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22/12/2024

USA - Migliaia di lavoratori boicottano il natale di Amazon entrando in sciopero

Uno dei sindacati più potenti d’America, Teamsters, che conta quasi 2 milioni di lavoratori nelle proprie fila, ha indetto uno sciopero di protesta contro Amazon, con l’obiettivo di fare pressione sul gigante della tecnologia proprio nel pieno del periodo del commercio natalizio. Dalla mattina di ieri, 19 dicembre, almeno 7 strutture di Amazon vedono in sciopero i magazzinieri e gli autisti, che chiedono un compenso più alto e l’accettazione di un contratto collettivo negoziato con il sindacato. Teamsters ha dichiarato che questo rappresenta il più grande sciopero che Amazon deve affrontare negli Stati Uniti. Dal canto suo, il gigante tecnologico non riconosce la validità dello sciopero e dell’affiliazione sindacale a Teamsters. Addirittura, Amazon non riconosce i lavoratori in sciopero come propri lavoratori, nonostante essi portino giubbotti dell’azienda e guidino furgoni con il suo logo.

Sono circa 10.000 lavoratori di Amazon (delle filiali DBK4 di New York City, DGT8 di Atlanta, DFX4, DAX5 e DAX8 della California meridionale, DCK6 di San Francisco e DIL7 di Skokie, Illinois) in sciopero per protestare contro il rifiuto di Amazon di iniziare colloqui per la stipula di un contratto collettivo e l’aumento del proprio compenso di 1,50 dollari, arrivando così a 22 dollari all’ora. La scadenza per l’inizio dei negoziati tra il sindacato e l’azienda era fissata al 15 dicembre, ma Amazon non ha mosso foglia. I sindacati locali dei camionisti hanno comunicato che metteranno in atto picchetti primari in centinaia di centri logistici Amazon a livello nazionale, con la possibilità quindi che si moltiplichi il numero di lavoratori in sciopero. «Se il tuo pacco è in ritardo durante le vacanze, puoi incolpare l’insaziabile avidità di Amazon. Abbiamo dato ad Amazon una scadenza chiara per sedersi al tavolo e fare la cosa giusta per i nostri membri. L’hanno ignorato. Questi avidi dirigenti hanno avuto tutte le possibilità di mostrare decenza e rispetto per le persone che rendono possibili i loro osceni profitti. Invece, hanno spinto i lavoratori al limite e ora ne stanno pagando il prezzo. Questo sciopero è su di loro», ha detto il presidente generale dei Teamsters, Sean M. O’Brien.

Il sindacato ha sottolineato i profitti di Amazon, i quali sono aumentati vertiginosamente soprattutto negli ultimi anni. Amazon ha registrato un utile netto di 39,2 miliardi di dollari nei primi nove mesi di quest’anno, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2023, con un fatturato che quest’anno supera i 450 miliardi di dollari. Eppure, la stessa azienda non solo si rifiuta di riconoscere compensi più alti, ma anche di legittimare la rappresentanza sindacale all’interno dei propri stabilimenti. Il sindacato Amazon (ALU) ha acquisito circa 10.000 lavoratori in 10 strutture negli Stati Uniti negli ultimi due anni. A giugno, l’ALU ha votato per affiliarsi ai Teamsters ma Amazon, nonostante il riconoscimento del National Labor Relations Board che ne ha certificato l’elezione e la sindacalizzazione, si rifiuta di riconoscerla e di contrattare un contratto collettivo. L’azienda non è d’altronde nuova a tali pratiche. Nell’aprile 2022, un sindacato emergente, l’Amazon Labor Union, ha vinto alle votazioni dello stabilimento Amazon di Staten Island, New York, ma l’azienda continua a combattere i risultati di quelle elezioni attraverso appelli in tribunale.

Nell’ultimo anno gli Stati Uniti sono stati travolti da grandi ondate di scioperi e azioni sindacali come non se ne erano mai visti. D’altronde va detto che gli USA sono tra i Paesi meno sindacalizzati al mondo, quantomeno in quello occidentale. Le azioni sindacali hanno accelerato in tutto il settore dei servizi dopo un periodo in cui i lavoratori dell’industria automobilistica, aerospaziale, ferroviaria e portuale hanno ottenuto concessioni sostanziali dai datori di lavoro.

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La tendenza alla guerra sta accelerando?

Nelle ultime due settimane nel mondo è successo di tutto.

Una volta, anni fa, Papa Bergoglio ebbe a dire che eravamo già nella Terza Guerra Mondiale, però “a pezzi”.

Non sono un credente e tuttavia non mi sfugge che i papi di solito sono bene informati sui fatti che accadono e non dicono certe cose a caso.

Mai come ai tempi nostri la guerra ha assunto aspetti molteplici e si gioca su ambiti assai svariati: dalle guerre commerciali – a suon di sanzioni o dazi – a quelle diplomatiche, a quelle mediatiche, ai colpi di Stato, nella forma classica o nella versione più moderna delle “rivoluzioni colorate”.

Poi purtroppo ci sono anche quelle militari.

Nello spazio di una decina di giorni abbiamo avuto un tentativo fallito di colpo di Stato nella Corea del Sud da parte del presidente Yoon. Poi un altro quasi colpo di Stato – con esiti ancora da vedere – in Georgia, dove la presidente uscita sconfitta alle ultime elezioni, Zourabichvili non ne riconosce la validità e non intende dimettersi per far posto al vincitore di Sogno Georgiano, Mikheil Kavelashvili, scatenando delle rivolte di piazza. Un terzo c’è stato in Romania – sì nell’Europa democratica – in cui la Corte annulla la prima tornata elettorale, perché “forse condizionata da influenze russe” (sic!).

In Francia assistiamo inoltre alla caduta del Governo Barnier, peraltro in carica da pochi mesi, con Macron che, nonostante abbia perso notevoli consensi, non intende dimettersi. Ciò fa il paio con la caduta, accaduta solo un mese fa, del Governo Scholz in Germania. Un vero e proprio terremoto politico, prodotto di una forte crisi economica che sta imperversando in entrambi i paesi, che da sempre costituiscono il nucleo centrale dell’Unione Europea.

Ma l’evento più eclatante e imprevisto, almeno dai più, è stato sicuramente la fulminea invasione della Siria da parte di formazioni terroriste, le quali nel giro di solo una settimana sono riuscite incredibilmente a conquistare una città dopo l’altra, fino ad arrivare alla capitale Damasco, facendo cadere il Governo di Assad, il quale pure era riuscito a resistere a ben sette anni di guerra civile.

Non mi addentro in un’analisi approfondita su ciò che è accaduto e che sta accadendo in Siria, dal momento che lì le vicende sono oltremodo complesse e ci mancano numerose informazioni.

E infatti rispetto agli eventi in Siria rimangono non poche incognite e domande. La prima e significativa riguarda il motivo per cui l’esercito siriano ha, di fatto, rinunciato a difendere il paese, lasciando che le formazioni jihadiste dilagassero, senza contrastarle in modo adeguato. Tra l’altro sembra che non erano mancate segnalazioni dei rischi da parte di paesi alleati o comunque vicini a Damasco, però queste sembra siano state bellamente ignorate.

In attesa che gli eventi in Siria si sviluppino e che si capisca meglio dove si andrà a parare, quello che però al momento appare evidente è che a rafforzarsi sono stati senza dubbio Israele e gli USA, che da sempre osteggiavano il governo siriano e il partito di Baath. Tra l’altro Tel Aviv sta invadendo una parte della Siria vicino alle alture del Golan, senza che il nuovo governo di Jolani abbia nulla da ridire.

Anche la Turchia è uscita chiaramente vincitrice dagli eventi e si sta rafforzando notevolmente nel nord del paese.

Viceversa, chi si è chiaramente indebolito è Hezbollah, che d’ora in poi non potrà più contare sul corridoio siriano per gli aiuti da parte dell’Iran.

Anche la causa palestinese nel complesso si è palesemente indebolita, nonostante i festeggiamenti di Hamas.

Non è affatto chiaro, invece, come ne sono uscite fuori la Russia e l’Iran. Per il momento non sembra che le due basi russe nel paese siano a rischio. Poi, certo, Mosca ha perso quello che da decenni era un alleato apparentemente di ferro, però è anche vero che negli ultimi anni Assad si stava muovendo parecchio per conto suo, avvicinandosi ai paesi del golfo arabo e forse anche all’Occidente. In ogni caso per Putin la partita più grossa si sta giocando senza dubbio in Ucraina, dato che è lì che è in atto uno scontro quasi diretto con la NATO, e quella partita la sta vincendo. Senza contare poi i successi raggiunti nell’altra “partita”, quella del BRICS.

Ritornando al discorso di sopra, tutti gli eventi accaduti nelle ultime settimane nei vari angoli del mondo e la velocità crescente con la quale si stanno verificando tensioni, colpi di mano, guerre, attentati, elezioni soppresse, ecc., sono a dir poco inquietanti.

Anche perché, oltre agli eventi citati, ce ne sono molti altri che, seppur in modo meno eclatante – almeno per il momento – covano e potrebbero esplodere da un momento all’altro, oppure sono già in atto, ma non se ne parla o quasi. Due esempi per tutti: Taiwan e lo Yemen.

Al di là delle singole specificità, questa accelerazione delle dinamiche conflittuali, anche locali, ma che sta avvenendo a livello globale è chiaramente il sintomo di uno scontro generale, che vede sicuramente molti attori, numerosi fattori e dinamiche contraddittorie, non sempre facilmente comprensibili, schematizzabili e riducibili a due fronti contrapposti, ma che tuttavia avvengono nel contesto di uno scontro più ampio e globale, che è quello tra mondo unipolare – con in testa gli USA e sostenuto da un po’ tutto il mondo occidentale, e basato sul dominio del grande capitale finanziario – e mondo multipolare, i cui principali artefici sono senza dubbio la Cina e la Russia, ma con numerosi altri paesi che svolgono un ruolo importante (India, Brasile, ecc.) e che vede nel BRICS un potente strumento di propagazione e consenso a livello mondiale.

A scanso di equivoci, andrebbe specificato che tra i variegati sostenitori del mondo multipolare vi è, sì, una componente che si può definire antimperialista, ma vi sono anche altri soggetti che non lo sono affatto e che intendono solo difendere il loro capitalismo dallo strapotere del grande capitale finanziario occidentale.

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Serie perplessità sul “miracolo argentino”

Un’analisi scientifica del presunto “miracolo economico” dovuto alla “motosega” di Milei, che tanto viene strombazzato nei media liberal-fascisti di casa nostra.

Tutto dipende da cosa si enfatizza e cosa si nasconde, da quali dati vengono ritenuti fondamentali e quali irrilevanti. Come se ogni dato non esprimesse un trasferimento di ricchezza sociale e di potere da certi settori ad altri.

Per esempio, se si considerano i dati percentuali sulla povertà come “fisiologici”, e non come un problema sociale devastante (anche in termini di “mercato”, visto che i consumi si fermano), tutto può sembrare più roseo per chi immagina che l’economia sia come l’astronomia. Ossia un meccanismo da guardare, piuttosto che il modo in cui una popolazione vive, si riproduce, si sviluppa o crepa.

Di fatto, per la “ricetta Milei” si potrebbe dire che “l'intervento è perfettamente riuscito, ma il paziente è morto”. Quando qualcuno – Giorgetti, Salvini, Meloni, Marattin, ecc. – propone di applicarla anche qui sta in realtà progettando la vostra sciagura.

È il punto di arrivo, in concreto, della “svolta neoliberista” della Thatcher e di Reagan, che ormai quasi dieci fa abbiamo sintetizzato nel programma “dovete morire prima“.

Buona lettura.

*****

di Atilio Boron

Il governo di Javier Milei ha compiuto un anno e il bilancio difficilmente potrebbe essere più desolante. Il “più grande aggiustamento che l’umanità abbia mai visto”, così come definito con grande orgoglio dal presidente nel suo discorso, ha ridotto il PIL di almeno il quattro per cento; fatto precipitare i consumi delle classi popolari; impoverito ampi segmenti della classe media; provocato la scomparsa di quasi 300 mila posti di lavoro e la chiusura di 16.500 piccole e medie imprese e 10 mila chioschi.

La gente consuma molta meno carne, i bambini bevono molto meno latte: un milione di loro va a dormire senza cenare e, secondo l’UNICEF, la cifra sale a quattro milioni e mezzo di persone se si includono anche gli adulti.

Con entrate sempre più ridotte, le famiglie sono costrette a spendere molto più di prima per acqua, gas, elettricità, telefonia e trasporti. Chi ha la sfortuna di ammalarsi avrà grandi difficoltà a ricevere assistenza negli ospedali pubblici, i cui bilanci sono stati drasticamente tagliati e il cui personale lotta da anni per un imprescindibile adeguamento salariale.

A ciò si aggiunge che le quote della sanità privata sono salite alle stelle, motivo per cui sempre più famiglie della classe media, che prima potevano permettersela, ora non più, si rivolgono senza successo agli ospedali pubblici.

Questo senza menzionare il prezzo dei farmaci richiesti dalla popolazione, soprattutto dagli anziani, un tempo distribuiti gratuitamente dal PAMI e ora ridotti al minimo. L’immagine di anziani che pregano in farmacia affinché gli venga venduto un blister o regalato un campione gratuito perché non possono permettersi di pagare il farmaco è diventata un classico del panorama sociale dell’Argentina ‘libertaria’.

Malati bisognosi di farmaci oncologici si scontrano con l’indifferenza di un governo che ha fatto della crudeltà uno dei suoi tratti distintivi.

In ambito educativo, il governo ha portato a livelli sconosciuti il definanziamento dell’istruzione pubblica a tutti i livelli, con l’attacco alle università nazionali come uno dei suoi obiettivi più accanitamente perseguiti.

La situazione è altrettanto allarmante per quanto riguarda l’istruzione scolastica e le scuole secondarie, anch’esse colpite da un definanziamento che dura da anni. Come è possibile che nel distretto più ricco dell’Argentina, la Città Autonoma di Buenos Aires, le scuole pubbliche non abbiano sufficienti posti per accogliere i bambini?

Di fronte a una situazione del genere, in cui lo Stato si disinteressa delle funzioni essenziali che garantiscono il benessere della popolazione (cosa che non accade nei capitalismi metropolitani), non smette di sorprendere l’indifferenza ufficiale di fronte a tanta sofferenza.

Ma basta ricordare che l’emblema che sintetizza l’ideologia di questo governo è “dove c’è un bisogno c’è un mercato”, frase che la Casa Rosada contrappone al supposto “eccesso populista” di Evita, quando giustamente affermava che “dove c’è un bisogno nasce un diritto”, un’autentica rivendicazione democratica.

Quel motto, che lega il bisogno al mercato, dimostra l’ignoranza che prevale tra le file dell’ufficialismo, la sua fenomenale mancanza di conoscenza della storia del capitalismo “realmente esistente”, che nulla ha a che vedere con le immagini idilliache di imprenditori privati diligenti che rispondono agli stimoli dei mercati, promuovono il benessere generale e agiscono senza interventi statali.

L’idea che il bisogno generi un mercato non è solo empiricamente errata, ma è anche moralmente imperdonabile.

La lista degli orrori prodotti in questo primo anno di governo libertario sarebbe interminabile. Mi astengo dal parlare della politica estera, perché in questo caso il catalogo di aberrazioni e goffaggini sarebbe ancora più lungo.

A livello sociale, questo esperimento ha prodotto ricchi più ricchi, grazie alla dedizione con cui Milei ha lottato per “aumentare i loro guadagni”; e poveri molto più numerosi (almeno metà della popolazione, secondo metodologie che sottostimano le dimensioni reali della povertà) e anche più poveri di prima.

Non è il socialismo, ma l’“anarco-capitalismo” al governo che merita l’aggettivo di “impoverente”, che Milei attribuisce a ogni governo progressista o di sinistra. O c’è forse qualche dubbio che la grande maggioranza degli argentini sia stata impoverita da questo governo?

Come qualificare poi la distruzione del sistema scientifico, l’attacco alle arti e alla cinematografia, il disprezzo per tutto ciò che si allontana dalla logica mercantile che riduce le creazioni più elevate dell’umanità alla condizione di merce, oggetti di valore solo in quanto fonti di profitto? Questo è il vero significato della battaglia culturale proposta dai ‘libertari’.

Non smette di essere sorprendente che questo vero disastro economico, sociale, culturale e politico, prodotto in appena un anno, sia stato definito dal presidente come “il miracolo argentino”. Una frase che, senza dubbio, passerà alla storia, ma certamente non per buone ragioni.

Infine, permettetemi di dire qualche parola sulle cifre che il presidente ha menzionato a caso nel suo discorso. Soffermiamoci solo su quelle relative all’inflazione, dove il terribile numero di 17 mila per cento appare per l’ennesima volta come uno spettro agghiacciante.

È evidente che Milei cerchi di rafforzarsi appellandosi al “successo” della sua lotta contro l’inflazione. L’ultima cifra, di novembre, è stata del 2,4 per cento, celebrata alla Casa Rosada come un risultato storico.

Ma un rapido sguardo al vicinato offre un bagno di sobrietà: a ottobre quel valore è stato dello 0,33 per cento in Uruguay, dello 0,56 per cento in Brasile e dell’uno per cento in Cile, mentre in Colombia l’indicatore è stato negativo: -0,13 per cento.

È comprensibile che questo governo abbia bisogno di convincere l’opinione pubblica di aver controllato l’inflazione, dato che la sua vittoria al ballottaggio dell’anno scorso si spiega in gran parte con l’incapacità del governo del Frente de Todos di contenere quel flagello.

Ma presentare come positivo un indice di inflazione mensile otto volte superiore a quello dell’Uruguay e quasi cinque a quello del Brasile appare quantomeno eccessivo.

Inoltre, Milei e i suoi numerosi portavoce nei media, così come i politici che sostengono i suoi progetti in Parlamento e nelle province, si guardano bene dal dire che il relativo controllo dell’inflazione è il risultato di una terapia d’urto che penalizza l’intera economia.

La caduta dei livelli di consumo, a causa del deterioramento dei salari nel settore formale e informale e delle pensioni, ha ridotto i consumi, “calmierando” così i prezzi e creando l’illusione che l’inflazione – che ha cause strutturali e non è un tema di eccesso di emissione monetaria, come dice il governo – sia stata sconfitta.

Che ci sia un cambiamento di tendenza negli indici di inflazione è indubbio; ma non è stata sconfitta, né c’è nulla che autorizzi a pensare che, una volta superata l’attuale recessione, l’inflazione non possa tornare con rinnovato vigore.

I fattori strutturali che la spiegano non sono stati minimamente affrontati da un governo che concepisce la sua missione come “distruggere lo Stato dall’interno” e che si affanna per eliminare tutte le restrizioni che le autorità dovrebbero imporre per evitare il darwinismo sociale di mercato, una delle cui conseguenze è proprio l’inflazione.

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Razzismo chiamato libertà

Adesso che il criminale assassino di Madgeburgo, Taleb Al Abdulmohsen, si è rivelato un sionista, fascista, anti Islam, la sua terribile strage non è più “terrorismo” e per politici e media occidentali lui diventa un “attivista”.

Perché, come si sa, la parola “terrorismo”, nelle nostre democrazie occidentali in guerra con il resto del mondo per i supremi valori, può essere solo associata ai nemici e soprattutto ai musulmani.

Israele che compie un genocidio e pratica l’assassinio politico in scala industriale non può essere chiamato “terrorista”. Né tanto meno possono esserlo gli USA, maestri nel terrorismo di stato di cui ora l’Ucraina è apprendista.

Così gli islamofobi fanatici, che si erano subito scatenati contro i migranti, gli arabi, i neri ed i loro soci filopalestinesi, ora improvvisamente annullano post e tacciono. Contrordine camerati non è “terrorismo”, l’assassino di Madgeburgo è solo medico pazzo. Ora si condanni la mancanza dei controlli sui malati di mente e la chiusura dei manicomi.

Tanto il vomito contro i migranti e i musulmani tornerà presto.

E la stampa “democratica” cambia i suoi titoli e la parola terrorismo scompare.

Questo è il doppio standard dei regimi occidentali, un imbroglio schifoso dove il RAZZISMO È CHIAMATO LIBERTÀ.

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Siria - I ceti laici e la sinistra provano ad organizzarsi

L’attivismo civico nelle città comincia a prendere slancio in Siria. Si tratta di alcuni ceti abituati a stili di vita laici, che ora temono di essere travolti dall’ondata islamista, guidata da Hayat Tahrir al-Sham che, mentre cerca di ripulire la sua immagine dal passato qaedista, nella pratica sociale ancora dimostra la sua vera natura salafita.

Grandi manifestazioni si sono registrate specialmente a Damasco e Latakia (ex-roccaforte del baathismo), aventi come rivendicazioni il pluralismo politico, uno stato laico, inclusivo e non settario e, soprattutto, i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere.

Altri timori sono legati alla scarsa sicurezza delle città durante la notte, quando ancora si verificano episodi di rapina e sciacallaggio, rispetto ai quali molti quartieri si stanno organizzando autonomamente.

Un esempio di queste organizzazioni della società civile è costituita dall’iniziativa “Civil Youth Gathering”: secondo un organizzatore che ha parlato col giornale Al-Akhbar, si tratta di “un movimento sorto grazie ai social media, volto a unire tutti i segmenti della società siriana sotto una visione pluralistica e inclusiva. L’organizzatore sottolinea l’importanza di cogliere l’attuale transizione per allontanarsi dal militarismo e impedire a un nuovo regime di adottare pratiche escludenti o autoritarie”.

Anche altre voci dalla piazza vanno in tal senso. “Siamo qui in un’azione pacifica per salvaguardare le conquiste della rivoluzione che ci ha permesso di stare qui oggi in completa libertà, ha dichiarato Ayham Hamsho, 48 anni, un manifestante presentato come un produttore di protesi.

“Per più di 50 anni siamo stati sotto un governo tirannico che ha bloccato l’attività politica e dei partiti nel paese. Oggi cerchiamo di organizzare i nostri affari per realizzare uno Stato laico, civile e democratico, il cui governo si decida alle urne”.

A fare da amplificazione mediatica a queste manifestazioni vi sono anche una serie di dichiarazioni rilasciate da cantanti, attori e personaggi famosi, dello stesso tenore di quelle provenienti dalle piazze.

