Non è successo niente, e se è successo qualcosa non è colpa di nessuno. Se qualcosa è successo tra l’arresto e la morte di Stefano Cucchi non ci sono prove. E per questa insufficienza di prove nessuno pagherà con un solo giorno di galera. La sentenza di appello sulla morte di Stefano Cucchi è, se possibile, persino peggiore della sentenza di primo grado. Tutti assolti, tutti non colpevoli. Se tra le mura della cella di piazzale Clodio, se nei corridoi delle caserme dei carabinieri dove il corpo esile dello “sporco pusher di Torpignattara” è transitato di milite in milite in maniera non proprio ortodossa, se sul letto del Pertini dove Stefano era detenuto in stato di inanizione i medici non se lo sono filato di striscio finché non è crepato, non lo sapremo mai, perché il giudice della Corte d’Appello di Roma così ha stabilito.
Niente prove, fine della storia. Sarà la cassazione forse a dirci se si dovrà tornare in appello, a replicare per l’ennesima volta la madre di tutte le farse processuali di malapolizia. Quel grande vaffa, quel dito medio del secondino imputato che svettava nell’aula del processo di primo grado, l’aula bunker di Rebibbia, ha stravinto e oggi ha avuto l’avallo di una corte che non ha evidentemente ritenuto di valutare come attendibili le tante prove e i tanti indizi che suggerivano una verità diversa dalle ripetute cadute per le scale e dalle lesioni ossee risalenti al 2006. Quel dito medio è un vaffanculo di stato.
Stefano è morto per motivi sconosciuti, è questa la nuova verità. La grande famiglia delle vittime di malapolizia, nella quale Ilaria Cucchi si è sempre contraddistinta per coraggio e determinazione, incassa forse la sconfitta più pesante, la più difficile da digerire. Ora sì, siamo tutti legittimati a pensare che c’è qualcosa di oscuro e indefinito che disorienta i processi per malapolizia verso l’insoluto. Qualcosa che puntualmente torna ed esercita una forza possente e coercitiva. Chiamiamolo come vogliamo: spirito di corpo, omertà istituzionale, connivenze tra apparati, cecità di stato. Non ha importanza. Ciò che conta è che qualsiasi cosa sia, nelle aule di tribunale dove si vivisezionano a suon di insulti le storie delle vittime e dei morti innocenti e si osannano religiosamente le divise dei vivi colpevoli, trova terreno fertile, piena legittimazione e spazza via la dignità di quelle famiglie che ostinate e ottuse cercano la verità.
Il messaggio è chiaro. Lucia, Claudia, Ilaria, Raimonda, Giuliana, tutte e tutti: non spendete più soldi in avvocati, non affollate le aule di tribunale, state alla larga da telecamere e giornalisti, rinunciate! Questa è una guerra persa, anche se le sporadiche battaglie vinte ci hanno fatto gridare alla vittoria. Fermatevi. Lo stato vi schiaffeggerà, vi offenderà ogni volta che potrà farlo, torturerà i vostri sonni e la vostra dignità. Per i vostri morti il codice penale si trasformerà in un libro di barzellette sconce. I vostri morti non contano niente, sono zero, meno di zero. Sono tossici, drogati, stalker, teppisti, barboni, matti, feccia della feccia di questa società, difesa strenuamente da valorosi uomini in divisa che “rischiano la vita per 1300 euro al mese”.
Non riuscite ancora a coglierlo il messaggio? In questo processo è ancora più chiaro che nei precedenti: più clamore mediatico fate, più articoli scrivete, più inchieste montate sulle colpe di stato e più legittimazione queste ultime avranno. Più coperture. Più sentenze favorevoli. Più vaffanculo e dita medie alzate al cielo, a gridare con la bava alla bocca, a tutti, che la divisa non si processa. È intoccabile. E se si processa può finire in un solo modo: tutti assolti. C’è violenza e violenza, ci sono botte e botte e il rito dell’Inviolabile Divisa oggi ha trovato il massimo livello di celebrazione.
