solito capro espiatorio, l’Iran: «Se gli Usa non fossero coinvolti in Yemen – ha detto al Senato – la guerra sarebbe peggiore. La coalizione a guida saudita non beneficerebbe dei nostri consigli e del nostro addestramento, e i più civili morirebbero. Quello che otterremmo è un Iran più forte e Isis e al Qaeda rinvigoriti nella Penisola arabica».
Bernie Sanders ha risposto in aula rivolgendosi direttamente al presidente: «Il messaggio che il Senato degli Stati Uniti dovrebbe mandare al governo saudita e a tutto il mondo è che non continueremo a sostenere una guerra catastrofica guidata da un regime dispotico che ha una politica militare pericolosa, distruttiva e irresponsabile. Il Congresso non ha autorizzato questa guerra, è incostituzionale».
E siccome le brutte notizie non vengono mai sole, Mohammed bin Salman ha lasciato la Tunisia – dove ha concluso il suo tour mediorientale – con un’indagine preliminare aperta. Secondo l’agenzia online Tunis Webdo, che cita il sindacato dei giornalisti Snjt, il pubblico ministero del tribunale di primo grado di Tunisi ha aperto un’indagine contro MbS per i crimini commessi in Yemen, dietro denuncia dello stesso sindacato. Che festeggia: «Un’altra vittoria per la magistratura tunisina», scrive su Facebook il Snjt che nella denuncia chiedeva «un’inchiesta sulla violazione dei diritti umani in Yemen e il lancio di misure legali per inviare il file alla Corte penale internazionale».
I tunisini non mollano MbS nonostante la felice accoglienza che gli aveva riservato il presidente Essebsi. Con il principe ha discusso di «economia e finanza, promozione di investimenti e cooperazione militare e di intelligence», mentre fuori risuonavano le grida dei manifestanti: «Il popolo vuole che bin Salman sia giudicato».
Mentre il mondo inizia a muoversi, in Yemen si continua a combattere. Ieri il governo del presidente Hadi, alleato saudita, si è detto contrario a cedere il porto di Hodeidah, città sulla costa del Mar Rosso e principale scalo del paese insieme ad Aden, al controllo delle Nazioni unite, ipotesi sul tavolo che dovrebbe aprirsi in Svezia a dicembre. “La consegna del porto a un’entità che non sia il governo legittimo – ha detto il ministro Al Amiri – è una violazione di sovranità e in contrasto con il diritto internazionale”.
Come se Hodeidah fosse un luogo qualsiasi: teatro dei durissimi scontri tra ribelli Houthi e coalizione a guida saudita, probabile chiave di volta del conflitto per la sua posizione strategica, è lo scalo a cui arriva il 70% degli aiuti umanitari fondamentali a non far morire l’intero popolo yemenita di fame. Di aiuti ne arrivano già pochissimi, a causa del blocco navale e aereo imposto da Riyadh, e ieri l’Onu ha lanciato un nuovo allarme: il poco che arriva è diventato quasi niente, con le importazioni di grano calate di quasi il 50% nelle ultime due settimane.
Le compagnie marittime finora operative nel porto non intendono farlo più per ragioni di sicurezza (la città è oggetto dei bombardamenti sauditi). Il World Food Programme, che fornisce cibo a 8 milioni di persone, non nasconde la preoccupazione: la carestia non farà che dilagare.
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Deutsche Bank, perquisita la sede per riciclaggio
Tutti presi dal (finto) scontro tra Unione Europea e governo grillin-leghista? Tutti convinti che le virtù del buongoverno e delle regole rispettate siano di casa soprattutto in Germania?
Beh, forse è ora di cominciare a rivedere certe convinzioni...
Stamattina circa 170 funzionari della polizia tedesca hanno dato inizio a una gigantesca perquisizione nella sede centrale e in altre cinque sedi di Deutsche Bank (DB), la più grande e importante istituzione finanziaria della Germania, dunque anche di tutta Europa.
I funzionari di polizia (che in questo caso sono quelli con competenze analoghe alla nostra Guardia di Finanza) stanno cercando le prova per transazioni illegali per oltre 400 miliardi di euro (equivalente a quasi il 25% del Pil italiano). Il sospetto esplicito è che sia stato commesso un reato che qui, nel paese di pulcinella, vediamo commettere solo nella zona grigia di contatto tra faccendieri, malavitosi, furbetti del quartierino e mafia in grisaglia: riciclaggio.
Ma stiamo nel cuore dei mercati finanziari a trazione tedesca, dunque nel gotha della finanza globale e multinazionale. Quindi anche le cifre da “riciclare” sono un tantinello più gigantesche di quelle che vengono “sistemate” dalle nostre parti (il totale, nell’arco di 10 anni, sembra che sfiori i 4.000 miliardi).
Gli inquirenti, tra l’altro, hanno precisato che questa indagine non ha nulla a che fare con il “caso Danske Bank”, istituto estone formalmente incriminato per un altro maxi-riciclaggio da 200 miliardi di euro provenienti principalmente dalla Russia e dall’Azerbaijan. In quel caso Deutsche Bank è accusata di aver “movimentato” quella cifra attraverso la sua filiale statunitense.
La perquisizione di oggi punta invece a trovare i riscontri di fughe di capitale verso paradisi off shore, secondo il modello portato allo scoperto dai Panama Papers. Fondi che sarebbero arrivati a DB da attività criminali o comunque illegali. Solo nel 2016, più di 900 clienti con un volume d’affari di 311 milioni di euro sarebbero stati assistiti da una società del gruppo con sede nelle Isole Vergini britanniche.
L’inchiesta dovrebbe imbarazzare sia il governo tedesco che la Bce. Il primo per motivi abbastanza chiari, sul piano politico: difficile presentarsi come i tutori delle “regole” e della buona amministrazione quando la tua banca principale assomma quasi 600 miliardi di capitali riciclati e una esposizione in “prodotti derivati” tossici per una cifra impossibile persino da scrivere: 54,7 trilioni di euro. Si potrebbe anche dire 54.700 miliardi.
Per dare un’idea approssimativa della dimensione del “buco”, 54,7 trilioni di euro equivalgono a 20 volte il Pil tedesco e quasi 6 volte il Pil dell’intera Unione Europea.
Al confronto, lo sforamento chiesto dal governicchio italico (una quindicina di miliardi) equivale a una colazione mattutina. E, ovviamente, bisogna ricordare che qui stiamo parlando di una sola banca, non dell’intero sistema finanziario tedesco, europeo o globale. Altrimenti dovremmo ritirare fuori i fantastiliardi di Zio Paperone...
Ma anche la Bce dovrebbe dare qualche spiegazione, visto che la competenza della “sorveglianza bancaria” è ormai una sua esclusiva. Sembra infatti evidente che sulle banche private – e soprattutto su quelle tedesche e francesi – abbia esercitato un “controllo” assai meno occhiuto di quello messo in mostra verso i conti pubblici dei singoli stati europei o di banche private di paesi “minori” (come quelle italiane, che non hanno in pancia quasi per niente i “prodotti derivati”, ma solo prestiti difficili da vedersi restituiti o titoli di stato nazionali).
Più attenti “i mercati”, che in pochi attimi hanno fatto crollare la quotazione azionaria del colosso tedesco di oltre il 90%. Una cosa è stare contro i poveri lavoratori, una cosa è rimetterci soldi propri...
Il palazzo della Bce, a Francoforte, non è molto distante da quello di Deutshe Bank. Forse una piccola deviazione sarebbe utile...
Fonte
Un merdone pazzesco, questi si candidano a sinistrare nuovamente l'economia mondiale probabilmente a livelli mai visti prima.
Beh, forse è ora di cominciare a rivedere certe convinzioni...
Stamattina circa 170 funzionari della polizia tedesca hanno dato inizio a una gigantesca perquisizione nella sede centrale e in altre cinque sedi di Deutsche Bank (DB), la più grande e importante istituzione finanziaria della Germania, dunque anche di tutta Europa.
I funzionari di polizia (che in questo caso sono quelli con competenze analoghe alla nostra Guardia di Finanza) stanno cercando le prova per transazioni illegali per oltre 400 miliardi di euro (equivalente a quasi il 25% del Pil italiano). Il sospetto esplicito è che sia stato commesso un reato che qui, nel paese di pulcinella, vediamo commettere solo nella zona grigia di contatto tra faccendieri, malavitosi, furbetti del quartierino e mafia in grisaglia: riciclaggio.
Ma stiamo nel cuore dei mercati finanziari a trazione tedesca, dunque nel gotha della finanza globale e multinazionale. Quindi anche le cifre da “riciclare” sono un tantinello più gigantesche di quelle che vengono “sistemate” dalle nostre parti (il totale, nell’arco di 10 anni, sembra che sfiori i 4.000 miliardi).
Gli inquirenti, tra l’altro, hanno precisato che questa indagine non ha nulla a che fare con il “caso Danske Bank”, istituto estone formalmente incriminato per un altro maxi-riciclaggio da 200 miliardi di euro provenienti principalmente dalla Russia e dall’Azerbaijan. In quel caso Deutsche Bank è accusata di aver “movimentato” quella cifra attraverso la sua filiale statunitense.
La perquisizione di oggi punta invece a trovare i riscontri di fughe di capitale verso paradisi off shore, secondo il modello portato allo scoperto dai Panama Papers. Fondi che sarebbero arrivati a DB da attività criminali o comunque illegali. Solo nel 2016, più di 900 clienti con un volume d’affari di 311 milioni di euro sarebbero stati assistiti da una società del gruppo con sede nelle Isole Vergini britanniche.
L’inchiesta dovrebbe imbarazzare sia il governo tedesco che la Bce. Il primo per motivi abbastanza chiari, sul piano politico: difficile presentarsi come i tutori delle “regole” e della buona amministrazione quando la tua banca principale assomma quasi 600 miliardi di capitali riciclati e una esposizione in “prodotti derivati” tossici per una cifra impossibile persino da scrivere: 54,7 trilioni di euro. Si potrebbe anche dire 54.700 miliardi.
Per dare un’idea approssimativa della dimensione del “buco”, 54,7 trilioni di euro equivalgono a 20 volte il Pil tedesco e quasi 6 volte il Pil dell’intera Unione Europea.
Al confronto, lo sforamento chiesto dal governicchio italico (una quindicina di miliardi) equivale a una colazione mattutina. E, ovviamente, bisogna ricordare che qui stiamo parlando di una sola banca, non dell’intero sistema finanziario tedesco, europeo o globale. Altrimenti dovremmo ritirare fuori i fantastiliardi di Zio Paperone...
Ma anche la Bce dovrebbe dare qualche spiegazione, visto che la competenza della “sorveglianza bancaria” è ormai una sua esclusiva. Sembra infatti evidente che sulle banche private – e soprattutto su quelle tedesche e francesi – abbia esercitato un “controllo” assai meno occhiuto di quello messo in mostra verso i conti pubblici dei singoli stati europei o di banche private di paesi “minori” (come quelle italiane, che non hanno in pancia quasi per niente i “prodotti derivati”, ma solo prestiti difficili da vedersi restituiti o titoli di stato nazionali).
Più attenti “i mercati”, che in pochi attimi hanno fatto crollare la quotazione azionaria del colosso tedesco di oltre il 90%. Una cosa è stare contro i poveri lavoratori, una cosa è rimetterci soldi propri...
Il palazzo della Bce, a Francoforte, non è molto distante da quello di Deutshe Bank. Forse una piccola deviazione sarebbe utile...
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Un merdone pazzesco, questi si candidano a sinistrare nuovamente l'economia mondiale probabilmente a livelli mai visti prima.
Il governo dei like, nel paese che muore
Il DL Sicurezza è stato convertito in legge, com’era prevedibile, grazie al voto di fiducia, il terzo richiesto dal governo gialloverde. Da oggi il Paese è meno sicuro e meno libero: la quasi totale cancellazione della protezione umanitaria, la cessazione di ogni politica d’integrazione e accoglienza nei confronti dei richiedenti asilo determineranno, necessariamente, un aumento dei cosiddetti irregolari.
Nessun essere umano è irregolare, ma usiamo quest’espressione per indicare che il DL convertito va nella direzione opposta a quella dichiarata sin dal nome, cioè la realizzazione di una maggiore sicurezza per tutte e tutti. Lo fa consapevolmente: in un Paese dove, per fortuna, il numero di reati come furti, rapine e omicidi è in costante diminuzione, è necessario mantenere una quota di persone in condizione di marginalità sociale per alimentare, in assenza di qualunque provvedimento concreto, l’unica benzina del consenso governativo: la paura.
