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16/12/2024

La ballata di Narayama (1983) di Shōhei Imamura - Minirece

Israele approva il piano per colonizzare il Golan mentre bombarda la Siria

“Rafforzare il Golan sta rafforzando lo Stato di Israele, cosa che è particolarmente importante in questo momento”, ha dichiarato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, annunciando l’approvazione del piano governativo per il trasferimento della popolazione nelle Alture siriane del Golan.

Subito dopo la caduta fulminea di Bashar al Assad, Netanyahu era apparso sorridente accanto alle sue truppe nel Golan, un territorio di 1200 kmq che Tel Aviv ha occupato nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni e che ha poi annesso unilateralmente. In quella occasione, facendo eco al ministro della difesa Israel Katz, ha comandato e incoraggiato i militari ad avanzare fino ad ottenere il controllo completo della “buffer zone”, che secondo i trattati separa il territorio israeliano da quello siriano. Doveva essere solo un’occupazione “temporanea”, come annunciata nel solito stile israeliano.

In una settimana, da domenica 8 dicembre, l’esercito dello Stato ebraico ha fatto invece molta strada, entrando in profondità fino ad arrivare, secondo fonti siriane, a circa 20 chilometri dalle campagne intorno alla capitale Damasco. I militari sarebbero arrivati nel bacino del fiume Yarmuk, prendendo il controllo di diversi villaggi e assicurandosi l’accesso alla diga di Al-Wehda.

Non solo avanzata di terra ma anche bombardamenti incessanti, centinaia negli ultimi giorni, almeno 61 solo nella giornata di domenica 15 dicembre. Nella notte un raid violentissimo ha colpito la città di Tartus, sulla costa, dove migliaia di persone, soprattutto minoranze religiose, si sono rifugiate spaventate dall’avanzata dei militanti sunniti di Hay’at Tahrir al-Sham (Hts).

L’enorme esplosione ha fatto registrare un terremoto di magnitudo 3 della scala Richter. Diverse abitazioni civili sono state danneggiate e il panico si è diffuso tra le famiglie alawite. Secondo l’esercito, l’attacco avrebbe colpito un deposito d’armi. Le flebili denunce di al-Jawlani non sembrano aver avuto alcun effetto sulle azioni di Tel Aviv. Appena un giorno prima dei 61 raid aerei di domenica, il leader del gruppo jihadista che ha preso il potere in Siria ha dichiarato che i militari israeliani “hanno oltrepassato la linea rossa e rischiano di provocare un’escalation ingiustificata di tensioni nella regione”.

Nonostante ciò, insieme ai bombardamenti per quella che Tel Aviv definisce una “messa in sicurezza” della Siria, il governo ha approvato e stanziato ieri, con il piano di reinsediamento, 40 milioni di NIS (circa 10milioni e 500mila euro) per raddoppiare la popolazione del Golan e costruire infrastrutture adatte alla colonizzazione del territorio. In realtà, un piano del genere era già stato approvato nel dicembre del 2021 dall’ex primo ministro Naftali Bennet, che dichiarò di cogliere l’occasione del riconoscimento dell’annessione del Golan, nel 2019, da parte del presidente USA Donald Trump per raddoppiarne la popolazione israeliana.

In quell’occasione il segretario di stato USA Blinken, per giustificare l’approvazione da parte della Casa Bianca di quella che era una palese violazione del diritto internazionale, parlò della necessità di agire a causa della presenza, in Siria, di milizie sciite controllate dall’Iran e sostenute dall’ex presidente Bashar Al Assad. Quelle milizie oggi non ci sono più, fuggite o scacciate dall’HTS e non c’è più neanche Assad. Ma c’è ancora e sempre di più Israele, che festeggia l’occupazione come “un momento storico” e già progetta di costruire colonie con infrastrutture, scuole e sistemi a energia solare per “mantenere il Golan”, come dichiarato da Netanyahu, “e farlo rifiorire”.

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Il precettatore dimezzato

Che la parabola di Matteo Salvini fosse sempre più vicina all’impatto sulla terra, era chiaro da tempo. Passare dal 40% circa dei voti ad appena l’8% non sembra in nessun caso un successo. Se poi pensiamo che nel comune di Bologna, alle recenti elezioni regionali, la Lega (3,01%) ha ottenuto meno voti di un Potere al Popolo in crescita (3,44%) abbiamo un reel che descrive a che velocità è arrivata la caduta libera.

La certificazione della fine del Salvini tonitruante e vincente è arrivata con il congresso regionale in Lombardia. Ieri, infatti, si è imposto come nuovo segretario lumbard Massimiliano Romeo, attuale capogruppo al Senato, che non ha certo lesinato le critiche chiedendo – di fatto – che la Lega torni alle origini, a Umberto Bossi, perché “se non parliamo più del nord, al nord i voti non li prendiamo”. La standing ovation della sala ha incenerito il “tonitruante”, che ha poi parlato con i toni soliti ma senza trascinare più neanche i suoi.

Di più, Romeo ha buttato alle ortiche l’intera linea politica leghista degli anni salviniani: “Nell’immaginario collettivo, la destra sarà sempre rappresentata dalla Meloni. È inspiegabile questo continuo cercare un posizionamento politico nuovo e dimenticarci di coltivare il nostro spazio politico. La Lega rappresenta il movimento del territorio agli occhi dei cittadini, noi i voti li prendevamo dappertutto. Questa deve essere l’idea: riprendiamoci la nostra identità, la vera identità, poi possiamo parlare di temi di destra, sinistra o centro”.

Addio “Lega Nazionale”, insomma, tutta concentrata sulla demonizzazione dei migranti e dei sindacati, della magistratura e dei cantanti... Si vede e si sente che quel tanto di base operaia che negli anni scorsi aveva scelto i leghisti abbandonando CGIL e PD – responsabili della distruzione del potere contrattuale dei lavoratori e dello smantellamento dei diritti – sta vivendo l’ennesima delusione.

Il pur minimo neo-movimentismo della CGIL, sfociato nel primo sciopero generale da tempo immemorabile, deve aver fatto presa lì dove era cominciata la frana. E la smania di precettare i lavoratori, anche quando era chiaramente senza alcun appiglio legale, ha contribuito non poco a far spezzare il ramo che Salvini aveva scambiato per un tronco.

Persino il pallido presidente regionale, Attilio Fontana, ha mollato sul ciocco l’ex “capitano”. “Io se sono qui, sono qui per combattere a favore della Lombardia e a favore del Nord. Perché il problema del Nord c’è, ed è sempre più presente. Non possiamo far finta che sia una cosa superata”. E “qualche nemico c’è anche nella Lega perché quando vedo certi emendamenti, firmati da alcuni rappresentanti di altre zone, che vanno a danno della Lombardia, io mi incazzo come una bestia”.

Il riferimento esplicito è a quei presidenti meridionali di centrodestra che hanno larvatamente appoggiato la richiesta di referendum popolare contro la legge sull’autonomia differenziata.

Salvini aveva fatto i suoi conti già prima e, per evitare una conta che lo avrebbe messo in forte minoranza, ha fatto ritirare il “suo” candidato alla segreteria, quel Luca Toccalini messo a capo dei “ggiovani”.

Ma è in ogni caso una sconfitta storica, e proprio in casa sua.

La strada ora sembra tutta in discesa verso una defenestrazione definitiva. Forse non sarà in occasione del processo per il sequestro di una nave della Marina militare che trasportava migranti, ma non mancheranno altre occasioni.

Il precettatore è dimezzato. Il governo Meloni si prepara perciò ad altre turbolenze. Diamoci da fare perché siano devastanti...

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Black Hornet 4: un’ombra che danza sulla linea del conflitto, militare e sociale

Immaginiamo un mondo in cui ogni cittadino è costantemente sorvegliato da un minuscolo, discreto, silenzioso occhio volante in grado di adattarsi alla complessità dei nostri spostamenti. Questo scenario, un tempo relegato alla narrazione distopica, sta diventando sempre più realistico grazie a nano droni come Black Hornet 4, un prodotto di guerra facilmente adattabile alla sorveglianza di massa e personalizzata.

Black Hornet 4 non rappresenta solo un nuovo strumento della guerra ibrida, e del controllo sociale, ma anche una nuova ottica del potere. Da Foucault sappiamo quanto la ristrutturazione dell’ottica del potere, di cui il panottico è stato il paradigma della società industriale, rappresenti una serie complessa e caotica di mutazioni del radicamento e della circolazione del potere medesimo nelle nostre società. Black Hornet 4, di cui in foto vediamo una versione precedente mentre il video di presentazione di quella attuale lo troviamo qui, per quanto sia un’applicazione militare rappresenta un tipo di microfisica del controllo e dello sorveglianza destinato ad estendersi dalla guerra alla società.

Black Hornet 4 è quindi un nano-drone rivoluzionario che ha ridefinito le regole dell’ingaggio militare e della sorveglianza. Con le sue dimensioni compatte, la sua flessibilità di impiego e la sua capacità di operare in ambienti ostili, questo dispositivo ha aperto nuove frontiere nella conduzione delle operazioni militari. Ma, prima di tutto, è nella sinergia con l’intelligenza artificiale e nel contesto della guerra ibrida che Black Hornet 4 rivela tutto il suo potenziale, e le sue pericolose implicazioni.

Dalla guerra convenzionale alla guerra ibrida

Mentre la guerra convenzionale si caratterizza per scontri diretti tra forze armate regolari, la guerra ibrida si presenta come un conflitto più complesso e sfumato, che coinvolge una moltitudine di attori,di strumenti e di scenari. Black Hornet 4, con la sua discrezione e la sua capacità di raccogliere informazioni in tempo reale, è uno strumento ideale per questo tipo di conflitto. Operando in zone urbane, in aree rurali o persino all’interno di edifici, questo drone fornisce un flusso continuo di dati che possono essere utilizzati per destabilizzare avversari e persino influenzare l’opinione pubblica e manipolare l’informazione.

Un nano-drone al servizio dell’intelligence

Un nano-drone, andando nel dettaglio, è un velivolo a pilotaggio remoto di dimensioni estremamente ridotte, progettato per svolgere missioni di ricognizione e sorveglianza. Black Hornet 4, in particolare, è un elicottero volante in grado di trasmettere video in tempo reale e di resistere a condizioni ambientali difficili. Grazie alle sue dimensioni compatte e alla sua silenziosità, questo drone può operare in modo discreto, senza destare sospetti.

La sinergia con l’intelligenza artificiale

L’integrazione di Black Hornet 4 con sistemi di intelligenza artificiale ha ulteriormente amplificato le sue capacità. Gli algoritmi di machine learning possono analizzare in tempo reale i flussi video, identificando volti, oggetti e comportamenti sospetti. Questa sinergia permette sia alla IA che ad operatori umani e a catene di comando di:
- automatizzare la sorveglianza riducendo il carico di lavoro degli operatori e aumentando l’efficienza delle operazioni;
- aumentare la precisione identificando minacce potenziali con maggiore rapidità e accuratezza;
- sviluppare nuove tattiche utilizzando i dati raccolti per prevedere le azioni avversarie e pianificare di conseguenza le risposte.

Scenari d’uso e diffusione

Black Hornet 4 è stato ampiamente utilizzato in diverse situazioni:
- conflitti armati, per ricognizione, sorveglianza e targeting. Di fabbricazione norvegese, il Black Hornet 4 è stato donato alle truppe ucraine, per evidenti scopi sperimentali, e usato anche da Israele a Gaza;
- operazioni anti-terrorismo, per identificare nascondigli e tracciare sospetti;
- missioni di peacekeeping, per monitorare e proteggere il territorio;
- sorveglianza civile, per il controllo del traffico, la gestione delle emergenze e la protezione di infrastrutture critiche.