Un morto di malapolizia ha sempre un muro di giustificazioni e prove, quelle escono puntualmente nero su bianco nei verbali, che scagionano, che creano alibi. Lo abbiamo capito tutti: i pugni nei denti diventano testate negli spigoli dei mobili; i lividi nel costato, improvvisi scivoloni sul pavimento delle caserme sempre assai incerato; le ossa rotte, si rompono per quelle maledette scale delle questure che nessuno si decide quantomeno a restaurare. Se muori in caserma, questo sarà il verbale della tua morte.
E comunque saranno tutti contenti, a partire dalle claque dei sindacati di categoria per finire con quel popolo dei social network col culto del fascista in divisa che commentando la notizia sul fatto che il Comune di Roma vuole intitolare una strada a Stefano Cucchi hanno dato il meglio di se con frasi sgrammaticate tipo “una volta le piazze le dedicavamo alle eroi ora ai delinquenti bravi continuiamo cosi”, “Paese di merda! si lo dico da servitore dello stato da quasi 30 anni, paese di merda!!!!”, “E li mortacci tua a te e a quella mercenaria de tu sorella che dalla tua morte se sta a fa li palazzi...”.
E ci fermiamo qui per rispetto e pudore.
Registriamo soltanto una delle tante barriere, di matrice soprattutto politica e culturale, che separa l’Italia in due. Due scuole di pensiero, due modi opposti di concepire la giustizia, le garanzie minime di dignità e salvaguardia dei diritti. Due mondi inconciliabili. La roccaforte delle impunità dovrà crollare. Il binomio sempre più solido tra cultura fascista e oltranzismo della violenza in divisa, dovrà essere spezzato una volta e per sempre.
L’onorabilità della divisa, come urlava il pm Abate nell’interrogatorio ad Alberto Biggiogero nel processo Uva, è un concetto ormai diradato. Di onorabile è rimasto ben poco. Resta la nudità della violenza, la vera anima della repressione di strada e di piazza. Restano divise sporche di sangue e, ancora una volta, le inutili lacrime di una madre, di una sorella, di un padre. Resta l’icona lontana di Stefano Cucchi e la sua smorfia di morte della quale a quanto pare, a certi giudici non importa poi granché.
Fonte
31/10/2014
Burkina Faso, golpe o primavera?
di Rita Plantera
Un epilogo quasi rivoluzionario in uno scenario da colpo di stato. È quanto accaduto in Burkina Faso a conclusione di una grande protesta di piazza che per giorni ha riempito le strade della capitale Ouagadougou per sfociare nel rovesciamento di un signore della politica, Blaise Compaoré, da 27 anni al potere. E Compaoré in serata, con una dichiarazione letta alla radio, ha annunciato lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale, lo scioglimento del governo e l’impegno per il dialogo con l’opposizione: «In questi momenti dolorosi che sta attraversando il nostro Paese, vorrei dire che ho capito il messaggio, ho sciolto il governo al fine di creare le condizioni per una nuova prospettiva. Lancio un appello al leader dell’opposizione per consentire un ritorno alla calma. Mi impegno in trattative con le parti interessate per una soluzione della crisi».
In migliaia ieri a Ouagadougou hanno ingrossato le fila di una marcia minacciosa verso il palazzo presidenziale di Kosyam chiedendo la destituzione di Compaoré dopo aver preso d’assalto la sede del Parlamento dove era in corso una seduta per votare una proposta di emendamento alla Costituzione. Modifica, quella dell’articolo 37, che permetterebbe all’attuale presidente di ricandidarsi alle elezioni del 2015. Un’azione di protesta determinata che ha costretto il governo a ritirare il disegno di legge, ha riferito il ministro delle comunicazioni Alain Edouard Traoré.
Decisione questa che però non ha fermato la rabbia e il malcontento che per giorni hanno infiammato le vie della capitale per estendersi su larga scala a Bobo Dioulasso, seconda città più grande del Burkina, e a Ouahigouya, nel nord. A Ouagadougou il municipio e la sede del partito al potere, il Congrès pour la démocratie et le progrès (Cdp) sono stati dati alle fiamme e l’aeroporto chiuso. Cancellati tutti i voli, interrotte le trasmissioni radiofoniche. Decine di soldati si sarebbero uniti alle proteste. Lo stesso leader del maggior partito d’opposizione - l’Union pour le progrès et le changment (Upc) - Zéphirin Diabré, in un discorso trasmesso in diretta dal suo quartier generale, ha invitato i militari a unirsi al popolo.