Un sentimento coltivato con pazienza, negli anni passati, da maggioranze di ogni colore politico (da Cofferati a Minniti, passando per Maroni, veniamo da almeno un ventennio Law & Order), per beceri scopi di campagna elettorale sui soggetti più deboli e fragili, oggi fa viaggiare la Lega, il partito più a destra dell’emiciclo, su percentuali di consenso a doppia cifra. In questo contesto la ricerca di conferme è parossistica e quotidiana, fatta di foto di ruspe, dichiarazioni truci e commenti osceni sui canali social.
Sotto la paura niente. Il DL Sicurezza, oltre ad aumentare l’insicurezza, diminuisce il lavoro: la stretta delle regole su protezione umanitaria e sistema SPRAR, unita alla riduzione dei fondi per l’accoglienza, comporterà un aumento della disoccupazione tra tutte le professionalità coinvolte nel sistema, dagli insegnanti agli operatori sanitari, dagli psicologi agli assistenti materiali, senza contare chi provvede – in condizioni regolari – al funzionamento dei centri.
Continueranno a prosperare, invece, i CAS, il lato oscuro dell’accoglienza, lì dove negli anni sono emersi scandali, corruzione, opacità amministrativa, legami con la criminalità organizzata. Meno sicurezza, meno lavoro, più criminalità, proprio nei giorni in cui il rapporto UNESCO su Educazione e Immigrazione denuncia che le donne e gli uomini lasciati a sciupare le proprie giornate, spesso chimicamente sedati, dietro le reti e i cancelli dei nostri centri, sono una generazione perduta, una vera e propria catastrofe umana. Meno lavoro quindi, e se protesti perché il lavoro lo hai perso, perché non hai come arrivare a fine mese, grazie al DL Sicurezza rischi la galera perché, facendo un balzo indietro di 20 anni, il blocco stradale è stato reso di nuovo reato penale.
Se non funziona l’uomo nero, ci sono le favole per addormentare. Il reddito dei grillini è quella più di moda: una vera e propria farsa comica, dove il re fanfarone inizia promettendo 780 euro per tutte e tutti e finisce per regalare soldi alle imprese che, magnanimamente, assumono, magari tenendo qualcuno a nero, di riserva, come abbiamo imparato a fare nell’azienda di papà. Qualcuno che se si fa male viene invitato a non denunciare, perché nel paese che muore il sindacato più grande, invece di difenderti, ti suggerisce di tacere. L’altra favoletta è quella che racconta che chi ha lavorato tutta una vita può andare in pensione; in realtà ti concederanno qualche anno, che però dovrai pagare in busta paga. Se tutto andrà bene.
Se tutto andrà bene, appunto. Sì, perché le favolette si basano sulla leggenda dell’opposizione frontale alle leggi dei cattivoni della finanza. Un abbaiare da cani da pastore, in grado di spaventare solo le pecore, che si trasforma in un guaito davanti ai lupi dell’Unione Europea, o ai padroni locali che hanno puntato i piedi e ottenuto, in finanziaria, tutto ciò che volevano. Il gioco maschile a chi ce l’ha più lungo è finito con i due testosteronici vicepremier che abbassano la testa e che dicono che sì, insomma, il deficit si può correggere al ribasso, tagliando i già ridicoli provvedimenti sociali.
La prevedibile resa arriva, però, a guerra già dichiarata, con l’asta dei BTP andata quasi deserta e il rischio di non riuscire a rifinanziare la spesa senza alzare i tassi d’interesse sul debito. Gli speculatori esultano, i padroni europei e italiani anche, a piangere è il popolo... sì, ma quale?
Altro che populismo. Il popolo gialloverde non esiste. Non esiste un popolo tout court, se per popolo intendiamo un insieme di individui che si trasforma in una collettività. Esiste una massa di singoli spaesati, atomizzati, a cui è stato insegnato che l’unico interesse da perseguire è quello individuale. Un “popolo” che tale non è, che ha smesso di credere nel futuro. Un “popolo” che invecchia tanto e male, mentre nel Paese non si fanno più figli, e quelli già nati che, per età e attitudine, possono andare via stanno scappando.
Un vero e proprio esodo, che ha fatto tornare la bilancia migratoria a livelli che non si vedevano da trent’anni, che ha fatto perdere alle regioni del Sud il primato delle più feconde, che ci riporta a scenari profondamente tristi. Un paese vecchio non si rinnova e non innova, si chiude e non accoglie, non ha speranza nel futuro: la risposta del governo è la solita pretesa di decidere del corpo delle donne, mentre la risposta reale si chiama asili, diritti, riconoscimento delle nuove famiglie, libertà di autodeterminarsi e decidere del proprio futuro.
Un altro finale. Abbiamo il compito di scriverlo, davvero. Se ci siamo avventurati in questa follia è perché non abbiamo nessuna intenzione di stare a guardare il declino, mangiando pop-corn andati a male. Abbiamo deciso di detronizzare il cineoperatore e bruciare le pellicole di questa orrenda sceneggiata.
Abbiamo deciso di aprire porte e finestre di questo cinema da quattro soldi in cui ci hanno rinchiuso e far entrare aria, persone, speranza, futuro. Vogliamo accogliere e non respingere, e far lavorare i nostri migliori giovani nell’accoglienza.
Vogliamo diritti, lavoro, sicurezza per tutte e tutti, senza badare alle carte d’identità e al colore della pelle. Vogliamo mescolarci allegramente con chi arriva, nel rispetto dell’unica, vera tradizione multisecolare italiana, quella dell’integrazione. Vogliamo togliere i soldi a chi se li è presi in questi anni, e restituirli a coloro a cui sono stati rubati.
È per tutto questo che da quando siamo nati animiamo le piazze, le case del popolo, le strade del nostro paese; siamo l’unica vera opposizione a questo governo triste e cattivo e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci. C’è un’Italia diversa e migliore, nascosta ma non annichilita, che a Giugno, a Ottobre, a Novembre ha mostrato le crepe nella macchina del consenso governativa. Noi abbiamo deciso di allargare le crepe e far crollare il castello.
Fonte
Nessun essere umano è irregolare, ma usiamo quest’espressione per indicare che il DL convertito va nella direzione opposta a quella dichiarata sin dal nome, cioè la realizzazione di una maggiore sicurezza per tutte e tutti. Lo fa consapevolmente: in un Paese dove, per fortuna, il numero di reati come furti, rapine e omicidi è in costante diminuzione, è necessario mantenere una quota di persone in condizione di marginalità sociale per alimentare, in assenza di qualunque provvedimento concreto, l’unica benzina del consenso governativo: la paura.
Un sentimento coltivato con pazienza, negli anni passati, da maggioranze di ogni colore politico (da Cofferati a Minniti, passando per Maroni, veniamo da almeno un ventennio Law & Order), per beceri scopi di campagna elettorale sui soggetti più deboli e fragili, oggi fa viaggiare la Lega, il partito più a destra dell’emiciclo, su percentuali di consenso a doppia cifra. In questo contesto la ricerca di conferme è parossistica e quotidiana, fatta di foto di ruspe, dichiarazioni truci e commenti osceni sui canali social.
Sotto la paura niente. Il DL Sicurezza, oltre ad aumentare l’insicurezza, diminuisce il lavoro: la stretta delle regole su protezione umanitaria e sistema SPRAR, unita alla riduzione dei fondi per l’accoglienza, comporterà un aumento della disoccupazione tra tutte le professionalità coinvolte nel sistema, dagli insegnanti agli operatori sanitari, dagli psicologi agli assistenti materiali, senza contare chi provvede – in condizioni regolari – al funzionamento dei centri.
Continueranno a prosperare, invece, i CAS, il lato oscuro dell’accoglienza, lì dove negli anni sono emersi scandali, corruzione, opacità amministrativa, legami con la criminalità organizzata. Meno sicurezza, meno lavoro, più criminalità, proprio nei giorni in cui il rapporto UNESCO su Educazione e Immigrazione denuncia che le donne e gli uomini lasciati a sciupare le proprie giornate, spesso chimicamente sedati, dietro le reti e i cancelli dei nostri centri, sono una generazione perduta, una vera e propria catastrofe umana. Meno lavoro quindi, e se protesti perché il lavoro lo hai perso, perché non hai come arrivare a fine mese, grazie al DL Sicurezza rischi la galera perché, facendo un balzo indietro di 20 anni, il blocco stradale è stato reso di nuovo reato penale.
Se non funziona l’uomo nero, ci sono le favole per addormentare. Il reddito dei grillini è quella più di moda: una vera e propria farsa comica, dove il re fanfarone inizia promettendo 780 euro per tutte e tutti e finisce per regalare soldi alle imprese che, magnanimamente, assumono, magari tenendo qualcuno a nero, di riserva, come abbiamo imparato a fare nell’azienda di papà. Qualcuno che se si fa male viene invitato a non denunciare, perché nel paese che muore il sindacato più grande, invece di difenderti, ti suggerisce di tacere. L’altra favoletta è quella che racconta che chi ha lavorato tutta una vita può andare in pensione; in realtà ti concederanno qualche anno, che però dovrai pagare in busta paga. Se tutto andrà bene.
Se tutto andrà bene, appunto. Sì, perché le favolette si basano sulla leggenda dell’opposizione frontale alle leggi dei cattivoni della finanza. Un abbaiare da cani da pastore, in grado di spaventare solo le pecore, che si trasforma in un guaito davanti ai lupi dell’Unione Europea, o ai padroni locali che hanno puntato i piedi e ottenuto, in finanziaria, tutto ciò che volevano. Il gioco maschile a chi ce l’ha più lungo è finito con i due testosteronici vicepremier che abbassano la testa e che dicono che sì, insomma, il deficit si può correggere al ribasso, tagliando i già ridicoli provvedimenti sociali.
La prevedibile resa arriva, però, a guerra già dichiarata, con l’asta dei BTP andata quasi deserta e il rischio di non riuscire a rifinanziare la spesa senza alzare i tassi d’interesse sul debito. Gli speculatori esultano, i padroni europei e italiani anche, a piangere è il popolo... sì, ma quale?
Altro che populismo. Il popolo gialloverde non esiste. Non esiste un popolo tout court, se per popolo intendiamo un insieme di individui che si trasforma in una collettività. Esiste una massa di singoli spaesati, atomizzati, a cui è stato insegnato che l’unico interesse da perseguire è quello individuale. Un “popolo” che tale non è, che ha smesso di credere nel futuro. Un “popolo” che invecchia tanto e male, mentre nel Paese non si fanno più figli, e quelli già nati che, per età e attitudine, possono andare via stanno scappando.
Un vero e proprio esodo, che ha fatto tornare la bilancia migratoria a livelli che non si vedevano da trent’anni, che ha fatto perdere alle regioni del Sud il primato delle più feconde, che ci riporta a scenari profondamente tristi. Un paese vecchio non si rinnova e non innova, si chiude e non accoglie, non ha speranza nel futuro: la risposta del governo è la solita pretesa di decidere del corpo delle donne, mentre la risposta reale si chiama asili, diritti, riconoscimento delle nuove famiglie, libertà di autodeterminarsi e decidere del proprio futuro.
Un altro finale. Abbiamo il compito di scriverlo, davvero. Se ci siamo avventurati in questa follia è perché non abbiamo nessuna intenzione di stare a guardare il declino, mangiando pop-corn andati a male. Abbiamo deciso di detronizzare il cineoperatore e bruciare le pellicole di questa orrenda sceneggiata.
Abbiamo deciso di aprire porte e finestre di questo cinema da quattro soldi in cui ci hanno rinchiuso e far entrare aria, persone, speranza, futuro. Vogliamo accogliere e non respingere, e far lavorare i nostri migliori giovani nell’accoglienza.
Vogliamo diritti, lavoro, sicurezza per tutte e tutti, senza badare alle carte d’identità e al colore della pelle. Vogliamo mescolarci allegramente con chi arriva, nel rispetto dell’unica, vera tradizione multisecolare italiana, quella dell’integrazione. Vogliamo togliere i soldi a chi se li è presi in questi anni, e restituirli a coloro a cui sono stati rubati.
È per tutto questo che da quando siamo nati animiamo le piazze, le case del popolo, le strade del nostro paese; siamo l’unica vera opposizione a questo governo triste e cattivo e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci. C’è un’Italia diversa e migliore, nascosta ma non annichilita, che a Giugno, a Ottobre, a Novembre ha mostrato le crepe nella macchina del consenso governativa. Noi abbiamo deciso di allargare le crepe e far crollare il castello.