La diffusione di Black Hornet 4 è in costante crescita, grazie al suo costo relativamente contenuto e alla facilità d’uso. Molti paesi, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia, hanno adottato questo drone per le loro forze armate. Inoltre, la miniaturizzazione della tecnologia e la riduzione dei costi stanno rendendo i droni sempre più accessibili anche a piccoli gruppi e individui.

Criticità e dibattito

L’uso diffuso di Black Hornet 4 ha sollevato numerose critiche e dibattiti. Tra le principali preoccupazioni troviamo:
- la militarizzazione della polizia, l’uso di droni da parte delle forze dell’ordine solleva preoccupazioni sulla militarizzazione delle polizie e sull’erosione delle libertà civili;
- la privacy, la sorveglianza di massa rappresenta una grave minaccia per la privacy individuale.
- le discriminazioni: gli algoritmi di intelligenza artificiale, che guidano nano-droni, possono perpetuare e amplificare le disuguaglianze sociali;
- il rischio di escalation dei conflitti, l’uso di droni può abbassare la soglia per l’uso della forza e aumentare il rischio di escalation dei conflitti.

In sintesi

La diffusione di Black Hornet 4 solleva interrogativi inquietanti sulla natura del potere nel XXI secolo. Se il panottico di Bentham rappresentava una metafora della società disciplinare, Black Hornet 4 incarna una nuova forma di controllo, ad alta precisione, più pervasiva e invisibile. In questo modo, il veloce, istantaneo passaggio delle tecnologie di guerra alla possibilità di sorvegliare ogni individuo in ogni momento dello spazio e del tempo mina alla radice il concetto stesso di cittadinanza, di privacy e pone seri interrogativi sulla capacità di fare evolvere società libere e democratiche.

Black Hornet 4 rappresenta una tecnologia potente e versatile, nel quale non solo gli strumenti militari ma anche la microfisica del potere sulla società attraversano una nuova dimensione sovrapponendo le funzioni di guerra a quella del controllo profondo delle dinamiche sociali. Alle potenzialità di impiego militari e di controllo sociale, naturalmente si sovrappongono quelle ad uso civile (agricoltura, protezione dell’ambiente, controllo del traffico) ma questo nuovo livello della microfisica del potere, di cui Black Hornet 4 fa parte, è il problema politico e teorico, di oggi e dei prossimi anni.

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L’Europa impossibile di Mario Draghi

L’Europa è alla frutta. Potrebbe essere questa la sintesi dell’intervento di Mario Draghi al Simposio annuale del Centre for economic policy research (Cepr) a Parigi. E come sempre bisogna constatare che non modifica il suo tono oracolare nonostante che, del modello economico fin qui adottato, proprio lui sia stato un pilastro autorevole anche sul piano operativo (otto anni alla presidenza della Bce, nonché un passaggio rilevante da primo ministro italiano).

L’analisi è presto fatta: “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari come strumento per aumentare la competitività esterna, aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo. Tutti i governi disponevano di uno spazio fiscale per contrastare la debolezza della domanda interna, ma almeno fino alla pandemia hanno scelto deliberatamente di non utilizzare questo spazio. Complessivamente, la politica ha rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica, basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi. Una costellazione che non sembra più sostenibile”.

Inutile soffermarsi sull’uso eufemistico del linguaggio, tipo “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari”, quando basta sfogliare a ritroso il web per trovate decine di migliaia di interventi – europei e nazionali – in cui “si impone” il congelamento dei salari in tutto il Vecchio Continente. Altro che “tollerare”...

Le due cose più rilevanti di questa parte del suo discorso sono – non stranamente – le stesse che andiamo ripetendo da tre decenni su questo ed altri media.

a) Se si comprimono i salari si distrugge la domanda interna, ossia la capacità di consumo di quelle merci che qui vengono prodotte (“aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo”).

b) Il modello economico imposto a forza a tutta Europa è stato il mercantilismo, ossia la crescita trainata dalle esportazioni a scapito del mercato interno (“la politica ha rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica, basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi”).

Anche qui il linguaggio devia la responsabilità dall’Unione Europea (il soggetto semi-statuale a disposizione dei “mercati”) a una più indistinguibile “politica”, come se fosse una degenerazione casuale cui non si è posto rimedio prima.

Ma anche in questo caso l’affermazione più importante è un’altra: “quella costellazione non sembra più sostenibile”.

È la fine di un trentennio – almeno – di politiche europee improntate propagandisticamente all’“austerità”, ma di fatto alla ricerca della “competitività” giocando appunto sulla compressione salariale. Il che ha, logicamente, depresso la capacità delle imprese europee di ricercare uno sviluppo basato sull’innovazione tecnologica.

Prova ne sia il ritardo mostruoso sull’hi-tech (solo ora si cerca di stimolare qualche presenza autonoma nell’intelligenza artificiale), o anche il “diesel-gate” che ha innescato la crisi dell’auto (Volkswagen “beccata” a taroccare i test sulle emissioni, per rinviare gli investimenti sulla ricerca).

Bene. Ora che anche uno dei principali sostenitori di quel modello (o “costellazione”) ha decretato la sua morte, che si fa?

La proposta, a prima vista, è un serpente che si morde la coda: “sia le politiche strutturali sia quelle macroeconomiche devono cambiare per aumentare la crescita endogena in Europa. Le riforme di mercato sono necessarie per garantire il pieno effetto delle politiche macroeconomiche, mentre sono necessarie politiche macroeconomiche pienamente efficaci affinché le riforme di mercato producano la massima crescita della produttività”.

Non si dice quali siano le une e quali le altre, anche se potrebbe facilmente cavarsela dicendo di averle già descritte nel suo “Rapporto” di qualche mese fa, fatto proprio – almeno nelle intenzioni – dalla von der Leyen, ma che prevedono almeno 800 miliardi di investimenti pubblici l’anno.

Qui inserisce oltretutto un’altra difficoltà, perchè “Se l’Ue emettesse debito congiuntamente potrebbe creare uno spazio fiscale aggiuntivo da utilizzare per limitare i periodi di crescita inferiore al potenziale. Ma non possiamo iniziare a percorrere questa strada se non sono già in atto i cambiamenti nella struttura dei mercati che potrebbero aumentare i tassi di crescita potenziale nel medio termine”.

Un altro serpente che si morde la coda...

Inutile contestare questa visione sul piano teorico, è su quello pratico che rischia di inciampare ad ogni passo.

Quello che colpisce maggiormente, comunque, è il suo carattere esplicitamente conservatore, privo di speranza e prospettiva.

“Tutti questi sono investimenti che determineranno se l’Europa rimarrà inclusiva, sicura, indipendente e sostenibile. Tutti noi vogliamo la società che l’Europa ci ha promesso, una società in cui possiamo sostenere i nostri valori indipendentemente da come cambia il mondo intorno a noi. Ma non abbiamo un diritto immutabile per la nostra società di rimanere sempre come lo desideriamo. Dovremo lottare per mantenerlo”.

La retorica draghiana ed “europeista” abbandona ogni sogno circa un futuro migliore e chiama a migliorare la “competitività” – verso la Cina, la Russia, ma anche gli Stati Uniti – all’unico scopo realistico di “rimanere come siamo”.

Ossia una parte del mondo che invecchia perché le retribuzioni che permettono la “competitività” delle imprese impediscono che la popolazione in età fertile possa riprodursi ai ritmi fisiologici che garantiscono quanto meno il “pareggio demografico”.

Una parte del mondo sempre più diseguale quanto a redistribuzione della ricchezza e che vede quella ricchezza muoversi verso la finanza anziché verso la produzione e l’innovazione.

Una parte del mondo che impoverisce e diventa aggressiva (“bisogna aumentare la spesa militare” e “intervenire del ‘Mediterraneo allargato’” fino al Sahel compreso), ricorrendo alla guerra di conquista anziché alla collaborazione tra pari con chi è o può diventare fornitore di materie prime che qui non ci sono in misura sufficiente.

Non è questa la strada che si deve percorrere. E non conforta sapere che non è neanche percorribile perché il resto del mondo fuori dai “nostri” confini non è più quello in cui si è affermato il colonialismo occidentale.

Non conforta perché è oltretutto una guerra che non si può vincere. E quindi si tradurrebbe in una distruzione immane, proprio qui, nel “giardino” che vorrebbe restare sempre uguale, nascondendo sotto il tappeto mostruosità e ingiustizie.

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Centro per l’IA a Bologna, la UE vuole rafforzare competitività e cybersicurezza

Lo scorso 10 dicembre il governo italiano ha annunciato che il progetto IT4LIA AI Factory è stato selezionato dalla Commissione Europea nella cornice dello European High-Performance Computing Joint Undertaking, abbreviato in EuroHPC JU. Attraverso di esso, la UE vuole diventare competitiva nel settore dell’Intelligenza Artificiale.

Si tratta di un partenariato tra pubblico e privato per creare un’infrastruttura comune europea per il supercalcolo, da mettere a disposizione per miglioramenti scientifici e tecnologici (è nato anche in relazione al programma Horizon 2020). Ma è evidente che di questi tempi i suoi risultati saranno usati anche nelle cosiddette “guerre ibride”, in cui l’aspetto informatico è dirimente.

IT4LIA AI Factory, che troverà casa al Tecnopolo Manifattura di Bologna, sarà il primo di sette grandi centri promossi dalla Commissione Europea, finanziato con 215 milioni di euro. La stessa cifra verrà messa anche dal governo italiano, in uno sforzo congiunto tra il Ministero dell’Università e della Ricerca e vari altri enti.

Tra questi c’è la Regione Emilia-Romagna, che da tempo si è connessa con le filiere europee anche in virtù dei servizi garantiti proprio in ambito informatico. Il Cineca, anch’esso parte del progetto e responsabile per l’implementazione del supercomputer e della gestione delle infrastrutture collegate, annovera già tra i suoi strumenti “Leonardo”.

Leonardo è un altro supercalcolatore capace di effettuare 250 miliardi di operazioni al secondo, ovvero un’ora del suo lavoro “equivale a 920 anni di lavoro di un computer portatile”, ha detto il presidente di Cineca Francesco Ubertini al Resto del Carlino. Ma la Data Valley bolognese saluterà Leonardo nel 2028, che verrà appunto sostituito da questo nuovo progetto.

Tra gli enti finanziatori c’è anche l’Agenzia per la Cybersecurezza Nazionale (ACN), nata nel 2021. Non è un caso dunque che uno dei primi commenti in merito alla vicenda è arrivato dal Sottosegretario alla Presidenza del consiglio Alfredo Mantovano, che ha la delega relativa ai servizi di intelligence: “L‘Agenzia per la cybersicurezza nazionale prosegue così la sua intensa attività di potenziamento delle capacità digitali del nostro ecosistema, che ha già un punto di riferimento nella realizzazione, presso il Polo Universitario di San Giovanni a Teduccio a Napoli, di una prima infrastruttura di supercalcolo per la cybersicurezza nazionale”.

“Il progetto IT4LIA AI Factory, in linea con tale iniziativa, rappresenta un rinnovato esempio di collaborazione tra Pubblica Amministrazione, Istituzioni, Università e mondo della ricerca e, riguardando anche PMI e startup, che potranno usufruire della potenza di calcolo sviluppata dalla Factory, andrà anche favore del settore produttivo italiano”.

L’obiettivo dichiarato è infatti quello di realizzare un sistema integrato tra ricercatori, start-up, imprese ed enti pubblici che porti a un maggior utilizzo di soluzioni IA nella pubblica amministrazione, nell’agroalimentare, nel manifatturiero in generale. Ma anche a un maggior controllo nei processi legati alla sicurezza informatica.

Processi che, come per il complesso militare-industriale, si legano sempre più alla vita civile e, in particolare, all’istruzione. È chiaro che questo progetto non può essere pensato separato da altra dichiarazioni, come quelle fatte proprio dalla ministra Bernini e da Mantovano, poco tempo fa, riguardo a un maggior controllo sui rapporti internazionali delle università.