Stando a quanto riportato da una radio locale e da una fonte diplomatica, nel pomeriggio i leader dell’opposizione avrebbero avuto colloqui con un influente generale dell’esercito, Kouame Lougue, per un eventuale passaggio di poteri. Alcuni membri del governo sarebbero stati arrestati mentre cercavano di lasciare il Paese.
In mattinata, colonne di fumo si erano levate dalle finestre del Parlamento e dall’area circostante dopo che i manifestanti avevano fatto irruzione all’interno saccheggiando e devastando gli uffici. Presi d’assalto anche i locali della Radiodiffusion Télévision du Burkina (Rtb), la tv di stato, e incendiate alcune macchine. A nulla sono valsi i tentativi delle forze di sicurezza che precedentemente avevano lanciato lacrimogeni e poi aperto il fuoco contro i manifestanti per disperderli. Il cordone dei militari è stato travolto da circa 1500 giovani determinati, scesi in piazza da martedì scorso contro quello che definiscono «un colpo di stato costituzionale» dei sostenitori di Compaoré.
L’emendamento di modifica dell’articolo 37 della Costituzione prevede di portare da due a tre il numero massimo di mandati presidenziali quinquennali e permetterebbe a Blaise Compaoré (al potere dal 1987 con un colpo di stato in cui l’allora presidente Thomas Sankara fu assassinato in circostanze non chiare) di reiterare la sua permanenza a palazzo. Critici contro il tentativo di Compaoré di estendere il suo mandato tanto la Francia, l’ex potenza coloniale – da cui il Burkina Faso si è reso indipendente nel 1960 – quanto gli Stati Uniti, alleati del Burkina nella lotta contro i gruppi qaedisti di matrice africana. La Francia dispone di migliaia di soldati nella regione e utilizza il Burkina Faso (dove vivono circa 3.600 cittadini francesi) come base militare delle sue forze speciali impegnate in operazioni antiterroristiche nel Sahel. Lo stesso Hollande agli inizi di ottobre aveva scritto a Compaoré appellandosi all’articolo 23 della Carta dell’Unione Africana secondo cui «le revisioni costituzionali volte a evitare il cambiamento politico sono vietate». Quindi, contravvenire a tali disposizioni potrebbe portare all’applicazione di sanzioni.
Se si tratti o no della primavera nera del Burkina Faso sulla falsariga delle primavere arabe – come è già stato battezzato il 30 ottobre da un funzionario del Movement of People for Progress (Mpp) Emile Pargui Pare – ce lo diranno le prossime settimane. Di certo è un monito per altri Paesi africani guidati da capi di stato «longevi» per cui restare al potere val bene cambiare le regole.
Fonte
Un epilogo quasi rivoluzionario in uno scenario da colpo di stato. È quanto accaduto in Burkina Faso a conclusione di una grande protesta di piazza che per giorni ha riempito le strade della capitale Ouagadougou per sfociare nel rovesciamento di un signore della politica, Blaise Compaoré, da 27 anni al potere. E Compaoré in serata, con una dichiarazione letta alla radio, ha annunciato lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale, lo scioglimento del governo e l’impegno per il dialogo con l’opposizione: «In questi momenti dolorosi che sta attraversando il nostro Paese, vorrei dire che ho capito il messaggio, ho sciolto il governo al fine di creare le condizioni per una nuova prospettiva. Lancio un appello al leader dell’opposizione per consentire un ritorno alla calma. Mi impegno in trattative con le parti interessate per una soluzione della crisi».
In migliaia ieri a Ouagadougou hanno ingrossato le fila di una marcia minacciosa verso il palazzo presidenziale di Kosyam chiedendo la destituzione di Compaoré dopo aver preso d’assalto la sede del Parlamento dove era in corso una seduta per votare una proposta di emendamento alla Costituzione. Modifica, quella dell’articolo 37, che permetterebbe all’attuale presidente di ricandidarsi alle elezioni del 2015. Un’azione di protesta determinata che ha costretto il governo a ritirare il disegno di legge, ha riferito il ministro delle comunicazioni Alain Edouard Traoré.