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Crisi economica e sistema bancario italiano
Per le banche italiane la crisi del 2007 si inserisce in un processo di concentrazione del capitale iniziato con le riforme bancarie a partire dal 1990 (si pensi alla legge Amato). Le direttive europee sono funzionali all’emersione di un capitale finanziario sovranazionale e dunque l’adeguamento legislativo deve consentire il superamento dell’istituto di diritto pubblico, lo sganciamento dalla norma costituzionale che prevede la tutela del risparmio, l’aumento di capitale (tramite ricorso ai mercati finanziari) necessario per trasformare le banche italiane in soggetti che competano a livello europeo e dunque la pressione sulle fondazioni (che garantiscono il rapporto della banca con il territorio su cui essa si proietta) affinché perdano la maggioranza dei pacchetti azionari. Nello stesso tempo si eliminano quelle norme legislative che impediscono il formarsi di banche che siano di deposito (rastrellando il risparmio delle famiglie) e d’investimento. Quest’ultimo processo sarà un fattore d’instabilità dal momento che implicitamente trasformerà i risparmiatori in investitori che di fatto sono sottoposti al rischio di perdere i loro risparmi.
Non a caso già in questi anni le banche italiane cominciano a piazzare alla loro clientela certificati di deposito e obbligazioni proprie invece che titoli del debito pubblico. Questo drenaggio farà sì che la percentuale di titoli del debito pubblico distribuita tra i cittadini tenderà a diminuire mentre aumenterà quella in possesso delle stesse banche (soggetti che contrariamente ai piccoli risparmiatori considerano questi titoli merce di scambio come tutte le altre rendendo così il debito pubblico più precario).
Tuttavia nel 2007, se il processo di concentrazione porta i cinque maggiori gruppi bancari italiani ad avere più del 50% del mercato italiano, l’integrazione delle banche italiane nel sistema finanziario internazionale è ben lungi dall’aver raggiunto livelli considerati soddisfacenti dagli opinion makers che si sprecano nel criticare un sistema che si ostina a vivere ancora di intermediazione bancaria. Sarà questo relativo arretramento (e le conseguente minore esposizione delle banche italiane) ad evitare un eccessivo coinvolgimento del sistema bancario nella crisi dei subprime. Piuttosto a rendere difficile la vita alle banche italiane saranno le ripercussioni sull’economia reale che, indebolendo la solvibilità di imprese e famiglie, aumenteranno la quantità di crediti deteriorati nella pancia degli istituti italiani e renderà questi ultimi più selettivi nel venire incontro alla richiesta di prestiti e mutui. Questo genera un circolo vizioso che assieme alle politiche economiche austeritarie aggraverà la portata stessa della crisi.
La concentrazione del capitale bancario in Italia forse è andata più avanti di quella del capitale industriale per cui sarebbero le grandi banche a dover fare credito alle piccole e medie imprese, ma la raccolta delle informazioni relative a queste ultime è troppo complessa e costosa per cui il razionamento del credito diventa eccessivo. A questo punto saranno le restanti banche popolari o di credito cooperativo a venire incontro alle esigenze delle piccole e medie imprese soprattutto nel Nord-Est. Questa rafforzata alleanza avrà piena rappresentazione politica nel rilancio della Lega di Salvini che fa propria l’istanza delle comunità locali della parte più ricca del paese a difendersi in un Europa che mette spesso a repentaglio il loro stesso benessere. Il razionamento del credito trova giustificazione anche in una minore presunta tutela giuridica del creditore (rispetto ad altri paesi) che disincentiva le banche a prestare soldi.
Negli altri paesi infatti il maggiore controllo del creditore sul debitore consente al tempo stesso una maggiore disponibilità del creditore a fare un prestito (se il miserabile non scappa da sotto il tavolo il ricco epulone gli può concedere le briciole).
Il peso dei crediti deteriorati diminuirà la redditività delle banche e consentirà a queste una patrimonializzazione comunque inferiore alle altre banche europee. Il tentativo di recupero consisterà o nell’acquisto e incorporazione di altre banche o nella capitalizzazione attraverso il ricorso ai mercati finanziari e alla pletora dei clienti. Questi tentativi porteranno però anche ad esiti indesiderati: per il Gruppo Monte Paschi l’acquisto di Antonveneta in un quadro di crisi e di flessione degli asset sarà il classico passo più lungo della gamba e nel suo caso sarà lo Stato ad intervenire direttamente. Quella che però è più significativa è la vicenda delle quattro banche interessate da parentele interne allo stesso governo Renzi.
Qui assistiamo alla capitalizzazione degli istituti di credito tramite obbligazioni acquistate dalla clientela al dettaglio, obbligazioni subordinate che sono sequestrabili nel caso di fallimento della banca. Così il bail in europeo (modalità di risoluzione di una crisi bancaria che esclude il ricorso all’intervento dello Stato), in nome della libera concorrenza, trasforma (come abbiamo detto) i risparmiatori in investitori che si assumono un rischio nel momento stesso in cui versano i propri risparmi o acquistano azioni e obbligazioni bancarie. Il suicidio del pensionato correntista di Banca Etruria è l’effetto collaterale che denuncia la natura classista di queste politiche.
Ancora più grave è il processo d’incorporazione del debito pubblico da parte delle banche italiane. Avviato come si è visto negli anni Novanta, esso si è accelerato in quest’ultimo decennio. Nel 2009 il controvalore era di ben 220 mld di euro. Nel 2015 però era raddoppiato (445 mld di euro) giungendo a più del 20% dell’ammontare dell’intero debito pubblico. Un abbraccio mortale tra Stato e sistema bancario in cui apparentemente non si capisce chi sia il carnefice e chi la vittima. Si potrebbe dire anche che la politica economica di un governo potrebbe mettere in crisi il bilancio delle banche (ad es. in presenza di un aumento dello spread). Tuttavia si capisce che il sistema bancario se in prima istanza ha comprato questi titoli perché considerati sicuri sta in realtà esercitando il suo diritto di creditore e con questo diritto condiziona la politica economica italiana.
La presenza nel governo Monti del già amministratore delegato di Intesa San Paolo Corrado Passera è il modo con cui il creditore mette i piedi nel piatto e detta allo Stato italiano (assieme allo stesso Monti, delegato del capitale sovranazionale) cosa fare e cosa non fare.
Questo intreccio vischioso viene criticato in Germania per ragioni di competizione tra sistemi bancari e sistemi paese. La sua persistenza costituisce una relazione pericolosa che ci suggerisce che il tunnel del divertimento per l’Italia non è ancora finito.
Fonte
Non a caso già in questi anni le banche italiane cominciano a piazzare alla loro clientela certificati di deposito e obbligazioni proprie invece che titoli del debito pubblico. Questo drenaggio farà sì che la percentuale di titoli del debito pubblico distribuita tra i cittadini tenderà a diminuire mentre aumenterà quella in possesso delle stesse banche (soggetti che contrariamente ai piccoli risparmiatori considerano questi titoli merce di scambio come tutte le altre rendendo così il debito pubblico più precario).
Tuttavia nel 2007, se il processo di concentrazione porta i cinque maggiori gruppi bancari italiani ad avere più del 50% del mercato italiano, l’integrazione delle banche italiane nel sistema finanziario internazionale è ben lungi dall’aver raggiunto livelli considerati soddisfacenti dagli opinion makers che si sprecano nel criticare un sistema che si ostina a vivere ancora di intermediazione bancaria. Sarà questo relativo arretramento (e le conseguente minore esposizione delle banche italiane) ad evitare un eccessivo coinvolgimento del sistema bancario nella crisi dei subprime. Piuttosto a rendere difficile la vita alle banche italiane saranno le ripercussioni sull’economia reale che, indebolendo la solvibilità di imprese e famiglie, aumenteranno la quantità di crediti deteriorati nella pancia degli istituti italiani e renderà questi ultimi più selettivi nel venire incontro alla richiesta di prestiti e mutui. Questo genera un circolo vizioso che assieme alle politiche economiche austeritarie aggraverà la portata stessa della crisi.
La concentrazione del capitale bancario in Italia forse è andata più avanti di quella del capitale industriale per cui sarebbero le grandi banche a dover fare credito alle piccole e medie imprese, ma la raccolta delle informazioni relative a queste ultime è troppo complessa e costosa per cui il razionamento del credito diventa eccessivo. A questo punto saranno le restanti banche popolari o di credito cooperativo a venire incontro alle esigenze delle piccole e medie imprese soprattutto nel Nord-Est. Questa rafforzata alleanza avrà piena rappresentazione politica nel rilancio della Lega di Salvini che fa propria l’istanza delle comunità locali della parte più ricca del paese a difendersi in un Europa che mette spesso a repentaglio il loro stesso benessere. Il razionamento del credito trova giustificazione anche in una minore presunta tutela giuridica del creditore (rispetto ad altri paesi) che disincentiva le banche a prestare soldi.
Negli altri paesi infatti il maggiore controllo del creditore sul debitore consente al tempo stesso una maggiore disponibilità del creditore a fare un prestito (se il miserabile non scappa da sotto il tavolo il ricco epulone gli può concedere le briciole).
Il peso dei crediti deteriorati diminuirà la redditività delle banche e consentirà a queste una patrimonializzazione comunque inferiore alle altre banche europee. Il tentativo di recupero consisterà o nell’acquisto e incorporazione di altre banche o nella capitalizzazione attraverso il ricorso ai mercati finanziari e alla pletora dei clienti. Questi tentativi porteranno però anche ad esiti indesiderati: per il Gruppo Monte Paschi l’acquisto di Antonveneta in un quadro di crisi e di flessione degli asset sarà il classico passo più lungo della gamba e nel suo caso sarà lo Stato ad intervenire direttamente. Quella che però è più significativa è la vicenda delle quattro banche interessate da parentele interne allo stesso governo Renzi.
Qui assistiamo alla capitalizzazione degli istituti di credito tramite obbligazioni acquistate dalla clientela al dettaglio, obbligazioni subordinate che sono sequestrabili nel caso di fallimento della banca. Così il bail in europeo (modalità di risoluzione di una crisi bancaria che esclude il ricorso all’intervento dello Stato), in nome della libera concorrenza, trasforma (come abbiamo detto) i risparmiatori in investitori che si assumono un rischio nel momento stesso in cui versano i propri risparmi o acquistano azioni e obbligazioni bancarie. Il suicidio del pensionato correntista di Banca Etruria è l’effetto collaterale che denuncia la natura classista di queste politiche.
Ancora più grave è il processo d’incorporazione del debito pubblico da parte delle banche italiane. Avviato come si è visto negli anni Novanta, esso si è accelerato in quest’ultimo decennio. Nel 2009 il controvalore era di ben 220 mld di euro. Nel 2015 però era raddoppiato (445 mld di euro) giungendo a più del 20% dell’ammontare dell’intero debito pubblico. Un abbraccio mortale tra Stato e sistema bancario in cui apparentemente non si capisce chi sia il carnefice e chi la vittima. Si potrebbe dire anche che la politica economica di un governo potrebbe mettere in crisi il bilancio delle banche (ad es. in presenza di un aumento dello spread). Tuttavia si capisce che il sistema bancario se in prima istanza ha comprato questi titoli perché considerati sicuri sta in realtà esercitando il suo diritto di creditore e con questo diritto condiziona la politica economica italiana.
La presenza nel governo Monti del già amministratore delegato di Intesa San Paolo Corrado Passera è il modo con cui il creditore mette i piedi nel piatto e detta allo Stato italiano (assieme allo stesso Monti, delegato del capitale sovranazionale) cosa fare e cosa non fare.
Questo intreccio vischioso viene criticato in Germania per ragioni di competizione tra sistemi bancari e sistemi paese. La sua persistenza costituisce una relazione pericolosa che ci suggerisce che il tunnel del divertimento per l’Italia non è ancora finito.
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Caso Marrazzo, condannati quattro carabinieri. Altre mele marce da dimenticare il prima possibile
Quattro carabinieri condannati, per reati che vanno dalla concussione alla rapina: sono quelli coinvolti nell’ “affaire” Marrazzo, l’ennesima eccezione alla regola per quel che riguarda forme di devianza all’interno di apparati dello Stato italiano.
Ricordate la vicenda? L’allora governatore del Lazio sorpreso da quattro militari insieme ad una transessuale e poi ricattato. Una vicenda scabrosa e piena di strani retroscena, che ha avuto il suo esito giudiziario.
Dieci anni di reclusione per i carabinieri Nicola Testini e Carlo Tagliente, sei anni e mezzo a Luciano Simeone, tre anni ad Antonio Tamburrino.