Si tratta, dunque, dei medesimi strati sociali che animarono le prime manifestazioni cittadine del 2011, avvenute sulla scia delle cosiddette primavere arabe; ovvero dei ceti laici e istruiti, i quali, da un lato, si sono sviluppati grazie al secolarismo progressista e modernizzatore del regime baathista, ma dall’altro hanno contribuito ad affossarlo.

Quel regime, infatti, come hanno espresso anche le piazze, costituiva, dal loro punto di vista, una “camicia di forza” militarista, che ne opprimeva le esigenze politiche e sociali. Oltre ad essere, aggiungiamo noi, fin troppo sanzionato per permettere di soddisfare le loro aspirazioni economiche.

Si tratta, ovviamente, solo di una parte della società siriana, sicuramente non la più povera, che non ne riflette tutte le varie sfaccettature; significativo che l’articolo di Al-Akhbar chiosi opportunamente: “Tuttavia, molti mettono in guardia [i manifestanti] dall’adottare ciecamente modelli di società civile occidentali senza considerare le dinamiche economiche, sociali e politiche uniche della Siria”.

Da rimarcare, inoltre, che, al netto di alcune kefiah apparse nelle piazze, l’opposizione all’espansionismo sionista in Siria non è al centro di questi movimenti.

Contrasto all’espansionismo sionista che, invece, è al centro delle rivendicazioni di un altro filone di potenziale opposizione ad HTS, composto da forze organizzate e singoli, afferenti al campo politico comunista, laico e di sinistra, che prova ad organizzarsi dopo la disfatta baathista.

Riportiamo in coda una dichiarazione congiunta, firmata sia da esponenti di partiti che facevano parte del “Fronte Nazionale Progressista” (ovvero la coalizione a guida Baath al governo fino all’8 dicembre scorso), come ad esempio il Partito Comunista Siriano Unificato, sia da esponenti di partiti precedentemente all’opposizione, sia da indipendenti.

Come si vede dalla dichiarazione, queste formazioni condividono con il fronte dei “sinceri democratici” la rivendicazione di uno stato laico e non settario. Rivendicazioni che coincidono anche con i principi enunciati dalle forze curde Ypg/Ypj, seppure queste ultime hanno un’accentuazione più federalista che non è detto venga accolta dalle altre componenti politiche.

Da capire quanto riusciranno a strappare in termini di agibilità politica, tenendo presente che gli attori principali nel riassetto del paese sono sempre le milizie salafite e quelli internazionali, ovvero Turchia, USA, regime sionista e, in minima parte, Russia; a maggior ragione ora che lo stato siriano è praticamente un guscio vuoto, senza disponibilità finanziarie e senza la possibilità di costruire autonomamente un esercito degno di questo nome.

Il rischio sempre presente è che, quando verranno spente le telecamere e Al-Golani dismetterà la camicia e la cravatta, determinate voci verranno messe a tacere con la forza.
Dichiarazione di esponenti interni alla nazione siriana

Noi, esponenti interni alla nazione siriana, in rappresentanza di alcuni partiti nazionali, organizzazioni della società civile e personalità influenti negli eventi siriani in corso, rilasciamo la seguente dichiarazione:

Primo: Per quanto riguarda la massiccia aggressione israeliana contro il territorio siriano e la sua occupazione di varie aree e la distruzione delle capacità dell’esercito siriano, condanniamo questa aggressione, che consideriamo un pericolo immediato. Condanniamo anche, allo stesso tempo, il silenzio interno ed esterno di alcune forze pubbliche nei confronti di questa aggressione israeliana.

Secondo: per quanto riguarda la soluzione politica in Siria, chiediamo l’attuazione della Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in conformità con quanto imposto dalla nuova realtà che richiede il coinvolgimento di tutte le forze nazionali all’interno della Siria – partiti nazionali, organizzazioni della società civile e figure influenti e attive.

Terzo: chiediamo ai Paesi arabi che hanno a cuore l’unità della Siria – sia della terra che del popolo – di affrontare l’aggressione israeliana nel sud della Siria con tutti i mezzi possibili, compreso l’invio di forze arabe per impedire questa occupazione.

Quarto: le dichiarazioni di Ahmad al-Shara (capo delle operazioni militari) che affermano:

– l’unità del territorio siriano;

– la conservazione delle istituzioni statali;

– che la Siria è uno Stato non settario;

– il divieto di incitamento settario;

– la sacralità del sangue siriano;

e la richiesta di cessazione dei combattimenti in tutto il territorio siriano, mantenendo la sicurezza e la pace civile e preservando le libertà, richiedono un’attuazione pratica attraverso misure chiare e annunciate, al fine di alleviare timori e preoccupazioni tra la gente causati da alcune violazioni e da alcune pratiche poste in atto in varie aree che contraddicono questa dichiarazione.

Damasco 11/12/2024
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21/12/2024

Frusciante al Cinema: Ping Pong - Il ritorno (2023) di Deng Chao, Yu Baimei (Novembre 2024)

Processi di ibridazione. David Cronenberg: Interviews

di Gioacchino Toni

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00

Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua produzione ed i pensieri, le inquietudini ed i desideri che l’attraversano.

Fortunatamente all’aneddotica circa l’infanzia e l’adolescenza di Cronenberg viene riservato uno spazio limitato nelle quindici conversazioni contenute nel volume; nelle quattrocento pagine di colloqui il regista si concentra sui film realizzati fino al 2015, sul suo rapporto con la macchina da presa, sul confronto con la letteratura da cui, in diversi casi, ha derivato le sue opere cinematografiche e, soprattutto, sui processi di ibridazione biologici, meccanici e mediatici che investono l’identità ed i confini del corpo e della mente degli individui.

Vittime ed a volte cause al tempo stesso dei processi di ibridazione e degli effetti devastanti che ne derivano, i personaggi sottoposti alla mutazione nei film del regista vengono catapultati in universi oscuri estranei alle leggi che governano la realtà conosciuta. La disintegrazione dell’identità, vero e proprio filo conduttore della poetica cronenberghiana, in un mondo in continua trasformazione, viene spesso fatta derivare dalla mutazione del corpo.

Cronenberg pare cercare nella malattia, negli incidenti spesso derivati dal rapporto con la scienza e le tecnologie, nella corporeizzazione degli incubi e delle tecnologie stesse, i segni di una mutazione che si presenta anche come via di fuga da una realtà vissuta come insufficiente più ancora che opprimente.

Le ibridazioni e le mutazioni a cui si sottopongono, o sono sottoposti, di volta in volta i personaggi cronenberghiani, oscillano continuamente tra coraggiosa e necessaria, quanto pretenziosa, maldestra e inefficace, ricerca di estensione della propria identità psico-fisica ed assoggettamento a nuove forme di oppressione e dipendenza. Subite o cercate come vie di fuga, le mutazioni  si rivelano insostenibili e non è infrequente che sul finale dei film i personaggi cronenberghiani palesino una vera e propria aspirazione alla morte come estrema forma di risoluzione dell’incapacità di governare le nuove identità in cui si vengono a trovare.

Nella lunga conversazione tenutasi con William Beard e Piers Handling a Toronto nel 1983, Cronenberg si sofferma sulla contrapposizione che istituisce nei suoi primi film – soprattutto in Stereo (1969), Crimes of the Future (1970), Shivers. Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid. Sete di sangue (Rabid, 1977), Brood. La covata malefica (The Brood, 1979) e Scanners (1981) – tra la sensazione di ordine suggerito dalle asettiche geometrie dei complessi architettonici abitati dai personaggi e le angosce e le inquietudini che essi covano nel profondo.

Nel corso dell’incontro, tenutosi presso The Academy of Canadian Cinema di Toronto, il regista si sofferma, inoltre, su come in Crimes of the Future di inizio anni Settanta, ricorrendo ad una situazione distopica che vede la scomparsa delle donne, abbia voluto indagare come gli uomini «vengano a patti con la parte femminile della loro sensibilità», su come in Shivers, al pari di Rabid e Brood, abbia tentato di «mostrare ciò che non poteva essere mostrato, di dire ciò che non poteva essere detto» mettendo in scena come il caos interiore dei personaggi nasca in ambito privato, individuale, salvo poi espandersi all’esterno dei singoli individui generando, inevitabilmente, una conflittualità più estesa.

Nella conversazione con Beard e Handling, Cronenberg affronta anche Videodrome (1983) evidenziando come il reale sempre più tenda a coincidere con la percezione che si ha di esso, palesando così il suo debito nei confronti di Ballard, e come l’individuo sembri ormai aver perso il controllo della tecnologia e dei media.

Trattando di Videodrome, non poteva che emergere la questione della “nuova carne” a cui, secondo il regista, non si dovrebbe guardare riducendola a perversa macchinazione del potere, bensì come invito a prendere atto di quanto il corpo umano sia nei fatti mutato rispetto a come lo si continua ad immaginare. «Siamo fisicamente diversi dai nostri antenati, in parte a causa di ciò che introduciamo nel nostro corpo e in parte per cose come gli occhiali, la chirurgia e via dicendo». Ecco perché, secondo il regista, per ragionare sull’identità occorre innanzitutto fare i conti con il corpo.

Nel corso dell’intervista rilasciata nel 1989 a George Hickenlooper per la rivista “Cinéaste”, dopo aver spiegato come l’interesse per le energie e le angosce primordiali lo abbia inevitabilmente condotto a scegliere l’horror per la capacità del genere di «rimuovere tutto il materiale estraneo e andare dritto al nocciolo», Cronenberg torna sulla questione dell’identità che attraversa tutti i suoi film. «In cosa consiste un’identità? La personalità è in qualche modo immutabile? Esiste una forma assoluta del sé dall’inizio alla fine della vita di una persona? È un dato mentale o fisico? Se il nostro fisico cambia radicalmente e di conseguenza ci trasformiamo anche da un punto di vista mentale, siamo comunque la stessa persona? Abbiamo la sensazione di esserlo, ma è solo un’illusione?». È da tali interrogativi che deriva un film come Inseparabili (Dead Ringers, 1988).

Se nella conversazione del 1991 con Gary Indiana per la rivista “The Village Voice” il regista si sofferma su Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), argomentando il complesso rapporto con l’opera di Burroughs, nell’incontro tenuto l’anno successivo con David Breskin, poi entrato a far parte del volume curato da quest’ultimo Inner Views: Filmmakers in Conversation (Faber & Faber, 1992), dopo essere stato pubblicato in versione ridotta su “Rolling Stone”, Cronenberg sottolinea come la sua intenzione fosse quella di «mettere in discussione il libro, piuttosto che tentare di rappresentarlo».

Conversando con Breskin il regista si sofferma anche sulle critiche ricevute da critici di sinistra che lo hanno  accusato di conservatorismo in quanto le trasformazioni dell’esistente nei suoi film conducono ad esiti negativi, argomentando che a suo avviso ciò che rende sovversive le sue opere è il loro suggerire altre realtà rispetto a quelle normalmente accettate, il presentare questi altri stati della mente come altrettanto reali.

Nel corso della conversazione il regista spiega anche come abbia voluto andare oltre i canoni degli “horror situazionali” tradizionali, incentrati magari su «l’uomo nel seminterrato con il coltello», preferendovi qualcosa di più complesso e torna sul fatto che molte sue opere terminano sostanzialmente con i protagonisti che desiderano porre fine alla loro esistenza in quanto «unico modo per dare un significato alla nostra morte. Perché altrimenti è completamente arbitraria. È dovuta a un piccolo malfunzionamento del corpo o a un incidente», insomma nell’aspirazione al suicidio dei protagonisti è ravvisabile un ultimo, per quanto disperato, tentativo di riconquistare il controllo su sé stessi. «In tutti i miei film c’è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti».

Carrie Rickey, che nell’incontro del 1993 con il regista per la rivista “Philadelphia Inquirer” definisce efficacemente le sue opere come «film di guerra in cui il territorio conteso è costituito dal corpo umano», ricostruisce insieme al regista la logica con cui è stato realizzato il film M. Butterfly (1993) riprendendo la pièce di David Henry Hwang ispirata a quello che è passato alla storia come affaire Boursicot, un caso in cui una relazione sentimentale si è trasformato in una questione di politica internazionale che ha fatto clamore a metà degli anni Ottanta. Per quanto M. Butterfly tenda ad essere considerato un film anomalo rispetto agli altri realizzati da Cronenberg, il regista dichiara che in realtà, almeno dal punto di vista tematico, è coerente con le altre sue opere in quanto anche in questo sono presenti quelli che indica come i suoi “tre grandi” interessi. «Ci sono dentro, uno, la mia teoria sul fatto che la sessualità è un’invenzione umana; due, delle persone che inventano la propria realtà, un chiaro atto di volontà immaginativa; e tre, delle persone che scrivono l’opera della loro vita».

A come il regista abbia derivato la sua personale trasposizione cinematografica del romanzo di Ballard nel film Crash (1996) è invece dedicata buona parte della conversazione tenuta nel 1997 con Gavin Smith, per la rivista “Film Comment”. «Quando ho iniziato a leggere Crash», dichiara il regista nel corso dell’incontro, «pensavo a Ballard come a uno scrittore di fantascienza e il libro possiede una sorta di tono fantascientifico. Queste persone sono diverse da noi. Forse noi siamo i loro antenati. L’elemento fantascientifico del libro, che è così difficile da definire, è proprio questo: la psicologia e forse anche la fisiologia, in qualche modo sottile, non sono ciò che consideriamo normale, e possono essere viste come il punto verso cui ci stiamo dirigendo».

A proposito delle reazioni scomposte che hanno accompagnato l’uscita del film, commenta Cronenberg: «Credo che in Crash tutti siano dei fuorilegge. Credo che quello che disturba molte persone sia ciò che succede quando un’intera società diventa fuorilegge». Tranne Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), fino a La mosca (The Fly, 1986) tutti i film di Cronenberg, scrive Smith, «si basano essenzialmente su un vaso di Pandora alla cui rottura la ricerca scientifica e le nuove tecnologie minacciano allo stesso tempo l’ordine sociale e l’integrità fisica e psicologica dei suoi personaggi. Da Inseparabili in poi, però, si trasformano in narrazioni ermetiche e spaesate in cui i personaggi scendono all’interno della propria psiche, innescando fratture e deviazioni che rappresentano pure proiezioni della mente».

L’intervista del 1999 di Richard Porton per la rivista “Cinéaste” in occasione dell’uscita di eXistenZ (1999), permette al regista di chiarire la sua posizione nei confronti della scienza e della tecnologia. «Non sono mai stato pessimista nei confronti della tecnologia, è una percezione sbagliata. Probabilmente intercetto le paure del pubblico, ma credo di guardare la situazione in modo abbastanza distaccato, cioè neutrale. Voglio dire: facciamo cose estreme, ma siamo costretti a farle. Creare tecnologia fa parte dell’essenza dell’umanità, è uno dei principali atti creativi. Non ci siamo mai accontentati del mondo così com’è, lo abbiamo manipolato fin dall’inizio. La maggior parte della tecnologia può essere vista come un’estensione del corpo umano, in un modo o nell’altro: nel film lo mostro nel vero senso della parola attraverso i riferimenti alle bioporte. Penso che in questa tecnologia ci siano aspetti positivi ed eccitanti quanto pericolosi e negativi. È un punto di vista molto imparziale su tutta la nostra tecnologia: è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni giorno».

Con eXistenZ, il cui tema principale, come sostiene il regista, riguarda la creazione della realtà, Cronenberg sostiene di aver voluto mostrare come l’essere umano abbia preso il controllo della sua evoluzione naturale. «Non ci evolviamo più secondo le vecchie modalità darwiniane. Altre specie possono farlo, ma noi no. Ci siamo impadroniti del controllo della nostra evoluzione. Nessuno dei vecchi meccanismi che portavano alla sopravvivenza del più adatto è ancora in grado di funzionare. Ne abbiamo solo una vaga consapevolezza, anche se al riguardo si è scritto abbastanza. In termini di evoluzione fisica della specie, tutto è cambiato negli ultimi duecento anni, dopo la Rivoluzione industriale».

Nell’intervista rilasciata a Porton, il regista torna sui motivi per cui i suoi film sono essenzialmente incentrati sul corpo. «Per me, il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci. Eppure il cinema sembra ignorarlo, anche se forse non è così nell’arte in generale. Pensi ad artisti performativi e a pittori insoliti e interessanti come Francis Bacon. Ma nel cinema, in un certo senso, sembra esserci ancora una sorta di fuga dal corpo».

Nel 2003, nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues, David Schwartz invita Cronenberg a parlare del film Spider (2002), trasposizione cinematografica del romanzo di Patrick McGrath incentrato su un individuo schizofrenico la cui tenue presa sulla realtà è minacciata dai ricordi frammentati di un trauma infantile, mentre A History of Violence (2005) è al centro tanto dell’intervista rilasciata dal regista a Dennis Lim per la rivista “The Village Voice”, che della conversazione tenuta nel 2006 con Nicolas Rapold per “Stop Smiling”, in cui il giornalista sostiene che a risultare inquietanti nei film del canadese «non sono le teste che esplodono o il sesso dopo un incidente stradale oppure ancora il videoregistratore infilato nello stomaco di James Woods. No, il terrore ci coglie quando ci rendiamo conto che queste cose riguardano tutti noi... il modo in cui i nostri corpi determinano le nostre identità e viceversa».

La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è al centro dell’incontro con l’autore nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues del 2007 organizzato da David Schwartz alla presenza di Steven Knight, l’autore del romanzo da cui il film è stato tratto. In tale occasione Cronenberg approfondisce alcuni dei temi chiave dell’opera, tra cui la rinascita e la reinvenzione.

Nel 2011 la critica cinematografica Amy Taubin, per “Film Comment”, conversa invece con il regista soprattutto a proposito di A Dangerous Method (2011), film in cui Cronenberg, concentrandosi sulla figura di Sabina Spielrein, racconta del serrato confronto tra Jung e Freud agli albori della psicoanalisi. Parlando di quest’ultimo, Cronenberg sostiene che parte del suo genio «risiedeva nel fatto di insistere sull’idea che il corpo umano non fosse separato dalla psiche, che le cose che accadono al corpo si manifestano nella mente e viceversa. Quindi la sua “terapia basata sul dialogo” non consiste soltanto nel parlare. Si rivolge anche al corpo, perché la parola è corpo. È una cosa che Freud aveva capito e che noi usiamo nel film».

L’anno successivo Taubin dialoga nuovamente con il canadese, in questo caso a proposito di Cosmopolis (2012), derivato dall’omonimo romanzo del 2003 di Don DeLillo, sottolineando come questo film, al pari di Videodrome, sia «un film sullo spirito del tempo in cui una nuova tecnologia fa nascere una “nuova carne”»; nel caso di Cosmopolis, scrive Taubin, si tratta di un mondo di cybercapitali che ci conduce nella cyberpsiche di un giovane miliardario trafficante di valute che, in preda alla noia e ad una marcata pulsione di morte, all’interno della sua limousine attraversa una Manhattan paralizzata, come lui, «mentre il suo impero finanziario crolla, forse trascinando con sé l’economia mondiale».

A concludere il volume sono il confronto per il blog inglese “4th Estate” tra la scrittrice Candice McCarty-Williams e Cronenberg circa la sua prova narrativa Divorati (Consumed, 2014) a ridosso dell’uscita in libreria – romanzo edito in Italia da Bompiani con la traduzione Carlo Prosperi – in cui il canadese pone l’accento su come la scrittura per un romanzo risulti per lui estremamente più intima rispetto alla stesura di una sceneggiatura per un film, e l’intervista rilasciata nel 2015 a Graham Fuller per “Film Comment” incentrata sul film Maps to the Stars (2014) in cui, dietro ad una evidente critica nei confronti di Hollywood, il regista non manca di inserire un’inquietante storia di fantasmi.

Concludendo, il merito di David Schwartz è sicuramente quello di aver saputo raccogliere in questo corposo volume interviste e conversazioni contenendo l’aneddotica sull’autore e le semplici curiosità relative ai film ed alle mostruosità messe in scena in favore di considerazioni e riflessioni del regista canadese sulla sua opera e sul suo immaginario. Una storia di violenza può dirsi un libro rivolto tanto al fandom quanto agli  studiosi dell’opera cronenberghiana.

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Il Ministro dell’Istruzione falcia i precari più anziani nel Concorso Scuola 2024

Licenziare lavoratori con molta anzianità, per sostituirli poi con giovani senza esperienza ma “meno costosi”, è una vecchia pratica antisindacale del peggiore padronato. Ora a farlo è il Ministro dell’Istruzione e del Merito (MIM). Con un espediente, il leghista Valditara ha mandato a casa una parte notevole degli insegnanti precari con più anzianità di servizio, candidati al Concorso Scuola 2024 appena concluso, dichiarando invece meritevoli di una cattedra stabile, candidati più giovani, con meno esperienza e voti più bassi agli esami, ma che hanno partecipato per un anno al Servizio Civile Universale (SCU) ai sensi della legge 74 del 21 giugno 2023.

Ma come mai i precari più anziani, sapendo che il SCU costituiva un titolo preferenziale al Concorso per ben il 15% dei posti disponibili, non hanno svolto quell’anno di servizio presso la Protezione Civile o presso altri enti dello Stato? Bastavano 5 ore al giorno per 8 mesi, meno ore ogni giorno se il partecipante prestava servizio anche l’estate. Il motivo è semplice: non era materialmente possibile farlo. Infatti, l’intervallo tra l’entrata in vigore della legge e la scadenza per partecipare al concorso è stato meno di un anno. Inoltre, per partecipare al SCU, bisogna avere meno di 28 anni. In altre parole, i precari più anziani non avevano nessuna possibilità di acquisire il titolo preferenziale.

È stata chiaramente una trappola, dunque, usata per poter “scremare”, tra i candidati al Concorso Scuola 2024, migliaia di candidati più anziani i quali, pur con voti assai più alti agli esami e diversi anni di esperienza, si sono visti passare davanti quei giovani meno preparati e con voti più bassi ma che potevano vantare un anno di SCU. Giovani che, soprattutto, graveranno meno sul bilancio ministeriale.