Decisione questa che però non ha fermato la rabbia e il malcontento che per giorni hanno infiammato le vie della capitale per estendersi su larga scala a Bobo Dioulasso, seconda città più grande del Burkina, e a Ouahigouya, nel nord. A Ouagadougou il municipio e la sede del partito al potere, il Congrès pour la démocratie et le progrès (Cdp) sono stati dati alle fiamme e l’aeroporto chiuso. Cancellati tutti i voli, interrotte le trasmissioni radiofoniche. Decine di soldati si sarebbero uniti alle proteste. Lo stesso leader del maggior partito d’opposizione - l’Union pour le progrès et le changment (Upc) - Zéphirin Diabré, in un discorso trasmesso in diretta dal suo quartier generale, ha invitato i militari a unirsi al popolo.
Stando a quanto riportato da una radio locale e da una fonte diplomatica, nel pomeriggio i leader dell’opposizione avrebbero avuto colloqui con un influente generale dell’esercito, Kouame Lougue, per un eventuale passaggio di poteri. Alcuni membri del governo sarebbero stati arrestati mentre cercavano di lasciare il Paese.
In mattinata, colonne di fumo si erano levate dalle finestre del Parlamento e dall’area circostante dopo che i manifestanti avevano fatto irruzione all’interno saccheggiando e devastando gli uffici. Presi d’assalto anche i locali della Radiodiffusion Télévision du Burkina (Rtb), la tv di stato, e incendiate alcune macchine. A nulla sono valsi i tentativi delle forze di sicurezza che precedentemente avevano lanciato lacrimogeni e poi aperto il fuoco contro i manifestanti per disperderli. Il cordone dei militari è stato travolto da circa 1500 giovani determinati, scesi in piazza da martedì scorso contro quello che definiscono «un colpo di stato costituzionale» dei sostenitori di Compaoré.
L’emendamento di modifica dell’articolo 37 della Costituzione prevede di portare da due a tre il numero massimo di mandati presidenziali quinquennali e permetterebbe a Blaise Compaoré (al potere dal 1987 con un colpo di stato in cui l’allora presidente Thomas Sankara fu assassinato in circostanze non chiare) di reiterare la sua permanenza a palazzo. Critici contro il tentativo di Compaoré di estendere il suo mandato tanto la Francia, l’ex potenza coloniale – da cui il Burkina Faso si è reso indipendente nel 1960 – quanto gli Stati Uniti, alleati del Burkina nella lotta contro i gruppi qaedisti di matrice africana. La Francia dispone di migliaia di soldati nella regione e utilizza il Burkina Faso (dove vivono circa 3.600 cittadini francesi) come base militare delle sue forze speciali impegnate in operazioni antiterroristiche nel Sahel. Lo stesso Hollande agli inizi di ottobre aveva scritto a Compaoré appellandosi all’articolo 23 della Carta dell’Unione Africana secondo cui «le revisioni costituzionali volte a evitare il cambiamento politico sono vietate». Quindi, contravvenire a tali disposizioni potrebbe portare all’applicazione di sanzioni.
Se si tratti o no della primavera nera del Burkina Faso sulla falsariga delle primavere arabe – come è già stato battezzato il 30 ottobre da un funzionario del Movement of People for Progress (Mpp) Emile Pargui Pare – ce lo diranno le prossime settimane. Di certo è un monito per altri Paesi africani guidati da capi di stato «longevi» per cui restare al potere val bene cambiare le regole.