Per Testini, Tagliente e Simeone è scattata anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; solo di cinque anni quella di Tamburrino. Tutti e quattro dovranno risarcire i ministeri dell’Interno e della Difesa.
La condanna è riferita ai reati di concorso in concussione e rapina; per Tamburrino anche quello di ricettazione.
Quattro criminali in divisa: questo dunque ha dichiarato il Tribunale. Non abbiamo dubbi, nei prossimi giorni leggeremo ed ascolteremo commenti ormai consueti. Ve ne anticipiamo addirittura un paio: “hanno disonorato la divisa che indossano”, “erano mele marce”.
Il che è vero, sia chiaro. Ma non è forse il caso che un numero così alto di “mele marce” faccia venire il dubbio che forse esiste un problema alle radici, tanto per proseguire con le metafore “vegetali”? In un paese normale sarebbe già avviato da tempo un confronto sul modello di selezione e formazione dei membri delle forze dell’ordine. Ma, ormai è chiaro, la normalità è qualcosa di molto distante da noi, purtroppo.
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Ricordate la vicenda? L’allora governatore del Lazio sorpreso da quattro militari insieme ad una transessuale e poi ricattato. Una vicenda scabrosa e piena di strani retroscena, che ha avuto il suo esito giudiziario.
Dieci anni di reclusione per i carabinieri Nicola Testini e Carlo Tagliente, sei anni e mezzo a Luciano Simeone, tre anni ad Antonio Tamburrino.
Per Testini, Tagliente e Simeone è scattata anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; solo di cinque anni quella di Tamburrino. Tutti e quattro dovranno risarcire i ministeri dell’Interno e della Difesa.
La condanna è riferita ai reati di concorso in concussione e rapina; per Tamburrino anche quello di ricettazione.
Quattro criminali in divisa: questo dunque ha dichiarato il Tribunale. Non abbiamo dubbi, nei prossimi giorni leggeremo ed ascolteremo commenti ormai consueti. Ve ne anticipiamo addirittura un paio: “hanno disonorato la divisa che indossano”, “erano mele marce”.
Il che è vero, sia chiaro. Ma non è forse il caso che un numero così alto di “mele marce” faccia venire il dubbio che forse esiste un problema alle radici, tanto per proseguire con le metafore “vegetali”? In un paese normale sarebbe già avviato da tempo un confronto sul modello di selezione e formazione dei membri delle forze dell’ordine. Ma, ormai è chiaro, la normalità è qualcosa di molto distante da noi, purtroppo.
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La scuola della competitività è un pericolo. L’unità studenti, insegnanti, lavoratori può sventarlo
Venerdì 30 novembre scenderanno in piazza studenti e lavoratori della scuola, i quali, pur partendo da piani vertenziali apparentemente diversi, hanno in comune un unico obiettivo politico: l’abolizione delle Legge 107/2015, la cosiddetta buona scuola. Ma le intenzioni comuni hanno anche una radice comune: lo sfruttamento sempre più sofisticato e articolato del lavoro.
La “campagna Basta Alternanza” ha individuato il punto centrale delle riforme europee tradotte dalla “Buona scuola”, ossia il completo asservimento della formazione alle esigenze del sistema produttivo attuale, sia dal punto di vista delle “competenze” (cioè le conoscenze piegate alle finalità del mercato) sia dal punto di vista della mentalità. Non è un caso che nella nozione di “competenza”, oltre al “sapere” e al “saper fare”, sia incluso il “saper essere”. L’“essere” in questione è l’essere per il mercato, ossia per il capitalismo odierno. In altre parole, non solo si deve sapere risolvere un problema che lo sviluppo capitalistico pone (“saper fare”), ma si deve anche volerlo risolvere, si deve accettarne le condizioni e le finalità (“saper essere”, appunto). Per sottrarre lo sfruttamento della “pratica” ai fini del mercato, gli studenti chiedono che essa venga “internalizzata”, ossia gestita dalla scuola, secondo criteri formativi democraticamente decisi dal mondo della scuola e tarata sui reali bisogni degli studenti (ci sarebbe molto da dire sulla nozione di “bisogni formativi” e su chi stabilisce quali essi siano).
Non è un caso che un altro obiettivo degli studenti sia l’abolizione delle prove Invalsi, ossia quel sistema di certificazione delle competenze su cui la scuola (docenti e studenti) non esercitano nessun controllo, le cui finalità non sono spesso conosciute alla stragrande maggioranza del popolo della scuola e su cui non si può dire nulla: aspettiamo, infatti, che qualcuno ci spieghi su quali basi si fondi la competenza linguistica che le prove invalsi intendono misurare. Chi decide che quella ricercata (e spessa imposta attraverso la didattica) dai sistemi di valutazione sia l’abilità linguistica tout court?
Ma non c’è solo questo ad essere preso di mira nella piattaforma studentesca: l’autonomia scolastica e la regionalizzazione delle scuole sono giustamente viste come strumenti di differenziazione che acuiscono in senso territoriale e sociale le divisioni di classe all’interno del sistema educativo nazionale, che sono funzionali alla competizione (già in ambito formativo) nel mercato del lavoro (mercato sempre più integrato a livello europeo).
L’USB ha accolto l’invito degli studenti rivolto ai sindacati di base e conflittuali ad appoggiare la loro lotta e ha indetto uno sciopero del comparto scuola.
Quest’appoggio ha un valore che va oltre la solidarietà rivendicativa (il punto centrale è sempre la Legge 107/2015, oltre agli altri punti rivendicativi che mirano a smantellare l’impianto di tutte le riforme scolastiche degli ultimi 25 anni), ma ha un duplice valore politico strategico: da una parte individua un obiettivo generale (le politiche europee sulla formazione) e dall’altra tenta di ricomporre, per finalità non “politiciste” (non si tratta di andare contro questo o quel governo), un fronte di lotta nel mondo della scuola che metta assieme lavoratori e studenti, avviando un necessario lavoro di ricostituzione del blocco sociale, sottraendolo al blocco economico-sociale regressivo e reazionario di questo paese, che sempre più si avvale del supporto militare (leggi “scuole sicure” e militarizzazione).
Altro bersaglio di questa lotta – va ricordato dopo l’ultima uscita di questo governo – dovrebbe essere il tentativo di abolire il valore legale del titolo di studio, che fa pendant con i tentativi di accelerare i processi competitivi messi in atto con l’autonomia scolastica, la regionalizzazione, il sistema dei crediti e la certificazione delle competenze.
Quale funzione dovrebbe avere l’abolizione del valore legale del titolo di studio? Lo spiegava un anno fa Michele Tiraboschi (ordinario di Diritto del lavoro Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico Scuola di alta formazione in Relazioni industriali e di lavoro di ADAPT, l’associazione no profit fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche di lavoro), in un articolo sul Sole 24 ore: «all’epoca della Quarta rivoluzione industriale, la competizione internazionale sarà sempre più una sfida tra i diversi sistemi educativi e della ricerca che saremo in grado di affrontare solo abbandonando la vecchia e falsa idea che il valore legale del titolo sia garanzia e presidio dell’ideale egualitario».
Qualcuno non lo ricorderà (o forse non lo sa proprio), ma il progetto di abolire il valore legale del titolo di studio era già scritto (intorno alla metà degli anni settanta) nel “Piano di rinascita democratica” (o della “Rinascita nazionale”, come viene anche spesso indicato) della loggia massonica P2 guidata da Licio Gelli. Sarà forse un caso che negli stessi anni un progetto simile – soprattutto per la flessibilizzazione del mercato del lavoro – era presente anche nel programma dei “Chicago Boys”, ossia dei giovani economisti formatisi all’Università di Chicago che furono i consiglieri economici del dittatore cileno Pinochet e pionieri del neoliberismo? A noi sembra proprio di no. Dal Cile di Pinochet al piano della P2 (totalmente applicato da tutti i governi della seconda repubblica), passando attraverso tutte le controriforme del lavoro (fino al Jobs Act) e fino al governo giallo-verde, la strada è quella: la flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, ossia il progetto neoliberista in tutte le sue varianti. L’Unione Europea sostiene questo progetto, nella misura in cui i titoli di studio dovranno contare sempre meno nel mercato europeo del lavoro, a favore della certificazione delle competenze, che possono essere certificate da enti non pubblici, come avviene in alcune parti degli USA dove esistono enti non statali definiti “fabbriche di titoli” (“diploma mill” o “degree mill”).
La cornice della competizione internazionale dà un giro di vite alla corsa competitiva nel mondo della formazione e del lavoro, che ormai sono legati in unico destino. E allora, l’alleanza tra lavoratori della scuola e gli studenti/futuri lavoratori ha una ragion d’essere in più per ritrovarsi in piazza il 30 novembre.
Fonte
La “campagna Basta Alternanza” ha individuato il punto centrale delle riforme europee tradotte dalla “Buona scuola”, ossia il completo asservimento della formazione alle esigenze del sistema produttivo attuale, sia dal punto di vista delle “competenze” (cioè le conoscenze piegate alle finalità del mercato) sia dal punto di vista della mentalità. Non è un caso che nella nozione di “competenza”, oltre al “sapere” e al “saper fare”, sia incluso il “saper essere”. L’“essere” in questione è l’essere per il mercato, ossia per il capitalismo odierno. In altre parole, non solo si deve sapere risolvere un problema che lo sviluppo capitalistico pone (“saper fare”), ma si deve anche volerlo risolvere, si deve accettarne le condizioni e le finalità (“saper essere”, appunto). Per sottrarre lo sfruttamento della “pratica” ai fini del mercato, gli studenti chiedono che essa venga “internalizzata”, ossia gestita dalla scuola, secondo criteri formativi democraticamente decisi dal mondo della scuola e tarata sui reali bisogni degli studenti (ci sarebbe molto da dire sulla nozione di “bisogni formativi” e su chi stabilisce quali essi siano).
Non è un caso che un altro obiettivo degli studenti sia l’abolizione delle prove Invalsi, ossia quel sistema di certificazione delle competenze su cui la scuola (docenti e studenti) non esercitano nessun controllo, le cui finalità non sono spesso conosciute alla stragrande maggioranza del popolo della scuola e su cui non si può dire nulla: aspettiamo, infatti, che qualcuno ci spieghi su quali basi si fondi la competenza linguistica che le prove invalsi intendono misurare. Chi decide che quella ricercata (e spessa imposta attraverso la didattica) dai sistemi di valutazione sia l’abilità linguistica tout court?
Ma non c’è solo questo ad essere preso di mira nella piattaforma studentesca: l’autonomia scolastica e la regionalizzazione delle scuole sono giustamente viste come strumenti di differenziazione che acuiscono in senso territoriale e sociale le divisioni di classe all’interno del sistema educativo nazionale, che sono funzionali alla competizione (già in ambito formativo) nel mercato del lavoro (mercato sempre più integrato a livello europeo).
L’USB ha accolto l’invito degli studenti rivolto ai sindacati di base e conflittuali ad appoggiare la loro lotta e ha indetto uno sciopero del comparto scuola.
Quest’appoggio ha un valore che va oltre la solidarietà rivendicativa (il punto centrale è sempre la Legge 107/2015, oltre agli altri punti rivendicativi che mirano a smantellare l’impianto di tutte le riforme scolastiche degli ultimi 25 anni), ma ha un duplice valore politico strategico: da una parte individua un obiettivo generale (le politiche europee sulla formazione) e dall’altra tenta di ricomporre, per finalità non “politiciste” (non si tratta di andare contro questo o quel governo), un fronte di lotta nel mondo della scuola che metta assieme lavoratori e studenti, avviando un necessario lavoro di ricostituzione del blocco sociale, sottraendolo al blocco economico-sociale regressivo e reazionario di questo paese, che sempre più si avvale del supporto militare (leggi “scuole sicure” e militarizzazione).
Altro bersaglio di questa lotta – va ricordato dopo l’ultima uscita di questo governo – dovrebbe essere il tentativo di abolire il valore legale del titolo di studio, che fa pendant con i tentativi di accelerare i processi competitivi messi in atto con l’autonomia scolastica, la regionalizzazione, il sistema dei crediti e la certificazione delle competenze.
Quale funzione dovrebbe avere l’abolizione del valore legale del titolo di studio? Lo spiegava un anno fa Michele Tiraboschi (ordinario di Diritto del lavoro Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico Scuola di alta formazione in Relazioni industriali e di lavoro di ADAPT, l’associazione no profit fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche di lavoro), in un articolo sul Sole 24 ore: «all’epoca della Quarta rivoluzione industriale, la competizione internazionale sarà sempre più una sfida tra i diversi sistemi educativi e della ricerca che saremo in grado di affrontare solo abbandonando la vecchia e falsa idea che il valore legale del titolo sia garanzia e presidio dell’ideale egualitario».