IT4LIA AI Factory è perciò un altro tassello del salto competitivo che la UE vuole fare tra gli attori globali, in questa fase di crisi in cui i grandi conglomerati capitalistici o vincono sui “nemici” o soccombono. È, come già accennato, solo una delle sette AI Factory la cui realizzazione coinvolgerà 15 paesi membri della UE, Norvegia e Turchia.

Questa nuova rete di supercomputer, che dovrebbe cominciare a essere operativa dal 2026, rimane dentro le preoccupazioni di sicurezza dell’area euroatlantica, anche se, all’interno, è pensata per competere anche con l’alleato oltreoceano. Ma, ad ogni modo, sono gli attori del mondo multipolare che mettono in guardia la classe dirigente nostrana, e soprattutto la Cina.

Una recente intervista apparsa su RaiNews.it ad Alberto Pagani, docente di Bologna esperto di cybersicurezza e precedentemente deputato del PD e componente della delegazione parlamentare italiana presso la NATO, discute della nuova frontiera della “guerra cognitiva algoritmica”, che fa largo uso di big data e Intelligenza Artificiale generativa “per produrre contenuti in modo mirato e massivo”.

Se la preoccupazione è che il Dragone possa utilizzare questi strumenti per orientare l’opinione pubblica occidentale, nessuno sui media si domanda se la stessa cosa – a fini “interni” – non sia invece fatta con progetti come quello dei nuovi supercomputer europei. In un periodo di evidente scollamento tra la politica e gli interessi della maggioranza della popolazione, è questo il pericolo principale.

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Il cambiamento climatico è una questione di classe/1

“Si tratta di un libro piccolo, ma il suo messaggio è vitale.
Coloro che sfruttano il lavoro altrui per profitto, sfruttano anche le preziose risorse della terra per lo stesso motivo.
Se protesti per salvare il pianeta, unisciti a un picchetto e viceversa.
La lotta non cambia – è la lotta di classe, e questa volta dobbiamo vincere.
Grazie Sarah e John”.
Ken Loach

Alla fine, il cambiamento climatico ha un impatto su tutti. Raggiungerà anche coloro che stanno rastrellando fortune distruggendo il Pianeta: persone che possono comprare la loro via d’uscita da disagi temporanei. Il cambiamento climatico impatta sulla totalità del mondo naturale. Allora perché sostenere che si tratta di una questione di classe?

Questo piccolo libro si propone di rispondere a questa domanda. Esamina anche il motivo per cui questo è importante e cosa significa che possiamo agire per evitare la minaccia che incombe su tutti noi. Il cambiamento climatico è il nostro pericolo più grande e più imminente, ma la nostra crisi mondiale va oltre. Trattando il Pianeta come una risorsa illimitata, la nostra società moderna sta distruggendo l’ambiente ovunque. Anche questa è una questione di classe, e fa parte di questa discussione.

Iniziamo con ciò che possiamo vedere intorno a noi.

Non è solo perché l’uno per cento produce la maggior parte dell’anidride carbonica, anche se è così...

Sappiamo che l’anidride carbonica nell’aria lascia passare la luce del sole, ma intrappola il calore emesso dalla terra riscaldata. Già nel diciannovesimo secolo, si cominciava a riconoscere che l’aumento dell’anidride carbonica prodotta dalla rivoluzione industriale poteva aumentare il calore intrappolato e rendere il nostro Pianeta più caldo.

L’anidride carbonica viene prodotta quando bruciamo carburante per riscaldare le nostre case o guidiamo automobili o pilotiamo aerei. Viene prodotta anche quando l’energia viene utilizzata per produrre e trasportare le cose. Anche le cose che vengono vendute per risparmiare energia possono aver già utilizzato molta energia e generato molta anidride carbonica durante la loro produzione.

La maggior parte delle cose che acquistiamo sono realizzate con materiali che saranno riciclati solo in parte. Saranno gettate via come se quei materiali fossero sostituibili, ma non possiamo continuare a farlo per sempre.

Non possiamo continuare a seppellire e bruciare miliardi di bidoni della spazzatura pieni di roba ogni settimana. Le persone più ricche hanno case più grandi e più auto. Prendono più voli e hanno più beni e buttano via più cose. La loro ricchezza si basa su imprese e investimenti che producono anidride carbonica e stimolano il consumismo. Più le persone sono ricche, più anidride carbonica tendono a produrre, più risorse usano, più investono in combustibili fossili e più contribuiscono alla crisi ambientale.

O perché quelli che stanno in fondo sentono per primi gli effetti, anche se è vero...

Alla fine la crisi raggiungerà anche i ricchi, ma per ora possono comprarsi un po’ di protezione. Possono permettersi case lontane dalle pianure alluvionali più pericolose e installare sistemi di raffreddamento che consumano energia. Possono scegliere di non lavorare in condizioni di caldo estremo. Quando i cambiamenti climatici riducono le scorte di cibo, possono pagare un extra per assicurarsi di ottenere ancora ciò che desiderano.

Più le persone sono povere, più è probabile che subiscano gravi conseguenze in caso di calamità o che siano escluse dalle forniture essenziali in tempi di scarsità.

O perché le élite usano la loro crisi come scusa per spremere gli altri...

Oltre a questo, coloro che sono al potere stanno usando la crisi per sfruttare ulteriormente le persone che hanno meno responsabilità nelle cause della crisi stessa. Proprio come hanno usato il crollo economico del 2008. Esigono sacrifici da parte di coloro che hanno meno da dare.

Nei paesi occidentali, la politica degli ultimi quarantacinque anni è stata volta a invertire le conquiste fatte dai lavoratori nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Ha avuto lo scopo di garantire che la maggior parte della ricchezza creata andasse a beneficio di coloro che sono già ricchi; che i servizi conquistati a fatica venissero svenduti a società private che sfruttano i loro utenti; e che la capacità di protestare contro queste cose diventasse sempre più limitata.

Le potenze occidentali hanno usato il loro dominio economico per imporre politiche simili al Sud del Mondo. Ogni disastro è stato usato come un’opportunità per i ricchi di riprendersi maggiori risorse mondiali, e il collasso ambientale non fa eccezione.

C’è sempre una pressione per preservare le gerarchie esistenti e per estrarre di più dai lavoratori. I politici sostengono di poter combattere il cambiamento climatico senza disturbare il modo in cui funziona la nostra società attuale. Le loro politiche spesso finiscono per penalizzare i meno abbienti, pur avendo scarso impatto sulla produzione di anidride carbonica. Alcune addirittura ne causano un aumento.

I responsabili politici affermano di poter convincere le persone a produrre meno anidride carbonica utilizzando le tasse per aumentare i costi energetici. Ma le persone ricche, che sono i maggiori produttori, possono permettersi di pagare di più, e i risparmi energetici ottenuti sono molto lontani da ciò che è necessario. Nel frattempo, l’aumento dei costi colpisce tutti e può fare la differenza tra una famiglia a basso reddito che riesce a gestirli e una famiglia che si indebita a spirale.

In Francia, l’aumento dell’imposta sul carburante, introdotta come “politica verde”, ha innescato massicce manifestazioni popolari nel movimento che è diventato noto come gilets jaunes, dal nome dei gilet gialli indossati dai manifestanti. Piuttosto che affrontare l’introduzione di sistemi di risparmio energetico in modo logico ed efficiente, questa politica le tratta come un’altra opportunità di business.

I sussidi per l'efficientamento energetico delle case hanno sfamato gli azionisti di una nuova generazione di aziende private. Laddove le società sono state adeguatamente regolamentate, hanno anche beneficiato i proprietari di case, ma gli affittuari continuano a pagare i costi aggiuntivi della vita in case inefficienti dal punto di vista energetico.

Il mancato rispetto dei moderni standard di isolamento termico è stato usato come scusa per demolire le case popolari e vendere il terreno a costruttori privati, anche se la demolizione e la ricostruzione sono un processo ad alta intensità energetica.

La classe operaia è la meno responsabile della catastrofe ambientale e la più colpita, e le cosiddette politiche ambientali spesso aumentano la disuguaglianza. Le politiche che rendono la vita più difficile per la classe operaia sono giustamente contestate. Ma le politiche ambientali non devono essere così, anzi, devono essere proprio il contrario.

O perché i paesi che inquinano di meno soffriranno di più...

Cose simili stanno accadendo su scala internazionale. I paesi ricchi e “sviluppati” hanno già prodotto molto più della loro giusta quota di anidride carbonica; mentre i paesi poveri delle ex colonia sono i meno protetti dall’innalzamento del livello del mare e dalle condizioni meteorologiche estreme che il cambiamento climatico sta rendendo sempre più comuni.

Decenni di saccheggi, insieme alle privatizzazioni imposte dalla Banca Mondiale, li hanno lasciati senza le infrastrutture necessarie per la vita quotidiana, per non parlare di far fronte a disastri di massa. Questi paesi più poveri sono stati a lungo sfruttati per le loro risorse dai paesi più ricchi e dalle multinazionali.

Il cambiamento climatico offre nuove opportunità di sfruttamento. Comporta nuove richieste di minerali rari per alimentare le nuove tecnologie verdi (come il litio per le batterie) e la pressione delle imprese dei paesi più ricchi che vogliono delocalizzare le loro industrie inquinanti.

I paesi più ricchi possono quindi sembrare in grado di raggiungere i loro obiettivi ecologici e le imprese possono evitare le rigide normative ambientali. All’interno dei paesi più poveri, sono ancora una volta quelli che hanno meno ad essere più esposti agli impatti del cambiamento climatico e allo sfruttamento effettuato in nome della lotta al cambiamento climatico.

...Ma perché il sistema che sfrutta il pianeta fino alla distruzione è lo stesso che dipende dallo sfruttamento di classe: il sistema che vede tutto in termini di profitto – che è esattamente ciò che è il capitalismo.

La ragione della discrepanza tra responsabilità e sofferenza è la stessa per il cambiamento climatico e per la più ampia crisi ambientale come per tutti gli aspetti della crescente e brutale disuguaglianza nel Mondo. È il risultato del capitalismo: della priorità del capitalismo per il profitto e del suo bisogno di una crescita economica costante.

La concorrenza di mercato significa che nessuna impresa può permettersi di accontentarsi di ciò che ha, poiché rischia di essere superata dai suoi concorrenti. Deve trovare nuovi mercati e creare nuova domanda. Deve convincerci ad acquistare prodotti e servizi di cui non abbiamo bisogno né che vogliamo veramente, a scapito di sempre maggiori risorse del Mondo.

Tutto è considerato una potenziale fonte di profitto. Il capitalismo sfrutta la natura nello stesso modo in cui il capitalismo sfrutta la classe operaia. Il modo in cui entrambi vengono trattati dipende solo dal loro potenziale di fare soldi. Quando tutto è lasciato al mercato, cioè alle imprese private, l’economia non funziona al servizio della società.

Piuttosto, la società lavora per l’economia, e quell’economia è bloccata in una rapace espansione divoratrice di mondi. Se ci chiedessero di inventare un sistema per soddisfare i bisogni umani, saremmo giustamente diffidenti nei confronti di qualsiasi proposta che metta la priorità non sul bisogno, ma sul profitto privato. E rifiuteremmo categoricamente qualsiasi proposta che dipenda dal consumo illimitato della nostra limitata eredità comune.

Nel frattempo, il costante bisogno del capitalismo di più materie prime e più mercati aiuta a spingere i paesi verso la guerra, dove la classe operaia è usata come carne da cannone e l’ambiente è considerato altrettanto superfluo.