Un gruppo di insegnanti precari esclusi dal concorso si è mobilitato per contestare il colpo di mano. Ha lanciato una petizione diretta al MIM, ai Sindacati scuola e alla Comunità Europea (infatti, i soldi per pagare gli stipendi dei vincitori del concorso scuola sono del PNRR). Attualmente gli insegnanti stanno studiando una azione legale da usare come estrema ratio. Chiedono almeno l’istituzione di una graduatoria di merito, in cui inserire tutti coloro che hanno riportato un punteggio superiore al settanta nel concorso appena concluso.

Richiesta che il MIM dovrebbe avere ogni interesse ad accogliere – tanto più che, dopo il suo severo monito del 2013 andato a vuoto, la Commissione Europea ha, lo scorso ottobre, deferito l’Italia alla Corte di giustizia dell’UE per il suo reiterato utilizzo abusivo del precariato nella Scuola. Infatti, l’Italia non ha mai recepito la direttiva europea 70 del 1999, che prevede la stabilizzazione dei precari in ogni settore della pubblica amministrazione e che nega la possibilità di reiterare i contratti a tempo determinato per oltre 36 mesi. Nel lungo arco di tempo in cui i concorsi pubblici non sono stati organizzati con la frequenza che la legge 270 del 1982 prevedeva (ogni due anni), molti precari hanno maturato diversi anni di servizio. Adesso vengono falciati.

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Da Londra un sommesso “vade retro” a Zelenskij?

Bill Emmott, ex direttore del britannico The Economist e ospite frequente di ogni omelia guerrafondaia di svariati media italici, inneggia oggi su La Stampa a un presunto «eroismo» di Vladimir Zelenskij che, dice, avrebbe addirittura fatto «un passo indietro per arrivare alla pace», proprio nel momento in cui «entrambe le parti stanno perdendo».

Perché “entrambe” starebbero perdendo? Ce lo spiega Emmott, fondandosi su dati del Ministero della difesa britannico relativi a kmq di territorio – russo e ucraino – conquistati dal nemico, a perdite quotidiane di soldati e agli immancabili «12.000 mercenari nordcoreani»: proprio come ai tempi di Missione Goldfinger.

Insomma, afferma l’erede del terroristico “Bomber” Harris: «Né la Russia né l’Ucraina hanno il sopravvento», anche se «Putin potrebbe guardare con favore al ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti», mentre Zelenskij potrebbe contare sulla pronosticata vittoria di Friedrich Merz in Germania.

Di fatto, ci racconta Emmott, un possibile “compromesso” Mosca-Kiev nel 2025 partirebbe comunque dalle pretese ultimative di Putin per «l’accettazione totale delle rivendicazioni territoriali della Russia» da parte ucraina; mentre “l’eroico” Zelenskij non chiede, in fondo, che una «eventuale adesione dell’Ucraina all’Alleanza atlantica»: cosa c’è di più pacifico? In fondo, non è proprio ciò che da sempre chiede Mosca? O, no.

E se poi, arguisce lo “Jan Fleming” de La Stampa, da qui all’insediamento di Trump «le agenzie di intelligence e le forze militari ucraine» – che poi non sarebbero altro che le filiali est-europee del MI6 – «riusciranno a portare a termine altre sorprese come gli assassinii a Mosca» (chiamiamo finalmente le cose col loro nome! Omicidi! D’altronde del tutto legittimi, per carità: contro la “Spectre” annidata nei sotterranei del Cremlino, questo e altro), ecco che «la Russia apparirà ancora più debole. Trump saprà che può usare l’autorizzazione per gli attacchi a lunga gittata dell’Ucraina come strumento di negoziazione contro Putin». E Putin la smetterà con gli “Orešnik”: sembra vero.

Un piano perfetto, quello londinese. Del resto, la storia conosce innumerevoli esempi di operazioni militari britanniche che rifulgono per lungimiranza, perfetta pianificazione e garanzia di successo; basti pensare a Gallipoli, nella Prima guerra mondiale, oppure a Dieppe, Tobruk, Singapore, nella Seconda.

Mentre invece, ecco, azioni in cui il genio militar-spionistico britannico si è mostrato in tutta la sua potenza, che dire, il massacro dei pacifici dimostranti indiani a Amristar nel 1919?

Oppure la “Direttiva sui bombardamenti d’area” nel 1942, per cui la RAF avrebbe dovuto colpire a scopo dichiaratamente terroristico «le aree residenziali e non i cantieri navali o le fabbriche di aerei» (Sir Charles Portal, comandante dell’aeronautica britannica) tedesche e che portò alle carneficine su Colonia, Amburgo, Bingen, Dessau, Chemnitz, Stoccarda, Magdeburgo, e poi Sofia, Dresda, Praga... e ancora Belgrado, il 1 aprile 1944.

Ma, ci mancherebbe: operazioni di guerra, dunque “legittime”, al pari delle bombe avvolte nei regali o piazzate sotto le auto, o recapitate sotto il portone di casa, come era stato per i comandanti militari delle Repubbliche del Donbass… “Motorola”, “Givi”, Zakharchenko…

“Legittime” come le migliaia di vittime dell’operazione “Jock Scott”, contro il movimento di liberazione dei Mau Mau, a Nairobi nel 1952: epopea “militar-gloriosa” delle armi britanniche.

Tuttavia, continua a battersi il petto avvilito Emmott, «permettere all’Ucraina di aderire, o anche solo aspirare ad aderire, alla NATO, sarà un passo troppo lungo per Trump». Mentre, par di capire, potrebbe essere alla portata di altri membri dell’Alleanza; tanto più che la Russia, l’altra delle due parti che «stanno entrambe perdendo», non avrebbe la forza di opporsi, perché ridotta allo stremo da sanzioni, guerra, profonde crisi «tra i suoi stessi alleati», che alla fine «hanno indebolito il presidente Putin».

Par di vederlo, Vladimir Vladimirovic, che non sa più a che santo votarsi!

Conclusione: diamoci ancora sotto con le bombe fin sotto le mura del Cremlino; ancora per qualche altra settimana; perché, se «entrambe stanno perdendo» – e, perdio, deve essere senz’altro così: lo dice il Ministero della guerra britannico, secondo cui «a novembre la Russia stava perdendo 1.500 soldati ogni giorno» – ecco che il tritolo deve per forza essere vincente e va senz’altro incrementato.

E, però, alla fine, pur se «entrambe stanno perdendo» e tornando a bomba – tanto per rimanere in tema – Londra vedrebbe volentieri «un atto finale di eroismo» da parte del nazigolpista-capo.

E in cosa consisterebbe tale atto di eroismo di Zelenskij? Manco a dirlo, anche lo sconsolato Emmott gli chiede di farsi da parte. Anche lui glielo chiede: chissà se Zelenskij gli darà ascolto.

Non c’è dubbio, scrive l’ex direttore di The Economist, che l’ormai illegittimo (dal marzo scorso) presidente putschista, abbia «svolto un ruolo eroico nella lotta dell’Ucraina per la sopravvivenza»: stanno lì a dimostrarlo, tale “ruolo eroico”, le sinecure concesse ai monopoli agro-industrial-bellicistici occidentali, l’affamamento del popolo ucraino, l’emigrazione in massa, le mobilitazioni militari di carne da macello anche di anziani, giovanissimi, invalidi, la messa fuori legge di media e partiti indipendenti.

Un ruolo che «rimane molto popolare»: basta chiederlo alle centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che hanno riposto in massa, dai vari paesi europei in cui sono fuggiti, al bando per l’arruolamento della famigerata “Legione ucraina”; una risposta univoca che sarebbe maleducazione riproporre qui per iscritto.

Dunque, sospira Emmott, dato che il maligno Putin continua a sostenere che «nessun accordo di pace potrebbe essere firmato con Zelenskij, poiché la sua posizione non è legittima», avendo egli annullato le elezioni presidenziali nove mesi fa, ecco che ora si «apre una possibilità per un atto finale di eroismo: per concludere un accordo di pace, Zelenskij potrebbe scegliere di annunciare il suo ritiro, permettendo all’Ucraina di dimostrare quanto sia davvero una democrazia resiliente. Nessuno può dubitare che Zelenskij e la sua famiglia meritino una vacanza e di ritirarsi con onore».

Noi ne dubitiamo con tutte le forze, che se la meritino, quella “vacanza”; ma, comunque: sia lode al signore nell’alto dei cieli, per tale diretta e inequivocabile ammissione di voler dare il benservito al nazi-golpista capo e alla sua banda.

E soprattutto, al diavolo la vostra “resilienza” nazi-europeista, fatta di “democrazia” bellicista e di glorificazione del nazismo travestito da “resistenza al dispotismo russo”.

E, se un onore deve essere tributato, che vada ai milioni di ucraini che da troppi decenni resistono all’aggressione ideologica del revisionismo semi-banderista di khrushcheviana memoria, alla penetrazione imperialistica dei monopoli militar-industriali occidentali e alle razzie terroristiche delle squadracce nazi-nazionalistiche ucraine.

«Entrambe stanno perdendo», assicura il “Bomber Harris” del XXI secolo; e, però, ci rendiamo conto che è meglio che Zelenskij si faccia da parte.

Alla fine, tocca correggere – solo minimamente, dio ce ne guardi e soprattutto, si parva licet – il compagno Mao, osservando sommessamente che, ogni tanto, non proprio tutti, ma “quasi tutti” i reazionari sono degli stupidi...

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L’identità della destra

All’interno di un quadro generale segnato da una forte aggressività istituzionale, da un atteggiamento bellicista sul piano delle relazioni esterne, da progetti di revisione costituzionale che se attuati minerebbero il rapporto tra prima e seconda parte della nostra Carta fondamentale generando un sistema di democratura tale da superare il modello della democrazia pattizia stabilito nel 1947 tra socialisti, comunisti, cattolici popolari e liberali storici o di nuova generazione, la destra italiana dal 2022 sta governando il Paese puntando anche, per la sua parte legata storicamente ad idee del ‘900 totalitario, a realizzare un’egemonia culturale.

I decreti varati da questo governo sul terreno della sicurezza, dei migranti, dei diritti civili, del rapporto con i soggetti fragili sembrano caratterizzati da vera cattiveria stracciando quel che restava del garantismo penale, della democrazia costituzionale e dello stato di diritto.

Le forze democratico – progressiste e della sinistra si debbono interrogare su questi punti e sviluppare un’analisi che porti a conseguenze politiche: può essere costruita in conseguenza una strategia di alleanza che conduca a realizzare un progetto di alternativa tenendo conto della situazione economica, sociale, culturale del Paese e delle stesse prospettive europee?

Se si ritiene che nelle condizioni descritte sia sufficiente puntare a un bipolarismo “temperato” allora ci si può accontentare di una alleanza elettorale (anche a scartamento ridotto come fu nel settembre 2022) che magari perda le elezioni e costruisca dall’opposizione una possibilità di alternanza che maturerebbe però all’interno di un sistema già fortemente modificato.

Se invece si pensa che allo stato delle cose vigenti sia necessaria una vera alternativa di sistema partendo dal ripristino costituzionale, allora sarebbe il caso di approfondire e di lavorare per un progetto diverso di ben altra consistenza morale e politica.

L’interrogativo sembra valido perché manca un’analisi sull’identità di questa destra prescindendo anche dai rami discendenti dal fascismo che pure vi sono presenti e dalle forme egoistiche di rifiuto dell’altro mutuate dalla filosofia dell’individualismo competitivo che fa parte del DNA della Lega.

Sembrerebbe necessario lavorare su questo punto muovendosi nel senso gramsciano di una conoscenza non superficiale dell’avversario come invece si sta verificando in questa dimensione politica segnata dal fenomeno della “democrazia recitativa” che coinvolge anche forze che potrebbero/dovrebbero far parte di uno schieramento/soggetto alternativo.

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Israele apre il suo quinto fronte di guerra: lo Yemen

Dopo Gaza, Cisgiordania, Libano e Siria, si va aprendo il quinto fronte della guerra senza limiti di Israele in Medio Oriente nello Yemen.

Poco dopo che un razzo lanciato dallo Yemen è stato parzialmente intercettato sui cieli di Tel Aviv (dove i detriti hanno fatto alcuni danni ma non vittime), è partito un attacco israeliano senza precedenti per forza, contro il nord dello Yemen. Il bilancio è di 9 persone uccise: 7 sono morte in un attacco al porto di Salif, le altre in due attacchi all‘impianto petrolifero di Ras Issa – afferma il canale tv Al Masirah – nella provincia occidentale di Hodeidah.

Secondo Haaretz il razzo yemenita ha lasciato un cratere profondo diversi metri nel luogo della sua caduta a Tel Aviv, causando ingenti danni a dozzine di appartamenti. La radio dell’esercito israeliano ha detto che due missili intercettori si sono diretti verso il razzo proveniente dallo Yemen ma non sono riusciti ad abbatterlo e si sono autodistrutti in aria.

Gli attacchi israeliani hanno preso di mira anche due centrali elettriche a sud e a nord della capitale yemenita, Sanaa. I raid israeliani nello Yemen erano volti a colpire tutti e tre i porti utilizzati dalle forze di Ansarallah (più noti come gli Houthi) sulla costa del paese. Tutti i rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati colpiti, così come – nel precedente attacco al porto yemenita di Hodeidah – erano state distrutte le gru per scaricare le spedizioni.

Quest’ultimo fronte di guerra nello Yemen va tenuto sotto stretta osservazione perché il controllo del Mar Rosso appare decisivo per diversi progetti strategici israeliani – e non solo – che partono dal porto israeliano di Eilat, il quale a causa dell’azione di interdizione del traffico marittimo da parte del movimento yemenita Ansarallah ha visto crollare dell’85% la propria attività economica e logistica.

In campo come progetto strategico non c’è solo il Canale Ben Gurion verso il Mediterraneo, inteso come alternativo al Canale di Suez controllato dall’Egitto, ma anche altri corridoi logistici terrestri che partono sempre da Eilat e che vedono coinvolte società facenti capo all’impero economico dello stesso Trump. La via del Mar Rosso deve quindi essere riportata sotto controllo, anche con il ricorso alla guerra.

Il contesto nell’area del Mar Rosso è quello dell’aperta competizione tra i corridoi infrastrutturali della Via della Seta cinese con l’IMEC – o via del Cotone – statunitense. In pratica è terreno della competizione frontale tra i BRICS e il blocco Euroatlantico nei luoghi strategici del Medio Oriente.

I primi ritengono che la pace e la stabilità siano decisivi per il proprio sviluppo economico, il secondo non esclude affatto che la guerra e l’instabilità siano strumenti utili per complicare le cose, avvelenare i pozzi e fare arretrare le prospettive di crescita e di indipendenza dei BRICS.

In questa area del mondo, il blocco euroatlantico ha a disposizione solo Israele – e in parte la costosa rete di basi militari statunitensi in Medio Oriente – come emanazione diretta dei propri interessi. Per cui se la guerra e l’instabilità regionale sono una priorità o una necessità dell’Occidente collettivo, Israele è la potenza adibita a fare il lavoro sporco per tutti.

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Una Polonia di cui non ci parlano: il Movimento contro la guerra polacco

Nato nel 2023 come espressione di profondo disaccordo con la politica interna ed estera perseguita dai governi di Varsavia dopo il 1999, il Movimento contro la guerra in Polonia denuncia: “Una politica avventurista indirizzata a scontrarsi con i nostri vicini e a perseguire gli interessi strategici di Washington. Siamo un movimento sociale, creato dal basso verso l’alto, senza strutture formali. Una parte importante delle nostre attività è il lavoro organico per la sovranità culturale della nazione polacca e l’indipendenza della Polonia, contro la guerra e per la pace”.

Il programma del Movimento: Fermate la guerra! Non è la nostra guerra!

“Non siamo d’accordo con parole così vergognose come quelle pronunciate dal portavoce del Ministero degli Affari Esteri, Łukasz Jasina nel marzo 2022, che illustrano l’intera politica estera e di sicurezza attuata dal governo di Varsavia negli ultimi anni. Siamo a favore della pace, e di politiche di pace incentrata su buone relazioni con tutti i nostri vicini.

La normalizzazione di queste relazioni deve avvenire preservando la ragion di stato polacca e l’interesse nazionale polacco. La chiave per lo sviluppo della Polonia è uno sviluppo economico che sfrutti appieno il potenziale della nostra posizione geografica.

La guerra in Ucraina non è la nostra guerra. Esprimiamo la nostra ferma opposizione agli aiuti militari concessi dal governo di Varsavia all’Ucraina. Non abbiamo il nostro consenso alla partecipazione dell’esercito polacco ad alcuna operazione militare al di fuori dei confini della Repubblica di Polonia”.

Zero nemici tra i vicini, politica multi vettore. Stop all’americanizzazione della Polonia!

“La Polonia viene trattata come un ‘paraurti strategico’ degli Stati Uniti, cosa su cui non siamo d’accordo. Come il funzionamento di una prigione segreta della CIA in Polonia nel 2003-2005, dove cittadini di altri paesi venivano illegalmente detenuti e torturati (senza verdetto del tribunale). Questa è una prova evidente della dipendenza della politica dello Stato polacco.

Non diamo il nostro consenso a sostenere la politica egemonica degli Stati Uniti e la partecipazione dell’esercito polacco alle guerre di aggressione di Washington, che dopo il 2001 hanno provocato la morte di quasi un milione di persone.”

Fermare l’ucrainizzazione della Polonia

“L’aiuto incondizionato agli ucraini non è nell’interesse nazionale della Polonia. Tollerare il culto di criminali come Bandera o Shukhevych in Ucraina e di organizzazioni genocide come l’OUN e l’UPA è una vergogna e uno schiaffo in faccia per ogni polacco. Finché in Ucraina si svilupperanno lo sciovinismo e il culto dei criminali, non si potrà parlare di alcun aiuto finanziario o, per non parlare, militare per questo paese.

Non siamo d’accordo a donare soldi pubblici per l’assistenza sociale ai migranti dall’Ucraina o per un’azione organizzata di insediamento nel territorio della Repubblica di Polonia”.

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La sinistra occidentale e la nuova negazione dell’imperialismo

di John Bellamy FosterMonthly Review – 01/11/2024

John Bellamy Foster torna alle pietre miliari del pensiero marxista antimperialista – presenti nelle opere di V. I. Lenin, Samir Amin e altri – per affrontare la crescente negazione dell'imperialismo da parte della sinistra. Questa visione del mondo e le sue conseguenze, scrive Foster, hanno implicazioni preoccupanti non solo per i lavoratori supersfruttati delle periferie, ma per tutti i lavoratori del mondo e per il carattere internazionalista del marxismo contemporaneo.

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È dall'inizio della Prima Guerra mondiale – durante la quale quasi tutti i partiti socialdemocratici europei parteciparono alla guerra interimperialista a fianco dei rispettivi Stati nazionali – e dalla dissoluzione della Seconda Internazionale, che la divisione sulla questione dell'imperialismo non assumeva, a sinistra, dimensioni così serie, manifestandosi come un segno della profondità della crisi strutturale del capitale nel nostro tempo.[1] Sebbene le sezioni più eurocentriche del marxismo occidentale abbiano cercato a lungo, in vari modi, di attenuare la teoria dell'imperialismo, l'opera classica di V. I. Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo (scritta nel gennaio-giugno 1916), ha mantenuto per oltre un secolo la sua posizione centrale all'interno di tutte le discussioni sull'imperialismo, non solo per la sua accuratezza nel rendere conto della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, ma anche per la sua utilità nello spiegare l'ordine imperiale del secondo dopoguerra.[2] Tuttavia, lungi dall'essere isolata, l'analisi complessiva di Lenin è stata integrata e aggiornata in vari momenti dalla teoria della dipendenza, dalla teoria dello scambio ineguale, dalla teoria dei sistemi-mondo e dall'analisi della catena del valore globale, tenendo conto dei nuovi sviluppi storici. In tutto questo, la teoria marxista dell'imperialismo ha mantenuto un'unità di base che ha ispirato le lotte rivoluzionarie globali.

Oggi, tuttavia, questa teoria marxista dell'imperialismo viene comunemente rifiutata in gran parte, se non nella sua interezza, da sedicenti socialisti occidentali con baricentro eurocentrico. Di conseguenza, il divario tra la visione dell'imperialismo della sinistra occidentale e quella dei movimenti rivoluzionari del Sud globale è più ampio che in qualsiasi altro momento del secolo scorso. Le basi storiche di questa frattura risiedono nel declino dell'egemonia statunitense e nel relativo indebolimento dell'intero ordine imperialista mondiale, incentrato sulla triade Stati Uniti, Europa e Giappone, di fronte all'ascesa economica delle ex colonie e semicolonie del Sud globale. Il tramonto dell'egemonia statunitense, dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica nel 1991, è stato accompagnato dal tentativo degli Stati Uniti/NATO, di creare un ordine mondiale unipolare dominato da Washington. In questo contesto di estrema polarizzazione, molti, a sinistra, negano lo sfruttamento economico della periferia da parte dei Paesi imperialisti centrali. Inoltre, recentemente tutto questo è stato accompagnato da forti attacchi alla sinistra antimperialista.

Così, oggi, ci troviamo di fronte a proposizioni contraddittorie, provenienti dalla sinistra occidentale, del tipo: (1) una nazione non può sfruttarne un'altra; (2) non esiste il capitalismo monopolistico come base economica dell'imperialismo; (3) la rivalità imperialista e lo sfruttamento tra le nazioni sono stati sostituiti da lotte di classe globali all'interno di un capitalismo transnazionale completamente globalizzato; (4) tutte le grandi potenze sono oggi nazioni capitaliste impegnate in una lotta imperialista intermedia; (5) le nazioni imperialiste possono essere giudicate principalmente in base a uno spettro democratico-autoritario, per cui non tutti gli imperialismi sono nati allo stesso modo; (6) l'imperialismo è semplicemente una politica di aggressione di uno Stato contro un altro; (7) l'imperialismo umanitario volto a proteggere i diritti umani è giustificato; (8) le classi dominanti del Sud globale non sono più antimperialiste e hanno un orientamento transnazionalista o subimperialista; (9) la "sinistra antimperialista" è "manichea" nel suo sostegno al Sud globale moralmente "buono" contro il Nord globale moralmente "cattivo"; (10) l'imperialismo economico si è ora "invertito", con l'Est/Sud globale che sfrutta l'Ovest/Nord globale; (11) la Cina e gli Stati Uniti sono a capo di blocchi imperialisti rivali; (12) Lenin era soprattutto un teorico dell'interimperialismo, non dell'imperialismo tra centro e periferia. [3]

Per comprendere le complesse questioni teoriche e storiche in gioco, è importante tornare all'analisi di Lenin sull'imperialismo, concependola non solo nei termini espressi da Imperialismo, fase suprema del capitalismo, ma in relazione all'insieme dei suoi scritti sull'imperialismo del 1916-1920. Sarà quindi possibile percepire come la teoria del sistema mondiale imperialista si sia sviluppata nel corso dell'ultimo secolo sulla base dell'analisi di Lenin e della Prima Internazionale Comunista (Comintern), seguita da ulteriori affinamenti teorici, dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel lavoro dei principali teorici della dipendenza, dello scambio ineguale, del sistema-mondo capitalista e delle catene globali del valore. Questa storia costituirà il punto di partenza per criticare l'attuale negazione dell'imperialismo operata da gran parte della sinistra.