Fonte
La Cina e la posizione geostrategica dell'Italia
di Pasquale Cicalese per Marx21.it
“Qui si aggiunge una seconda avvertenza, per l’Italia: la sua ritrovata centralità geografica equivale, in questo momento, a delicatezza geopolitica; e si somma alla nostra vulnerabilità economica. In queste condizioni, evitare una spaccatura fra Atlantico ed Eurasia è per l’Italia decisivo. Il nostro Paese rischia in effetti di essere, più che un crocevia, un incrocio pericoloso. Sulla nostra penisola, economicamente ancora dominata dai rapporti intra-europei, si scarica oggi l’impatto congiunto di quattro fattori esterni: i flussi di persone vengono principalmente dall’Africa; il gas viene anche e soprattutto dalla Russia (oltre che dal Mediterraneo); nuovi investimenti finanziari vengono dalla Cina; la protezione militare viene ancora largamente dagli Stati Uniti. Africa, Russia, Cina, Stati Uniti. L’Italia non è solo sovra-esposta verso Est e verso Sud; è in sé un Paese di faglia. Di faglie, anzi. E ha alle spalle un’Europa che un tempo funzionava come vincolo ma anche come antidoto a collocazioni troppo incerte; oggi appare soprattutto un vincolo, che in qualche modo l’Italia è anzi spinta a forzare, sotto l’impatto della crisi economica, cercando sponde esterne. In una sorta di circolo vizioso, quanto più l’Europa di centro guarda con diffidenza alle fragilità dell’Italia, tanto più le faglie si allargano. Gestire un incrocio rischioso del genere non è affatto facile”. (Marta Dassù, Ritornare sulla Via della Seta – La Stampa 17 ottobre 2014)
Già analista del Cespi, il centro studi strategici del fu Pci, oggi la Dassù è atlantista sfegatata, portavoce del Dipartimento di Stato Usa in Italia e animatrice della filiale italiana Aspen Institute, nonché già sottosegretaria agli Esteri del governo Letta. Pezzo pubblicato sull’amerikana La Stampa, e la dice tutta. Che cosa? Sono preoccupati, e tanto, a Washington. Il foglio, durante le giornate della visita del Premier cinese Li Keqiang, riferiva di una forte irritazione degli americani circa l’attivismo finanziario cinese in Italia e rimproveravano alla dirigenza italiana le vendita del 35% di Cdp Reti, in pratica la rete energetica italiana. Nel giro di 6 mesi a Piazza Affari sono arrivati ordini di acquisto di azioni di società strategiche italiane da parte della People’s Bank of Chia per circa 8 miliardi di euro, altri 6 miliardi sono acquisizioni di 200 medie imprese italiane da parte di investitori cinesi. Durante la conferenza stampa, in merito agli accordi con l’Italia per otto miliardi di euro, il Premier Keqiang ha avvertito gli italiani che questo sono solo una parte degli investimenti complessivi che hanno in mente. Chissà perché al traduttore cinese gli è venuto in mente di tradurre ciò che affermava Keqiang nella frase “ una piccola parte”... Reti energetiche, società energetiche, fondi di private equity, elicotteri, turismo, telecomunicazioni, finanza, società industriali... e infrastrutture. Hanno iniziato con un piccolo aeroporto, con un investimento di 250 milioni di dollari. Quello di Parma sarà specializzato in cargo-merci con 9 voli settimanali da e per Pechino. Ma tengono d’occhio anche la probabile fusione tra Malpensa, Linate e l’aeroporto bresciano di Montichiari. Logistica, dunque. In attesa che si spostino al Sud, dove hanno messo l’occhio su Taranto e sullo stesso, si spera, porto commerciale di Crotone, politici locali permettendo, visto che l’interesse è forte.