Le regole – create dall’uomo – del sistema capitalista sono generalmente indicate come se fossero leggi immutabili della natura: come se non avessimo altra scelta che organizzare la società per mettere il profitto prima di tutto. Potremmo pensare che sarebbe meglio concentrarsi sui bisogni e sul benessere umano e sul vivere in sintonia con il nostro ambiente naturale, ma ci viene detto che non è così che funziona il mondo.

Ci viene detto che le persone sono egoiste per natura e che è solo attraverso la competizione egoistica che la società si sviluppa. Tuttavia, se fossimo davvero le creature egoiste dipinte dagli economisti, la società umana non sarebbe mai decollata. La forza dell’umanità viene dalla nostra capacità di organizzarci e di aiutarci a vicenda. Ci viene detto che pianificare qualsiasi forma di società diversa da quella capitalista non è realistico, come se continuare con un sistema che sta rendendo il nostro Pianeta invivibile fosse una cosa “realistica” da fare.

Mentre i cambiamenti necessari per riportare il nostro mondo fuori dal precipizio sono gli stessi che porrebbero fine a questo sfruttamento di classe: un’economia popolare dalla gente e per la gente – che è ciò che il socialismo dovrebbe essere.

La cosa assurda è che sappiamo che è perfettamente possibile per l’umanità vivere – e vivere bene – senza che questo costi alla Terra. Conosciamo i cambiamenti che devono essere apportati al modo in cui la nostra società è organizzata e sappiamo come utilizzare i finanziamenti pubblici per fornire beni e servizi pubblici e un lavoro veramente utile.

Sappiamo che se le risorse fossero condivise equamente e utilizzate razionalmente, ce ne sarebbero abbastanza per tutti. I cambiamenti richiesti sono grandi, ma sono necessari per la sopravvivenza. Possono anche portare a uno stile di vita molto più felice e meno stressante. Tuttavia, questi cambiamenti minacciano le gerarchie esistenti e sono contrastati da coloro che sono al potere.

Un modo in cui le élite convincono il resto di noi a sostenere i loro interessi – i loro interessi a brevissimo termine in questo caso – è quello di renderci timorosi del cambiamento. Ci viene detto che perderemo la nostra libertà e il nostro modo di vivere. Non dovremmo mettere in discussione quali libertà siano minacciate – la libertà di rendere il Mondo inabitabile, per esempio, o la libertà di sfruttare gli altri.

Né ci si aspetta che ci si chieda se uno stile di vita che genera enormi disuguaglianze e che vede la maggior parte delle persone trascorrere la maggior parte delle ore di veglia legate a un lavoro noioso e insicuro sia uno stile di vita che dovrebbe essere preservato immutato.

Molte delle cose che apprezziamo di più – stare con la famiglia e gli amici, fare e godere della musica o dell’arte, ballare, giocare e guardare lo sport, esplorare il mondo naturale che ci circonda – non hanno bisogno di utilizzare grandi quantità di energia preziosa, né di consumare risorse insostituibili e limitate. Ma siamo sempre limitati nel nostro godimento di queste cose perché siamo costretti a passare così tanto della nostra vita sul tapis roulant capitalista.

Usiamo energia e risorse per produrre sempre più cose che aggiungono molto poco al benessere umano, e usiamo il nostro ingegno per convincere gli altri che queste cose sono la chiave per la loro felicità futura. Questo è ciò che il sistema capitalista ci richiede.

Non dobbiamo mai essere contenti di quello che abbiamo, altrimenti non ne compreremmo di più. Lavoriamo per molte ore, spesso in lavori che possiamo percepire come intrinsecamente inutili, e poi spendiamo i nostri salari duramente guadagnati in cose che potrebbero farci risparmiare un po’ di tempo o che sembrano sostituire un po’ della gioia perduta. Siamo intrappolati su un tapis roulant progettato per privarci sia del tempo che della voglia di pensare oltre le aspettative capitaliste.

La maggior parte dei lavori non contribuisce molto all’umanità, ma i lavoratori che svolgono quei lavori dipendono da loro per vivere. Non possono permettersi di vedere scomparire i loro mezzi di sostentamento. I capitalisti sfruttano la paura della disoccupazione come fanno sempre. Usano questa paura per rendere le persone resistenti a qualsiasi cambiamento che vedrebbe questi lavori scomparire.

Tuttavia, un sistema sociale sostenibile richiede anche lavoro, solo un lavoro diverso. Un tale sistema può pagare le persone per fare il lavoro che la loro comunità ritiene importante, e può garantire, attraverso una distribuzione più equa delle risorse, che tutti abbiano abbastanza per vivere e abbastanza tempo per godersi la vita.

La proprietà pubblica delle risorse diventa ancora più importante con la crescita dell’Intelligenza Artificiale. L’IA ha il potenziale per generare grandi risparmi nella quantità di lavoro umano necessaria per sostenere le società. Nelle mani pubbliche, può consentire a tutti di trarne beneficio. Se lasciata ai mercati capitalistici, produrrà solo una maggiore disuguaglianza. Gli investimenti pubblici nelle energie alternative possono garantire che queste siano sviluppate nel modo più vantaggioso per la società, piuttosto che per il massimo profitto privato.

Il capitalismo ci insegna anche a credere che la crescita economica infinita sia essenziale per il nostro benessere. Solo quando guardiamo fuori senza i paraocchi capitalisti, possiamo vedere una chiara via d’uscita da questo percorso verso la distruzione.

Se le organizzazioni pubbliche e comunali, a tutti i livelli, sono in grado di provvedere ai nostri bisogni primari, allora non dobbiamo più fare affidamento sul mercato, con il suo appetito insaziabile. In ogni occasione in cui chiediamo la spesa pubblica per il bene pubblico, ci viene detto che i soldi non sono disponibili.

Allo stesso tempo, siamo circondati dalla ricchezza – dai prodotti di generazioni di lavoro – e disponiamo di nuove tecnologie che consentono al lavoro di raggiungere una produttività sempre maggiore. Se solo ci fosse un modo per indirizzare quella ricchezza dove è più necessaria... Ma, naturalmente, c’è.

I governi – nazionali e regionali – hanno gli strumenti: è solo che il capitalismo esige che non li usino. Le autorità pubbliche, a tutti i livelli, hanno la capacità di investire in cambiamenti che consentano uno stile di vita più sostenibile, come ad esempio un trasporto pubblico completo e a prezzi accessibili. Possono farlo in modo simile a come l’economia britannica martoriata dalla guerra ha costruito il servizio sanitario nazionale.

E i governi possono progettare sistemi di tassazione che impediscano che la ricchezza venga accumulata dai ricchi e che ne consentano l’uso a beneficio di tutti. Le tasse sul patrimonio, così come le imposte sul reddito, possono accedere alla ricchezza che è stata accumulata, così come alla ricchezza che viene creata oggi.

Quando le autorità pubbliche investono in questo modo, il denaro non scompare, ma viene utilizzato per costruire la nostra ricchezza comune. Ciò può fornire una fonte di entrate per maggiori investimenti pubblici o può consentire la fornitura di beni e servizi pubblici.

I beni e i servizi, gratuiti o sovvenzionati, contribuiscono a una società più equa. Possono portarci un passo avanti verso un’economia basata maggiormente sui bisogni e incentrata sulla comunità. Siamo stati condizionati dal capitalismo a rifiutare l’aumento delle tasse e della spesa pubblica, ma se vogliamo un mondo razionale, con un controllo democratico sull’economia, questi sono strumenti vitali.

Questo non è un argomento a favore del ritorno a burocrazie centralizzate e insensibili, come quelle dell’Europa orientale o quelle che gestivano i programmi di edilizia popolare della socialdemocrazia del dopoguerra. Il controllo democratico richiede che le persone abbiano l’opportunità di essere coinvolte nella gestione della propria vita e nel prendere le decisioni che le riguardano. Significa prendere decisioni al livello più locale possibile.

Il capitalismo ci ha persuaso che la proprietà e il controllo pubblico dovrebbero essere l’ultima risorsa temporanea quando una parte dell’economia capitalista ha fallito.

Ma, se vogliamo un uso sostenibile ed equo delle risorse, il nostro obiettivo dovrebbe essere un’economia di proprietà e gestione pubblica. Ciò non riguarderebbe le piccole imprese, ma solo i servizi vitali e le grandi imprese che sono arrivate a dettare legge nella nostra economia e stanno sacrificando il futuro dell’umanità per il loro profitto a breve termine.

Gli imprenditori protesteranno che gli investimenti pubblici forniscono una concorrenza sleale, rendendo la loro attività meno redditizia. Se queste imprese stanno fornendo un ruolo necessario e non possono sopravvivere, anche loro possono essere assunte in proprietà e controllo pubblico. La perdita di posti di lavoro nel settore privato potrebbe essere più che compensata da posti di lavoro più sicuri nel settore pubblico.

Il successo della propaganda contro il cambiamento ha permesso ai “pragmatici” di dichiarare impossibile il cambiamento sociale a causa della mancanza di sostegno pubblico. Al contrario, sostengono che tutto ciò che è necessario per fermare il cambiamento climatico è una soluzione tecnologica. Le nuove tecnologie hanno un ruolo importante. L’energia eolica, solare e le pompe di calore possono dare un contributo vitale alla riduzione delle emissioni di carbonio.

Ma, da sole, le nuove tecnologie incentrate sull’energia verde non saranno sufficienti. Esse non impediranno il consumo sempre crescente delle risorse mondiali, alcune consumano ancora più risorse, compresi i metalli rari. Alcune tecnologie rischiano di generare nuovi problemi, potenzialmente enormi, sconosciuti. E, senza cambiamenti sociali, ogni aumento dell’energia rinnovabile tende ad essere utilizzato per giustificare un maggiore consumo di energia.

Se una frazione degli sforzi spesi a inseguire il miraggio della panacea tecnologica fosse reindirizzata alla riorganizzazione della società, le nostre prospettive future sarebbero molto più luminose. Mentre i politici e gli uomini d’affari guardano verso la tecnologia per salvare il capitalismo, gli scienziati stanno riconoscendo sempre più che è solo ponendo fine al capitalismo che l’umanità può salvare sé stessa.

E cosa può far sì che ciò accada se non il potere della classe operaia?

Quando la classe operaia agisce insieme, abbiamo il potere di affrontare gli interessi acquisiti che ci stanno mandando tutti velocemente all’Inferno. In effetti, questa è la nostra unica speranza. Le conquiste del passato non sono state il prodotto della generosità delle élite. Sono state vinte dopo lunghe campagne in cui le persone si sono unite in modo che fosse impossibile resistergli.

In questa lotta per la sopravvivenza dell’umanità, abbiamo visto una coraggiosa resistenza da parte dei popoli indigeni la cui esistenza è stata minacciata, abbiamo visto gli scienziati del clima gettare la museruola della “neutralità” politica e abbiamo visto milioni di studenti chiedere un futuro, ma senza la classe operaia, questa lotta per la sopravvivenza non ha il peso e la forza per fare la differenza.

La sopravvivenza richiede un cambiamento rivoluzionario dell’economia, e la spina dorsale dell’economia sono i suoi lavoratori. Quando i lavoratori agiscono insieme, compreso il ritiro pianificato e strategico del loro lavoro, hanno il potere di rendere impossibile la continuazione delle pratiche esistenti: il potere di forzare il cambiamento. Hanno anche conoscenze e abilità che possono essere trasformate nella creazione di un modo diverso di fare le cose.*

Quattro decenni di neoliberismo hanno ristretto gli orizzonti del lavoro organizzato.

I sindacati sono vincolati dalla legge e i leader sindacali hanno interiorizzato le restrizioni [che gli vietano] di andare oltre le questioni immediate nel singolo luogo di lavoro. Ma la situazione può cambiare, come è stato fatto in passato.