La teoria generale dell'imperialismo di Lenin

Il fatto che i pensatori di sinistra che sostengono il superamento del concetto di imperialismo, facciano comunque riferimento all’opera classica di Lenin, è un'indicazione dell'enorme potenza dell'analisi presente in L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. Oggi, la sinistra eurocentrica sostiene abitualmente che Lenin non si concentrasse sulle questioni di disuguaglianza tra paesi colonizzatori e colonizzati o tra centro e periferia. Piuttosto, ci viene detto che il suo lavoro riguardava principalmente il conflitto orizzontale tra le grandi potenze capitaliste.[4] Così, William I. Robinson, un illustre professore di sociologia presso l'Università della California, e membro del consiglio esecutivo della Global Studies Association of North America (GSA), si spinge a sostenere che la teoria dell'imperialismo di Lenin non aveva nulla a che fare con lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra.
L'idea predominante tra i pensatori di sinistra è che Lenin abbia esposto una teoria dell'imperialismo basata sullo stato-nazione o sull’espansione territoriale. Ciò è fondamentalmente sbagliato. Ha esposto una teoria basata sulla classe. Una nazione non può sfruttare un'altra nazione: questa è solo una reificazione assurda. L'imperialismo è sempre stato un violento rapporto di classe, non tra paesi, ma tra capitale globale e lavoro globale... La maggior parte della sinistra vede lo sfruttatore come una "nazione imperialista". Questa è una reificazione, in quanto le nazioni non sono, e non sono mai state, macro-agenti. Una nazione non può sfruttare o essere sfruttata.[5]
Tuttavia, lungi dal ritenere che lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra sia fondamentalmente contrario al marxismo, Karl Marx mostrava solo disprezzo per coloro che, a suo dire, non riuscivano a comprendere «come un paese possa arricchirsi a spese di un altro».[6] Allo stesso modo, Lenin sosteneva esplicitamente in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, che la tendenza dominante dell’imperialismo era «lo sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un numero sempre maggiore di nazioni più ricche o potenti». In seguito, affermava che «lo sfruttamento delle nazioni oppresse... e soprattutto lo sfruttamento delle colonie da parte di un pugno di Grandi Potenze» era la radice economica dell’imperialismo. Lenin diceva chiaramente che parlare di sfruttamento in questo contesto, vuol dire che una nazione imperialista, al centro del sistema mondiale capitalista, «trae profitti in eccesso» da una nazione oppressa nel mondo coloniale.[7]

Tuttavia, secondo Vivek Chibber, professore di sociologia alla New York University e curatore di Catalyst, l'intera concezione dell'imperialismo economico come capitalismo monopolistico, espressa da Lenin, era «errata», come lo erano i concetti secondo cui l'imperialismo era economico (e non semplicemente politico), e che nei ricchi paesi capitalisti c'era uno strato superiore della classe operaia (l'aristocrazia operaia) che traeva beneficio dall'imperialismo. In tutti questi concetti, suggeriva Chibber, l'analisi di Lenin era errata, mentre il significato della sua teoria era principalmente circoscritto al regno della competizione intercapitalistica.[8]

Questi gravi fraintendimenti, rispetto alla teoria di Lenin e alla sua rilevanza contemporanea, sono in parte riconducibili a una tendenza degli accademici radicali occidentali a studiare il suo L'imperialismo, fase suprema del capitalismo senza prendere in considerazione altri suoi importanti scritti sull'imperialismo. Questi comprendono sei testi fondamentali, scritti tra il 1916 e il 1920: "La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodeterminazione (tesi)", (scritto nel gennaio-febbraio 1916); "L’imperialismo e la scissione del socialismo", (scritto nell'ottobre 1916); "Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell'Oriente", (novembre 1919); "Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale", (per il secondo congresso dell'Internazionale comunista, giugno 1920); Prefazione alle edizioni francese e tedesca di L'imperialismo (6 luglio 1920); e il "Rapporto della Commissione sulle questioni nazionali e coloniali", (26 luglio 1920).[9] Questi testi aggiuntivi di Lenin sulle questioni nazionali e coloniali integrano L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, concentrandosi direttamente sulla questione dello sfruttamento dei paesi sottosviluppati da parte delle principali potenze imperialiste, soprattutto Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Giappone (che oggi, con l’aggiunta del Canada, costituiscono il Gruppo dei Sette, o G7).[10]

«Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo», scriveva Lenin in L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, «si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo». L’ascesa dell’accumulazione monopolistica aveva soppiantato l’era della libera concorrenza, creando una sfera di enormi profitti in eccesso, in un numero relativamente ristretto di società che arrivarono a dominare l’economia.[11] Nelle cinque caratteristiche dell’imperialismo che Lenin elencava, egli sottolineava che la concentrazione e la centralizzazione del capitale su scala nazionale e mondiale era la caratteristica principale dell’imperialismo. La seconda caratteristica era la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi di un’oligarchia finanziaria. La terza era l’esportazione di capitale, distinta dall’esportazione di merci, cioè il passaggio del capitale a un campo operativo globale. La quarta, che riassumeva le tre precedenti, era il dominio del mondo da parte di un numero relativamente piccolo di monopoli capitalistici internazionali. La quinta era la compiuta «ripartizione territoriale del mondo tra le più grandi potenze capitalistiche».[12]

L'analisi di Lenin si opponeva fortemente a quella di Karl Kautsky, il principale teorico del Partito socialdemocratico tedesco, che sosteneva che l'imperialismo si sarebbe sviluppato in un "ultra-imperialismo", in cui i principali paesi capitalisti si sarebbero unificati attraverso una «federazione dei più forti», una tesi che sarebbe stata smentita dalla Prima e dalla Seconda Guerra Mondiale. Sebbene i principali stati capitalisti, dopo la Seconda Guerra Mondiale, avessero effettivamente creato un fronte imperialista più collettivo, questo fu il risultato dell'egemonia globale degli Stati Uniti, che ridusse gli altri principali stati capitalisti allo status di partner minori. Nel complesso, la visione di Kautsky dell'imperialismo come politica si è dimostrata incommensurabilmente più debole di quella di Lenin come sistema.[13]

Come ha osservato il Research Unit for Political Economy (RUPE, India), «l’obiettivo di L'imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin era quello di smascherare le caratteristiche della [Prima] Guerra Mondiale e le sue radici nel capitalismo stesso; quindi, in quell'opera specifica, Lenin non esplorava l'impatto dell'imperialismo sulle colonie e sulle semicolonie».[14] Per comprendere questa parte della sua analisi, è necessario esaminare altri scritti successivi di Lenin sull’imperialismo, in un periodo in cui egli si confrontava direttamente con la lotta anti-imperialista nelle nazioni della periferia, in particolare in Asia, nel contesto della formazione del Comintern. Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, la Russia sovietica si trovò immediatamente a dover fronteggiare gli interventi militari delle potenze imperiali a fianco delle forze bianche nella Guerra civile russa. Winston Churchill, osservava Lenin, proclamava allegramente che la Russia era stata invasa da «una crociata di quattordici nazioni», in primo luogo le grandi potenze imperiali di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone, che erano unite nella loro opposizione alla Rivoluzione d’Ottobre.[15] Allo stesso tempo, la Rivoluzione russa ispirava grandi insurrezioni in Asia, come il movimento del Quattro Maggio in Cina (1919), l’agitazione anti-Rowlatt Act in India (1919) e la Grande Rivoluzione Irachena (1920).[16]

Lenin era un pensatore politico troppo abile per non riconoscere le implicazioni di questi nuovi movimenti rivoluzionari. Pertanto si concentrò ancora di più sullo sfruttamento delle economie sottosviluppate, che era sempre stata la principale contraddizione storica alla base della sua analisi dell'imperialismo. Lo sfruttamento di colonie, semicolonie e dipendenze da parte delle potenze imperiali era già visibile negli scritti di Lenin del 1916. In, La rivoluzione socialista e i diritti delle nazioni all'autodeterminazione, Lenin sosteneva che un certo grado di autodeterminazione fosse possibile per alcune nazioni colonizzate/dipendenti sotto il capitalismo, ma solo se fosse stato raggiunto attraverso rivoluzioni. Tali rivoluzioni alla periferia del sistema richiedevano, in ultima analisi, che ci fossero rivoluzioni nelle metropoli. «Nessuna nazione», scriveva, riferendosi a una precedente affermazione di Marx, «può essere libera se opprime altre nazioni».[17]

In "L’imperialismo e la scissione del socialismo", Lenin affermava:
Un pugno di paesi ricchi – sono quattro in tutto, se si parla di una ricchezza "moderna", indipendente e veramente gigantesca: l'Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti d’America e la Germania – questo pugno ha sviluppato i monopoli in proporzioni immense; esso riceve sovraprofitti che ammontano a centinaia di milioni, se non di miliardi; "vive alle spalle” di centinaia di milioni di abitanti degli altri paesi; lotta nel proprio seno per la spartizione di un bottino particolarmente ricco, particolarmente grasso, particolarmente tranquillo. È questa l'essenza economica e politica dell'imperialismo.[18]
Lenin non solo sosteneva che il capitale monopolistico sfruttava le colonie, le semicolonie e le dipendenze, ottenendo con questi mezzi dei superprofitti, ma che questo, come aveva intuito Friedrich Engels, gli consentiva di "corrompere" una ristretta sezione della classe operaia (lo strato superiore del lavoro), una proposizione nota come tesi dell'aristocrazia operaia.[19] Lo avrebbe ribadito con enfasi nella sua prefazione a L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, del 1920.[20] Era questo, sosteneva, che spiegava la natura più conservatrice del movimento operaio britannico, così come di quello di tutti i principali paesi imperialisti. «Se vogliamo rimanere socialisti», scrisse, la risposta è «andare sempre più in basso», al di sotto dello ristretto strato superiore della classe operaia, «fino alle masse reali: ecco l’importanza e tutto il contenuto della lotta contro l’opportunismo» dell'aristocrazia operaia e della socialdemocrazia.[21]

Nel suo "Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell'Oriente", Lenin sottolineava come una «insignificante parte della popolazione mondiale» si era data «il diritto di sfruttare la maggioranza della popolazione del globo». In queste circostanze, la lotta contro l'imperialismo ha addirittura la priorità rispetto alla lotta di classe, sebbene esse rimangano intrinsecamente connesse. «La rivoluzione socialista non sarà quindi soltanto, né principalmente, la lotta dei proletari rivoluzionari di ogni paese contro la loro borghesia; no, sarà la lotta di tutte le colonie e di tutti i paesi oppressi dall'imperialismo, di tutti i paesi dipendenti contro l'imperialismo internazionale... La guerra civile dei lavoratori contro gli imperialisti e gli sfruttatori comincia a fondersi, in tutti i paesi avanzati, con la guerra nazionale contro l'imperialismo internazionale».[22]

Lenin sviluppava ulteriormente questa posizione nella "Bozza preliminare di tesi sulle questioni nazionali e coloniali". Tracciava una netta distinzione tra le «nazioni oppresse, assoggettate, private dei loro diritti» e le «nazioni sovrane che ne sfruttano e ne opprimono altre». Chiariva che «l’internazionalismo proletario esige anzitutto… la subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta nel mondo intero». Il capitalismo, sosteneva, ha spesso cercato di mascherare il livello di sfruttamento internazionale attraverso la creazione di stati che erano nominalmente sovrani, ma che in realtà dipendevano dai paesi imperiali «economicamente, finanziariamente e militarmente».[23]

Il "Rapporto della Commissione sulle questioni nazionali e coloniali" di Lenin, ribadiva questi punti e concludeva che nelle attuali condizioni di sottosviluppo delle nazioni oppresse, «ogni movimento nazionale non può che essere democratico borghese». Questi movimenti «rivoluzionari-nazionali», nonostante il loro carattere di classe predominante, dovevano essere sostenuti, ma solo finché erano movimenti «effettivamente rivoluzionari». Lenin rifiutava con forza l’idea «che la fase capitalistica di sviluppo sia inevitabile per tali popoli», sostenendo piuttosto che tali movimenti potevano, data la loro complessa composizione di classe e anti-imperialista, e con l'esempio dell'Unione Sovietica, svilupparsi possibilmente in veri e propri movimenti verso il socialismo e che avrebbero realizzato molti dei compiti di sviluppo, associati al capitalismo, in termini non capitalistici. [24]

Quando le "Bozze preliminari di tesi sulla questione nazionale e coloniale" di Lenin vennero presentate al Secondo Congresso del Comintern, furono seguite, con il supporto di Lenin, dalle "Tesi supplementari sulla questione nazionale e coloniale", scritte dal marxista indiano M.N. Roy, che furono poi adottate insieme alle Bozze preliminari, di Lenin. L'essenza di queste Tesi supplementari, era l'affermazione esplicita che l'imperialismo aveva distorto lo sviluppo economico nelle colonie, nelle semicolonie e nelle dipendenze. Le colonie come l'India erano state deindustrializzate, bloccandone il progresso. Le potenze imperiali avevano estratto superprofitti dai “Paesi arretrati” economicamente, e dalle colonie:
La dominazione straniera ostacola costantemente il libero sviluppo della vita sociale; pertanto il primo passo della rivoluzione deve essere la rimozione di questa dominazione straniera. La lotta per rovesciare la dominazione straniera nelle colonie non consiste nella sottoscrizione degli obiettivi nazionali della borghesia nazionale, ma piuttosto, per il proletariato, nello spianare la strada alla liberazione delle colonie... La vera forza, il fondamento del movimento di liberazione delle colonie, non si lascerà costringere nella stretta cornice del nazionalismo democratico-borghese. Nella maggior parte delle colonie esistono già partiti rivoluzionari organizzati che lavorano a stretto contatto con le masse lavoratrici.[25]
Due anni dopo, nelle "Tesi sulla questione orientale", del quarto congresso del Comintern del 1922, alcune delle nozioni fondamentali associate alla teoria della dipendenza:
È questa diminuzione [post-Prima Guerra Mondiale] della pressione imperialista nelle colonie, insieme alla rivalità in costante crescita tra i diversi raggruppamenti imperialisti, che ha facilitato lo sviluppo del capitalismo indigeno nei paesi coloniali e semicoloniali, che si è espanso e continua a espandersi oltre i limiti ristretti e restrittivi del dominio imperialista delle grandi potenze. In precedenza, il capitalismo delle grandi potenze cercava di escludere i paesi arretrati dal commercio economico mondiale, al fine di garantirsi, in questo modo, il suo status di monopolio e ottenere super-profitti dallo sfruttamento commerciale, industriale e fiscale di questi paesi. L'ascesa delle forze produttive indigene nelle colonie, è in contraddizione inconciliabile con gli interessi dell'imperialismo mondiale, la cui vera essenza è quella di sfruttare il differente grado di sviluppo delle forze produttive nei diversi ambiti dell'economia mondiale per conseguire super-profitti monopolistici.[26]
Le "Tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e nelle semicolonie", del Sesto Congresso del Comintern nel 1928, rappresentarono un punto culminante nella teoria dell'imperialismo nel periodo interbellico. Lì, si affermava che «L'intera politica economica dell'imperialismo nei confronti delle colonie è determinata dal suo sforzo di preservare e accrescere la loro dipendenza, di approfondire il loro sfruttamento e, per quanto possibile, di impedire il loro sviluppo indipendente. La maggior parte del plusvalore estorto dalla... forza lavoro a basso costo» nelle colonie e nelle semicolonie viene esportata all'estero, con conseguente «emorragia della ricchezza nazionale dei paesi coloniali».[27]

Il problema teorico e pratico più difficile era la creazione di una base di classe per la rivoluzione anti-imperialista nei paesi sottosviluppati. Lenin sottolineava che la rivolta contro l'imperialismo avrebbe dovuto realizzare gli obiettivi di sviluppo solitamente associati alla borghesia nazionale, ma che la natura della lotta «rivoluzionaria nazionale» non sarebbe stata necessariamente determinata dalla borghesia nazionale. Mao Zedong aveva dato un importante contributo alla lotta anti-imperialista e alla rivoluzione socialista con "Analisi delle classi nella società cinese", del 1926. Qui Mao sosteneva che la grande borghesia monopolista-capitalista, insieme alla classe dei proprietari terrieri, costituiva una formazione di classe compradora* che fungeva da appendice del capitale internazionale. La piccola borghesia nazionale, invece, era troppo debole e cercava soprattutto di trasformarsi in una grande borghesia. Le forze rivoluzionarie dipendevano quindi dalla piccola borghesia, dal semi-proletariato, dal proletariato e, inoltre, dai contadini. [28]

Tutti questi sviluppi della teoria dell'imperialismo, come la maggior parte dei successivi, hanno avuto origine con Lenin. Come scrisse Prabhat Patnaik,
L’importanza di L'imperialismo di Lenin, risiede nel fatto che rivoluzionò totalmente la percezione della rivoluzione. Marx ed Engels avevano già immaginato la possibilità che i paesi coloniali e dipendenti avessero rivoluzioni proprie anche prima della rivoluzione proletaria nelle metropoli capitaliste, ma questi due tipi di rivoluzioni erano viste come disgiunte; ma rimanevano poco chiare sia la traiettoria della rivoluzione nella periferia, che la sua relazione con la rivoluzione socialista nelle metropoli. L'imperialismo di Lenin non solo collegava i due tipi di rivoluzioni, ma rendeva la rivoluzione nei paesi periferici parte del processo di avanzamento dell'umanità verso il socialismo. Vedeva quindi il processo rivoluzionario come un insieme integrato.[29]
Dipendenza, scambio ineguale, sistema mondiale imperialista e catene globali del valore

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema mondiale imperialista si era storicamente evoluto, andando oltre le condizioni geopolitiche dell'epoca di Lenin. Gli Stati Uniti erano ormai la potenza egemonica indiscussa del sistema mondiale capitalista e lanciarono immediatamente una Guerra fredda volta a “contenere” l'Unione Sovietica e a reprimere la rivoluzione in ogni angolo del pianeta. Ciononostante, un'ondata rivoluzionaria di decolonizzazione, in gran parte ispirata dal marxismo, travolse l’Asia e l’Africa dopo il trionfo della Rivoluzione cinese nel maggio del 1949.

A differenza di Asia e Africa, le colonie ufficiali presenti in America Centrale e Meridionale erano in numero minore, e ciò a causa delle rivolte anticoloniali del diciannovesimo secolo contro Spagna e Portogallo, che portarono alla formazione di stati sovrani. Tuttavia, già da tempo gli stati latinoamericani erano costretti a dipendenze economiche, o neocoloniali, prima dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti. Dunque, il principale problema nella regione era quello di superare la dipendenza economica, politica e culturale imposta dall'imperialismo statunitense. Si può dire che la teoria marxista latinoamericana, in particolare quella relativa all'imperialismo, abbia trovato le sue radici nell'opera del marxista peruviano José Carlos Mariátegui, che nel 1929 scriveva: «Siamo anti-imperialisti perché siamo marxisti, perché siamo rivoluzionari, perché ci opponiamo al capitalismo con il socialismo... e perché nella lotta che portiamo avanti contro l'imperialismo straniero stiamo adempiendo al nostro dovere di solidarietà con le masse rivoluzionarie d'Europa».[30] All'epoca in cui Mariátegui faceva queste affermazioni, la lotta di Augusto César Sandino contro l'intervento degli Stati Uniti in Nicaragua risvegliava la coscienza anti-imperialista in tutta l'America Latina. In seguito, la vittoria della Rivoluzione cubana nel 1959, ispirata dall'anti-imperialismo di José Martí e trasformatasi in una lotta per il socialismo, portò di nuovo alla ribalta la rivoluzione contro l'imperialismo in America Latina, che si univa all'Asia e all'Africa su questo fronte.[31]

A causa dell'ondata rivoluzionaria che aveva colpito tutti e tre i continenti del terzo mondo nei primi decenni del secondo dopoguerra, l’originale analisi dell'imperialismo di Lenin veniva approfondita e ampliata, sviluppandosi in una ricca tradizione globalista che rifletteva numerose condizioni storiche e linguaggi diversi, ma che sottolineava in ogni caso la necessità della lotta rivoluzionaria.