Qualcuno non lo ricorderà (o forse non lo sa proprio), ma il progetto di abolire il valore legale del titolo di studio era già scritto (intorno alla metà degli anni settanta) nel “Piano di rinascita democratica” (o della “Rinascita nazionale”, come viene anche spesso indicato) della loggia massonica P2 guidata da Licio Gelli. Sarà forse un caso che negli stessi anni un progetto simile – soprattutto per la flessibilizzazione del mercato del lavoro – era presente anche nel programma dei “Chicago Boys”, ossia dei giovani economisti formatisi all’Università di Chicago che furono i consiglieri economici del dittatore cileno Pinochet e pionieri del neoliberismo? A noi sembra proprio di no. Dal Cile di Pinochet al piano della P2 (totalmente applicato da tutti i governi della seconda repubblica), passando attraverso tutte le controriforme del lavoro (fino al Jobs Act) e fino al governo giallo-verde, la strada è quella: la flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, ossia il progetto neoliberista in tutte le sue varianti. L’Unione Europea sostiene questo progetto, nella misura in cui i titoli di studio dovranno contare sempre meno nel mercato europeo del lavoro, a favore della certificazione delle competenze, che possono essere certificate da enti non pubblici, come avviene in alcune parti degli USA dove esistono enti non statali definiti “fabbriche di titoli” (“diploma mill” o “degree mill”).
La cornice della competizione internazionale dà un giro di vite alla corsa competitiva nel mondo della formazione e del lavoro, che ormai sono legati in unico destino. E allora, l’alleanza tra lavoratori della scuola e gli studenti/futuri lavoratori ha una ragion d’essere in più per ritrovarsi in piazza il 30 novembre.
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Il “tradimento” degli intellettuali “progressisti”. Ieri sulla Fiat oggi sulla Tav
“Gli intellettuali se non hanno tradito, tradiranno” . Nelle file della sinistra popolare e di classe siamo cresciuti con questa stimmate nel cervello. In questo c’è molto la diffidenza storica di chi è di estrazione popolare verso i professoroni e in qualche modo “i ricchi”.
In modo più sofisticato, il filosofo francese Julien Benda scrisse sul “tradimento dei chierici”, un libro usato in modo ambivalente da detrattori e sostenitori. Eppure Benda scriveva negli anni Venti che: “I chierici qui in causa assicurano spesso che loro ce l’hanno solo con la democrazia “bacata”, com’essa si è dimostrata più volte nel corso di quest’ultimo cinquantennio, ma che sono tutti per una democrazia “pulita e onesta”. Non è vero niente, dato che la democrazia più pura costituisce, per il principio di uguaglianza civica insito in essa, la formale negazione di quella società gerarchizzata che essi vogliono”.
Questa diffidenza verso gli intellettuali, nell’epoca del “pensiero social”, è diventata ostilità vera e propria. Anzi è stata ridotta a macchietta diffondendo l’idea che su ogni argomento, anche quelli più complessi, una opinione valga l’altra, indifferentemente dai dati empirici che ne dimostrano l’aderenza o meno alla realtà. I social e l’habitat grillino hanno seminato questa mala pianta a piene mani.
Ma il tradimento degli intellettuali si ripresenta puntuale, soprattutto “di quelli che non ti aspetti” proprio perché, come diceva Julien Benna, sono schierati per la democrazia ma alla fine ne hanno una visione aderente ad una società comunque gerarchizzata, in cui loro, pur criticamente, non hanno l’incombenza di mescolarsi e convivere con il popolaccio: essi in fondo sono sempre e solo èlite.
Se poi il popolaccio entra in campo, e spesso lo fa in modo spurio, senza andare troppo per il sottile, concedendo qualcosa di troppo alle strumentalizzazioni dei più spregiudicati, gli intellettuali non esitano a schierarsi con chi assicura che lo statu quo non ne verrà stravolto, anche a costo di rimettere in discussione il suffragio universale. Non occorre arrivare all’economista Gambisa Moyo per sentirlo ripetere sempre più spesso anche in Italia.
La verifica sul tradimento o meno degli intellettuali avviene sempre ed infatti quando il gioco si fa duro, quando la posta in gioco attiene interessi materiali e non solo battaglia delle opinioni.
Questa contraddizione non è sfuggita ad uno storico come Angelo D’Orsi (una vita all’università di Torino ma con poche concessioni all’establishment). D’Orsi sottolinea infatti lo schieramento di una larga parte dell’intellettualità “progressista” con la manifestazione dei Si Tav di alcuni giorni fa a Torino. “Ha fatto specie davvero leggere, nel commento (sulla Stampa) di un osservatore serio come Vladimiro Zagrebelsky, l’elogio di quella piazza, che sarebbe stata formata da “cittadini con il senso del dovere” scrive D’Orsi nel suo commento.
Insomma, Gustavo Zagrebelski, illustre giurista, padre nobile delle cause “progressiste”, promotore del NO al referendum contro-costituzionale di Renzi nel 2016, editorialista di tutti i giornali del Gruppo Gedi (quello di La Repubblica e La Stampa), si è schierato oggi come fecero “come un sol uomo” esattamente gli stessi ambienti nell’ottobre del 1980: allora a fianco dei capetti della Fiat e della borghesia torinese cresciuta intorno alla Fiat e contro gli operai che avevano occupato la fabbrica. Oggi si schierano invece con il composito fronte di interessi a favore della Tav e contro il movimento No Tav.
Già questo sarebbe un motivo in più per riempire le strade e le piazza di Torino il prossimo 8 dicembre insieme al popolo No Tav e umiliare nei numeri e nei contenuti la manifestazione Si Tav dello scorso 10 novembre. Quella manifestazione di “cittadini con il senso del dovere”, come li definisce Zagrebelski, vedeva insieme padroni e sindacati ufficiali, fascisti, leghisti, Pd, Forza Italia, la n’drangheta calabrese infilatasi negli appalti e gli imprenditori preoccupati delle conseguenze del blocco di una grande opera che si è già rivelata più costosa, dannosa e inutile di quanto si potesse immaginare.
Anche in questo caso contano i dati empirici che il Movimento No Tav ha reso pubblici da anni, mai smentiti, se non in nome del completamento di un disastro annunciato e cominciato nonostante l’eroica resistenza popolare della Val di Susa.
Ma perché oggi Zagrebelski come l’intellettualità liberale e progressista nell’ottobre del 1980 sulla Fiat, si schierano con i padroni, con interessi speculativi e privati dichiarati, con la devastazione del territorio in nome di una imprecisa e imprecisabile “modernizzazione”? Anche nel 1980 la Fiat di Agnelli impugnò la clava della modernizzazione del sistema industriale e delle relazioni sindacali, per licenziare migliaia di operai e riscrivere completamente una fase della storia del movimento operaio in Italia.
Qualche giorno fa in una riunione un giovane attivista, niente affatto sprovveduto, ha sottolineato come sulla Tav a Torino, la borghesia fosse costretta a ricorrere ancora una volta alla mobilitazione popolare per sostenere i propri interessi. Uno sforzo che la borghesia milanese o bolognese non ha mai avuto bisogno di fare perché ha in mano tutte le carte del gioco: dal potere economico al consenso.
Il problema è forse che la borghesia torinese sente che, a differenza di quella milanese, sta declinando. L’essere cresciuta sistematicamente nella ciccia e negli interstizi della Fiat, una volta che la Fiat diventata Fca se ne sta andando dall’Italia (vedi la vendita di Magneti Marelli e ora di Comau), lascia dietro di sé poca roba decente e tante macerie. Non solo. Milano ha cercato anche di scippare a Torino il Salone del libro inventandosi la Fiera dell’Editoria. Ed infine i flussi del capitale umano qualificato se cercano un lavoro guardano a Milano e non certo a Torino. Quindi niente linfa vitale, neanche con l’immigrazione interna, come avvenne invece negli anni Cinquanta e Sessanta con l’emigrazione meridionale verso la città-fabbrica per eccellenza.
Anche su questo prendiamo a prestito il prof. D’Orsi quando scrive che per la borghesia torinese “l’illusione che il TAV possa interrompere quel declino è a dir poco patetica”.
L’8 dicembre a Torino dunque non si gioca solo una partita sui numeri della manifestazione No Tav come risposta a quella dei Si Tav. Per un verso si farà quello che andava fatto a Torino nell’Ottobre del 1980 per rispondere ed umiliare “la marcia dei quarantamila” reggicoda della Fiat: una manifestazione di centomila operai che avrebbe mandato un segnale chiaro e forte di interessi materiali in conflitto. Ma sia le direzioni sindacali che quelle politiche (lo stesso Berlinguer fu messo in minoranza nel Pci), per non parlare poi dei “chierici progressisti”, imposero la capitolazione degli operai Fiat per mandare un segnale doloroso a tutti i lavoratori.
Sostenere oggi il Movimento No Tav non significa solo materializzare una resistenza popolare contro una grande affare dannoso, costoso e inutile, significa materializzare un altro e diverso modello di sviluppo per questo paese. Fermando le grandi opere inutili, avviando quelle utili alla collettività e non ai prenditori privati, riportando sotto controllo pubblico le leve strategiche dello sviluppo economico.
Una bella sfida tra interessi materiali in conflitto.
Fonte
In modo più sofisticato, il filosofo francese Julien Benda scrisse sul “tradimento dei chierici”, un libro usato in modo ambivalente da detrattori e sostenitori. Eppure Benda scriveva negli anni Venti che: “I chierici qui in causa assicurano spesso che loro ce l’hanno solo con la democrazia “bacata”, com’essa si è dimostrata più volte nel corso di quest’ultimo cinquantennio, ma che sono tutti per una democrazia “pulita e onesta”. Non è vero niente, dato che la democrazia più pura costituisce, per il principio di uguaglianza civica insito in essa, la formale negazione di quella società gerarchizzata che essi vogliono”.
Questa diffidenza verso gli intellettuali, nell’epoca del “pensiero social”, è diventata ostilità vera e propria. Anzi è stata ridotta a macchietta diffondendo l’idea che su ogni argomento, anche quelli più complessi, una opinione valga l’altra, indifferentemente dai dati empirici che ne dimostrano l’aderenza o meno alla realtà. I social e l’habitat grillino hanno seminato questa mala pianta a piene mani.
Ma il tradimento degli intellettuali si ripresenta puntuale, soprattutto “di quelli che non ti aspetti” proprio perché, come diceva Julien Benna, sono schierati per la democrazia ma alla fine ne hanno una visione aderente ad una società comunque gerarchizzata, in cui loro, pur criticamente, non hanno l’incombenza di mescolarsi e convivere con il popolaccio: essi in fondo sono sempre e solo èlite.
Se poi il popolaccio entra in campo, e spesso lo fa in modo spurio, senza andare troppo per il sottile, concedendo qualcosa di troppo alle strumentalizzazioni dei più spregiudicati, gli intellettuali non esitano a schierarsi con chi assicura che lo statu quo non ne verrà stravolto, anche a costo di rimettere in discussione il suffragio universale. Non occorre arrivare all’economista Gambisa Moyo per sentirlo ripetere sempre più spesso anche in Italia.
La verifica sul tradimento o meno degli intellettuali avviene sempre ed infatti quando il gioco si fa duro, quando la posta in gioco attiene interessi materiali e non solo battaglia delle opinioni.
Questa contraddizione non è sfuggita ad uno storico come Angelo D’Orsi (una vita all’università di Torino ma con poche concessioni all’establishment). D’Orsi sottolinea infatti lo schieramento di una larga parte dell’intellettualità “progressista” con la manifestazione dei Si Tav di alcuni giorni fa a Torino. “Ha fatto specie davvero leggere, nel commento (sulla Stampa) di un osservatore serio come Vladimiro Zagrebelsky, l’elogio di quella piazza, che sarebbe stata formata da “cittadini con il senso del dovere” scrive D’Orsi nel suo commento.
Insomma, Gustavo Zagrebelski, illustre giurista, padre nobile delle cause “progressiste”, promotore del NO al referendum contro-costituzionale di Renzi nel 2016, editorialista di tutti i giornali del Gruppo Gedi (quello di La Repubblica e La Stampa), si è schierato oggi come fecero “come un sol uomo” esattamente gli stessi ambienti nell’ottobre del 1980: allora a fianco dei capetti della Fiat e della borghesia torinese cresciuta intorno alla Fiat e contro gli operai che avevano occupato la fabbrica. Oggi si schierano invece con il composito fronte di interessi a favore della Tav e contro il movimento No Tav.