L’urgenza della nostra attuale situazione dovrebbe alimentare le forze del cambiamento, che non verranno da dichiarazioni di obiettivi che inducono al sonno, ma dalla pressione dei lavoratori in massa. Il potere del lavoro organizzato può costringere a cambiamenti sia l’industria che il governo. Anche al di fuori del luogo di lavoro, quando le comunità della classe operaia si riuniscono, possono salvare aspetti della loro vita dal colosso capitalista e dimostrare, su scala comunitaria, che sono possibili altri approcci migliori all’organizzazione sociale.

Fonte

Per una teoria del conflitto: la nuova edizione del Capitale di Marx

Tanto spesso, in questi ultimi anni, abbiamo affermato di essere di fronte a una nuova fase storica, nella quale le contraddizioni sistemiche sono in rapido sviluppo e in costante accrescimento: crisi del modo di produzione capitalistico, costante innalzamento della tensione bellica, genocidio del popolo palestinese, crisi ambientale, violenza sistemica (dallo sfruttamento di classe senza quartiere alla violenza di genere).

Davanti a questi processi, nei quali svolge un ruolo regressivo, un Occidente in crisi di egemonia cerca disperatamente di rilanciarsi a livello ideologico, rappresentando sé stesso come la civiltà più avanzata, un armonico «giardino» posto sotto assedio da parte della «giungla» (la barbarie, le autocrazie, i popoli passivi e arretrati).

In questo contesto, e proprio per la necessità di dare sostanza ad un’ipotesi di fuoriuscita da questa crisi così grave e profonda e di combattere efficacemente le armi ideologiche dell’avversario, assumono una rinnovata centralità teorica e politica lo studio e l’elaborazione del marxismo, ossia di una visione del mondo ancora capace di spiegare i processi in atto e indicare una prospettiva alternativa di società.

Giunge dunque particolarmente opportuna la nuova edizione del testo fondativo, del pilastro fondamentale del marxismo, il primo libro de Il Capitale di Karl Marx, curata per Einaudi (nella prestigiosa collana I millenni) da Roberto Fineschi, che ha coordinato una squadra di traduttori composta da, oltre a sé stesso, anche da Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’.

Questa edizione è frutto del lavoro aperto da decenni intorno ai testi marxiani nell’ambito del progetto della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx e di Engels, la MEGA2 di cui Fineschi, studioso e compagno con cui abbiamo il piacere di collaborare da anni, è uno dei protagonisti.

Sulla fisionomia e sulle acquisizioni di questo lavoro filologico, che sta consentendo di portare alla luce nuovi testi e soprattutto di chiarire alcuni snodi fondamentali della riflessione di Marx, rimandiamo ai lavori di Roberto e intanto all’intervento di Francesco Ravelli, più sotto pubblicato, alla presentazione del Capitale tenuta il 21 novembre presso il circolo OST Barriera a Torino.

Quella che ci preme qui sottolineare è la portata politica di questo lavoro di recupero e approfondimento dei fondamenti del marxismo, che è appunto operazione necessariamente anche politica, elemento della lotta di classe nel campo della teoria, sul piano delle idee. Si tratta infatti di cogliere in Marx non un «classico», un pensatore certo di indubbio spessore ma tutto sommato relegabile tra gli scaffali polverosi di una libreria d’antiquariato o classificabile in una dossografica storia della filosofia moderna, quanto piuttosto un teorico attuale, la cui analisi pone le basi per la comprensione del mondo in cui viviamo, a partire da quel modo di produzione capitalistico, ancora oggi dominante, di cui egli ha saputo cogliere la trama profonda di movimento, il nucleo strutturale.

Il pensiero di Marx (e di Engels) è l’atto fondativo di una concezione del mondo che, per la sua stessa natura, non si può chiudere nei loro scritti, ma la cui elaborazione è stata proseguita nella storia del marxismo e del movimento comunista, e deve riprendere e proseguire oggi nella teoria e nella pratica rivoluzionaria.

Si tratta di una concezione «forte», fondata sul punto di vista della totalità, strutturalmente contrapposta alla logica borghese, liberale, postmoderna che da un lato rimane imprigionata nel «mito del dato» trascurando il carattere storico della realtà, dall’altro vede il mondo come un «labirinto» in ultima istanza incomprensibile nel suo complesso, tanto meno sostanzialmente modificabile.

Nella concezione marxiana del mondo, invece, si coglie la tensione verso la conoscenza del mondo sociale nella sua totalità, composta di parti in relazione l’una con l’altra; la traduzione in prassi di questa teoria si concretizza quindi nell’obiettivo di modificare il mondo in senso rivoluzionario, non soltanto in uno dei suoi settori, ma con una vera e propria sostituzione di un modo di produzione, di una formazione economico-sociale, di una visione del mondo con un’altra, quella socialista.

Senza teoria rivoluzionaria, come ci insegna Lenin, non è possibile azione politica rivoluzionaria. Oggi più che mai, in un capitalismo e in un Occidente crepuscolare, la battaglia sulla teoria, sulla «ideologia» intesa proprio, gramscianamente, come concezione del mondo, è un aspetto cruciale della più ampia lotta di classe, divenuta ormai lotta per la ripresa di un processo razionale di sviluppo umano.

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Di seguito pubblichiamo la relazione di Francesco Ravelli alla presentazione della nuova edizione critica del Capitale di Marx tenutasi il 21 novembre a Torino presso la biblioteca popolare «Nicola Zamboni» del circolo OST Barriera. All’iniziativa era presente anche Roberto Fineschi, curatore e traduttore del capolavoro marxiano.

Alla recente edizione del primo libro del Capitale di Marx curata da Roberto Fineschi per la collana I millenni dell’editore Einaudi si prospetta il compito di segnare in modo finalmente articolato la lettura in italiano del grande pensatore e rivoluzionario. Militanti e studiosi si trovano fra le mani un volume di oltre 1300 pagine che racchiude la più alta esposizione critica della modernità, termine con il quale va inteso il processo di sviluppo storico del modo di produzione capitalistico.

Come dovrebbe essere noto, il primo libro è l’unico scritto integralmente da Marx e mira ad analizzare la produzione del capitale, ovvero comprendere come, attraverso il funzionamento economico, si costituisce la moderna società borghese divisa in classi. Fineschi e gli altri tre traduttori (Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’) partono dalle acquisizioni dell’edizione storico-critica – in particolare dalla seconda sezione, voll. V-X, della monumentale e non ancora conclusa MEGA² – e traducono la quarta edizione tedesca (1890), frutto del lavoro di Engels che mise insieme gli appunti di Marx e le sue postille alle edizioni precedenti.

Fondamentali sono le circa 140 pagine di apparati, che danno conto delle significative varianti delle prime tre edizioni tedesche (1867, 1872-73, 1883) e della traduzione francese uscita a fascicoli (1872-75). Basti pensare alla distinzione rigorosa tra valore e valore di scambio: se nella prima edizione tedesca i due termini sono usati ambiguamente, a partire dalla seconda Marx usa valore per la sostanza di valore e valore di scambio per la forma fenomenica di esso; la distinzione tra lavoro e processo produttivo nel quinto capitolo della seconda edizione tedesca, fondamentale anche in merito alla teoria del plusvalore, alla differenza fra capitale costante e capitale variabile, a quella fra tecnica e tecnologia.

Dopodiché, volgendo lo sguardo alla versione francese, vanno sottolineate l’innovativa presenza della categoria di «lavoratore complessivo» e alcune rilevanti modifiche riguardanti la teoria dell’accumulazione.

Insomma, questa bella edizione ci costringe a stare dentro il cantiere di Marx, a muoverci insieme a lui lungo un’elaborazione concettuale fatta di tentativi e ripensamenti, ipotesi e verifiche. Il testo contiene tutti i materiali che Marx ha scritto a partire dal 1863 con l’idea esplicita di redigere ciò che sarebbe diventato il suo opus magnum: oltre ovviamente all’edizione a stampa del primo libro del Capitale del 1890 (con le già evocate varianti rispetto alle altre curate da lui o da Engels, esclusa l’inglese), troviamo ciò che resta del Manoscritto 1863-65, ovvero il cosiddetto sesto capitolo inedito sui Risultati del processo di produzione immediato e alcune pagine e note sparse; la riproduzione integrale del primo capitolo sulla merce, del 1867, e della sua appendice sulla forma di valore, che risultano radicalmente diversi dalla versione definitiva; e poi, ancora, la ricostruzione critica del manoscritto redazionale che Marx scrisse tra il 1871 e il 1872 in vista sia della seconda edizione tedesca e successivamente di quella francese; si tratta del testo a cui Marx lavora per ristrutturare il primo capitolo, nel quale nasce il famoso paragrafo sul feticismo.

Il volume è arricchito dalla riproduzione di sedici opere pittoriche, di linguaggio per lo più realista, che rappresentano i tanti volti dello sfruttamento otto-novecentesco, fra cui Gli spaccapietre di Courbet, Le mondine di Morbelli, Gli scaricatori di carbone di Monet, i Lavoratori che tornano a casa di Munch, un particolare de Gli scioperanti di Adler, e altri.

Molto utili, inoltre, sono le pagine dedicate alle note di traduzione, che danno conto dei criteri utilizzati. Illuminanti a mio parere le spiegazioni relative alle scelte di resa, ad esempio, di Arbeiter, che in tedesco significa sia lavoratore sia operaio di fabbrica; di Darstellung, esposizione; Vorstellung, rappresentazione; repräsentieren, essere rappresentante; erscheinen, manifestarsi; Erscheinung, fenomeno; scheinen, parere; Schein, parvenza; Entäusserung, alienazione nel senso di spogliarsi della propria forma originaria (il participio passato entäussert, nella metamorfosi della merce, è usato in riferimento al denaro, che è la merce spogliatasi della propria originaria forma corporea; il denaro è la forma spoglia della merce alienata).

Questo per inquadrare molto brevemente l’edizione, nella cui introduzione il curatore ricorda anche perché non esiste un’edizione definitiva del Capitale (o «di ultima mano») e le ragioni che lo hanno spinto ad adottare come base testuale l’edizione del 1890. Per la nostra iniziativa a me è venuto in mente di provare a dire cosa le edizioni e gli studi curati da Roberto Fineschi[1] hanno dato al mio tentativo di comprensione della teoria di Marx.

Che Il capitale sia un contributo decisivo, e quindi degno di particolare attenzione, è riconosciuto da tutti, pure dagli apologeti della classe dominante, evidentemente a corto di altri riferimenti teorici all’altezza della situazione attuale. Lo dimostrano i numerosi articoli usciti sui quotidiani a commento della nuova edizione, che bene o male hanno fatto riferimento alla fecondità analitica del libro in relazione alla globalizzazione dei mercati, alla centralizzazione e concentrazione dei capitali, alla periodicità delle crisi finanziarie e industriali, alla mercificazione di ogni aspetto della vita sociale e individuale, al progresso tecnologico, alla funzione dell’esercito industriale di riserva, alla precarietà e flessibilità sistemica del lavoro, etc.

A mio avviso non vi è solo il riconoscimento di Marx classico del pensiero, alla Bobbio, ritengo invece che vi sia proprio un uso capitalistico di Marx, la cui condizione di possibilità storicamente determinata, almeno qui in Italia e in Europa, è la lotta di classe al contrario: quella, per farla breve, dei capitalisti (nelle sue varie forme di dominio) contro il movimento operaio, contro i salariati, i subalterni, i dominati. Il capitale serve anche alla classe dominante!

Ma veniamo al rapporto che noi comunisti dobbiamo intrattenere con Das Kapital; va da sé che per noi non può essere solamente un classico fra gli altri, e tuttavia, se pensiamo al livello di astrazione molto alto a cui si situa l’analisi che contiene, non possiamo nemmeno considerarlo come un immediato strumento di prassi politica volto alla fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico.