“Qui si aggiunge una seconda avvertenza, per l’Italia: la sua ritrovata centralità geografica equivale, in questo momento, a delicatezza geopolitica; e si somma alla nostra vulnerabilità economica. In queste condizioni, evitare una spaccatura fra Atlantico ed Eurasia è per l’Italia decisivo. Il nostro Paese rischia in effetti di essere, più che un crocevia, un incrocio pericoloso. Sulla nostra penisola, economicamente ancora dominata dai rapporti intra-europei, si scarica oggi l’impatto congiunto di quattro fattori esterni: i flussi di persone vengono principalmente dall’Africa; il gas viene anche e soprattutto dalla Russia (oltre che dal Mediterraneo); nuovi investimenti finanziari vengono dalla Cina; la protezione militare viene ancora largamente dagli Stati Uniti. Africa, Russia, Cina, Stati Uniti. L’Italia non è solo sovra-esposta verso Est e verso Sud; è in sé un Paese di faglia. Di faglie, anzi. E ha alle spalle un’Europa che un tempo funzionava come vincolo ma anche come antidoto a collocazioni troppo incerte; oggi appare soprattutto un vincolo, che in qualche modo l’Italia è anzi spinta a forzare, sotto l’impatto della crisi economica, cercando sponde esterne. In una sorta di circolo vizioso, quanto più l’Europa di centro guarda con diffidenza alle fragilità dell’Italia, tanto più le faglie si allargano. Gestire un incrocio rischioso del genere non è affatto facile”. (Marta Dassù, Ritornare sulla Via della Seta – La Stampa 17 ottobre 2014)
Già analista del Cespi, il centro studi strategici del fu Pci, oggi la Dassù è atlantista sfegatata, portavoce del Dipartimento di Stato Usa in Italia e animatrice della filiale italiana Aspen Institute, nonché già sottosegretaria agli Esteri del governo Letta. Pezzo pubblicato sull’amerikana La Stampa, e la dice tutta. Che cosa? Sono preoccupati, e tanto, a Washington. Il foglio, durante le giornate della visita del Premier cinese Li Keqiang, riferiva di una forte irritazione degli americani circa l’attivismo finanziario cinese in Italia e rimproveravano alla dirigenza italiana le vendita del 35% di Cdp Reti, in pratica la rete energetica italiana. Nel giro di 6 mesi a Piazza Affari sono arrivati ordini di acquisto di azioni di società strategiche italiane da parte della People’s Bank of Chia per circa 8 miliardi di euro, altri 6 miliardi sono acquisizioni di 200 medie imprese italiane da parte di investitori cinesi. Durante la conferenza stampa, in merito agli accordi con l’Italia per otto miliardi di euro, il Premier Keqiang ha avvertito gli italiani che questo sono solo una parte degli investimenti complessivi che hanno in mente. Chissà perché al traduttore cinese gli è venuto in mente di tradurre ciò che affermava Keqiang nella frase “ una piccola parte”... Reti energetiche, società energetiche, fondi di private equity, elicotteri, turismo, telecomunicazioni, finanza, società industriali... e infrastrutture. Hanno iniziato con un piccolo aeroporto, con un investimento di 250 milioni di dollari. Quello di Parma sarà specializzato in cargo-merci con 9 voli settimanali da e per Pechino. Ma tengono d’occhio anche la probabile fusione tra Malpensa, Linate e l’aeroporto bresciano di Montichiari. Logistica, dunque. In attesa che si spostino al Sud, dove hanno messo l’occhio su Taranto e sullo stesso, si spera, porto commerciale di Crotone, politici locali permettendo, visto che l’interesse è forte.
Sempre il 17 ottobre
Il Sole 24 Ore intervistava il manager tedesco Ulrich Bierbaum, a capo
delle divisione Europa dell’agenzia di rating cinese Dagong, che parlava
di investimenti cinesi negli ultimi mesi per 6,9 miliardi di euro, al
secondo posto dopo la Gran Bretagna. Finirà qui? Leggiamo: “una cifra
destinata a salire con l’interesse crescente non solo nei grandi player,
ma anche nelle piccole e medie imprese dei settori dell’ingegneristica,
informatica, componentistica, realtà in fase di torna round (vale a
dire ricambi generazionali..) e con asset sottovalutati, ma con
potenzialità di crescita nel medio periodo”. Questo per le imprese
industriali, ma il loro vero obiettivo sono le municipalizzate - per le
quali si prospettano fusioni con la regia della Cassa Depositi e
Prestiti assieme al fondo sovrano cinese CIC - e le infrastrutture.
Seguiamo ancora il manager tedesco: “ in Italia anche i trasporti hanno
ampi margini di crescita, in particolare le autostrade che dall’inizio
della crisi hanno perso il 10% del traffico. Una combinazione di fattori
che vanno dalle necessità di manutenzione e di ristrutturazione della
rete, insieme alle ristrettezze dei fondi governativi, rendono attraente
l’investimento nel lungo termine”. Già, il lungo termine, concetto che
non capiscono a Berlino e a Washington, abituati alle trimestrali e
incapaci di prevedere i prossimi decenni. Il faro dei cinesi è tutto il
Sud Europa, in particolare la Grecia, e in quest’area loro prevedono
investimenti infrastrutturali per 200 miliardi di euro. Chi metterà i
soldini? Ah, saperlo... Ma guarda caso si incomincia a parlare, dopo il
mega accordo di 400 miliardi di dollari con la Russia per la fornitura
di gas alla Cina, di un Piano Marshall cinese per l’Europa meridionale.