Dopo la Seconda guerra mondiale, una figura importante nello sviluppo della teoria dell'imperialismo, ma anche della teoria della dipendenza, è stato Paul A. Baran, autore di The Political Economy of Growth (1957).[32] Baran è nato a Nikolaev, in Ucraina, nell'Impero russo zarista nel 1910. Studiò economia al Rossijskij ėkonomičeskij universitet im. G. V. Plechanova di Mosca e all'Università di Berlino, lavorando anche come assistente economico di Friedrich Pollock all'Institut für Sozialforschung di Francoforte. Successivamente emigrò negli Stati Uniti e studiò economia all'Università di Harvard durante la rivoluzione keynesiana. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nell'immediato dopoguerra, lavorò con lo Strategic Bombing Survey in Germania e Giappone. Dopo la guerra, lavorò per il Federal Reserve Board e poi ottenne una posto di ruolo come professore di economia alla Stanford University. Prima della pubblicazione di The Political Economy of Growth, Baran tenne una serie di lezioni all'Università di Oxford, dove fu elaborata gran parte del libro, e lavorò per l'Indian Statistical Institute di Calcutta.[33] Fu un forte sostenitore della Rivoluzione cubana ed esercitò un'importante influenza su Che Guevara. Nel 1966, Baran e Paul M. Sweezy scrissero, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura sociale ed economico americana.[34]

Rispecchiando questo background estremamente vasto, Baran incorporava nel suo lavoro non solo le teorie imperialiste di Lenin, del Comintern e di Mao, ma anche le esperienze della pianificazione economica sovietica e indiana. Allo stesso tempo, integrava queste esperienze con le mutate condizioni storiche del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Si trovava, quindi, in una posizione del tutto favorevole per essere riconosciuto come uno dei pilastri della teoria marxiana della dipendenza. Sosteneva che l'imperialismo aveva «distorto in modo inquantificabile» e bloccato lo sviluppo in tutto il mondo sottosviluppato.[35] Nel 1830, i paesi di quello che sarebbe stato definito il "terzo mondo" rappresentavano il 60,9% del potenziale industriale mondiale. Nel 1953, questa percentuale era scesa al 6,5%.[36] Introducendo il suo concetto di "surplus economico" (che nella sua forma più semplice può essere espresso come «la differenza tra la produzione attuale effettiva della società e il suo consumo attuale effettivo»), Baran dimostrò che il problema di fondo che impediva lo sviluppo nei paesi sottosviluppati era il trafugamento del surplus da parte delle principali potenze imperialiste, che poi investivano la quantità di surplus rubato nelle proprie economie, o nella periferia, in modo tale da incrementare lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati sul lungo periodo.[37] Come Engels e Lenin, Baran sosteneva che uno strato superiore di lavoratori nei paesi del centro imperiale beneficiava indirettamente dell'imperialismo, e formava così una «aristocrazia operaia che raccoglieva, al contrario della maggior parte della classe operaia, le briciole dal tavolo monopolistico».[38]

Un elemento importante della teoria della dipendenza di Baran, era il confronto tra Giappone e India. Il Giappone rappresentava un caso singolare di sviluppo economico al di fuori dell'Europa o delle colonie europee di colonizzatori bianchi. Nel diciannovesimo secolo, le potenze imperialiste avevano concentrato i loro sforzi in Asia orientale, al fine di sottomettere la Cina, non riuscendo a colonizzare il Giappone. Con la Restaurazione Meiji del 1868, avvenuta in risposta alle crescenti minacce militari e alla nascente imposizione di trattati ineguali da parte dell'Occidente, il Giappone fu in grado di creare la base sociale interna per una rapida industrializzazione, facilitata dall'appropriazione del know-how tecnologico occidentale. Nel 1905, la sua vittoria nella guerra russo-giapponese segnò l'ingresso del Giappone nello status di grande potenza. Al contrario, l'India, che era stata colonizzata dal Regno Unito nel diciottesimo secolo, vide la sua industria distrutta dagli inglesi, tenuta in uno stato permanente di sottosviluppo, o sviluppo dipendente.[39]

Rifacendosi a Mao, Baran insisteva sul fatto che una classe di comprador, o grande borghesia (alleata con i grandi proprietari terrieri) dei paesi sottosviluppati, era direttamente legata al capitale internazionale e svolgeva un ruolo parassitario nei confronti delle proprie società.[40] «Il compito principale dell'imperialismo oggi», scriveva, era di «prevenire o, se ciò è impossibile, rallentare e controllare lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati». Sosteneva che, «mentre ci sono state enormi differenze tra i paesi sottosviluppati», sotto questo aspetto, «il mondo sottosviluppato, nel suo insieme, ha continuamente trasferito una gran parte del proprio surplus economico ai paesi più avanzati, a causa di interessi e dividendi. Tuttavia, la cosa peggiore è che è molto difficile dire quale sia stato il male maggiore per quanto riguarda lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati: la rimozione del loro surplus economico da parte del capitale straniero o il suo reinvestimento da parte di imprese estere?».[41] Sotto quasi tutti gli aspetti, l'economia dipendente era una mera «appendice al 'mercato interno' del capitalismo occidentale».[42] Quindi, l'unica risorsa era la rivoluzione contro l'imperialismo, e l'istituzione di un'economia pianificata socialista. Qui Baran indicava l'esempio della Cina, che, uscendo «dall'orbita del capitalismo mondiale», era diventata una fonte di «stimolo e ispirazione per tutti gli altri paesi coloniali e dipendenti da altre potenze».[43]

The Political Economy of Growth fu pubblicato solo due anni dopo la Conferenza di Bandung del 1955, che dava il via al Movimento dei paesi non allineati del Terzo Mondo, e la sua influenza fu enorme.[44] Sebbene i paesi latinoamericani non avessero preso parte alla Conferenza di Bandung, la nuova prospettiva terzomondista contribuì a generare un'esplosione di ricerche dedicate al marxismo e all’analisi radicale del fenomeno della dipendenza in America Latina, che fu ispirata, molto più concretamente, dalla Rivoluzione cubana. Baran visitò Cuba nel 1960, insieme a Leo Huberman e Paul Sweezy, e incontrò Che Guevara, all’epoca presidente della Banca nazionale che si associò strettamente all'analisi generale di Baran sul sottosviluppo. Il Che avrebbe poi dichiarato, nel 1965, che «da quando il capitale monopolistico ha preso il controllo del mondo, ha tenuto in condizioni di povertà la maggior parte dell'umanità, dividendo tutti i profitti tra il gruppo dei paesi più potenti».[45] Tra i principali contributori all’analisi della dipendenza, in America Latina e nei Caraibi, figurano Vânia Bambirra, Theotônio Dos Santos, Rodolfo Stavenhagen, Fernando Henrique Cardoso, Pablo González Casanova, Ruy Mauro Marini, Walter Rodney (il cui lavoro più noto si è concentrato sul sottosviluppo dell’Africa), Clive Thomas ed Eduardo Galeano.[46] Anche l’economista tedesco-americano Andre Gunder Frank ha prodotto un profondo impatto con la pubblicazione, nel 1967, del suo Capitalism and Underdevelopment in Latin America, che metteva in evidenza «lo sviluppo del sottosviluppo».[47]

In Africa, Samir Amin, un giovane economista marxista franco-egiziano, introdusse nella sua tesi di dottorato del 1957 (completata all'età di 26 anni nello stesso anno in cui fu pubblicato il libro di Baran), una critica a tutto campo dello sviluppo mainstream, poi pubblicata con il titolo Accumulation on a World Scale. Successivamente ha contribuito in modo fondamentale all’analisi della dipendenza, dello scambio ineguale e alla teoria dei sistemi-mondo. Gran parte dell'analisi di Amin si concentrava sulla distinzione, da un lato, tra le economie "autocentriche" presenti nel cuore del sistema capitalista mondiale, orientate alle proprie logiche interne e alla riproduzione espansa, e dall'altro, tra le economie "disarticolate" della periferia, dove la produzione era strutturata in relazione alle esigenze delle economie imperialiste. La natura disarticolata delle economie periferiche sotto l'imperialismo, indicava come unica vera alternativa, un delinking ** rivoluzionario dalla logica dell'ordine imperialista mondiale. Per Amin, tuttavia, il delinking non riguardava una separazione assoluta dall’economia mondiale o un “ritiro autarchico”. Piuttosto, esso implicava che avvenisse un delinking dal sistema mondiale basato sul valore, organizzato attorno a un centro dominante e una periferia dominata, per avviare una transizione verso un mondo più “policentrico”.[48]

Un contributo fondamentale alla teoria dell'imperialismo è stato Unequal Exchange: A Study of the Imperialism of Trade (1969) dell'economista marxista francese Arghiri Emmanuel.[49] Il lavoro di Emmanuel, che ha dato vita a un lungo dibattito, sosteneva che nell'era del neocolonialismo la relazione tra i paesi centrali e quelli della periferia era una relazione basata sulla diseguaglianza nel processo di scambio, tale per cui un paese otteneva più valore-lavoro di un altro a causa della mobilità globale del capitale, unita all'immobilità globale del lavoro. I termini di questo problema erano stati impostati da Amin, il quale aveva mostrato che lo scambio diseguale esisteva quando la differenza di salari tra il Nord globale e il Sud globale era maggiore della differenza tra le loro produttività. Amin proseguiva sostenendo che la legge del valore ora operava a livello mondiale sotto il capitale finanziario monopolistico globalizzato.[50]

La realtà della classe dirigente nel mondo sottosviluppato, secondo Amin, era una realtà di "compradorizzazione e transnazionalizzazione", che richiedeva nuove strategie rivoluzionarie anti-imperialiste, dal momento che non esisteva più una borghesia nazionale in quanto tale. In queste circostanze, una strategia rivoluzionaria di delinking sarebbe dipesa dalla «costruzione di un blocco sociale anti-comprador» con l'obiettivo di consentire un progetto sovrano, separato dal controllo del sistema mondiale imperialista. Per quanto riguarda l'imperialismo e la classe negli stati capitalisti avanzati, Amin suggeriva che la teoria dell'aristocrazia operaia di Lenin non era sufficiente per affrontare il modo in cui l'intera «ineguale divisione internazionale del lavoro» creava ampie strutture di supporto all'imperialismo all'interno degli stati imperialisti centrali che non potevano essere semplicemente eliminate. In questo caso era necessaria la «costruzione di un blocco anti-monopolista».[51]

Gran parte della teoria marxista della dipendenza, a partire dagli anni '70, si fuse con la teoria del sistema-mondo (in seguito sistemi-mondo), grazie agli studi pionieristici di Oliver Cox, Immanuel Wallerstein, Frank, Amin e Giovanni Arrighi.[52] La teoria del sistema-mondo superò alcuni dei limiti della teoria della dipendenza, concependo gli stati-nazione come parte di un sistema-mondo capitalista. Il sistema-mondo, nella sua divisione in centri e periferie (ma capace di includere semiperiferie e aree esterne) diventava così il centro dell’analisi. Tuttavia, in alcune versioni della teoria del sistema-mondo, in particolare nel lavoro di Arrighi, permaneva una divergenza rispetto alla teoria dell'imperialismo, dovuta al fatto che le relazioni politico-economiche internazionali venivano ridotte a semplici egemonie mutevoli, in linea con l'economia politica internazionale dominante.[53]

Già negli anni '60, gli economisti politici radicali si erano concentrati sulla critica delle multinazionali, intese come la forma globale assunta dal capitale monopolistico e quindi le principali cinghie di trasmissione dell'imperialismo economico. In questo contesto, fu pionieristica l’analisi di Stephen Hymer, che, con la sua rivoluzionaria tesi del 1960 dedicata a The International Operations of National Firms: A Study of Direct Foreign Investment, fornì, proprio nell'anno in cui il termine appariva per la prima volta, una teoria delle "multinazionali" basata sull'organizzazione industriale e sulla teoria del monopolio. A questa analisi seguì quella sul ruolo delle multinazionali e dell'imperialismo, in Il capitale monopolistico, di Baran e Sweezy, e "Notes on the Multinational Corporation", di Harry Magdoff e Sweezy (1969). La traiettoria mondiale di queste società è diventata centrale per l'intera teoria dell'imperialismo come in The Age of Imperialism: The Economics of US Foreign Policy di Magdoff (1969).[54]

Negli anni '70 e '80, gran parte della ricerca sull'imperialismo si è spostata dal regno dell'economia politica a quello della cultura. In linea con la precedente critica di Joseph Needham all'"Eurocentrismo" degli anni '60, nel 1989 Amin introdusse la sua influente critica pubblicando Eurocentrismo, mentre Edward Said scriveva Orientalismo (1978) e poi Cultura e imperialismo (1993).[55] Con l'ascesa dell'ecosocialismo, la critica dell'imperialismo venne estesa anche alla questione dell'imperialismo ecologico.[56]

Nel corso del ventunesimo secolo, la maggior parte delle analisi dell'imperialismo economico si è concentrata sull'arbitraggio globale del lavoro e sulle catene globali del valore. Mai prima d'ora l'estrazione di surplus del Nord globale dal Sud globale è stata dimostrata in modo così approfondito per mezzo di studi empirici. Ciò deriva dal fatto che lo sfruttamento internazionale è ora più sistematico che mai: radicato nelle catene del valore del sistema globale e incarnato nell'esportazione di beni manifatturieri dalla periferia alla semiperiferia sino al centro.[57] Da ciò è risultato il crescente rilievo delle teorie di "supersfruttamento" (vale a dire, livelli di sfruttamento nel Sud globale che superano la media globale e minano i bisogni essenziali di sussistenza dei lavoratori del Sud) come sviluppato nel lavoro di pensatori come Marini, Amin, John Smith e Intan Suwandi.[58]

Oggi, grazie alla ricerca di Jason Hickel e dei suoi colleghi sappiamo che tra il 1995 e il 2021 il Nord globale è stato in grado di estrarre dal Sud globale 826 miliardi di ore di lavoro netto appropriato. Misurato con i salari del Nord, si tratta di un valore pari a 18,4 trilioni di dollari. Alla base di questo fenomeno, c'è il fatto che i lavoratori del Sud globale ricevono salari inferiori dell'87-95% rispetto a quelli del nord, per un lavoro identico e svolto con gli stessi livelli di competenza. Lo stesso studio ha concluso che il divario salariale tra il Nord globale e il Sud globale stava aumentando, con i salari del Nord in aumento di undici volte rispetto ai salari del Sud tra il 1995 e il 2021.[59] Questa ricerca sull'arbitraggio del lavoro globale contemporaneo è abbinata al recente lavoro storico di Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik che ha documentato l'astronomico drenaggio di ricchezza durante il periodo del colonialismo britannico in India. Il valore stimato di questo drenaggio nel periodo 1765-1900, contabilizzato fino al 1947 (ai prezzi del 1947) al 5% di interesse, era di 1.925 trilioni di dollari; contabilizzato fino al 2020, ammonta a 64.82 trilioni di dollari.[60]

Occorre sottolineare che l'attuale drenaggio di surplus economico del Nord globale dal Sud globale, tramite lo scambio ineguale di lavoro incorporato nelle esportazioni da parte di quest'ultimo, si aggiunge al normale flusso netto di capitale che va dai paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, così come registrato nei conti nazionali. Ciò include il saldo del commercio di merci (importazioni ed esportazioni), i pagamenti netti a investitori e banche straniere, i pagamenti per trasporto merci e assicurazioni e una vasta gamma di altri pagamenti effettuati al capitale straniero come royalty e brevetti. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), i trasferimenti netti di risorse finanziarie dai paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, nel solo 2017 ammontavano a 496 miliardi di dollari. Nell'economia neoclassica, questo fenomeno è noto come il paradosso del flusso inverso di capitale, o del capitale che scorre in salita, e che si cerca inefficacemente di spiegare con vari fattori contingenti piuttosto che riconoscere la realtà dell'imperialismo economico.[61]

Per quanto riguarda la dimensione geopolitica dell'imperialismo, nel corso di questo secolo l'attenzione si è concentrata sul continuo declino dell'egemonia statunitense. L'analisi si è focalizzata sui tentativi di Washington, a partire dal 1991, sostenuti da Londra, Berlino, Parigi e Tokyo, di invertire questa tendenza. L'obiettivo era quello di instaurare la triade Stati Uniti, Europa e Giappone, con Washington preminente, come potenza globale unipolare attraverso un più "nudo imperialismo". Questa dinamica controrivoluzionaria ha infine portato all'attuale Nuova Guerra Fredda.[62]

Eppure, nell'ultimo secolo, nonostante tutti gli sviluppi della teoria dell'imperialismo, non è tanto la teoria dell'imperialismo quanto l'intensificazione effettiva dello sfruttamento del Sud globale da parte del Nord globale, unita alla resistenza di quest'ultimo, a essere venuta in primo piano. Come sosteneva Paul Sweezy nel 1972, in Modern Capitalism and Other Essays, nel ventesimo secolo il punto focale della resistenza proletaria si è spostato in modo decisivo dal Nord globale al Sud globale.[63] Quasi tutte le rivoluzioni avvenute dal 1917 hanno avuto luogo nella periferia del sistema capitalista mondiale e sono state rivoluzioni contro l'imperialismo. La stragrande maggioranza di queste rivoluzioni si è verificata sotto gli auspici del marxismo. Tutte hanno subito azioni controrivoluzionarie da parte delle grandi potenze imperialiste. Solo gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente centinaia di volte dopo la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto nel Sud globale, causando la morte di milioni di persone.[64] Tra la fine del ventesimo e l'inizio del ventunesimo secolo, le principali contraddizioni del capitalismo sono state quelle di imperialismo e classe.

La crescente negazione dell’imperialismo da parte della sinistra occidentale

La negazione della realtà dell'imperialismo, in tutto o in parte, ha una lunga storia nella sinistra eurocentrica occidentale, a partire dal vero e proprio "imperialismo sociale" della Fabian Society in Gran Bretagna, riflessa nello sciovinismo sociale di tutti i principali partiti socialdemocratici europei al tempo della Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, con la rinascita della sinistra occidentale nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, in particolare negli anni '60 e '70, i socialisti occidentali avevano adottato una posizione fortemente anti-imperialista, sostenendo le lotte di liberazione nazionali in tutto il mondo. Questo iniziò ad affievolirsi con il declino del movimento contro la guerra del Vietnam, nei primi anni '70.[65]

Nel 1973, Bill Warren, nella New Left Review, introdusse l'idea che Marx, nel suo "The Future Results of the British Rule in India" (1853), avesse visto l'imperialismo come una forza progressista, una visione che, dichiarava Warren, è stata in seguito erroneamente ribaltata da Lenin.[66] L'interpretazione di Marx da parte di Warren era in contrasto con il trattamento, molto più approfondito, di teorici negli Stati Uniti, in India e in Giappone che a partire dagli anni '60, dimostravano che Marx, fin dai primi anni '60 dell'Ottocento, aveva riconosciuto il modo in cui il colonialismo impediva lo sviluppo nelle colonie.[67] Tuttavia, l'idea che Marx, e persino Lenin, avessero adottato la visione dell'imperialismo [come] pioniere del capitalismo, – titolo/sottotitolo del libro di Warren, pubblicato postumo nel 1980 – è divenuta un postulato comunemente accettato a sinistra.[68]

Alla base delle critiche all'imperialismo economico provenienti dai circoli eurocentrici occidentali c'è stato il rifiuto della tesi dell'aristocrazia operaia di Engels e Lenin. Quindi, l'idea secondo cui una parte della classe operaia del nucleo imperialista dell'economia globale trae vantaggio dall'imperialismo è stata generalmente esclusa in quanto politicamente discutibile. Tuttavia, l'esistenza di un'aristocrazia del lavoro, a un certo livello, è difficile da negare su qualsiasi base realistica. Un'indicazione di ciò è che uno studio dopo l’altro conferma che la dirigenza sindacale dell'AFL-CIO [American Federation of Labor e Congress of Industrial Organizations] degli Stati Uniti è storicamente orientata al sindacalismo d'impresa ed è strettamente legata al complesso militare-industriale. È stata complice dell'ordine costituito. La dirigenza dell'AFL-CIO ha lavorato con la CIA per tutto il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale per reprimere i sindacati progressisti in tutto il Sud del mondo, appoggiando i regimi più sfruttatori. Non c'è dubbio che, in questi e altri aspetti, lo strato superiore dei lavoratori (o i loro rappresentanti) si sia opposto opportunisticamente alle esigenze sia della maggioranza dei lavoratori degli Stati Uniti sia del movimento proletario mondiale nel suo complesso. In Europa, la leadership sindacale associata ai partiti socialdemocratici ha storicamente mostrato simili inclinazioni. La schiacciante “bianchezza” della leadership della maggior parte dei sindacati dei paesi occidentali e il razzismo così evidente in essi contribuiscono ulteriormente a spiegare il sostegno reazionario alle politiche imperialiste da parte dei loro governi.[70]

Di fronte a tali contraddizioni storiche, un nuovo approccio alla negazione dell'imperialismo da parte della sinistra fu introdotto da Geometria dell'imperialismo (1978) di Arrighi, che nonostante il titolo, cercò di usare il concetto di egemonia (parte della teoria dell'imperialismo) per sostituire il concetto di imperialismo nel suo complesso, riducendolo ai suoi aspetti geopolitici ed evitando la questione dello sfruttamento economico internazionale. Per Arrighi, le vecchie teorie dell'imperialismo, a partire da quella di Lenin, erano "obsolete". Ciò che rimaneva era un sistema-mondo, costituito da stati-nazione che si contendevano l'egemonia. In Il lungo XX secolo (1994), Arrighi si asteneva del tutto dal riferirsi al termine "imperialismo" in relazione al mondo del dopoguerra; abbandonando anche il concetto di capitale monopolistico tramite la neoclassica teoria dei costi di transazione.[71]

Ma furono gli effetti combinati della caduta del Muro di Berlino – e la successiva ondata di globalizzazione dopo il 1989 – con la spinta aggressiva di Washington verso un ordine unipolare, che hanno portato la sinistra a negare, molto più apertamente, l'imperialismo. Ironicamente, in un momento in cui i liberali celebravano un nuovo "nudo imperialismo", gran parte della sinistra globale ha abbandonato ogni nozione critica della teoria dell'imperialismo, offrendo persino, in alcuni casi, sostegno all'ideologia del nuovo impero.[72] In questo modo, l'egemonia ideologica esercitata dal capitale sulla sinistra occidentale è stata messa in piena evidenza.[73] In Whatever Happened to Imperialism?, del 1990, Prabhat Patnaik suggerì che «il silenzio assordante» sull'economia politica dell'imperialismo tra i marxisti europei e statunitensi negli anni '80 e '90 – che costituiva una netta rottura con gli anni '60 e '70 – non era il prodotto di un ampio dibattito teorico all'interno del marxismo. Piuttosto, potrebbe essere attribuito al «rafforzamento e consolidamento stesso dell’imperialismo».[74]