Qui Roberto ci è veramente d’aiuto. La specificità del modo di produzione capitalistico è la costituzione storica di un rapporto sociale ben preciso, costituzione che implica la liberazione da ogni servitù con contemporanea netta separazione tra possesso dei mezzi produttivi e possesso di semplice capacità di lavorare.

Se il lavoratore è separato dai mezzi di estrinsecazione di tale capacità insita nella sua corporeità (mente, muscoli, mani, ecc.), e tuttavia è lasciato libero di scegliere che cosa meglio gli aggrada (morire di fame o «guadagnarsi da vivere»), non può svilupparsi altro che la libera contrattazione tra capitale e forza lavoro – non subito, ma la grandezza di Marx è di aver individuato lo sfruttamento prescindendo dagli «attriti» storici precapitalistici ancora esistenti per un lungo periodo. Insomma, si è dovuta formare la massa del lavoro salariato: questo il movimento (storico) di instaurazione del rapporto sociale che è il capitale, secondo la definizione di Marx.

Soffermiamoci dunque sul significato di storia nel Capitale. L’idea fondamentale è di arrivare a concepire non tanto una generica concezione della storicità come descrizione del corso degli eventi, o di un periodo in particolare passato o presente, quanto di sviluppare, ed è ciò che fa Marx, un modello teorico di una determinata epoca storica, che strutturi le vicende in base a una logica essa stessa storica, ovvero che ha una storicità.

A partire da determinati presupposti posti dal modello teorico, questo si sviluppa per inglobamento e riproduzione dei suoi elementi intrinseci, non però in maniera meccanica o sempre uguale, bensì sotto la luce di una forza logica tendenziale, secondo cui le regole di funzionamento (del modo di produzione capitalistico) contrastano coi suoi presupposti, li minacciano. Potremmo forse parlare di autosuperamento dei presupposti del capitale, il cui codice genetico – la sua «missione storica», avrebbe detto il maestro di Roberto, Alessandro Mazzone[2] – sarebbe quella di avere in sé, di portare con sé, la propria finitudine.

Tale complessa dinamica, per come a me appare, non dipende quindi da determinate congiunture storiche, ma, appunto, è un modello delle trasformazioni sociali, un modello inclusivo degli elementi particolari di una determinata fase del processo, elementi particolari di una logica storica generale. Come interrogare questo piano generale del discorso? Non è che Marx pensa una logica della storia al di fuori della storia? Roberto ci insegna che non è così: la logica della storia è storica, però non coincide con il corso storico cronologicamente determinato, diciamo che lo riflette, lo struttura dal punto di vista concettuale.

I fatti storici non esistono solo in sé, ma anche sussunti in una dimensione logica. I presupposti di questa trama sono ereditati dai modi di produzione precapitalistici, ma solo in un secondo momento, cioè quando il capitale ingloba superando pienamente le forme storiche passate, è possibile vedere la sua logica storica all’opera, che è una logica della contraddizione fra i presupposti della sua affermazione storica e i risultati delle leggi di sviluppo da cui si era originato.

Vi è allora indubbiamente una dialettica assai complessa fra logico e storico. Intanto però mi sembra molto importante aver fissato che comprendere la storicità significa capire le tendenze interne del capitale.

Una tale proposta ermeneutica ci impone di cominciare a leggere Il capitale dalla prima sezione su Merce e denaro. Sappiamo che non è scontato. Althusser raccomandava ai lettori di saltare tutta la prima sezione – nella quale (quarto paragrafo del primo capitolo) si inscrive il passaggio, da lui giudicato tanto difficile quanto inutile, sul Carattere di feticcio della merce e il suo arcano – e di cominciare la lettura dalla seconda sezione sulla Trasformazione del denaro in capitale. Althusser considerava l’analisi della forma valore, con la quale si apre Il capitale, solamente come una precisazione supplementare, da approfondire in un secondo momento[3].

La prima sezione del Capitale non costituisce la descrizione di un modo di produzione autonomo e si riferisce alla superficie del modo di produzione capitalistico poiché solo a uno stadio più avanzato della teoria la forma merce può trovare la propria adeguata generalizzazione. Qui il problema è collegato al darsi, in Marx, di una latenza della forma merce che preme per la sua generalizzazione al di fuori del modo di produzione capitalistico.

Di certo il modo di produzione capitalistico è l’unico che trasforma il prodotto in forma merce come forma generalizzata della produzione, tuttavia sarebbe errato assumere che la circolazione semplice sia un modo di produzione.

Nell’abbozzo a Per la critica dell’economia politica Marx definisce la circolazione semplice un «presupposto che presuppone», suggerendo proprio che la circolazione semplice non è un modo di produzione. Essa assume soltanto che vi sono prodotti da scambiare. Una produzione specificamente capitalistica della merce avviene a un livello successivo della teoria.

Fatto sta che l’inizio concettuale del Capitale è la merce come «cellula economica». La merce esprime il carattere universale del contenuto, ovvero il processo lavorativo puro, in astratto, senza forma sociale determinata, e la determinatezza formale che esso – il processo lavorativo – riveste nel modo di produzione capitalistico.

La merce è unità di contenuto materiale e forma sociale. La merce potenzialmente apre all’esposizione di tutta la teoria del Capitale. È «cellula economica» poiché possiede la totalità logico-concettuale del modo di produzione capitalistico. Il concetto di merce, indipendentemente da come questa venga prodotta, è posto nella forma del raddoppiamento in merce e denaro. Sarà quest’ultimo a ricondurre a unità il mondo della circolazione semplice.

La merce in quanto tale è un valore sia particolare sia astratto-universale, ma la manifestazione di questo suo lato astratto, proprio per la sua limitatezza particolare, alla merce da sé non riesce, quindi essa ha bisogno di una merce universale davanti a sé in cui riconoscersi. Nel concetto di merce c’è anche lo sviluppo di merce e denaro. Se nella forma D-M-D il denaro «si trasforma in capitale, diviene capitale ed è già capitale per determinazione sua propria»[4], con D-M-D’ si ha «la formula universale del capitale come essa si manifesta in modo immediato nella sfera della circolazione»[5].

Possiamo cavarcela dicendo che la merce è la forma sociale del prodotto destinata ad essere scambiata: essa è contemporaneamente valore di scambio e valore. Del resto il rapporto di scambio inteso come scelta e non come necessità materiale è il presupposto del modo di produzione capitalistico.

Dal punto di vista giuridico e politico, la società borghese è composta di cittadini liberi, però Marx ci insegna che al di sotto di questa mistificazione agiscono rapporti di dominio, in base ai quali il soggetto storico, alienato da sé stesso e dal prodotto del suo lavoro, trasferisce la sua presunta natura universale in un oggetto che lo domina. Incontriamo allora la reificazione e il feticismo della merce, categorie che non sono sovrapponibili alla teoria giovanile dell’alienazione.

Questa si basa sul concetto di «essenza di specie» (Gattungswesen) e rinvia l’interpretazione della «natura umana» a un’essenza universale, posta ad origine e da riconquistare al termine di un processo escatologico-finalistico che sin dall’inizio predetermina l’esito di salvazione finale.

Dentro la teoria del Capitale, invece, il soggetto che si aliena è la persona concepita come risultato di un processo storico determinato, vale a dire una soggettività storica prodotta dallo scambio di merci, non l’essere umano in generale, che storicamente non esiste mai. Considerare naturali qualità storiche determinate vuol dire cadere, soggettivamente, nella trappola del feticismo delle merci.

Che cosa significhi uomo e quale sia la natura del suo rapporto con gli altri sono caratteristiche determinantesi solo mediante lo strutturarsi delle specifiche condizioni del modo di produzione capitalistico. Nel mondo del capitale i soggetti coinvolti nello scambio sono attori sociali storicamente determinati che nelle cose non oggettivano la loro essenza umana, bensì il loro stesso rapporto sociale di scambianti.

L’idea astratta di individuo in generale, astorico e assoluto, è il risultato del processo materiale di alienazione e reificazione, nel senso che è proprio questa «persona» astratta il soggetto effettivo del processo di alienazione/reificazione. Confonderla con la natura umana in generale significa finire vittime del feticismo della merce, ovvero considerare fuori della storia una delle forme di soggettività (storicamente determinata) prodotta dalla circolazione delle merci.

Se il denaro è il lato oggettivo di tale sistema, la persona astratta è quello soggettivo. Marx nel Capitale supera sia l’antropologismo che aveva abbracciato in gioventù (uomo come ente naturale generico) sia tutta la filosofia essenzialista e feticistica.

Un’ultima osservazione che vorrei fare riguarda la distinzione fra forme del modo di produzione capitalistico e figure storiche ad esso collegate. Quando Marx, nei capitoli undici, dodici e tredici, tratta di cooperazione, manifattura, macchine e grande industria, sembrerebbe che stia semplicemente descrivendo i rapporti vigenti nell’Inghilterra del XIX secolo, una specie di affresco sociologico del processo lavorativo capitalistico.

Roberto ci dice invece che in quei luoghi del Capitale Marx non sta solo parlando di figure storiche del capitalismo inglese, ma sta sviluppando una teoria delle forme del processo lavorativo nel modo di produzione capitalistico, cioè delle modalità attraverso le quali si realizza il processo lavorativo.

Manifattura e grande industria sono esemplificazioni storiche di modalità formali, quali la cooperazione, la riduzione del soggetto a elemento parziale del sistema produttivo, la subordinazione del lavoratore, la sua appendicizzazione, per giungere sino all’estromissione dal processo.

Occorre dunque considerare cooperazione, manifattura e grande industria come «figure» storiche in cui quelle «forme» specifiche del produrre in modo capitalistico sono apparse; solo così il ridimensionamento della significatività storica di alcune figure non comporta la scomparsa anche delle forme in quanto tali. Riduzione a parte del sistema, subordinazione e carattere cooperativo sono tuttora aspetti centrali del processo di valorizzazione del capitale.

Le figure storiche di cui esso si serve non sono più soltanto gli operai di fabbrica polarizzati in una classe sociale, ma tutte quelle figure il cui modo di lavorare è ancora diretto dal capitale nelle forme della cooperazione, della parzialità, della subordinazione, etc.

L’alta teoria di Marx è riferita a dinamiche epocali e ha una forte tenuta anche sugli sviluppi degli ultimi decenni del capitalismo, della sua ristrutturazione e delle sue nuove forme di dominio. Insomma, le categorie elaborate da Marx, ben lungi dall’essere estranee all’oggi, ci indicano linee di tendenza che operano su larga scala.

Il «lavoratore complessivo» cooperativo, parcellizzato e subordinato all’automazione, impegnato in un qualunque lavoro, davanti a un computer o su un camion a portare pacchi, rispetta le determinazioni formali individuate da Marx e storicamente raffigurate dall’operaio di fabbrica.

Rimane sempre il punto dell’autocontraddizione del capitale, che da un lato espelle il lavoro vivo dal processo produttivo (produzione di plusvalore relativo, aumento della produttività, riduzione del tempo di lavoro necessario indispensabile alla valorizzazione) e dall’altro continua ad averne necessità per il semplice fatto che il plusvalore è il pluslavoro oltre il tempo di lavoro necessario del lavoratore.

Qui mi fermo, sperando di essere almeno un piccolo buon scolaro di Marx e di Roberto.

Note

1) Ricordiamo, per quanto riguarda i testi, che nel 2011 era già uscita, a sua cura, l’edizione del primo libro del Capitale in due tomi per La città del sole, con una traduzione completamente nuova dei primi sette capitoli. Fra i suoi più recenti studi, tutti imprescindibili, ricordiamo: La logica del capitale. Ripartire da Marx, IISF Press, Napoli 2021²; Marx, Scholé, Brescia 2021; Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura, La scuola di Pitagora, Napoli 2024².