Lungo termine, verso cosa? Ritorniamo indietro. Alla fine degli anni
novanta la dirigenza cinese, con il piano quinquennale, adottò il “Piano
nazionale della Logistica” volto a velocizzare in tutto il paese lo
scambio di merci. Furono investiti migliaia di miliardi di dollari per
ferrovie ad alta velocità, autostrade, autostrade dei fiumi, porti,
aeroporti, prima nall’area costiera ed in seguito nell’arretrato Ovest.
In quest’ultima area si indirizzarono le più importanti risorse alla
fine degli anni duemila, rafforzati con il Piano di Urbanizzazione da 5
mila miliardi di dollari di due anni fa. Il successo di Alibaba non può
spiegarsi senza questi mega investimenti infrastrutturali. Poi cambia
qualcosa. Nel marzo 2013 si insedia il nuovo Presidente Xi Jinping il
quale lancia il motto di “via della seta euroasiatica” e “via della seta
marittima”. Un anno dopo ecco l’accordo sul gas con la Russia da 400
miliardi di dollari e il piano di creazione di una rete ferroviaria ad
alta velocità Pechino-Mosca (200 miliardi di dollari) che in futuro
potrebbe arrivare fino a Dortmund. L’economista De Cecco parlò due anni
fa di una probabile industrializzazione russa ad opera dei cinesi. Ma è
il secondo motto che ha implicazioni geopolitiche enormi. Xi parla della
nuova Cina come “futura potenza navale”. Se con il primo motto si
realizza l’incubo di Mackinder, il geografo inglese che agli inizi del
Novecento voleva impedire l’asse euroasiatico, con il secondo si rimanda
all’Ammiraglio americano Mahan, il quale affermava che chi controlla le
rotte marittime controlla le Rimland (vale a dire i paesi marittimi che
circondano l’Heartland euroasiatico) e controlla il mondo. Ecco accordi
con la Birmania, il Pakistan, l’India, lo Sri Lanka, l’Egitto (che
raddoppierà nel giro di pochi anni il Canale di Suez). Dove finisce la
“Via della Seta marittima”? Guarda caso in Italia... Ecco perché Li Keqiang
informava gli italiani che quelli visti finora sono solo “una piccola
parte” degli investimenti futuri. Il protagonista indiscusso è la
People’s Bank of China, ma c’è da dire che la strategia cinese della via
della seta marittima coinvolge migliaia di imprese pubbliche, le
quattro maggiori banche pubbliche, il governo e il loro fondo sovrano,
una potenza di fuoco finanziaria che gli americani si sognano, visto
che loro per “fuoco finanziario” intendono unicamente il
Quantitative Easing, cioè asset inflation.
Dunque, l’Italia è una
faglia. La Dassù invita al “pragmatismo” ed in fondo vuole una sorte di
G2 (USA+Cina) in Italia in funzione antitedesca. Il 12 novembre Obama
sarà in visita a Pechino. Il G2 finanziario è in vigore a livello
mondiale dal 2001, entrata della Cina nel WTO. La raffinatezza
diplomatica imporrebbe uno scenario del genere, ma la foga
imperialistica americana è dura da contenere. Due anni fa (Dal fronte esterno al fronte interno, strategie di liberazione nazionale, Marx XXI, dicembre 2012)
esortavamo l’arrivo dei cinesi in Italia e una sorta di raffinatezza
diplomatica con gli americani per non impedire tutto ciò. Lo scenario
ipotizzato si è appena aperto e, se dovesse continuare con più vigore,
il nostro Paese potrebbe uscire dalla tenaglia austro-monetarista
tedesca, che è al momento il primo obiettivo. Vedremo cosa faranno gli
americani. Ci vorrà pazienza e lungimiranza, oltre che analisi accurate
per capire le mosse dei cinesi e degli americani. Si spera comunque che
da Washington non riparta la stagione delle bombe o l’utilizzo in Italia
dell’ISIS per contrastare l’avanzata cinese nel nostro Paese. Il primo
obiettivo è cacciare gli austromonetaristi della Trojka dall’Italia e i
loro collaborazionisti.