Un esempio dell'arretramento della sinistra occidentale dalla teoria dell'imperialismo è stato Impero di Michael Hardt e Antonio Negri, pubblicato dalla Harvard University Press nel 2000 e lodato da tutti i media dominanti degli Stati Uniti, tra cui il New York Times, Time e Foreign Affairs. Adottando una prospettiva esplicita di "mondo piatto" non del tutto dissimile da quella che fu poi promossa dal giornalista del New York Times Thomas L. Friedman, nel suo lavoro del 2005, The World Is Flat, Hardt e Negri sostenevano che l'imperialismo gerarchico di un tempo era stato ormai sostituito dallo «spazio liscio del mercato mondiale capitalista». «Non era più possibile», dichiararono, «demarcare ampie zone geografiche come centro e periferia, Nord e Sud». In effetti, «l'imperialismo», si spingevano ad affermare, «crea in realtà una camicia di forza per il capitale» interferendo con le propensioni del capitalismo al mondo piatto. Hardt e Negri avrebbero dato alla loro idea di un ordine globale-costituzionale regolamentato, modellato sugli Stati Uniti, ma allo stesso tempo decentrato e deterritorializzato, il nome di “Impero”, per distinguerlo dall’imperialismo.[75]

Il lavoro di Hardt e Negri ha contribuito a ispirare il geografo marxista David Harvey nel suo The New Imperialism, del 2003. Qui, Harvey ha reindirizzato la teoria dell'imperialismo attraverso il concetto marxiano di "espropriazione originaria" (o "cosiddetta accumulazione primitiva"), ribattezzandola «accumulazione per espropriazione».[76] L'espropriazione, associata alla rapina o alla spoliazione, piuttosto che allo sfruttamento interno al processo economico, è diventata l'essenza del "nuovo imperialismo". Il ruolo dello sfruttamento, presente nella teoria dell'imperialismo di Lenin – e che lo collegava direttamente al capitalismo monopolistico – è stato messo da parte nell'analisi di Harvey e ha portato a fantasticare un “New Deal” imperialista, o una rinnovata politica di buon vicinato come soluzione al conflitto internazionale. Questa visione non riusciva a vedere l'imperialismo come dialetticamente connesso al capitalismo, e come fondamentale per tale sistema quanto la ricerca del profitto stesso.[77]

Sebbene sia spesso stato definito come uno dei principali teorici dell'imperialismo, Harvey ha esplicitamente abbandonato il nocciolo della teoria sviluppata da Lenin, da Mao e dai teorici della dipendenza, dello scambio ineguale e del sistema-mondo, classificando l'intera tradizione, quasi secolare, come visione della "sinistra tradizionale". Harvey ha invece presentato la sua prospettiva come affine a quella di Impero, di Hardt e Negri, che a suo dire, ha posto «una configurazione decentrata dell'impero, che ha molte nuove qualità postmoderne».[78] Nella misura in cui dipendeva ancora dalla teoria marxista classica dell'imperialismo, questa sua prospettiva si basava sulla nozione di imperialismo, formulata da Rosa Luxemburg, come conquista ed espropriazione di settori non capitalistici, soprattutto nelle aree esterne. Questo forniva così nuovi mercati per sostenere l'accumulazione, che veniva poi assorbita nel sistema capitalista complessivo. L'imperialismo, in questa visione, costituiva una realtà auto-annichilente. Sebbene la rinnovata attenzione all'espropriazione da parte di Harvey sia stata importante, l'inserimento di questa visione – che sminuiva il ruolo dello sfruttamento internazionale – rappresentava un passo indietro.[79]

Con The Enigma of Capital, pubblicato nel 2010, Harvey andò oltre, sostenendo che si era verificato uno «spostamento senza precedenti» che aveva «invertito il drenaggio di ricchezza proveniente dall’Asia orientale, sud-orientale e meridionale verso l’Europa e il Nord America, che si verificava dal XVIII secolo, un drenaggio che Adam Smith aveva segnalato con rammarico nel suo La ricchezza delle nazioni ... [Questo] ha alterato il centro di gravità dello sviluppo capitalista».[80] A sostegno di questa tesi c'è un rapporto, del 2008, del National Intelligence Council degli Stati Uniti su Global Trends 2025, che prevedeva un mondo più multipolare. Ma se da un lato quel rapporto prevedeva che le economie asiatiche avrebbero continuato a crescere più velocemente di quelle degli Stati Uniti e dell’Europa fino al 2025, in linea con il declino dell’egemonia statunitense e la crescente multipolarità, dall'altro non indicava ciò che Harvey definiva un’«inversione» nei flussi di capitale a livello globale, tanto meno un’inversione dello storico drenaggio di capitale da Est/Sud a Ovest/Nord.[81]

La recente stima di Hickel e dei suoi colleghi (già citata) di 18,4 trilioni di dollari di valore sottratti nel 2021 dal Nord globale al Sud globale nel processo di scambio ineguale – oltre alle centinaia di miliardi di dollari di trasferimento annuale di risorse finanziarie dai Paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, che ammontano, solo nel 2012, secondo l'UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development), a 977 miliardi di dollari – rende chiaro che nello storico drenaggio di capitale, la nozione di «inversione» formulata da Harvey è infondata. Secondo uno studio di Matteo Crossa, il trasferimento di valore attraverso lo scambio ineguale nel settore manifatturiero dell'esportazione dal Messico agli Stati Uniti, è stato di 128 miliardi di dollari nel solo 2022.[82]

Nel 2014, Harvey non ha inserito l'"imperialismo" nel suo Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo. Nel 2017, ha annunciato che «l'imperialismo» dovrebbe essere visto come «una sorta di metafora, piuttosto che qualcosa di reale».[83] Un anno dopo, ha proseguito affermando di preferire l'approccio geometrico del sistema-mondo di Arrighi che «abbandona il concetto di imperialismo (o, se vogliamo, la rigida geografia di centro e periferia stabilita nella teoria dei sistemi-mondo) in favore di un'analisi più aperta e fluida delle egemonie mutevoli all'interno del sistema mondiale».[84] In questo modo, l'analisi del "nuovo imperialismo" di Harvey, che, fin dall'inizio, era stata progettata per abbandonare gran parte della teoria marxista classica dell'imperialismo, si è integrata con l'analisi geopolitica mainstream, escludendo le nozioni di centro-periferia, Nord-Sud e qualsiasi concezione coerente di imperialismo economico.

Lo storico e sociologo canadese Moishe Postone, oggi più noto per il suo Time, Labor and Social Domination (1993), nel 2006 ha esposto un'analisi che criticava duramente la teoria e la politica anti-imperialiste. «Molti di coloro che si opponevano alle politiche americane» in Medio Oriente e altrove, ha scritto
hanno fatto ricorso a... inadeguati e anacronistici quadri concettuali e posizioni politiche "anti-imperialiste". Al centro di questo neo-anti-imperialismo c'è una concezione feticistica dello sviluppo globale, ovvero una interpretazione concretistica di processi storici astratti in termini di agenti politici. Il dominio astratto e dinamico del capitale, come quello degli Stati Uniti o, in alcune varianti, come quello degli Stati Uniti e di Israele, è stato feticizzato a livello globale... L'articolo evidenzia la sovrapposizione di concezioni feticizzate del mondo e suggerisce che tali concezioni hanno conseguenze molto negative per la costituzione, oggi, di un'adeguata politica antiegemonica. Questo risvegliato manicheismo, che è in contrasto con altre forme di anti-globalizzazione... non è adeguato al mondo contemporaneo e, in alcuni casi, può addirittura servire come ideologia legittimante per quelle che cento anni fa sarebbero stato definite rivalità imperialiste.[85]
Ma poiché gli Stati Uniti costituiscono indiscutibilmente il centro egemonico del capitale monopolistico-finanziario globale, impegnato ora in una guerra permanente nel Sud globale, l'affermazione di Postone, secondo cui una prospettiva che si concentra su ciò è "feticistica", finisce in un labirinto di contraddizioni da cui non può uscire.[86] L'idea che la politica anti-imperialista debba essere sostituita da una politica antiegemonica e anti-globalizzazione, si espone all'accusa di feticizzare una globalizzazione astratta, perdendo di vista l'intera realtà storica dell'imperialismo fino ai giorni nostri.

I più recenti sviluppi della negazione della teoria dell'imperialismo da parte della sinistra eurocentrica occidentale, oggi estesa anche alle critiche della sinistra anti-imperialista, sono stati strettamente paralleli ai cambiamenti dell'ordine globale, associati al declino dell'egemonia statunitense. Dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2009 e la continua ascesa della Cina, Barack Obama ha istituito il suo "Pivot to Asia". A ciò ha fatto seguito la Nuova Guerra Fredda contro la Cina avviata dall'amministrazione di Donald Trump e portata avanti dall'amministrazione di Joe Biden. Washington ha fatto ricorso a un maggiore uso del potere finanziario degli Stati Uniti per implementare sanzioni massicce ai paesi considerati estranei e in contrasto con il potere degli Stati Uniti. Questa situazione è stata accentuata dall'inizio della guerra Ucraina-Russia (o guerra per procura NATO-Russia) nel 2022. Di conseguenza, i punti di vista sull'imperialismo di vari pensatori di sinistra sono stati radicalmente riconfigurati e li portò a un più esplicito abbandono della tradizionale critica dell'imperialismo.

È in questo contesto storico che Chibber, in un'intervista del 2022 su Jacobin, ha scelto apertamente di rifiutare tutti gli elementi fondamentali della teoria dell'imperialismo di Lenin. Ha esordito sostenendo che «l'imperialismo deve essere distinto dal capitalismo». Inoltre ha dichiarato che la nozione di Lenin, di imperialismo come capitalismo monopolistico, era «errata», in quanto «alla fine del ventesimo secolo e all'inizio del ventunesimo, non c'era una tendenza al monopolio di natura sistemica». In questo caso, l'attacco di Chibber al concetto stesso di capitale monopolistico ha rivelato la sua ignoranza dell'enorme crescita della concentrazione e centralizzazione del capitale negli ultimi decenni, associata a successive ondate di fusioni che hanno portato a un continuo aumento del potere monopolistico e alla centralizzazione della finanza. Nel 2012, le prime duecento imprese (tutte corporation) degli Stati Uniti, su un totale di 5,9 milioni di corporation, 2 milioni di società di persone, 17,7 milioni di imprese individuali non agricole e 1,8 milioni di imprese individuali agricole, rappresentavano circa il 30% dei profitti lordi degli Stati Uniti, e questa quota è in rapido aumento. I ricavi delle prime cinquecento corporation globali equivalgono oggi a circa il 35-40% del reddito mondiale totale.[87] Nel 2020, le transazioni delle Global Value Chain (GVC) [catene globali del valore] da parte di multinazionali, rappresentavano la maggior parte del commercio mondiale. L'«intensificazione delle GVC» di un paese, secondo la Banca Mondiale, aumenta nella misura in cui le esportazioni del paese incorporano input importati da altri paesi. Come spiegato nel The World Development Report 2020: Trading for Development in the Age of Global Value Chains, «i maggiori contributori [del mondo] all'intensificazione delle GVC [nel 1990-2015] sono stati Germania, Stati Uniti, Giappone, Italia e Francia», con il Regno Unito non molto distante. Al centro delle catene globali del valore del mondo ci sono quindi le stesse grandi potenze imperiali (sede di imprese monopolistiche globali) dei tempi di Lenin.[88]

Dopo aver scartato la nozione di capitale monopolistico, Chibber è in grado di eliminare qualsiasi nozione coerente di sfruttamento internazionale o imperialismo. «I flussi internazionali di capitale non costituiscono imperialismo», scrive, «quello è solo capitalismo», come se l'imperialismo fosse completamente separato dalle leggi economiche del movimento del capitalismo. La teoria di Lenin, ci viene detto, era politica piuttosto che economica, basata principalmente sulla «competizione tra stati». Inoltre, l'analisi di Lenin era fatalmente «sbagliata» anche sotto altri aspetti. Così, l'analisi di Lenin (insieme a quella dei successivi leninisti), ci viene detto, era lineare e stadiale, con tutti i paesi che dovevano passare attraverso «uno stadio capitalista», una posizione, tuttavia, che, come abbiamo visto, Lenin rifiutava esplicitamente. Peggio ancora, la critica di Lenin all'imperialismo includeva la nozione di aristocrazia operaia, che, secondo Chibber, «non ha alcun significato per un'analisi generale del capitalismo del Nord o globale».[89]

Secondo Chibber, «l’anti-imperialismo» può essere definito come qualsiasi «azione collettiva nel tuo [proprio] paese contro il militarismo e l'aggressione del tuo [proprio] governo contro altri paesi». Ciò costituisce una definizione puramente nazional-politica, separata sia dall’internazionalismo proletario sia da qualsiasi resistenza diretta alle leggi del movimento del capitalismo stesso nella sua fase di monopolio. Ne consegue, secondo questa definizione, che l’anti-imperialismo è una lotta nazionale contro una politica aggressiva e militarista, piuttosto che un’opposizione all’imperialismo come sistema. Nel complesso, conclude Chibber, si è passati da «un mondo leninista a un mondo kautskiano». Quindi, l’imperialismo deve essere visto in termini kautskiani come una mera politica nazionale, che comprende l’unità dei paesi al centro del sistema e scollegata dalla questione dello sfruttamento mondiale.[90] Non sorprende, quindi, che nel libro di Chibber del 2022, The Class Matrix, incentrato sulla classe nella società capitalista avanzata, non vi sia alcun trattamento dell'imperialismo, del capitalismo monopolistico o addirittura del militarismo.[91]

In modo simile, Robinson nel capitolo, Beyond the Theory of Imperialism, del suo libro del 2018 Into the Tempest, afferma che: «L'immagine classica dell'imperialismo come relazione di dominio esterno è ormai superata... La fine dell'espansione del capitalismo è la fine dell'era imperialista del capitalismo mondiale. Il sistema conquista ancora spazio, natura ed esseri umani... Ma non è l'imperialismo nel vecchio senso di capitali nazionali rivali, o la conquista da parte di stati centrali di regioni precapitaliste» che dovrebbe essere oggetto di analisi oggi. È invece necessaria una teoria del capitalismo globale che sposti tutto questo, concentrandosi principalmente sul cambiamento delle "dinamiche territoriali".[92]

Più recentemente, negli articoli, The Unbearable Manicheanism of the ‘Anti-Imperialist’ Left, e The Travesty of Anti-Imperialism, Robinson ha cercato di sostituire l'imperialismo con la sua idea di un capitalismo completamente globalizzato, governato da una classe capitalista transnazionale. Prendendo di mira figure come Vijay Prashad del Tricontinental Institute, Robinson critica qualsiasi nozione di sfruttamento del Sud globale o "ex Terzo Mondo", da parte del Nord globale. Contestando in generale la teoria marxista dell'imperialismo, egli sostiene che una nazione non può sfruttare un'altra nazione.[93] «Per imperialismo», afferma Robinson, intendiamo solo «l'espansione violenta del capitale verso l'esterno, con tutti i meccanismi politici, militari e ideologici che questo comporta». La teoria dell'imperialismo di Lenin, sostiene, aveva la sua «essenza» nella «rivalità... delle classi capitalistiche nazionali» e non nella lotta per lo sfruttamento delle nazioni della periferia del mondo capitalista, ciò che Lenin stesso, contrariamente a Robinson, definiva come «l'essenza economica e politica dell'imperialismo». [94]

Per Robinson, le condizioni del capitalismo globale sono oggi così alterate che non c'è alcuna relazione con la «struttura precedente in cui il capitale coloniale metropolitano semplicemente [!] travasava il plusvalore dalle colonie e lo depositava nelle casse coloniali». È vero che gli Stati Uniti si impegnano in interventi militari nel mondo: «se vogliamo chiamare questo imperialismo», allora «va bene», ma non dobbiamo confonderlo con la tradizionale teoria marxista dell'imperialismo come sfruttamento internazionale.[95]

Allo stesso modo, Gilbert Achcar, professore al SOAS (School of Oriental and African Studies) presso la University of London, ha pubblicato nel 2021 un articolo su The Nation intitolato, How to Avoid the Anti-Imperialism of Fools. Qui accusava l'intera sinistra anti-imperialista di "campismo", ovvero di fedeltà a un campo o blocco particolare, nella misura in cui si opponeva inequivocabilmente all'imperialismo ibrido (economico, militare, finanziario e politico) diretto dagli Stati Uniti e dai loro alleati della triade contro i paesi del Sud globale. Quei socialisti che si sono fermamente uniti ai popoli della periferia per principio e contro tutti gli interventi militari e le sanzioni economiche, sono stai accusati di fare in tal modo una «apologia dipinta di rosso dei dittatori». Allo stesso tempo, Achcar ha indicato qui e altrove che è del tutto appropriato, a suo avviso, per “anti-imperialisti progressisti” sostenere l’intervento militare delle potenze imperialiste occidentali, a favore di un cambiamento di regime, come nel caso dell’intervento in Libia del 2011, se questo è destinato ad aiutare sul campo i movimenti presunti progressisti.[96]

Le sinistre occidentali, solitamente socialdemocratiche, hanno rivolto dure critiche a Cuba e al Venezuela postrivoluzionari per i loro presunti fallimenti morali, politici ed economici. Tali accuse vengono mosse al di fuori di qualsiasi contesto politico significativo, basandosi principalmente sull'accettazione acritica di resoconti propagandistici dei media statunitensi ed europei, ignorando in gran parte gli enormi successi di questi stati. Le critiche non tengono conto del fatto che entrambe le nazioni sono attualmente sottoposte alle più severe forme di guerra d'assedio internazionale mai sviluppate. I blocchi economici e le sanzioni finanziarie sono progettati per negare a queste società anche il cibo e le medicine più essenziali, abbinati a periodici tentativi di colpo di stato, tutti progettati dalla CIA e dalla Casa Bianca. Tuttavia, la piena portata del ruolo degli Stati Uniti è bypassato da una sinistra che sembra operare secondo le regole di quello che l'Hoover Institution chiamava «imperialismo democratico».[97]

Alcuni critici della sinistra anti-imperialista oggi prendono di mira Samir Amin, sostenendo che il distacco dall'imperialismo non può avvenire, nemmeno, secondo l'accezione di Amin, di creazione di un «mondo più policentrico» non più dominato dalle metropoli imperiali dell'economia globale. Non ci sono dubbi che oggi stia emergendo un mondo più multipolare. Tuttavia, Jerry Harris, segretario organizzativo della GSA (Global Study Association), ha sostenuto in un'intervista condotta da Bill Fletcher (sindacalista di lunga data e membro del consiglio esecutivo della GSA), che il passaggio a un mondo multipolare è impossibile nell'attuale capitalismo completamente globalizzato o transnazionale, governato da una classe capitalista transnazionale. Secondo questa visione, che è identica a quella di Robinson, non c'è via d'uscita dall'attuale ordine mondiale poiché non ci sono più vere divisioni imperialiste o stati nazionali autonomi (eccetto forse alcuni Paesi rinnegati, e quindi non c'è alcuna possibilità al di fuori della totalità del capitalismo globale.[98] Qui, l'analisi dei teorici del capitale transnazionale di sinistra non riesce a comprendere che il capitale, per quanto si globalizzi, non è in grado di costituire uno stato globale. Quindi, non può esserci una classe capitalista veramente globale o uno stato capitalista transnazionale. Il sistema del capitale, come ha osservato István Mészáros, è intrinsecamente centrifugo e antagonista a livello globale, inevitabilmente diviso in stati-nazione in competizione. La natura di questa contraddizione si manifesta oggi con il vano tentativo degli Stati Uniti di creare un sistema unipolare attorno a se stessi, anche quando la loro egemonia si affievolisce, indicando la fase più letale dell'imperialismo.[99]

Un altro sviluppo teorico caratteristico della sinistra eurocentrica occidentale è stato l'adozione in forma ridotta della teoria dell'imperialismo di Lenin, vista come un semplice modello di conflitto interimperialista orizzontale tra grandi potenze. In questo caso, la Cina e la Russia sono rappresentate come un unico blocco (sebbene rappresentino sistemi politico-economici molto diversi), impegnato in una rivalità imperialista con la triade Stati Uniti, Europa e Giappone. I paesi di medio livello o semiperiferici del Sud globale entrano nel quadro come potenze "subimperialiste", un concetto introdotto per la prima volta da Marini nel contesto della 'teoria della dipendenza', ma ora utilizzato in un modo molto diverso.[101] L'imperialismo, in questa nuova visione, non è più associato principalmente al ruolo di sfruttamento globale da parte delle grandi potenze imperiali, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Giappone, che, costituendo il centro del sistema mondiale capitalista, hanno dominato la storia secolare dell'imperialismo. La caratterizzazione degli stati imperialisti viene estesa anche alle economie semiperiferiche ed emergenti, classificate ora come imperialiste o subimperialiste, nel senso di considerare l'imperialismo soprattutto in termini orizzontali piuttosto che verticali.