2) Cfr. il saggio La temporalità specifica del modo di produzione capitalistico ovvero «la missione storica del capitale», in Marx e i suoi critici, QuattroVenti, Urbino 1987.

3) Cfr. l’Avertissement aux lecteurs du Livre I du Capital premesso all’edizione Garnier-Flammarion, Paris 1969.

4) K. Marx, Il capitale, edizione Einaudi, Torino 2024, p. 150.

5) Ivi, p. 158.

Fonte

15/12/2024

Viy (1967) di K. Eršov, G. Kropatchev - Minirece

Il DdL 1660 bocciato dalla piazza, ora tocca a chi sta in Senato


Migliaia di persone, sicuramente il doppio di quanto dichiarato dalla Questura, sono scese in piazza ieri a Roma contro il DdL sicurezza che introduce nel paese lo stato di polizia. Una presenza composita di un largo fronte politico e sociale che ha compreso la gravità del provvedimento in discussione al Senato dopo essere stato approvato dalla Camera.

Qualcuno ha provato a leggervi il perimetro del campo largo, in realtà la consapevolezza della posta in gioco va ben oltre, anzi, fino alla discussione alla Camera le forze dell’opposizione hanno dato prova di scarsissimo impegno contro il DdL 1660. Durante il corteo alcuni giovani hanno intercettato Conte rammentandoglielo e ricordandogli anche il primo decreto sicurezza Salvini nato proprio durante il suo governo gialloverde.

Ieri nel pomeriggio un lungo corteo, almeno 30mila persone, è partito da Piazzale del Verano per andare a concludersi e riempire Piazza del Popolo. Uno spezzone del corteo ha deciso invece di concludere la manifestazione in Piazza Indipendenza per prendere in qualche modo le distanze da operazioni da campo largo di cui non si sente l’esigenza.

È da come le forze dell’opposizione si muoveranno in Senato per bloccare il Ddl 1660 che si giudicheranno i fatti più che le parole.

Qui di seguito alcune foto della manifestazione di ieri a Roma.

Fonte e foto della manifestazione

Siria - al-Jawlani apre ai curdi. La Turchia non gradisce. L’ISIS torna a farsi sentire

I curdi presenti in Siria “fanno parte della patria”. Ad affermarlo in un video è stato Abu Muhammad al-Jawlani, il leader del gruppo jihadista salafita Hayat Tahrir al Sham riportato dall’emittente Sky News Arabia. “Vivremo insieme secondo la legge”, ha spiegato al-Jawlani, sottolineando che la popolazione curda è stata sottoposta “a grandi ingiustizie”. “Se Dio vuole, nella prossima Siria, i curdi saranno fondamentali. Vivremo insieme e tutti otterranno i loro diritti per legge. Non ci saranno più ingiustizie contro il popolo curdo”, ha affermato il leader di HTS. “Se Dio vuole, cercheremo di riportare i curdi nelle loro zone e nei loro villaggi”, ha aggiunto.

Jawlani, mandando un segnale alla Turchia, ha evidenziato che c’è una “grande differenza” tra la comunità curda in Siria e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk, designato dalla Turchia organizzazione terroristica), in quanto “i curdi sono una parte integrante del tessuto sociale siriano”. In merito al futuro politico del Paese, il leader di HTS ha affermato che “la forma dell’autorità sarà lasciata alle decisioni di esperti, giuristi e del popolo siriano”.

Jawlani ha quindi spiegato che in Siria saranno organizzate “elezioni libere ed eque”. “Lavoriamo per formare comitati specializzati per riesaminare la costituzione, in modo da garantire giustizia e trasparenza”, ha affermato. La fase successiva del Paese, ha inoltre fatto sapere Jawlani, “vedrà una soluzione globale per tutte le fazioni armate e nessuna arma sarà consentita al di fuori del quadro dell’autorità dello Stato siriano. Questo approccio riflette il nostro impegno a ripristinare la stabilità e ad estendere la sovranità dello Stato sull’intero territorio”.

L’esistenza di numerose e diverse fazioni armate nel paese è un problema enorme. È stato proprio Mazloum Abdi, comandante delle SDF (Forze Democratiche Siriane di cui fanno parte i curdi, ndr), ad avvertire che il 12 dicembre l’attività delle milizie dell’ISIS sarebbe riapparsa allo scoperto dopo che era stata nascosta per anni.

Secondo quanto riferito da Al Jazeera, l’ISIS sta ora entrando nelle aree sotto il controllo delle SDF, ha detto il comandante curdo, e la sua attività non è più limitata al deserto, sta approfittando degli sviluppi sul terreno in Siria e della fine del controllo del regime spodestato.

Le dichiarazioni di Abdi vanno valutate seriamente, perché provengono dal comandante delle forze che dal 2015 godono del sostegno degli Stati Uniti per combattere l’ISIS, il quale aveva completamente perso il controllo geografico in Siria alla fine del 2019 dopo aver perso l’area di Baghouz a Deir Ezzor, lasciando solo alcune cellule sparse nel deserto siriano.

Per Al Jazeera molti si interrogano su quale sia oggi la forza e la presenza delle cellule dell’ISIS in Siria e sul come ci si aspetta che le nuove autorità la affrontino, su quale sia la posizione delle potenze internazionali coinvolte nella coalizione internazionale per combatterlo e in che modo Daesh influisce sulla mappa politica delle forze attive nel dossier siriano.

La Turchia ad esempio ha assicurato agli Stati Uniti la sua disponibilità a intraprendere la lotta contro il riemergere dell’ISIS, compresa la supervisione dei detenuti, a patto che Washington non ostacoli le sue operazioni militari contro le Forze Democratiche Siriane e la rimozione di elementi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ad esse associati dalla Siria.

Su un altro versante, secondo funzionari locali e fonti della sicurezza, le autorità irachene hanno permesso a centinaia di soldati siriani in fuga dal fronte di entrare in Iraq attraverso il valico di frontiera di al-Qaim.

Un funzionario della sicurezza irachena ha detto che il numero di soldati siriani entrati in Iraq “ha raggiunto i duemila membri tra ufficiali e soldati”, sottolineando che “il loro ingresso è avvenuto in accordo con le Forze Democratiche Siriane (tra cui i curdi), e con l’approvazione del primo ministro iracheno Shia al-Sudani.

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Germania in crisi di fiducia

Il pilastro più credibile della “stabilità europea” è da decenni la Germania. Una situazione sociale interna faticosamente tenuta sotto controllo tramite una riduzione dei salari e del welfare molto minore di quanto preteso dai partner europei, un basso debito pubblico che ha consentito per anni di rifinanziarlo a costo praticamente zero, una lunga consuetudine di buoni rapporti con la Russia (fornitrice di gas e altre materie prime a basso costo) e con la Cina (uno dei principali mercati di sbocco per la propria produzione industriale).

Crisi economica e guerra, “di comune accordo”, hanno demolito questo assetto, destabilizzando il consenso sociale. Gruppi industriali multinazionali (Volkswagen, Bmw, Mercedes, ThyssenKrupp, Siemens, ecc.), per la prima volta in 70 anni, stanno chiudendo stabilimenti in patria e pianificano decine di migliaia di licenziamenti.

La guerra alle porte ha spinto l'aumento della spesa militare, mentre quasi un milione di ucraini si è rovesciato sul paese, stressando una struttura di accoglienza già logorata da altre ondate di immigrazione d’emergenza (un milione di siriani, negli ultimi dieci anni) e dal crescere di un razzismo mai completamente domato.

Inevitabile dunque che la coalizione “semaforo” (socialdemocratici, verdi e liberali) finisse stritolata e divisa tra “austeri economici” (i liberali), guerrafondai idioti (i verdi) e “prudenti” che vivevano alla giornata (Scholz e l’Spd).

Le elezioni nei land dell’est hanno certificato l’esplosione delle forze considerate “anti-sistema”, come i nazisti dell’AfD (in versione “no war”) e la sinistra radicale di Sarah Wagenknecht (ma con pessime posizioni sugli immigrati). E il rafforzarsi del conservatorismo guerrafondaio dei democristiani guidati da Merz.

Un quadro parecchio confuso che non lasciava intravedere soluzioni “stabili” quanto a programma e identità. Quindi l’unica strada praticabile sono diventate le elezioni anticipate (una rarità nella tradizione politica tedesca). Le quali, però, devono arrivare costituzionalmente dopo un percorso piuttosto lungo, costruito per evitare tracolli rapidi in stile Repubblica di Weimar.

Quindi domani ci sarà il primo passaggio formale: il voto di fiducia chiesto dal cancelliere Scholz al Reichstag. E qui comincia la serie dei paradossi.

Scholz, infatti, non vuole avere la maggioranza per poter fissare le elezioni politiche al 23 febbraio. L’AfD – che stando ai sondaggi dovrebbe diventare il secondo partito dietro la Cdu di Merz – potrebbe invece votare a favore, perché ritiene che Merz porterebbe la Germania ad un coinvolgimento molto più diretto nel “sostegno” a Kiev, con rischi di guerra molto più alti. Ma neanche i neonazisti vanno tutti d’accordo, e una parte potrebbe comunque votare contro.

I Verdi, guerrafondai da sbarco, si sono avvicinati alla Cdu, puntando a creare una nuova coalizione. Dunque potrebbero astenersi dal dare la fiducia al governo di cui fanno parte per “compensare” l’indesiderato voto a favore dei nazisti. Ma neanche i democristiani vanno d’accordo tra loro: Merz ha lasciato intendere che con i Verdi si potrebbe anche fare, ma la Csu bavarese (il partito “gemello” del sud) lo esclude assolutamente. Dunque potrebbe astenersi o votare la fiducia per aver più tempo per risolvere le contraddizioni interne.

In teoria, dunque, il governo potrebbe addirittura restare in piedi, ma senza più alcun potere reale “grazie” alla necessità di contrattare continuamente ogni scelta con maggioranze variabili. Un po’ come cercherà di fare Bayrou in Francia, insomma...

Un caos molto “italiano”, come si vede, che probabilmente non verrebbe risolto neanche dal voto di febbraio. E che lascia “l’Europa” senza più baricentro, in balia dei suprematisti “atlantici” dell’est europeo (preoccupa il ruolo di “ministro degli esteri” assegnato da von der Leyen all’estone Kaja Kallas, discendente di un comandante “antisovietico” negli anni ’20) e delle turbolenze promesse da un Trump più nettamente “America first”.

Buon anno!

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I miliardari cinesi si stanno estinguendo

La banca svizzera UBS ha pubblicato di recente il Billionaire Ambitions Report 2024. Un report che fornisce dati su quanto è cresciuta la ricchezza dei ricchi e se il numero degli stessi cresce o cala, a seconda del paese. Il report di quest’anno fornisce un quadro chiaro sullo stato del capitalismo, oramai pienamente inserito in una fase vorace di accumulazione di ricchezza e inabissato in una crisi sempre più forte.

Tra il 2015 e il 2024, il numero di miliardari è cresciuto di oltre la metà, passando da 1.757 a 2.682, mentre il patrimonio complessivo è più che raddoppiato, raggiungendo i 14 mila miliardi di dollari. Per fare un paragone: il PIL di un paese industrializzato come la Germania è 4 mila miliardi. In 10 anni i ricchi hanno aumentato la propria ricchezza del 121%, con i big del settore tech a fare il balzo più grande, con una accelerazione a partire dal 2020 con la pandemia.

Crescono in tutti i paesi, anche in India, che si piazza terza per numero di miliardari. C’è solo un paese che vede il numero di ricchi calare costantemente ogni anno dal 2021: la Cina. Difatti dal 2021, anno in cui il numero di ricchi ha raggiunto il suo picco, 1185, è iniziato un calo che sembra inesorabile. In tre anni la Cina ha “perso” il 36% di miliardari e ad oggi sono 753. Di questi 753 solo il 30% ha visto aumentare il proprio patrimonio, per tutti gli altri il calo è stato netto.