Già questo sarebbe un motivo in più per riempire le strade e le piazza di Torino il prossimo 8 dicembre insieme al popolo No Tav e umiliare nei numeri e nei contenuti la manifestazione Si Tav dello scorso 10 novembre. Quella manifestazione di “cittadini con il senso del dovere”, come li definisce Zagrebelski, vedeva insieme padroni e sindacati ufficiali, fascisti, leghisti, Pd, Forza Italia, la n’drangheta calabrese infilatasi negli appalti e gli imprenditori preoccupati delle conseguenze del blocco di una grande opera che si è già rivelata più costosa, dannosa e inutile di quanto si potesse immaginare.
Anche in questo caso contano i dati empirici che il Movimento No Tav ha reso pubblici da anni, mai smentiti, se non in nome del completamento di un disastro annunciato e cominciato nonostante l’eroica resistenza popolare della Val di Susa.
Ma perché oggi Zagrebelski come l’intellettualità liberale e progressista nell’ottobre del 1980 sulla Fiat, si schierano con i padroni, con interessi speculativi e privati dichiarati, con la devastazione del territorio in nome di una imprecisa e imprecisabile “modernizzazione”? Anche nel 1980 la Fiat di Agnelli impugnò la clava della modernizzazione del sistema industriale e delle relazioni sindacali, per licenziare migliaia di operai e riscrivere completamente una fase della storia del movimento operaio in Italia.
Qualche giorno fa in una riunione un giovane attivista, niente affatto sprovveduto, ha sottolineato come sulla Tav a Torino, la borghesia fosse costretta a ricorrere ancora una volta alla mobilitazione popolare per sostenere i propri interessi. Uno sforzo che la borghesia milanese o bolognese non ha mai avuto bisogno di fare perché ha in mano tutte le carte del gioco: dal potere economico al consenso.
Il problema è forse che la borghesia torinese sente che, a differenza di quella milanese, sta declinando. L’essere cresciuta sistematicamente nella ciccia e negli interstizi della Fiat, una volta che la Fiat diventata Fca se ne sta andando dall’Italia (vedi la vendita di Magneti Marelli e ora di Comau), lascia dietro di sé poca roba decente e tante macerie. Non solo. Milano ha cercato anche di scippare a Torino il Salone del libro inventandosi la Fiera dell’Editoria. Ed infine i flussi del capitale umano qualificato se cercano un lavoro guardano a Milano e non certo a Torino. Quindi niente linfa vitale, neanche con l’immigrazione interna, come avvenne invece negli anni Cinquanta e Sessanta con l’emigrazione meridionale verso la città-fabbrica per eccellenza.
Anche su questo prendiamo a prestito il prof. D’Orsi quando scrive che per la borghesia torinese “l’illusione che il TAV possa interrompere quel declino è a dir poco patetica”.
L’8 dicembre a Torino dunque non si gioca solo una partita sui numeri della manifestazione No Tav come risposta a quella dei Si Tav. Per un verso si farà quello che andava fatto a Torino nell’Ottobre del 1980 per rispondere ed umiliare “la marcia dei quarantamila” reggicoda della Fiat: una manifestazione di centomila operai che avrebbe mandato un segnale chiaro e forte di interessi materiali in conflitto. Ma sia le direzioni sindacali che quelle politiche (lo stesso Berlinguer fu messo in minoranza nel Pci), per non parlare poi dei “chierici progressisti”, imposero la capitolazione degli operai Fiat per mandare un segnale doloroso a tutti i lavoratori.
Sostenere oggi il Movimento No Tav non significa solo materializzare una resistenza popolare contro una grande affare dannoso, costoso e inutile, significa materializzare un altro e diverso modello di sviluppo per questo paese. Fermando le grandi opere inutili, avviando quelle utili alla collettività e non ai prenditori privati, riportando sotto controllo pubblico le leve strategiche dello sviluppo economico.
Una bella sfida tra interessi materiali in conflitto.
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"Se vogliamo davvero cambiare il nostro destino, dobbiamo lottare nelle strade." Intervista al Comitè pour Adama
Abbiamo tradotto per InfoAut un'intervista a Youcef Brakni. Youcef, come riporta il portale Mizane.info da cui abbiamo ripreso l'intervista, è uno dei portavoce del Comité Adama, il quale chiama ad unirsi al movimento dei Gilet Jaunes il primo dicembre a Parigi. Una posizione che sempre per Mizane.info mette fine, a suo modo, al dibattito interno dei militanti dei quartieri, i quali hanno opinioni diverse su questo movimento sociale. Buona lettura.
Il Comité Adama fa appello per una convergenza di lotte con i Gilets Jaunes?
Non parliamo di convergenza di lotte ma piuttosto di un’alleanza. La convergenza, nel senso in cui è utilizzata, significa raggiungere un luogo e allearsi a qualcosa che già esiste. E’ questo il senso che utilizzavamo quando chiedevamo, durante gli anni, agli abitanti dei quartieri di convergere nelle loro lotte per unirsi alle organizzazioni di sinistra o ai movimenti sociali. La convergenza è vuota di senso e troppo connotata. Quello che diciamo al Comité Adama è: “Siamo alleati alla pari, poiché la questione dell’uguaglianza sarà al cuore di questa alleanza, prendiamo insieme dei colpi e li restituiamo, soprattutto insieme.
Il Comité Adama è in contatto con dei membri o dei responsabili dei Gilets Jaunes?
Alcuni Gilets Jaunes sostengono il Comité Adama. Benjamin Belaidi, a Compiègne, ne fa parte.
La questione dell’avvicinamento ai Gilet Jaunes divide i militanti dei quartieri. Pensate che sarebbe un errore, per gli abitanti dei quartieri, disertare questo tipo di mobilitazione sociale? O capite coloro che pensano che si tratti di due tipi di Francia differenti che non si possono incontrare?
Quello che conta è avere una linea chiara e non tradirsi. Non tradire i propri ideali politici. Per quanto riguarda la mobilitazione sociale, condividiamo tutti una precarietà e una disoccupazione endemica che può arrivare al 40% in alcuni quartieri. Condividiamo un sacco di cose a proposito della questione sociale la quale, molto spesso, è peggio per gli abitanti delle periferie. Non avere accesso al mercato del lavoro e vivere in edifici completamente insalubri degni del 19esimo secolo fanno della questione sociale una realtà molto più violenta per noi
A questo si aggiunge la questione del razzismo e dei crimini della polizia che sono specifici della nostra situazione e che è importante mettere in evidenza. Scenderemo in piazza sabato primo dicembre con i Gilet Jaunes perché combattiamo lo stesso nemico, senza negare le nostre specificità.
Chiederete ai Gilets Jaunes di includere altre parole d’ordine?
Non gli chiediamo niente, lo facciamo noi stessi. Cosa vuol dire essere un Gilet Jaune? E’ essere contro il carovita, le tasse e l’aumento della benzina. Non appartiene a nessuno questo movimento. Appartiene a tutti quelli che vivono nella miseria, che non arrivano alla fine del mese, che devono risparmiare per dare da mangiare alle loro famiglie, che a volte anche con un lavoro si ritrovano a dover dormire per strada. Anche noi siamo dei Gilets Jaunes, non chiediamo niente. Portiamo la nostra specificità e anche quella deve essere ascoltata.
Cosa pensate di certi episodi razzisti osservati?
Non dobbiamo lasciare lo spazio all’estrema destra. Bisogna essere seri. Incontriamo episodi razzisti anche nelle manifestazioni di sinistra. Ho sentito dei militanti di sinistra dirmi, durante una manifestazione per la Palestina: “Perché usi degli slogan in arabo?”. Non c’è bisogno di vedere i Gilets Jaunes per constatare questo tipo di comportamento razzista. Quando vedo dei militanti di sinistra indignarsi, mi viene da sorridere. Bisogna vedere come degli operai musulmani nelle fabbriche sono stati trattati dalla sinistra, che gli accusava di essere troppo chiusi nella loro comunità. Vengo da una città della Seine-Saint-Denis nella quale coloro che mi hanno sempre impedito di militare erano di sinistra. Non era la destra ma il partito comunista, i Verdi etc. La lotta riguardo ai centri Sonacotra era in delle città comuniste. In delle città di sinistra sono stati bloccati dei progetti di moschee . E’ un’ipocrisia. Ci sono dei comportamenti razzisti in alcune mobilitazioni dei Gilet Jaunes, ma non è la loro specificità: è il riflesso della società. Bisogna domandarsi quali sono le responsabilità che ne derivano. Quando un certo tipo di sinistra parla come l’estrema destra, questo diventa un problema
Questa critica può provenire anche dai militanti dei quartieri e non solo dai militanti di sinistra...
Si, perché a volte questo tipo di situazioni si riproducono per mimetismo, e questo è un peccato. Bisogna essere superiori e prendere distanza da questi soggetti. Non ho sentito delle critiche quando le stesse aggressioni si sono verificate nelle manifestazioni di sinistra. Non bisogna rimanere estranei a queste mobilitazioni. Bisogna essere sempre attori, essere l’iniziativa. E meglio bloccare i comportamenti razzisti all’inizio per evitare così che questo movimento diventi completamente razzista, in quel caso dovremmo batterci sia contro i Gilet Jaunes sia contro Macron! Bisogna dimostrare un’intelligenza strategica. Se vogliamo davvero cambiare il nostro destino in Francia e migliorare le nostre condizioni di vita, dobbiamo lottare socialmente nelle strade. Abbiamo tutti il nostro posto legittimo in questa mobilitazione. Bisogna esserci, Macron sta esagerando. L’impatto della sua politica sui quartieri popolari si moltiplicherà per dieci”
Questa mobilitazione alla quale invitate a partecipare il primo dicembre, avrà un valore di test politico per la partecipazione dei quartieri?
Il 13 ottobre, il Comité Adama organizzò una manifestazione in solo sette giorni contro menzogne della giustizia in materia di abusi in divisa. Quattromila persone si sono mobilitate. Dunque, abbiamo già dimostrato la nostra capacità di mobilitazione. Siamo fiduciosi. Coloro che ci seguono sanno che lottiamo per il bene comune. Saremo presenti il primo dicembre per un corteo degli cheminots (lavoratori delle ferrovie ndt) alla stazione Saint-Lazare alle 13 in direzione degli Champs-Elysées
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Il Comité Adama fa appello per una convergenza di lotte con i Gilets Jaunes?
Non parliamo di convergenza di lotte ma piuttosto di un’alleanza. La convergenza, nel senso in cui è utilizzata, significa raggiungere un luogo e allearsi a qualcosa che già esiste. E’ questo il senso che utilizzavamo quando chiedevamo, durante gli anni, agli abitanti dei quartieri di convergere nelle loro lotte per unirsi alle organizzazioni di sinistra o ai movimenti sociali. La convergenza è vuota di senso e troppo connotata. Quello che diciamo al Comité Adama è: “Siamo alleati alla pari, poiché la questione dell’uguaglianza sarà al cuore di questa alleanza, prendiamo insieme dei colpi e li restituiamo, soprattutto insieme.
Il Comité Adama è in contatto con dei membri o dei responsabili dei Gilets Jaunes?
Alcuni Gilets Jaunes sostengono il Comité Adama. Benjamin Belaidi, a Compiègne, ne fa parte.
La questione dell’avvicinamento ai Gilet Jaunes divide i militanti dei quartieri. Pensate che sarebbe un errore, per gli abitanti dei quartieri, disertare questo tipo di mobilitazione sociale? O capite coloro che pensano che si tratti di due tipi di Francia differenti che non si possono incontrare?
Quello che conta è avere una linea chiara e non tradirsi. Non tradire i propri ideali politici. Per quanto riguarda la mobilitazione sociale, condividiamo tutti una precarietà e una disoccupazione endemica che può arrivare al 40% in alcuni quartieri. Condividiamo un sacco di cose a proposito della questione sociale la quale, molto spesso, è peggio per gli abitanti delle periferie. Non avere accesso al mercato del lavoro e vivere in edifici completamente insalubri degni del 19esimo secolo fanno della questione sociale una realtà molto più violenta per noi
A questo si aggiunge la questione del razzismo e dei crimini della polizia che sono specifici della nostra situazione e che è importante mettere in evidenza. Scenderemo in piazza sabato primo dicembre con i Gilet Jaunes perché combattiamo lo stesso nemico, senza negare le nostre specificità.
Chiederete ai Gilets Jaunes di includere altre parole d’ordine?