Secondo Ashley Smith, caporedattore della rivista Spectre, che scrive per Tempest, gli Stati Uniti «sono in competizione», non solo con la Cina e la Russia e i loro alleati, ma anche con «stati subimperiali come Israele, Iran, Arabia Saudita, India e Brasile».[102] (L’idea che gli Stati Uniti siano in competizione con Israele sorprenderà senza dubbio alcuni!) Eppure, come ha affermato in modo convincente l’economista marxista Michael Roberts,
Dubito che il sub-imperialismo ci aiuti a comprendere il capitalismo contemporaneo. Indebolisce la demarcazione tra il blocco imperialista centrale e la periferia dei paesi dominati. Se ogni paese è «un po' imperialista»... [il concetto di imperialista] inizia a perdere la sua validità come concetto utile. I cosiddetti paesi sub-imperialisti non ricevono grandi e duraturi trasferimenti di valore e risorse dalle economie più deboli. Nel nostro lavoro [Roberts e Guglielmo Carchedi] sull'imperialismo e nel lavoro empirico di altri, questa struttura gerarchica del trasferimento di valore non viene riscontrata. India, Cina e Russia trasferiscono al blocco imperialista quantità di valore molto più grandi rispetto al Sud America. Prendiamo in considerazione i BRICS, i migliori candidati per essere "sub-imperialisti". Non ci sono prove di trasferimenti di valore significativamente grandi e duraturi da economie più deboli e/o vicine.[103]
Oggi, l'argomentazione interimperialista si basa sulla presentazione della Repubblica Popolare Cinese come una potenza imperialista (e apertamente capitalista) nello stesso senso degli Stati Uniti, ignorando il ruolo del "socialismo con caratteristiche cinesi" e l'intera strada cinese verso lo sviluppo, così come i processi di scambio ineguale. Robinson fa un passo avanti, non solo sostenendo con fervore che la Cina è imperialista, ma anche unendosi al New York Times nel mettere in discussione l'integrità di alcuni di coloro che si trovano nella sinistra anti-imperialista, come Prashad e il Tricontinental Institute for Social Research, che esprimono solidarietà con la Cina come paese in via di sviluppo post-rivoluzionario, allineato con il Sud del mondo contro l'imperialismo.[104]

Tuttavia, i tentativi da parte della sinistra occidentale eurocentrica di definire la Cina imperialista non possono trovare altra base che la rapida crescita economica della Cina, le sue crescenti esportazioni di capitali, le misure adottate per rafforzare la propria sicurezza regionale (a fronte dell’accerchiamento da parte delle basi militari e delle alleanze statunitensi) e la messa in discussione dell'ordine imperiale basato sulle regole, sotto il dominio degli Stati Uniti e dell'Occidente. Pierre Rousset in International Viewpoint dichiara che «non esiste grande potenza capitalista che non sia imperialista. La Cina non fa eccezione». Ma il suo tentativo di fornire esempi concreti di ciò, per quanto riguarda la Cina, si riduce a insignificanza se messo a confronto con il sistema mondiale imperialista comandato dagli Stati Uniti e dalla triade nel suo complesso. Così, siamo portati a credere che la Cina sia imperialista, poiché «occupa un significativo spazio marittimo» nella sua regione; governa Hong Kong (non più colonia britannica ma restituita alla Cina); interferisce in altri paesi tramite la sua 'Via della seta', volta a promuovere lo sviluppo economico; e si sa che in alcune occasioni ha utilizzato il debito come mezzo di leva politico-economica.[105]

Ancora più difficile, per chi cerca di caratterizzare la Cina come imperialista in senso classico, è il fatto che la politica estera cinese – invece di unirsi all'ordine imperiale basato su regole e dominato dagli Stati Uniti, o di sostituirlo con quello che potrebbe essere considerato un nuovo ordine imperialista – è stata orientata a promuovere l'autodeterminazione delle nazioni, opponendosi alla geopolitica dei blocchi e agli interventi militari. La triplice 'Iniziativa per la sicurezza globale', 'Iniziativa per lo sviluppo globale' e 'Iniziativa per la civiltà globale' di Pechino, costituiscono insieme le principali proposte per la pace mondiale nella nostra era.[106] La Repubblica Popolare Cinese ha poche basi militari all'estero, non ha effettuato alcun intervento militare all'estero e non si è impegnata in alcuna guerra se non in relazione alla difesa dei propri confini.

Contrariamente a quanto ha suggerito Harvey, la Cina non si è appropriata del surplus economico generato negli Stati Uniti. Anzi, è vero il contrario. Il basso costo unitario del lavoro delle merci prodotte nel Sud globale ha portato ad un aumento dei margini di profitto lordo per le multinazionali del centro del sistema, le cui merci sono prodotte in Cina e in altri Paesi in via di sviluppo e poi esportate per essere consumate nel Nord globale, dove il prezzo finale di vendita delle merci è molte volte superiore al prezzo di esportazione delle merci nei Paesi produttori. Come ha mostrato Minqi Li, nel 2017 la Cina ha registrato una perdita netta di lavoro nel commercio estero («calcolata come il lavoro totale incorporato nei [suoi] beni e servizi esportati meno il lavoro totale incorporato nei [suoi] beni e servizi importati»), pari a quarantasette milioni di anni-lavoro; mentre gli Stati Uniti hanno registrato un guadagno netto di lavoro nello stesso anno di sessantatré milioni di anni-lavoro.[107] La Cina si è sviluppata rapidamente, in queste circostanze di supersfruttamento internazionale, grazie alla sua apertura al mercato mondiale, alla leva del suo potente settore statale, a un approccio relativamente pianificato allo sviluppo e ad altri fattori chiave. Allo stesso tempo, gran parte del surplus generato nel settore manifatturiero-export della sua economia è stato drenato, riempiendo le casse delle multinazionali con sede nel centro dell'economia mondiale. Attualmente, il reddito pro capite degli Stati Uniti è 6,5 volte quello della Cina. In questo aspetto fondamentale, la Cina è ancora in gran parte un paese in via di sviluppo.[108]

Tutto ciò non significa negare che la Cina sia emersa come una grande potenza economica e che, in virtù delle sue dimensioni e della sua dinamica di crescita interna, minaccia l'egemonia globale degli Stati Uniti, in particolare per quanto riguarda la produzione economica vera e propria. Tuttavia, gli Stati Uniti e la triade nel suo complesso – le grandi potenze imperiali al centro del sistema mondiale capitalista – mantengono ancora (anche se in rapida diminuzione) l'egemonia tecnologica, finanziaria e militare in tutto il mondo e continuano a fare affidamento sull'estrazione netta di surplus economico dal Sud globale.

In netto contrasto con la Cina, gli Stati Uniti, nel corso della loro storia sono intervenuti militarmente in 101 paesi, in alcuni dei quali più volte. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno portato a termine centinaia di guerre/interventi militari/colpi di stato in cinque continenti. Questi interventi hanno subito un’accelerazione dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda. Oggi, nel contesto di una Nuova Guerra Fredda, Washington sta espandendo la sua catena di alleanze militari, esplicitamente mirate ad assicurare la sua preminenza militare in ogni regione del mondo. Gli Stati Uniti hanno 902 basi militari all'estero (di cui circa quattrocento circondano la Cina stessa). Il Regno Unito, che agisce come socio minore, ha invece 145 basi militari all’estero.[109]

Un articolo del luglio 2024 intitolato The ‘Multipolar World’: A Euphemism to Support Multiple Imperialisms, scritto da Frederick Thon Ángeles e dai suoi colleghi, pubblicato sulla rivista The Call dei Democratic Socialists of America, accusa gli anti-imperialisti che esprimono simpatia per la Cina e il Sud globale, di ripetere gli errori della Seconda Internazionale. Ci viene detto che «la sinistra che sostiene questo nuovo 'mondo multipolare' e che addirittura simpatizza con le nuove potenze imperialiste (Cina, Russia) o con i loro alleati [come Cuba e Venezuela], non sta facendo altro che ripetere gli errori della destra della socialdemocrazia nell'era delle guerre mondiali e dell'imperialismo della prima metà del ventesimo secolo». Coloro che sostengono un mondo policentrico o multipolare «distorcono i principi rivoluzionari del marxismo, in modo tale da allontanarli [la sinistra anti-imperialista] dalla lotta per il socialismo e aprire la strada alla guerra e alla distruzione».[110]

Qui la storia è stata completamente capovolta. Nessuno dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, che si unirono ai rispettivi stati in una guerra per la divisione del mondo, in particolare per lo sfruttamento delle colonie, simpatizzava con "i miserabili della terra".[111] Solo i bolscevichi in Russia, così come la piccola Lega di Spartaco formata da Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania, si opposero alla Prima Guerra Mondiale e si schierarono con il mondo sottosviluppato. Seguire Lenin e Luxemburg non significa ripetere l'errore dei socialdemocratici della Seconda Internazionale. Piuttosto, la situazione è capovolta: schierarsi con le nazioni imperialiste contro i paesi sottosviluppati significa commettere un'offesa all'umanità simile a quella della maggior parte dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale. Stare con il Sud globale non può essere visto come una distorsione "dei principi rivoluzionari del marxismo". Il luogo della rivoluzione, per più di un secolo, è stata la periferia, non il centro, del mondo capitalista.

Assumere una posizione anti-imperialista non significa abbandonare la lotta di classe nel cuore delle nazioni capitaliste, anzi, è proprio il contrario. Come sosteneva Lenin, data l'ineluttabile realtà di un'aristocrazia operaia che costituisce lo strato superiore del movimento operaio nei paesi imperialisti, è necessario andare più a fondo per vedere la lotta esattamente nei termini di coloro che sono maggiormente oppressi dal capitalismo e dal colonialismo. Non è un caso che il movimento anti-imperialista negli Stati Uniti abbia sempre avuto le sue radici più profonde nella tradizione radicale nera, esemplificata all'inizio del ventesimo secolo da William E.B. Du Bois, e rappresentata oggi dalla Black Alliance for Peace. Razzismo e imperialismo sono sempre stati intrinsecamente legati tra loro, con il risultato che qualsiasi movimento anti-imperialista autentico è un movimento contro il capitalismo razziale.[112]

Commemorando Lenin nel centenario della sua morte, Ruth Wilson Gilmore ha sottolineato quanto la critica di Lenin all'imperialismo sia stata storicamente cruciale per la lotta radicale nera negli Stati Uniti. «Con ambizioni universali e internazionaliste, questo movimento [radicale nero] si è collegato e ha condiviso ispirazione e analisi con i movimenti di liberazione anti-imperialisti globali... La violenza organizzata dell'imperialismo continua a perseguitare la terra con i suoi residui carnosi e spettrali – il sottosviluppo accumulato – e nelle contemporanee profonde relazioni di potere ineguali che attraverso le élite spingono il valore verso l’alto, verso il "nord economico", ovunque risiedano i proprietari». Ovunque, le popolazioni indigene sono sempre state in prima linea nell'opposizione al colonialismo/imperialismo. Come ha spiegato Roxanne Dunbar-Ortiz in An Indigenous Peoples' History of the United States, le guerre coloniali genocide contro le popolazioni indigene degli Stati Uniti sono semplicemente confluite nell'imperialismo d'oltreoceano statunitense.[113]

Oggi, il sistema mondiale imperialista sta intensificando lo sfruttamento mondiale e ci sta portando sull'orlo dell'annientamento globale attraverso un'emergenza ecologica planetaria e la crescente probabilità di una guerra termonucleare senza limiti. In queste circostanze, per i pensatori di sinistra, affermare che l'anti-imperialismo sia il nemico significa sostenere l'imperialismo, la barbarie e lo sterminismo. Come ha detto Mariátegui, «Siamo anti-imperialisti perché siamo marxisti, perché siamo rivoluzionari, perché ci opponiamo al capitalismo con il socialismo», e perché rappresentiamo l'umanità mondiale nel suo insieme.

Note

* Termine di origine portoghese, utilizzato da Marx per indicare la classe della borghesia commerciale nelle regioni dell’Asia Orientale. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Comprador. N.d.T.

** Concetto coniato all’interno degli studi economico-sociali. In ambito produttivo delinking significa: disaccoppiamento del benessere dalla crescita economica, dalla produzione. N.d.T.

[1] L'opposizione alla prima guerra mondiale includeva il Partito socialista italiano e il Partito socialista d'America, insieme al Partito bolscevico di V.I. Lenin e alla Lega di Spartaco di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Sulla relazione tra lo scioglimento della Seconda Internazionale e le controversie attuali, vedi Zhun Xu, "The Ideology of Late Imperialism: The Return of the Geopolitics of the Second International", Monthly Review 72, n. 10, 03.2021, pp. 1–20.

[2] V.I. Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere complete, vol. 22, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 187-303. Utilizzando fase suprema nel sottotitolo, Lenin non negava l'esistenza di forme di imperialismo precedenti a questa fase storica. Piuttosto, stava evidenziando il fatto che negli ultimi anni del diciannovesimo secolo era sorta una fase completamente nuova, monopolistica o imperialista del capitalismo, che rappresentava una trasformazione qualitativa della produzione capitalista. Utilizzò il termine imperialismo per riferirsi simultaneamente sia a un fenomeno generico presente nell'intera storia del capitalismo sia a una fase storicamente specifica. Vedi Lenin, L'imperialismo, 259-260. Il libro di Lenin fu inizialmente sottotitolato L'ultima fase del capitalismo e in seguito cambiato in La fase suprema del capitalismo, in linea con quella che sembra essere stata la sua intenzione fin dall'inizio. Entrambi i sottotitoli, Ultima e Massima, lasciavano spazio all'emergere storico di fasi transitorie più degenerate del capitalismo durante il suo lungo declino e la sua caduta, un decadimento che Lenin riteneva fosse già iniziato. Sebbene Victor Kiernan sostenesse che il riferimento allo Stadio più Alto potesse essere visto come "implicazione" che questo fosse lo "stadio finale", era anche aperto a un'interpretazione più storicamente contingente. V.I. Lenin, Collected Works, Mosca, Progress Publishers, sd), immagine della copertina originale, pp. 192–93; Victor Kiernan, Marxism and Imperialism, Londra, Edward Arnold, 1974, p. 39.

[3] Tra le opere rappresentative che promuovono una o più di queste opinioni figurano: William I. Robinson intervistato da Frederico Fuentes, Capitalist Globalization, Transnational Class Exploitation and the Global Police State, Links, 19.10.2023; William I. Robinson, The Unbearable Manicheanism of the 'Anti-Imperialist Left, The Philosophical Salon, 07.08.2023; William I. Robinson, The Travesty of 'Anti-Imperialism', Journal of World-Systems Research 29, n. 2, 2023, pp. 587–601; William I. Robinson, Into the Tempest, Chicago, Haymarket, 2018, pp. 99–121; Vivek Chibber intervistato da Alexander Brentler, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home, Jacobin , 16.10.2022; Gilbert Achcar, How to Avoid the Anti-Imperialism of Fools, The Nation, 06.04.2021; Jerry Harris intervistato da Bill Fletcher, Why Doesn’t the World Make Sense Any More?, Znetwork.org, 01.05.2024; Jerry Harris, Multi-Polarity: A New Realignment?, Against the Current, luglio-agosto 2024; Ashley Smith, As US-China Tensions Mount We Must Resist the Push Toward Interimperialist War, Truthout, 04.05.2023; David Harvey, A Commentary on A Theory of Imperialism, in Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, A Theory of Imperialism, New York, Columbia University Press, 2017, pp. 169, 171; Ho-fung Hung, Clash of Empires: From “Chimerica” to the “New Cold War”, Cambridge, Cambridge University Press, 2022; Ho-fung Hung, Rereading Lenin’s Imperialism at the Time of US-China Rivalry, Spectre, 10.12.2021, spectrejournal.com.

[4] Hung, Rereading Lenin’s Imperialism at the Time of US-China Rivalry; Hung, Clash of Empires, p. 62, 65.

[5] Robinson, Capitalist Globalization, Transnational Exploitation and the Global Police State.

[6] Karl Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, in Karl Marx, La miseria della filosofia, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 176.

[7] V.I. Lenin, L'mperialismo, pp. 299; V.I. Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, Opere complete , vol. 23, pp. 104.

[8] Chibber, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home.

[9] Lenin, L'imperialismo e scissione del socialismo; V.I. Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodeterminazione (tesi), Opere complete, vol. 22, pp. 147–160; V.I. Lenin, Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente, Opere complete, vol. 30, pp. 130–140; V.I. Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, Opere complete, vol. 31, pp. 159–165; V.I. Lenin, Rapporto della Commissione sulle questioni nazionale e coloniale, Opere complete, vol. 31, pp. 228–233. Un utile opuscolo pubblicato in Cina include il secondo, il quarto e il quinto di questi saggi: V.I. Lenin, Lenin on the National and Colonial Questions: Three Articles, Pechino, Foreign Languages Press, 1975. L'Imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin, come spiega Prabhat Patnaik, deve essere letto insieme agli scritti sopra citati «per un apprezzamento complessivo della sua teoria dell'imperialismo». (Prabhat Patnaik, Whatever Happened to Imperialism and Other Essays, Nuova Delhi, Tulika, 1995, p. 80.

[10] Per una breve analisi che tenga conto di questa parte della teoria complessiva di Lenin e sottolinei la sua relazione con lo sviluppo della teoria della dipendenza, vedi Claudio Katz, Dependency Theory After Fifty Years: The Continuing Relevance of Latin American Critical Thought, Boston, Brill, 2022, pp. 26–29.

[11] Lenin, L'imperialismo, p. 265-266;

[12] Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, pp. 266-267. Un diffuso errore economicistico commesso soprattutto dai teorici marxisti occidentali è stato quello di suggerire, senza alcun supporto reale, che Lenin vedesse l'imperialismo come un prodotto dell'esportazione di capitale, o che avesse la sua causa in una qualche teoria della crisi economica, o nel sottoconsumo o nella tendenza alla riduzione del tasso di profitto. Al contrario, lo stesso Lenin sosteneva che l'imperialismo fosse la fase monopolistica del capitalismo e che quindi fosse fondamentale per il sistema quanto la ricerca del profitto. Non aveva quindi bisogno di particolari spiegazioni economiche. Come scrisse Oskar Lange, «La ricerca di profitti monopolistici in eccesso [da parte del capitale monopolistico] è sufficiente a spiegare la natura imperialista del capitalismo odierno. Di conseguenza, le teorie speciali dell'imperialismo, che ricorrono a costruzioni artificiali, come la teoria di Rosa Luxemburg... sono del tutto inutili». (Oskar Lange, citato da Harry Magdoff in Imperialism: From the Colonial Age to the Present, New York, Monthly Review Press, 1978, p. 279). Per una critica della ristretta visione economicistica dell'opera di Lenin sull'imperialismo, vedi Prabhat Patnaik, Whatever Happened to Imperialism and Other Essays , pp. 80–101.

[13] Lenin, L'imperialismo, pp. 267-273; Karl Kautsky, Ultra-imperialism, New Left Review 1/59, gennaio–febbraio 1970, pp. 41–46; Paul A. Baran, The Political Economy of Growth, New York, Monthly Review Press, 1957, p. vii.

[14] Research Unit for Political Economy (RUPE), On the History of Imperialism Theory, Monthly Review 59, n. 7, dicembre 2007, p. 50.

[15] Lenin, Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente, p. 136.

[16] RUPE, On the History of Imperialism Theory, p. 43.

[17] Lenin, “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione (Tesi)”, p. 149; Tom Lewis, “ Marxism and Nationalism, parte 1 ” International Socialist Review 14 (ottobre-novembre 2000), isreview.org.

[18] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, pp. 112-113.

[19] Vedi Eric Hobsbawm, “Lenin and the ‘Aristocracy of Labor,’” Monthly Review 21, n. 11, aprile 1970, pp. 47–5

[20] Lenin, L'imperialismo, pp. 279.

[21] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, p. 117.

[22] Lenin, Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente, 137.

[23] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, p. 160, 163, 165.

[24] Lenin, Rapporto della Commissione sulle questioni nazionali e coloniali”, 228–233; V. I. Lenin, “Comments to the Second Congress of the Communist International on the National and Colonial Question,” Minutes of the Second Congress of the Communist International, Fourth Session, July 25, 1920, Marxists Internet Archive, marxists.org.

[25] MN Roy, “Tesi supplementari sulle questioni nazionali e coloniali”, verbali del secondo congresso dell’Internazionale comunista, 25 luglio 1920, Marxists Internet Archive; RUPE, “Sulla teoria della storia dell’imperialismo”, 44.

[26] Theses on the Eastern Question, Resolutions 1922, Fourth Congress of the Communist International, 1922.

[27] Theses on the Revolutionary Movement in the Colonies and Semi-Colonies, Sixth Congress of the Communist International, 1928.

[28] Mao Zedong, Analysis of the Classes in Chinese Society, marzo 1926, Marxists Internet Archive; RUPE, On the History of Imperialism Theory, pp. 46–50.

[29] Prabhat Patnaik, The Theoretical Significance of Lenin’s Imperialism, People’s Democracy, 21.01.2024.

[30] JJosé Carlos Mariátegui, Anti-Imperialist Viewpoint, First Latin American Communist Conference, June 1929, Marxists Internet Archive; José Carlos Mariátegui, An Anthology, Harry E. Vanden e Marc Becker, New York, Monthly Review Press, 2011.

[31] Vedi José Martí, Our America, New York, Monthly Review Press, 1977.

[32] Baran, The Political Economy of Growth.

[33] Sulla vita e l'opera di Baran, vedi John Bellamy Foster, introduzione a Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, The Age of Monopoly Capital: Selected Correspondence, 1949–1964, a cura di Nicholas Baran e John Bellamy Foster, New York, Monthly Review Press, 2017, pp. 13–48.

[34] Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura sociale ed economico americana, Torino, Einaudi, 1968.

[35] Baran, The Political Economy of Growth, p. 162.

[36] David Christian, Maps of Time (Berkeley: University of California Press, 2004), 406–9, 435; Paul Bairoch, “Le principali tendenze nelle disparità economiche nazionali dalla rivoluzione industriale”, in Bairoch e Maurice Lévy-Leboyer, a cura di, Disparities in Economic Development since the Industrial Revolution (New York: St. Martin's Press, 1981), 7–8.

[37] Baran, The Political Economy of Growth, pp. 22–43.

[38] Baran, The Political Economy of Growth, p. 119.

[39] Baran, The Political Economy of Growth, pp. 140–161; Jon Halliday, Una storia politica del capitalismo giapponese (New York: Monthly Review Press, 1975), 17–18.

[40] Baran, The Political Economy of Growth, pp. 170, 195–98, 205, 214–58.

[41] Baran, The Political Economy of Growth, p. 184, 197.

[42] Baran, The Political Economy of Growth, p. 174.

[43] Baran, The Political Economy of Growth, p. 10.

[44] Vijay Prashad, The Darker Nations, New York, New Press, 2007, pp. 31–50. Parti di questo testo, e dei paragrafi successivi, si basano su: John Bellamy Foster, The Imperialist World System: Paul Baran's The Political Economy of Growth After Fifty Years, Monthly Review 59, n. 1, maggio 2007, pp. 1–16.

[45] Che Guevara, “Discorso alla conferenza afro-asiatica in Algeria”, 24 febbraio 1965, Marxists Internet Archive; “ Dichiarazione su Paul A. Baran ”, Monthly Review 16, n. 11 (marzo 1965): 107–8.

[46] Vedi in particolare Eduardo Galeano, Le vene aperte dell'America Latina, Segrate (Mi), Sperling & Kupfer, 1997; Walter Rodney, How Europe Underdeveloped Africa, Washington, DC, Howard University Press, 1981; originariamente pubblicato nel 1972; KT Fann e Donald Hodges, a cura di, Readings in US Imperialism, Boston, Porter Sargent, 1971; Ruy Mauro Marini, The Dialectics of Dependency, New York, Monthly Review Press, 2022, edizione originale, 1973.

[47] Andre Gunder Frank, Capitalism and Underdevelopment in Latin America, New York, Monthly Review Press, 1967.