La Cina è quindi in piena contro tendenza rispetto al resto del mondo industrializzato, dove la polarizzazione economica si sta sempre più allargando, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il motivo di questo calo è da ricercare nelle politiche del Partito Comunista Cinese e del segretario generale Xi Jinping.

Proprio nel 2021 durante una riunione della Commissione Centrale degli Affari Economici del PCC, Xi Jinping ha fatto un discorso, pubblicato in seguito sulla rivista teorica del Partito Comunista Qiushi, sulla implementazione della Prosperità Comune, un termine che viene direttamente da Mao.

Nel suo discorso Xi ha dichiarato che: “il divario di ricchezza e il crollo della classe media hanno aggravato le divisioni sociali, la polarizzazione politica e il populismo, dando una profonda lezione al mondo”, affermando poi che la Cina deve proteggersi da ciò.

Xi ha poi definito la Prosperità Comune come un passaggio fondamentale per la costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi, specificando che prosperità per tutti significa ricchezza per tutti e non per pochi. Nel 2023 ribadendo la linea politica ha dichiarato che uno degli obiettivi è quello di sfatare il mito per cui modernizzazione significa occidentalizzazione.

Sul solco della Prosperità Comune il governo cinese ha implementato diverse riforme atte a mettere sotto più stretto controllo le grandi aziende private e per l’inizio di una nuova redistribuzione della ricchezza. Sebbene la Cina con Deng abbia sviluppato un’economia non più prettamente statale ma aperta all’impresa privata, lo Stato continua ad avere un ruolo da protagonista sia nell’economia reale, sia nella regolamentazione del mercato e delle stesse imprese private.

A differenza dell’occidente e delle economie di libero mercato, la Borsa cinese è fortemente limitata e controllata nel suo agire, in più ogni grande impresa ha nel suo cda almeno un componente del Partito Comunista Cinese che ha un ruolo di controllo delle decisioni aziendali. Le conseguenze di questa regolamentazione ferrea del mercato sono evidenti. I CEO e i proprietari delle aziende private cinesi non hanno la libertà di fare quello che vogliono, come invece accade in Occidente.

Una delle componenti del progetto della Prosperità Comune è la restrizione delle leggi anti monopoli. La legge colpisce principalmente le aziende del settore tecnologico e impedisce che esse diventino troppo grandi o che possano comprare e fondersi con aziende concorrenti, impedendo di fatto la costituzione di imprese “too big to fail” e la costruzione di una influenza politica nei confronti del governo. Il lobbismo in Cina è vietato e non a caso.

Una di queste leggi impedisce l’utilizzo di algoritmi per per far spendere di più gli utenti e profilarli raccogliendo i loro dati. Ciò ha portato a multare big come come Alibaba Group, Tencent, Baidu e DiDi per aver infranto la legge portando avanti politiche aziendali che raccoglievano dati sensibili a scopi commerciali e obbligavano i commercianti sulle loro piattaforme a firmare contratti di esclusività sulla vendita dei loro prodotti.

In linea con questo principio, il 20° Congresso del Partito ha sottolineato che l’agenda economica del PCC concentrerà i piani quinquennali futuri sulla qualità della crescita, piuttosto che sulla quantità grezza. Uno dei casi più importanti sull’applicazione reale della Prosperità Comune è stato quello di Jack Ma, il fondatore di Alibaba.

Nel 2020 la società Ant Group, che possiede l’app di pagamenti digitali più usata al mondo, Alipay, ha aperto una IPO, offerta pubblica iniziale, sulle borse di Shanghai e Hong Kong per raccogliere 34 miliardi di dollari di capitalizzazione. Questo ha portato la China Securities Regulatory Commission e la State Administration for Market Regulation ad intervenire per impedire che diventasse una società ancora più grande e che accrescesse il potere economico di Alibaba. Ant Group ha ritirato l’IPO e non si è più quotata nei listini della borsa.

La differenza con l’occidente è gigantesca. Negli USA Jack Ma avrebbe potuto fare come gli pare e raccogliere IPO per la quotazione in borse per qualsiasi sua azienda senza che nessun ente regolatore potesse impedirglielo.

In Cina le leggi anti monopolio e la strettissima regolamentazione del mercato finanziario impediscono di fatto la creazione di corporazioni come nei sistemi capitalisti occidentali e il primato dello stato non è mai messo in discussione, a partire dagli stessi imprenditori.

La linea della Prosperità Comune e la dimostrazione della sua applicazione ha portato le imprese a dare un proprio contributo, sollecitato indirettamente dal governo. Un esempio: a partire dal 2022 ci sono stati grandi tagli salariali per i dirigenti delle banche d’investimento, a volte fino al 60%. Un trend che colpisce tutto il settore privato dell’economia cinese.

A tutto questo va aggiunto il progressivo divieto di estrazione e commercio delle criptovalute, che a causa del loro processo energivoro, collegato direttamente all’estrazione e utilizzo di carbone, contrastavano la linea della rivoluzione verde del governo, che punta alla dismissione progressiva delle centrali a carbone. Per implementare ulteriore pressione e controllo sulle grandi imprese e la loro ricerca del profitto, il governo cinese ha acquisito dal 2021 fette sempre più grandi di quote azionarie delle aziende, incidendo quindi sui compensi di manager e grandi azionisti.

Le riforme hanno anche colpito il famigerato “programma 996” applicato da molte grandi aziende. 996 fa riferimento al numero di ore di lavoro annuali di un lavoratore, con turni quotidiani di 12 ore per un totale di 72 ore a settimana. Il sistema è da sempre illegale in Cina, ma il governo ha dato più poteri ai tribunali e agli organismi di controllo per difendere i lavoratori e punire le aziende che lo applicano.

Xi Jinping ha proiettato al 2035 e al 2050 i vari step del raggiungimento degli obiettivi del programma Prosperità Comune. Entro metà secolo l’obiettivo principale è quello di assottigliare sempre di più le differenze di reddito, eliminando progressivamente il numero di ricchi e aumentando quello della classe media.

Non sorprende quindi il dato per cui sia il numero che il patrimonio dei miliardari cinesi stia diminuendo di anno in anno sensibilmente e allo stesso tempo salari e potere d’acquisto dei lavoratori si trovino al contrario in una fase di forte crescita. In molti, anche tra i comunisti, criticano la Cina per il suo sistema economico socialista e nel paese persistono contraddizioni molto forti.

La differenza la fa però lo stesso governo cinese, che consapevole dei problemi e conscio della transizione al socialismo che sta vivendo, sta apportando politiche molto forti che mai potremmo vedere in Occidente. Vi sembra poco?

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Siria - Il destino delle basi russe in mano al-Jawlani

di Michele Giorgio

Attende una risposta la domanda se la Russia perderà le sue due basi militari in Siria, di eccezionale valore strategico, ora che il gruppo post qaedista Hay’at Tahrir al Sham, che ha bombardato per anni con la sua aviazione, ha preso il potere a Damasco costringendo Bashar Assad e la sua famiglia in esilio a Mosca. Il Cremlino getta acqua sul fuoco. Prova a mascherare lo sgomento per il crollo rapido e totale dell’esercito siriano che per quasi dieci anni aveva protetto e sostenuto con i suoi aerei, anche ai primi di novembre nell’inutile tentativo di fermare l’ormai incontenibile offensiva dei jihadisti. La realtà è davanti agli occhi di tutti. La storica base navale a Tartus, sul Mediterraneo, fondata dai sovietici, e quella aerea di Khmeimim, costruita nel 2015, sempre nei pressi della costa, presto potrebbero dover chiudere su intimazione dei nuovi padroni di Damasco, con grave danno per le strategie di Mosca in Medio Oriente e in Africa.

A inizio settimana il portavoce russo Dmitry Peskov aveva riferito di contatti avviati con HTS per garantire la protezione delle basi e gli interessi di Mosca nella regione. E giovedì il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov, citato dall’agenzia di stampa Interfax, ha affermato che la Russia ha stabilito un contatto diretto con il Comitato politico dei jihadisti che si sta lentamente trasformando in un governo provvisorio. Ha quindi sottolineato che i colloqui «vanno avanti in modo costruttivo» e che le due basi russe «sono state aperte su richiesta siriana» e sono state decisive per la lotta all’Isis «che non è ancora finita». Mosca da qualche giorno definisce HTS e i suoi alleati non più «terroristi», bensì «forze insurrezionali». Se da un lato i fatti per ora sembrano dare credito alle affermazioni rassicuranti di Peskov e Bogdanov, dall’altro non vi è stata alcuna conferma da parte di HTS o di altre fonti. La nuova leadership siriana ricorda che i bombardieri con la stella rossa hanno bombardato in Siria molto di più delle postazioni dell’Isis. Sukhoi e Mig russi durante la fase più acuta del conflitto in Siria hanno preso di mira proprio i jihadisti di HTS (un tempo Fronte Al Nusra) e le altre formazioni islamiste tra Aleppo e la regione di Idlib, provocando però anche numerose vittime civili. Si stenta perciò a credere che Abu Mohammad Al Julani (Ahmed Al Shaara), il capo di HTS, leader di fatto della Siria post-Assad, lasci ai russi un piede sul suolo siriano. La chiusura delle basi del Cremlino, peraltro, potrebbe essere richiesta con forza anche dalle monarchie arabe sunnite, alleate degli Usa, che, si prevede, svolgeranno un ruolo determinante nei prossimi anni per la ricostruzione della Siria. Con i loro fondi cercheranno di condizionare le scelte in «politica estera» dei futuri governi siriani e di allontanare la Russia che è considerata un’alleata di ferro dell’Iran.

Pertanto, dietro le quinte, la Russia si sta muovendo per cercare soluzioni alternative perché sa che basteranno un po’ di razzi lanciati verso la pista di decollo di Khmeimim e il porto di Tartus, ormai privi della protezione delle forze armate siriane, per costringere a chiuderle. Per questo sta pensando all’apertura di una nuova base a Port Sudan, sul Mar Rosso, ma c’è la guerra civile nel paese africano il che complica i negoziati. Mentre un porto sulla costa libica della Cirenaica sulla base di un accordo con l’alleato generale Khalifa Haftar, di cui si parla da tempo, è troppo lontano per i trasporti aerei necessari per i rifornimenti in quei paesi del Sahel africano – Mali, Burkina Faso, Niger – in cui operano i militari e contractor russi che hanno sostituito quelli francesi. Mosca, nel frattempo, comincia a riportare indietro gli aerei da combattimento e i pezzi di ricambio inviati in Siria. Caduto Assad e non essendoci, almeno per ora, nemici da combattere, ad eccezione dell’Isis, i cacciabombardieri e i piloti russi attualmente in Siria, o gran parte di essi, presto saranno impiegati contro l’Ucraina.

«C’è un’attività visibile di aerei da trasporto a Khmeimim, ma non al punto da poter parlare di un’evacuazione completa», riferisce Gustav Gressel, un esperto di questioni militari. Se Mosca, aggiunge, riuscisse a tenere operativa la pista e i radar a Khmeimim anche solo per i velivoli da trasporto, avrebbe più di un motivo per festeggiare. L’obiettivo più importante, ha detto Gressel alla televisione DW, comunque è mantenere aperta la base navale a Tartus perché proietta la Russia in tutto il Mediterraneo. Non sarà facile raggiungerlo.

L’analista turco Burcu Ozcelik non è convinto che i jihadisti siriani siano così disposti ad assecondare i desideri di Mosca. «È altamente improbabile che HTS vorrà apparire come alleata di Putin o a dare il via libera a una presenza militare russa a lungo termine sulla costa mediterranea», ha detto a una agenzia di stampa. «Senza dimenticare che ad Assad è stato concesso asilo in territorio russo», ha aggiunto.

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