Non gli chiediamo niente, lo facciamo noi stessi. Cosa vuol dire essere un Gilet Jaune? E’ essere contro il carovita, le tasse e l’aumento della benzina. Non appartiene a nessuno questo movimento. Appartiene a tutti quelli che vivono nella miseria, che non arrivano alla fine del mese, che devono risparmiare per dare da mangiare alle loro famiglie, che a volte anche con un lavoro si ritrovano a dover dormire per strada. Anche noi siamo dei Gilets Jaunes, non chiediamo niente. Portiamo la nostra specificità e anche quella deve essere ascoltata.
Cosa pensate di certi episodi razzisti osservati?
Non dobbiamo lasciare lo spazio all’estrema destra. Bisogna essere seri. Incontriamo episodi razzisti anche nelle manifestazioni di sinistra. Ho sentito dei militanti di sinistra dirmi, durante una manifestazione per la Palestina: “Perché usi degli slogan in arabo?”. Non c’è bisogno di vedere i Gilets Jaunes per constatare questo tipo di comportamento razzista. Quando vedo dei militanti di sinistra indignarsi, mi viene da sorridere. Bisogna vedere come degli operai musulmani nelle fabbriche sono stati trattati dalla sinistra, che gli accusava di essere troppo chiusi nella loro comunità. Vengo da una città della Seine-Saint-Denis nella quale coloro che mi hanno sempre impedito di militare erano di sinistra. Non era la destra ma il partito comunista, i Verdi etc. La lotta riguardo ai centri Sonacotra era in delle città comuniste. In delle città di sinistra sono stati bloccati dei progetti di moschee . E’ un’ipocrisia. Ci sono dei comportamenti razzisti in alcune mobilitazioni dei Gilet Jaunes, ma non è la loro specificità: è il riflesso della società. Bisogna domandarsi quali sono le responsabilità che ne derivano. Quando un certo tipo di sinistra parla come l’estrema destra, questo diventa un problema
Questa critica può provenire anche dai militanti dei quartieri e non solo dai militanti di sinistra...
Si, perché a volte questo tipo di situazioni si riproducono per mimetismo, e questo è un peccato. Bisogna essere superiori e prendere distanza da questi soggetti. Non ho sentito delle critiche quando le stesse aggressioni si sono verificate nelle manifestazioni di sinistra. Non bisogna rimanere estranei a queste mobilitazioni. Bisogna essere sempre attori, essere l’iniziativa. E meglio bloccare i comportamenti razzisti all’inizio per evitare così che questo movimento diventi completamente razzista, in quel caso dovremmo batterci sia contro i Gilet Jaunes sia contro Macron! Bisogna dimostrare un’intelligenza strategica. Se vogliamo davvero cambiare il nostro destino in Francia e migliorare le nostre condizioni di vita, dobbiamo lottare socialmente nelle strade. Abbiamo tutti il nostro posto legittimo in questa mobilitazione. Bisogna esserci, Macron sta esagerando. L’impatto della sua politica sui quartieri popolari si moltiplicherà per dieci”
Questa mobilitazione alla quale invitate a partecipare il primo dicembre, avrà un valore di test politico per la partecipazione dei quartieri?
Il 13 ottobre, il Comité Adama organizzò una manifestazione in solo sette giorni contro menzogne della giustizia in materia di abusi in divisa. Quattromila persone si sono mobilitate. Dunque, abbiamo già dimostrato la nostra capacità di mobilitazione. Siamo fiduciosi. Coloro che ci seguono sanno che lottiamo per il bene comune. Saremo presenti il primo dicembre per un corteo degli cheminots (lavoratori delle ferrovie ndt) alla stazione Saint-Lazare alle 13 in direzione degli Champs-Elysées
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L’Ucraina tra guerra civile e collasso economico
A cento anni dalla fine della Grande Guerra in Europa si continua a combattere, anche in trincea. La guerra civile ucraina, deflagrata tra il 2013 ed 2014 sull’onda delle mobilitazioni di Maidan e dell‘annessione della Crimea da parte di Mosca, ha assunto ormai da tempo le forme di una snervante guerra di posizione a bassa intensità. In Donbass, la regione del bacino carbonifero del Don, le forze di Kiev e gli insorti delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk continuano a fronteggiarsi lungo 450 chilometri di trincee dove si spara e si muore quasi quotidianamente. Secondo le Nazioni Unite quattro anni e mezzo di guerra civile sono costati complessivamente circa undicimila vittime – quasi 250 civili solo nel 2018 – un numero esponenziale di feriti e mutilati e circa un milione e mezzo di profughi.
Sin dal collasso sovietico si è palesato il tentativo dell’Occidente di estraniare dal senso comune degli ucraini la loro comunanza con i popoli slavi d’Oriente e con gli altri popoli del mondo ex-sovietico. L’intento si è rinnovato nei mesi scorsi con lo scisma della Chiesa Ortodossa ucraina – adesso autocefala – e con l’acuirsi delle misure volte a disincentivare nel paese l’utilizzo della lingua russa tutt’ora parlata da milioni di cittadini ucraini (Figura 1).
In questi provvedimenti, del tutto incompatibili con un paese multietnico e multinazionale come l’Ucraina, emerge ancora una volta la volontà di Kiev di vanificare le trattative internazionali e la disponibilità da parte del Cremlino di rendere possibile la federalizzazione – in seno all’Ucraina – delle regioni orientali insorte: una decisione, quella ucraina, volta chiaramente a proseguire la guerra contro le regioni orientali, da sempre poco propense ad identificarsi nel potere di Kiev (Figura 2).
Con l’arrivo dell’inverno, a causa degli aumenti delle tariffe pretesi dal Fondo Monetario Internazionale come conditio sine qua non per l’accesso ai prestiti, in aree diverse del paese circa un milione di ucraini stanno affrontando il gelo senza la possibilità, per i costi, di utilizzare acqua calda e riscaldamento con temperature minime ben al di sotto dello zero. Relativamente al problema energetico in cui si trova l’Ucraina il Fondo Monetario Internazionale prevede dunque un’ulteriore crescita dell’inflazione, dovuta all’impatto degli aumenti del prezzo del gas, mentre il Ministro dell’Energia degli Stati Uniti Rik Perry ha immediatamente rassicurato la popolazione ucraina, rinnovando l’invito rivolto ad acquistare carbone e gas liquefatto (LGN) made in USA per ovviare ai propri problemi energetici.
La situazione economica continua a rimanere assai problematica (Figura 3), in relazione alle spese militari, alla corruzione, alle ruberie oligarchiche ed ai massicci piani di privatizzazione delle aziende pubbliche (Figura 4). Relativamente all’affaire Donbass la guerra economica sembra il perno fondamentale della strategia attendista del Cremlino: quest’ultimo, pur avendo assicurato nel corso degli anni il proprio determinante sostegno agli insorti di Lugansk e Donetsk, sembra, da un lato, aver rinunciato definitivamente a forzare la mano sul piano militare, dall’altro, di voler derubricare la questione ucraina nell’agenda diplomatica internazionale senza tuttavia abbassare la guardia.
La mobilitazione permanente sul fronte del Donbass – dove si sono appena svolte le elezioni tra le fila degli insorti – produce dei costi enormi per i conti di Kiev, e per quelli dei sostenitori d’Occidente: sin dal 2014 il bilancio di Kiev ha visto tagli massicci alla spesa sociale mossi sia dalle direttive del Fondo Monetario Internazionale sia dalla volontà del governo ucraino di mantenere vivo il conflitto del Donbass.
Nonostante la situazione disastrosa in cui versa il paese e l’evidente impossibilità di poter riconquistare la Crimea ed il Donbass, Kiev insiste nel rivendicarne la propria titolarità assoluta ed indiscutibile andando così a compromettere l’efficacia di ogni genere di compromesso.
In relazione all’oltranzismo ucraino, durante lo scorso ottobre il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha posto la propria firma su un pacchetto di controsanzioni economiche rivolte contro Kiev. Le misure previste dal pacchetto colpiscono 68 aziende e circa 320 cittadini ucraini: tra i nomi presenti nella lista spiccano quelli dell’ex primo ministro Yatseniuk, dell’ex capo della formazione neofascista Pravy Sektor Yarosh, del Ministro dell’Interno Avakov, di Julia Timoshenko e di molti altri funzionari governativi.
Nonostante il sostegno dell’Occidente alla presidenza di Poroshenko, è verosimile che le controsanzioni provenienti da Mosca infliggano un colpo assai duro alla già precaria situazione ucraina (Figura 5).
La rapida deindustrializzazione del paese ha portato con sé effetti nefasti per il suo sistema economico: nel 2017 secondo il Ministro degli Esteri Pavel Klimkin gli ucraini emigrati nello spazio dell’Unione Europea – certamente favoriti dall’abolizione del visto di accesso per chi detiene un passaporto ucraino – sono stati oltre un milione. Negli ultimi mesi si sono svolte numerose proteste di minatori e dipendenti pubblici mosse dai gravi ritardi nei pagamenti degli stipendi. In questo quadro, il recente incontro tra la cancelliera Angela Merkel ed il primo ministro ucraino Volodymyr Groisman ha offerto l’ennesima conferma della prominenza tedesca nel processo di assorbimento del sistema industriale ucraino: le innumerevoli privatizzazioni previste in Ucraina dai piani del Fondo Monetario Internazionale sembrano infatti coincidere con un significativo rafforzamento della proiezione orientale dell’industria tedesca.
Malgrado la stanchezza di milioni di cittadini, nelle dinamiche interne la cpostante mobilitazione della società ucraina verso lo sforzo bellico continua a costituire il principale elemento di legittimazione e consenso politico. Senza quello della guerra, infatti, ben pochi sarebbero gli argomenti con cui Poroshenko – ed il governo Groisman – riuscirebbero a legittimarsi e guadagnarsi l’appoggio delle organizzazioni paramilitari apertamente neofasciste come “Corpo Nazionale”, “C-14”, “Svoboda”, “Karpatchka Sich”, “Pravij Sektor” .
In parallelo, se la violenza politica perpetrata da questi nei confronti di ogni dissenso si è rivelata assai proficua per Poroshenko ed affiliati, il fatto di aver permesso alle organizzazioni neofasciste di operare impunemente ha enormemente rafforzato queste ultime, facendo crescere in modo esponenziale il loro potere militare e politico. Con assidua frequenza si sono registrati attacchi ad opera dei gruppi neofascisti contro gli oppositori politici, contro le minoranze ebraiche, rom e contro le persone con un orientamento sessuale non "tradizionale".
Le organizzazioni paramilitari neofasciste sono oggi giuridicamente parte dell’apparato ucraino, che sta perdendo il monopolio della violenza. Il potere militare consente ai neofascisti di gestire insieme alla criminalità organizzata il contrabbando, il traffico d’armi e quello di stupefacenti. Il proliferare di gruppi, bande e milizie – spesso alle dirette dipendenze degli oligarchi locali – rischia di trascinare il paese verso una nuova fase della guerra civile.
Lo scorso ottobre nella regione di Chernigov – circa 150 chilometri a nord di Kiev – si sono nuovamente liberate fiamme ed esplosioni in un deposito di munizioni: le proporzioni dell’incendio che queste hanno prodotto hanno reso necessario sia la chiusura dello spazio aereo sia il blocco del traffico stradale e ferroviario nel raggio di trenta chilometri nonché l’evacuazione di circa dodicimila persone.
L’incidente è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi analoghi verificatisi a partire dal 2014. Sebbene non sia da escludere un sabotaggio, l’ipotesi più probabile è che incendi di questo genere nasconderebbero il traffico di armi, esplosivi e munizioni in cui sarebbero coinvolti alcuni ufficiali dell’esercito ucraino. In entrambi i casi, questi fatti evidenziano una situazione assai preoccupante per l’esercito ucraino. Secondo il procuratore militare Anatolij Matios, dall’inizio delle operazioni militari sul fronte del Donbass tra le forze armate di Kiev si sono registrati almeno 2700 morti in situazioni non connesse al combattimento: 615 suicidi, 891 morti in relazioni a motivi sanitari, 318 incidenti stradali, 175 avvelenamenti da alcool o stupefacenti, 177 incidenti, 172 morti connessi all’imperizia nell’uso delle armi e degli esplosivi, 101 morti connessi alla mancata osservanza delle norme di sicurezza e 228 omicidi: numeri che evidenziano una situazione assai complicata tra le fila delle forze armate ucraine nel quadro di una guerra che molti soldati sono, sin dal 2014, poco inclini a voler combattere.