[48] Samir Amin, Delinking: Toward a Polycentric World, Londra, Zed Books, 1990, pp. vii, xii, 62–66; Samir Amin, Accumulation on a World Scale, New York, Monthly Review Press, 1974; Samir Amin, Unequal Development, New York, Monthly Review Press, 1976; A Biographical Dictionary of Dissenting Economists , Samir Amin (nato nel 1931), Philip Arestis e Malcolm Sawyer (a cura di), Cheltenham, Edward Elgar, 2000, p. 1.

[49] Arghiri Emmanuel, Unequal Exchange: A Study of the Imperialism of Trade, New York, Monthly Review Press, 1972. Emmanuel è noto anche per il suo articolo del 1972, “White-Settler Colonialism and the Myth of Investment Imperialism”. Il colonialismo era originariamente un concetto marxista, sviluppato in linea con Marx, Baran, Maxime Rodinson e altri. Arghiri Emmanuel, “White-Settler Colonialism and the Myth of Settler Colonialism,” New Left Review 1/73, maggio-giugno 1972, pp. 35-57; Maxime Rodinson, Israel: A Colonial Settler-State?, New York, Monad Press, 1973. Su Marx e il colonialismo, vedi Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 8, gennaio 2024. Per il trattamento riservato da Baran al colonialismo dei coloni bianchi, vedi Baran, The Political Economy of Growth.

[50] Samir Amin, Self-Reliance and the New Economic Order, Monthly Review 29, n. 3, luglio-agosto 1977, p. 6; Samir Amin, Lo Sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Torino, Einaudi, 1997; Samir Amin, Modern Imperialism, Monopoly Finance Capital, and Marx’s Law of Value, New York, Monthly Review Press, 2018.

[51] Amin, Delinking, pp. 33, 90–91, 157–58; Samir Amin, The Long Revolution of the Global South, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 401–2; Aijaz Ahmad, introduction to Samir Amin, Only People Make Their Own History, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 27–28.

[52] Vedi in particolare Oliver Cox, Capitalism as a System, New York, Monthly Review Press, 1964; Immanuel Wallerstein, The Modern World-System, Orlando, Florida, Academic Press Inc., 1974, pp. 2–13, 347–57; Immanuel Wallerstein, The Capitalist World-Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; Samir Amin, Giovanni Arrighi, Andre Gunder Frank e Immanuel Wallerstein, Dynamics of Global Crisis, New York, Monthly Review Press, 1982.

[53] Giovanni Arrighi, Geometria dell'imperialismo: i limiti del paradigma hobsoniano, Milano, Feltrinelli, 1978.

[54] Stephen Herbert Hymer, The International Operation of National Firms, Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 1976; Stephen Herbert Hymer, The Multinational Corporation: A Radical Approach, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Notes on The Multinational Corporation, Part I, Monthly Review 21, n. 5, ottobre 1969, pp. 1–13; Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, “ Notes on The Multinational Corporation, Part II, Monthly Review, novembre 1969, pp. 1–13.

[55] Joseph Needham, Within Four Seas: The Dialogue of East and West, Toronto, University of Toronto Press, 1969; Samir Amin, Eurocentrism, New York, Monthly Review Press, 1989, 2009; Edward Said, Orientalismo, Milano, Bollati Boringhieri, 1991; Edward Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti Editrice, 1995. La questione dell'eurocentrismo nella teoria marxista fu affrontata da Mariátegui nel 1929 con Anti-Imperialist Viewpoint.

[56] Vedi, ad esempio, John Bellamy Foster e Brett Clark, Ecological Imperialism: The Curse of Capitalism, in Socialist Register 2004: The New Imperial Challenge, Leo Panitch e Colin Leys (a cura di), New York, Monthly Review Press, 2003, pp. 186–201.

[57] John Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, New York, Monthly Review Press, 2016; Intan Suwandi, John Bellamy Foster e R. Jamil Jonna, Global Commodity Chains and the New Imperialism, Monthly Review 70, n. 10, marzo 2019, pp. 1–24; Intan Suwandi, Value Chains, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 1–24; Jason Hickel, Morena Hanbury Lemos e Felix Barbour, Unequal Exchange of Labour in the World Economy, Nature Communications 15, 2024; Jason Hickel, Christian Dorninger, Hanspeter Wieland e Intan Suwandi, Imperialist Appropriation in the World Economy: Drain from the Global South through Unequal Exchange, 1990–2019, Global Environmental Change 72, marzo 2022, pp. 1–13; Zak Cope, Divided World Divided Class, Montreal, Kersplebedeb, 2015; Mateo Crossa, Unequal Value Transfer from Mexico to the United States, Monthly Review 75, n. 5, ottobre 2023, pp. 42–53; Michael Roberts, Further Thoughts on the Economics of Imperialism, The Next Recession, 23.04.2024; John Bellamy Foster e Robert W. McChesney, The Endless Crisis, New York, Monthly Review Press, 2012.

[58] Marini, The Dialectics of Dependency, pp. 130–36; Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, pp. 219–23.

[59] Hickel, Lemos e Barbour, Unequal Exchange of Labour in the World Economy; Phie Jacobs, Rich Countries Drain ‘Shocking’ Amount of Labor from the Global South, Science, 06.08.2024.

[60] Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, The Drain of Wealth: Colonialism Before the First World War, Monthly Review 72, n. 9, febbraio 2021, p. 15.

[61] United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), Topsy-Turvy World: Net Transfer of Resources from Poor to Rich Countries, Policy Brief n. 78, maggio 2020; Harry Magdoff, International Economic Distress and the Third World, Monthly Review 33, n. 11, aprile 1982, pp. 8–13; Robert Lucas, Why Doesn’t Capital Flow from Rich to Poor Countries?, American Economic Review 80, n. 2, maggio 1990, pp. 92–96.

[62] John Bellamy Foster, Naked Imperialism, New York, Monthly Review Press, 2006; John Bellamy Foster, John Ross, Deborah Veneziale e Vijay Prashad, Washington's New Cold War: A Socialist Perspective, New York, Monthly Review Press, 2022; John Bellamy Foster, The New Cold War on China, Monthly Review 73, n. 3, luglio-agosto 2021, pp.1–20.

[63] Paul M. Sweezy, Modern Capitalism and Other Essays, New York, Monthly Review Press, 1972, pp. 147–65.

[64] US Congressional Research Services, Instances of Use of United States Armed Forces Abroad, 1798–2023, 07.06.2023; David Michael Smith, Endless Holocausts, New York, Monthly Review Press, 2023.

[65] Bernard Semmel, Imperialism and Social Reform, Garden City, New York, Doubleday, 1960.

[66] Bill Warren, Imperialism and Capitalist Industrialization, New Left Review 181, 1973, pp. 4, 43, 48, 82; Karl Marx e Friedrich Engels, On Colonialism, New York International Publishers, 1972, pp. 81–87.

[67] Horace B. Davis, Nationalism and Socialism, New York, Monthly Review Press, 1967, pp. 59–73; Kenzo Mohri, Marx and ‘Underdevelopment,’ Monthly Review 30, no11, aprile 1979, pp. 32–43; Sunti Kumar Ghosh, Marx on India, Monthly Review 35, n. 8, gennaio 1984, pp. 39–153.

[68] Bill Warren, Imperialism: Pioneer of Capitalism, Londra, Verso, 1980, pp. 97–98. L'idea errata che anche Lenin vedesse l'imperialismo come pioniere dello sviluppo si può trovare in Albert Szymanski, The Logic of Imperialism, New York, Praeger, 1983, p. 40.

[69] Ad esempio, Geoffrey Kay, allora docente di economia all'Università di Londra, scrisse che, in base alla sua maggiore produttività (e all'enfasi sul plusvalore relativo), «il tasso di sfruttamento nei paesi avanzati è, in generale, più alto di quello del mondo sottosviluppato». Geoffrey Kay, The Economic Theory of the Working Class, New York, St. Martin's Press, 1979, p. 52. Vedi anche Ernest Mandel, Late Capitalism, Londra, Verso, 1975, p. 354; Charles Bettelheim, Appendix I, Theoretical Comments, in Arghiri Emmanuel, Unequal Exchange, pp. 302–3044; Alex Callinicos, Imperialism and Global Political Economy, Londra, Polity, 2009, pp. 179–181; e Joseph Choonara, Unraveling Capitalism Londra, Bookmarks, 2009, pp. 34–35. Per una confutazione generale di tali opinioni, vedi Smith, Imperialism in the Twenty-First Century.

[70] Jeff Schuhrke, Blue-Collar Empire: The Untold Story of Labor’s Global Anticommunist Crusade, Londra, Verso, 2024; Kim Scipes, The AFL-CIO’s Secret War Against Developing Country Workers, Lanham, Maryland, Lexington Books, 2011; Paul Buhle, Taking Care of Business: Samuel Gompers, George Meany, Lane Kirkland, and the Tragedy of American Labor, New York, Monthly Review Press, 1999.

[71] Arrighi, La geometria dell'Imperialismo, pp. 171–73; Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo: denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, Il Saggiatore, 1994, nuova ed. 2014. Per una critica della teoria dei costi di transazione in questo contesto, vedi John Bellamy Foster, Robert W. McChesney e R. Jamil Jonna, Monopoly and Competition in Twenty-First Century Capitalism, Monthly Review 62, n. 11, aprile 2011, pp. 27–31.

[72] Per una critica dell’imperialismo umanitario, vedi Jean Bricmont, Humanitarian Imperialism, New York, Monthly Review Press, 2006.

[73] Sulla natura della sottomissione della sinistra all'egemonia ideologica del capitale per quanto riguarda l'imperialismo, vedi Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari, Laterza, 2017, rist. 2017.

[74] Prabhat Patnaik, Whatever Happened to Imperialism?, Monthly Review 42, n. 6, novembre 1990, p. 4.

[75] Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, Milano, Rizzoli, 2003; John Bellamy Foster, Imperialism and 'Empire', Monthly Review 53, n. 7, dicembre 2001, pp. 1–9; Atilio A. Boron, Empire' and Imperialism: A Critical Reading of Michael Hardt and Antonio Negri, Londra, Zed, 2005; Losurdo, Il marxismo occidentale, 184; L'ipotesi del mondo piatto è stata ampliata da Friedman, il quale ha affermato in modo fuorviante che ciò era in accordo anche con Marx ed Engels. Thomas Friedman, Il mondo è piatto - Breve storia del ventunesimo secolo, Milano, Mondadori, 2007.

[76] David Harvey, The New Imperialism, Oxford, Oxford University Press, 2003, pp. 137–82. Sulla preferenza di Marx per l'espressione “espropriazione originaria” rispetto alla cosiddetta "accumulazione primitiva [originaria]” dell'economia politica classico-liberale, vedi Ian Angus, The Meaning of 'So-Called Primitive Accumulation', Monthly Review 74, n. 11, aprile 2023, pp. 54–58.

[77] Harvey, The New Imperialism, p. 209.

[78] Harvey, The New Imperialism, pp. 6–7, 137–40, 137–49; David Harvey, The Limits to Capital, Londra, Verso, 2006, pp. 427–445; Rosa Luxemburg, L'accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell'imperialismo, Torino, Einaudi, 1960.

[79] La teoria dell'accumulazione della Luxemburg si basava sull'idea che il capitalismo non potesse esistere come sistema autosufficiente e avesse bisogno di conquistare "mercati terzi" per riprodursi. Harvey, The New Imperialism, pp. 6–7,137–40, 137–49, 299; Harvey, The Limits to Capital, pp. 427–445; Luxemburg, L'accumulazione del capitale. Sulle differenze tra le teorie di Lenin e Luxemburg sull'imperialismo, vedi Magdoff, Imperialism: From the Colonial Age to the Present, pp. 263–273.

[80] David Harvey, The Enigma of Capital, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 34–35; David Harvey, A Commentary on A Theory of Imperialism, pp. 169–171.

[81] US National Intelligence Council, Global Trends 2025, Washington, DC, US ​​Government Printing Office, novembre 2008, p. 4.

[82] Hickel, Lemos e Barbour, Unequal Exchange of Labour in the World Economy, pp. 15–17; Crossa, Unequal Value Transfer from Mexico to the United States, p. 50; UNCTAD, The Topsy-Turvy World.

[83] David Harvey citato in Salar Mohandesi, The Specificity of Imperialism, Viewpoint , 01.02. 2018.

[84] David Harvey, Realities on the Ground: David Harvey Replies to John Smith, Review of African Political Economy, 05.02.2018, roape.net.

[85] Moishe Postone, History and Helplessness: Mass Mobilization and Contemporary Forms of Anticapitalism, Public Culture 18, n. 1, 2006, pp. 96–97; Moishe Postone, Time, Labor, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.

[86] L'argomentazione di Postone criticava siprattutto Noam Chomsky e Naomi Klein, concentrandosi sulle loro descrizioni del ruolo degli Stati Uniti e di Israele in Medio Oriente.

[87] Foster, McChesney e Jonna, Monopoly and Competition in Twenty-First Century Capitalism.

[88] World Bank, World Development Report 2020: Trading for Development in the Age of Global Value Chains, Washington, DC, International Bank for Reconstruction and Development, 2020, p. 15, 19, 26; Benjamin Selwyn e Dara Leyden, “World Development under Monopoly Capitalism, Monthly Review 73, n. 6, novembre 2021, pp. 21–24.

[89] Chibber, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home.

[90] Chibber, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home. L'analisi di Chibber segue la teoria di Kautsky sull'ultra-imperialismo, che separava il concetto di imperialismo da quello di sfruttamento mondiale. Vedi Anthony Brewer, Marxist Theories of Imperialism, Londra, Routledge, 1990, p. 130.

[91] Vivek Chibber, The Class Matrix, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 2022.

[92] Robinson, Into the Tempest, pp. 99–121. Sulle debolezze empiriche della tesi del capitale transnazionale, vedi Samir Amin, Transnational Capitalism or Collective Imperialism?, Pambazuka News , 23.03.2011; Ha-Joon Chang, Things They Don't Tell You About Capitalism, New York, Bloomsbury, 2010, pp. 74–87; Ernesto Screpanti, Global Imperialism and the Great Crisis, New York, Monthly Review Press, 2014, pp. 57–58.

[93] Robinson, The Unbearable Manicheanism of the ‘Anti-Imperialist’ Left,; Robinson, Capitalist Globalization, Transnational Class Exploitation, and the Global Police State; Robinson, The Travesty of ‘Anti-Imperialism', p. 592.

[94] William I. Robinson, Il capitalismo globale e la crisi dell’umanità, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, p. 126; Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, p. 113.

[95] Robinson, Capitalist Globalization, Transnational Class Exploitation, and the Global Police State.

[96] Gilbert Achcar, How to Avoid the Anti-Imperialism of Fools, The Nation, 06.04.2021; Roger D. Harris, Anti-Anti-Imperialism: Gilbert Achcar’s Leftist Imperialism with Caveats, Mint Press, 01.06.2021; Gilbert Achcar, Reflections of an Anti-Imperialist After Ten Years of Debate, New Politics, settembre 2021, newpol.org; Gilbert Achcar, Libya: A Legitimate and Necessary Debate from an Anti-Imperialist Perspective, Le Monde diplomatique, 28.03.2011, mondediplocom.

[97] Gabriel Hetland, Why Is Venezuela Spiraling Out of Control? NACLA, 15.04.2017, nacla.org; Jordan Woll, Jacobin Magazine Attacks Venezuela, Cuba, and TeleSur, Liberation News, 12.06.2017, liberationnews.org. In un recente articolo su Sidecar, una pubblicazione online associata a New Left Review, Gabriel Hetland non solo ripete le critiche estremamente distorte alle elezioni del 2024 in Venezuela da parte del sistema mediatico imperiale, ma indica chiaramente che la preoccupazione principale è «che le politiche socialdemocratiche» siano viste come «insostenibili nel ventunesimo secolo». Qualsiasi sostegno al Venezuela deve quindi essere abbandonato per il bene della politica socialdemocratica, nonostante siano riconosciute le sanzioni estreme da parte degli Stati Uniti, e i tentativi di colpo di stato. Gabriel Hetland, Fraud Foretold?, Sidecar, 21.08.2024. Per una visione alternativa, vedi Drago Bosnic, Venezuelan Presidential Election from a Serbian Observer's Perspective—Interview, BRICS Portal, 26.08.2024. Sull'"imperialismo democratico” vedi Stanley Kurtz, Democratic Imperialism: A Blueprint, Hoover Institution, 01.04.2003.

[98] Harris, Why Doesn’t the World Make Sense Any More?; Alessandro Borin, Michelle Mancini e Daria Taglioni, Measuring Countries and Sectors in GVC, World Bank Blog, 22.11.2021, worldbank.org

[99] István Mészáros, The Uncontrollability of Global Capital, Monthly Review 49, n. 9, febbraio 1998, p. 32; István Mészáros, Socialism or Barbarism, New York, Monthly Review Press, 2001, pp. 28–29. Robinson abbandona del tutto il regno della realtà nella sua teoria dello “stato capitalista transnazionale emergente”. Robinson, Global Capitalism and the Crisis of Humanity , pp. 65–69.

[100] Hung, Rereading Lenin’s Imperialism at the Time of U.S.-China Rivalry; Hung, Clash of Empires, p. 62, 65.

[101] Ruy Mauro Marini, Brazilian Sub-Imperialism, Monthly Review 23, n. 9, febbraio 1972, pp. 14–24.

[102] Ilya Matveev, We Live in a World of Growing Interimperialist Rivalries, Jacobin, maggio 2024; Ashley Smith, Imperialism and Anti-Imperialism Today, Tempest, 24.05.2024..

[103] Michael Roberts, 50 Years of Dependency Theory, The Next Recession, 04.11.2023; Guglielmo Carchedi e Michael Roberts, The Economics of Modern Imperialism, Historical Materialism 29, n. 4, 2021, pp. 23–69; Andrea Ricci, Unequal Exchange in the Age of Globalization, Review of Radical Political Economics 51, n. 2, 201).

[104] Scrivendo The Travesty of 'Anti-Imperialism', pubblicato su The Journal of World-Systems Research, Robinson ripete le calunnie mosse da organi di informazione istituzionali contro Prashad, tra cui The Daily Beast e New Lines Magazine - e più di recente, da quando l'articolo di Robinson è stato pubblicato per la prima volta, dal New York Times - che coinvolgono ingenti donazioni finanziarie a Tricontinental Institute for Social Research, di cui Prashad è direttore esecutivo. Le donazioni in questione provengono da Roy Singham, presidente del comitato consultivo internazionale di Tricontinental, figura di spicco con una lunga storia di attivismo anti-razziale/capitalista, anti-imperialista e socialista negli Stati Uniti e in tutto il mondo, che ha fatto fortuna nello sviluppo di software. Basandosi sulla Nuova Guerra Fredda con attacchi in stile McCarthy da parte di media corporativi contro Singham, per via delle sue simpatie verso il socialismo con caratteristiche cinesi, così come sul suo sostegno finanziario a Tricontinental e ad altre organizzazioni di sinistra in tutto il mondo, Robinson sostiene che Prashad «sembra essere politicamente compromesso» a causa dell'accettazione da parte di Tricontinental di donazioni fatte da Singham. È vero che, viste dal punto di vista imperialista, tali donazioni sono illegittime nella misura in cui sono in conflitto con gli obiettivi della Nuova Guerra Fredda di Washington. Tuttavia, l'accusa di Robinson, secondo cui Prashad è quindi "politicamente compromesso" non ha senso da un punto di vista anti-imperialista, dove l'accettazione di tali finanziamenti è del tutto in accordo con una critica fondamentale del sistema mondiale imperialista. Robinson, The Travesty of 'Anti-Imperialism', p. 592; A Global Web of Chinese Propaganda Leads to a US Tech Mogul, New York Times, 10.082023; Vijay Prashad, My Friends Prabir and Amit and in Jail in India for their Work in the Media, Counterpunch, 04.10.2023.

[105] Pierre Rousset, China: A New Imperialism Emerges, International Viewpoint, 18.11.2021.

[106] Vedi Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 6, novembre 2023.

[107] Minqi Li, China: Imperialism or Semi-Periphery?, Monthly Review 73, n. 3, luglio-agosto 2021, p. 57. Un errore nel testo originale faceva riferimento ai calcoli della perdita netta di manodopera della Cina per includere «non solo il trasferimento netto di lavoro che deriva dalle sfavorevoli condizioni scambio di lavoro della Cina, ma anche il lavoro incorporato nei ‘surplus commerciali’ della Cina» (Li, China: Imperialism or Semi-Periphery?, p. 56). Sulla metodologia, vedi Minqi Li, China in the 21st Century, Londra, Pluto, 2015, pp. 200–202. Vedi anche Foster e McChesney, The Endless Crisis, pp. 165–74; Suwandi, Jonna e Foster, Global Commodity Chains and the New Imperialism.

[108] Comparing United States and China by Economy, Statistics Times, 29.08.2024

[109] Hyper-Imperialism: A Decadent New Stage, Tricontinental Institute, 23.01.2024; U.S. Congressional Research Service, Instances of Use of United States Armed Forces Abroad, 1798–2023, 07.06.2023; John Pilger, There Is a War Coming Shrouded in Propaganda, John Pilger (blog), 01.05.2023, braveneweurope.com.

[110] Frederick Thon, Manuel Rodríguez Banchs e Jorge Lefevre Tavárez, “Il 'mondo multipolare': un eufemismo per imperialismi multipli”, The Call , 6 luglio 2024, socialistcall.com.

[111] Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1962.

[112] Principles of Unity, Black Alliance for Peace, blackallianceforpeace.com. Per conoscere i saggi anti-imperialisti di Du Bois durante, e dopo, la Prima Guerra Mondiale, notevoli come critiche al capitalismo razziale e all'imperialismo, vedi WEB Du Bois, Darkwater, Mineola, New York, Dover, 1999; Charisse Burden-Stelly“ Modern US Racial Capitalism: Some Theoretical Insights, Monthly Review 72, n. 3, luglio-agosto 2020, pp. 8-20.

[113] Ruth Wilson Gilmore, On the Centenary of Lenin’s Death, Verso (blog), 25.01.2024; Roxanne Dunbar-Ortiz, An Indigenous Peoples' History of the United State, Boston, Beacon, 2014, pp. 162–177.

Fonte