Intanto l’agognato ingresso dell’Ucraina nelle fila dell’Alleanza Atlantica continua a procedere con difficoltà per la posizione dell’Ungheria, assai determinata a tutelare dalla spinta ultranazionalista di Kiev la minoranza magiara che vive nelle zone occidentali dell’Ucraina. Nonostante il dialogo tra Mosca e Washington, la presidenza Trump ha autorizzato per la prima volta una fornitura di armi alle forze armate di Kiev, la quale tuttavia sembra avere più un valore simbolico che una rilevanza concreta sul piano militare. In Ucraina continuano invece a svolgersi sistematicamente esercitazioni congiunte tra le forze armate locali e l’esercito statunitense: le manovre sembrano volte più a mettere alla prova i nervi della Federazione Russa – specie sul Mare d’Azov e sul resto della costa del Mar Nero – che a migliorare l’operatività militare congiunta di Kiev e di Washington.
Con il casus belli consumatosi il 25 novembre tra lo stretto di Kerch ed il Mare d’Azov dopo un’evidente provocazione ucraina, il presidente Poroshenko ha immediatamente firmato un decreto per l’istituzione della legge marziale, prontamente ratificato dal parlamento. Pur avendo chiamato alla mobilitazione generale, Poroshenko si è affrettato a specificare di non voler la guerra con Mosca. Con la legge marziale – attualmente in vigore in dieci regioni del paese per trenta giorni e rinnovabile (evidenziate in rosso nell’immagine) – Poroshenko avrà la possibilità di sigillare le frontiere, di censurare completamente i media, di istituire il coprifuoco, di obbligare al lavoro gratuito i lavoratori delle aziende strategiche, di vietare ogni sciopero, manifestazione o presidio di protesta, di liquidare ogni compagine politica a lui potenzialmente ostile e di sospendere referendum ed elezioni – previste per il marzo del 2019 – dalle quali uscirebbe quasi certamente sconfitto.
Non sorprende rilevare che tra la popolazione di molte delle regioni interessate dal provvedimento la russofonia è largamente diffusa, così come un senso comune lontano dall’Occidente: non a caso in molte di queste regioni si registrano i picchi minimi di consenso per l’attuale compagine presidenziale. Intanto, secondo alcune indiscrezioni, consapevole della probabile – se non certa – sconfitta elettorale, Poroshenko starebbe addirittura liquidando beni ed aziende di proprietà per preparare la propria fuga dall’Ucraina.
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Sin dal collasso sovietico si è palesato il tentativo dell’Occidente di estraniare dal senso comune degli ucraini la loro comunanza con i popoli slavi d’Oriente e con gli altri popoli del mondo ex-sovietico. L’intento si è rinnovato nei mesi scorsi con lo scisma della Chiesa Ortodossa ucraina – adesso autocefala – e con l’acuirsi delle misure volte a disincentivare nel paese l’utilizzo della lingua russa tutt’ora parlata da milioni di cittadini ucraini (Figura 1).
In questi provvedimenti, del tutto incompatibili con un paese multietnico e multinazionale come l’Ucraina, emerge ancora una volta la volontà di Kiev di vanificare le trattative internazionali e la disponibilità da parte del Cremlino di rendere possibile la federalizzazione – in seno all’Ucraina – delle regioni orientali insorte: una decisione, quella ucraina, volta chiaramente a proseguire la guerra contro le regioni orientali, da sempre poco propense ad identificarsi nel potere di Kiev (Figura 2).
Con l’arrivo dell’inverno, a causa degli aumenti delle tariffe pretesi dal Fondo Monetario Internazionale come conditio sine qua non per l’accesso ai prestiti, in aree diverse del paese circa un milione di ucraini stanno affrontando il gelo senza la possibilità, per i costi, di utilizzare acqua calda e riscaldamento con temperature minime ben al di sotto dello zero. Relativamente al problema energetico in cui si trova l’Ucraina il Fondo Monetario Internazionale prevede dunque un’ulteriore crescita dell’inflazione, dovuta all’impatto degli aumenti del prezzo del gas, mentre il Ministro dell’Energia degli Stati Uniti Rik Perry ha immediatamente rassicurato la popolazione ucraina, rinnovando l’invito rivolto ad acquistare carbone e gas liquefatto (LGN) made in USA per ovviare ai propri problemi energetici.
La situazione economica continua a rimanere assai problematica (Figura 3), in relazione alle spese militari, alla corruzione, alle ruberie oligarchiche ed ai massicci piani di privatizzazione delle aziende pubbliche (Figura 4). Relativamente all’affaire Donbass la guerra economica sembra il perno fondamentale della strategia attendista del Cremlino: quest’ultimo, pur avendo assicurato nel corso degli anni il proprio determinante sostegno agli insorti di Lugansk e Donetsk, sembra, da un lato, aver rinunciato definitivamente a forzare la mano sul piano militare, dall’altro, di voler derubricare la questione ucraina nell’agenda diplomatica internazionale senza tuttavia abbassare la guardia.
La mobilitazione permanente sul fronte del Donbass – dove si sono appena svolte le elezioni tra le fila degli insorti – produce dei costi enormi per i conti di Kiev, e per quelli dei sostenitori d’Occidente: sin dal 2014 il bilancio di Kiev ha visto tagli massicci alla spesa sociale mossi sia dalle direttive del Fondo Monetario Internazionale sia dalla volontà del governo ucraino di mantenere vivo il conflitto del Donbass.
Nonostante la situazione disastrosa in cui versa il paese e l’evidente impossibilità di poter riconquistare la Crimea ed il Donbass, Kiev insiste nel rivendicarne la propria titolarità assoluta ed indiscutibile andando così a compromettere l’efficacia di ogni genere di compromesso.
In relazione all’oltranzismo ucraino, durante lo scorso ottobre il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha posto la propria firma su un pacchetto di controsanzioni economiche rivolte contro Kiev. Le misure previste dal pacchetto colpiscono 68 aziende e circa 320 cittadini ucraini: tra i nomi presenti nella lista spiccano quelli dell’ex primo ministro Yatseniuk, dell’ex capo della formazione neofascista Pravy Sektor Yarosh, del Ministro dell’Interno Avakov, di Julia Timoshenko e di molti altri funzionari governativi.
Nonostante il sostegno dell’Occidente alla presidenza di Poroshenko, è verosimile che le controsanzioni provenienti da Mosca infliggano un colpo assai duro alla già precaria situazione ucraina (Figura 5).
La rapida deindustrializzazione del paese ha portato con sé effetti nefasti per il suo sistema economico: nel 2017 secondo il Ministro degli Esteri Pavel Klimkin gli ucraini emigrati nello spazio dell’Unione Europea – certamente favoriti dall’abolizione del visto di accesso per chi detiene un passaporto ucraino – sono stati oltre un milione. Negli ultimi mesi si sono svolte numerose proteste di minatori e dipendenti pubblici mosse dai gravi ritardi nei pagamenti degli stipendi. In questo quadro, il recente incontro tra la cancelliera Angela Merkel ed il primo ministro ucraino Volodymyr Groisman ha offerto l’ennesima conferma della prominenza tedesca nel processo di assorbimento del sistema industriale ucraino: le innumerevoli privatizzazioni previste in Ucraina dai piani del Fondo Monetario Internazionale sembrano infatti coincidere con un significativo rafforzamento della proiezione orientale dell’industria tedesca.
Malgrado la stanchezza di milioni di cittadini, nelle dinamiche interne la cpostante mobilitazione della società ucraina verso lo sforzo bellico continua a costituire il principale elemento di legittimazione e consenso politico. Senza quello della guerra, infatti, ben pochi sarebbero gli argomenti con cui Poroshenko – ed il governo Groisman – riuscirebbero a legittimarsi e guadagnarsi l’appoggio delle organizzazioni paramilitari apertamente neofasciste come “Corpo Nazionale”, “C-14”, “Svoboda”, “Karpatchka Sich”, “Pravij Sektor” .
In parallelo, se la violenza politica perpetrata da questi nei confronti di ogni dissenso si è rivelata assai proficua per Poroshenko ed affiliati, il fatto di aver permesso alle organizzazioni neofasciste di operare impunemente ha enormemente rafforzato queste ultime, facendo crescere in modo esponenziale il loro potere militare e politico. Con assidua frequenza si sono registrati attacchi ad opera dei gruppi neofascisti contro gli oppositori politici, contro le minoranze ebraiche, rom e contro le persone con un orientamento sessuale non "tradizionale".
Le organizzazioni paramilitari neofasciste sono oggi giuridicamente parte dell’apparato ucraino, che sta perdendo il monopolio della violenza. Il potere militare consente ai neofascisti di gestire insieme alla criminalità organizzata il contrabbando, il traffico d’armi e quello di stupefacenti. Il proliferare di gruppi, bande e milizie – spesso alle dirette dipendenze degli oligarchi locali – rischia di trascinare il paese verso una nuova fase della guerra civile.
Lo scorso ottobre nella regione di Chernigov – circa 150 chilometri a nord di Kiev – si sono nuovamente liberate fiamme ed esplosioni in un deposito di munizioni: le proporzioni dell’incendio che queste hanno prodotto hanno reso necessario sia la chiusura dello spazio aereo sia il blocco del traffico stradale e ferroviario nel raggio di trenta chilometri nonché l’evacuazione di circa dodicimila persone.
L’incidente è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi analoghi verificatisi a partire dal 2014. Sebbene non sia da escludere un sabotaggio, l’ipotesi più probabile è che incendi di questo genere nasconderebbero il traffico di armi, esplosivi e munizioni in cui sarebbero coinvolti alcuni ufficiali dell’esercito ucraino. In entrambi i casi, questi fatti evidenziano una situazione assai preoccupante per l’esercito ucraino. Secondo il procuratore militare Anatolij Matios, dall’inizio delle operazioni militari sul fronte del Donbass tra le forze armate di Kiev si sono registrati almeno 2700 morti in situazioni non connesse al combattimento: 615 suicidi, 891 morti in relazioni a motivi sanitari, 318 incidenti stradali, 175 avvelenamenti da alcool o stupefacenti, 177 incidenti, 172 morti connessi all’imperizia nell’uso delle armi e degli esplosivi, 101 morti connessi alla mancata osservanza delle norme di sicurezza e 228 omicidi: numeri che evidenziano una situazione assai complicata tra le fila delle forze armate ucraine nel quadro di una guerra che molti soldati sono, sin dal 2014, poco inclini a voler combattere.
Intanto l’agognato ingresso dell’Ucraina nelle fila dell’Alleanza Atlantica continua a procedere con difficoltà per la posizione dell’Ungheria, assai determinata a tutelare dalla spinta ultranazionalista di Kiev la minoranza magiara che vive nelle zone occidentali dell’Ucraina. Nonostante il dialogo tra Mosca e Washington, la presidenza Trump ha autorizzato per la prima volta una fornitura di armi alle forze armate di Kiev, la quale tuttavia sembra avere più un valore simbolico che una rilevanza concreta sul piano militare. In Ucraina continuano invece a svolgersi sistematicamente esercitazioni congiunte tra le forze armate locali e l’esercito statunitense: le manovre sembrano volte più a mettere alla prova i nervi della Federazione Russa – specie sul Mare d’Azov e sul resto della costa del Mar Nero – che a migliorare l’operatività militare congiunta di Kiev e di Washington.
Con il casus belli consumatosi il 25 novembre tra lo stretto di Kerch ed il Mare d’Azov dopo un’evidente provocazione ucraina, il presidente Poroshenko ha immediatamente firmato un decreto per l’istituzione della legge marziale, prontamente ratificato dal parlamento. Pur avendo chiamato alla mobilitazione generale, Poroshenko si è affrettato a specificare di non voler la guerra con Mosca. Con la legge marziale – attualmente in vigore in dieci regioni del paese per trenta giorni e rinnovabile (evidenziate in rosso nell’immagine) – Poroshenko avrà la possibilità di sigillare le frontiere, di censurare completamente i media, di istituire il coprifuoco, di obbligare al lavoro gratuito i lavoratori delle aziende strategiche, di vietare ogni sciopero, manifestazione o presidio di protesta, di liquidare ogni compagine politica a lui potenzialmente ostile e di sospendere referendum ed elezioni – previste per il marzo del 2019 – dalle quali uscirebbe quasi certamente sconfitto.
Non sorprende rilevare che tra la popolazione di molte delle regioni interessate dal provvedimento la russofonia è largamente diffusa, così come un senso comune lontano dall’Occidente: non a caso in molte di queste regioni si registrano i picchi minimi di consenso per l’attuale compagine presidenziale. Intanto, secondo alcune indiscrezioni, consapevole della probabile – se non certa – sconfitta elettorale, Poroshenko starebbe addirittura liquidando beni ed aziende di proprietà per preparare la propria fuga dall’Ucraina.
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