Certo si è aperta una nuova pagina, anche per noi.
Certo si è aperta una nuova pagina, anche per noi.
Fonte
Articolo interessantissimo, io dissento parzialmente giusto sui toni, che per la materia trattata hanno senso d'essere esaltanti, ma in quel che si muove io ci vedo uno prospettiva di lottizzazione del paese che somiglia di più ai periodi delle signorie che non a quello di una nazione in grado di tutelare gli interessi della propria popolazione anche attraverso una geopolitica "di fino"
Articolo interessantissimo, io dissento parzialmente giusto sui toni, che per la materia trattata hanno senso d'essere esaltanti, ma in quel che si muove io ci vedo uno prospettiva di lottizzazione del paese che somiglia di più ai periodi delle signorie che non a quello di una nazione in grado di tutelare gli interessi della propria popolazione anche attraverso una geopolitica "di fino"
Gas Russia Ucraina raggiunto l’accordo ma c’è chi provoca
Due giorni di negoziati tra Kiev e Mosca dopo le difficili elezioni interne all’Ucraina e l’incubo di un gelido inverno sembra sfumato col saldo di vecchi debiti. Firmato l’accordo che assicura le forniture di gas a Kiev sino a marzo 2015 e un’aggiunta al contratto tra Naftogaz e Gazprom.
Dopo 6 mesi di negoziati nessuno rimarrà al freddo il prossimo inverno. Forse. L’accordo prevede forniture per 4 miliardi di metri cubi sino a fine marzo a un prezzo di 385 dollari per mille metri cubi. Con partita dei vecchi conti da saldare: il pagamento di 3,1 miliardi di dollari di debiti di Kiev in 2 tranche, la prima da 1,45 miliardi entro domani e la seconda da 1,65 entro fine anno. L’Ucraina garantisce i pagamenti grazie a un fondo Fmi da 3,1 mld di dollari per il pregresso, mentre le nuove forniture verranno garantite dai finanziamenti dei programmi di assistenza finanziaria Fmi-Ue.
Mentre la partita strategica sul gas si avviava alla soluzione, nuove tensione sui cieli europei dalle isterie baltiche. Allerta Nato ieri sullo sconfinamento dei caccia russi sui cieli europei, l’Alleanza atlantica resta vigile: dall’inizio del 2014, con l’aumentare della tensione in Ucraina, la Nato ha registrato un incremento significativo dell’attività dell’aviazione russa. Non c’è una nuova guerra fredda, sostengono alla Nato ma parlano di provocazioni russe. Mosca nega e ribalta le accuse. Per Russia Today i 26 caccia russi ‘sono rimasti tutti bene all’interno dello spazio aereo internazionale’.
Emblematico delle tensioni fuori misura, il caso dell’aereo lettone, uno degli Stati baltici più anti russi. Ieri la tensione sui cieli europei era stata alimentata proprio da un aereo civile lettone che l’aviazione militare britannica ha intercettato e fatto atterrare all’aeroporto londinese di Stansted dopo che aveva interrotto o perso le comunicazioni con la torre di controllo. Nell’audio si può ascoltare l’ultimatum impartito dai caccia della Raf al cargo. In Ucraina intanto si continua a sparare e a morire. Scontri a Donetsk: nelle ultime 24 ore di combattimento, uccisi 7 soldati e 2 civili.
Grandi tensioni e assieme grandi affari, e non solo per il gas. Si litiga o si fa finta di farlo tra Parigi e Mosca per la consegna della nave militare classe Mistral, costruita per la Russia e ora sottoposta ad ‘embargo’. Dopo l’annuncio dato dal vice premier russo Dmitry Rogozin sulla consegna della prima nave da guerra da parte di Parigi a Mosca, arriva la smentita del ministro delle Finanze francese Michel Sapin: “non ci sono al momento le condizioni per consegnare le unità a Mosca”. Prima la normalizzazione della situazione nel Donbass ucraino, dice, ma quei miliardi alla Francia servono.
Fonte
Torna a crescere la disoccupazione: 12,6%
Pessime notizie per Renzi e il suo governo. La disoccupazione torna a salire, smontando immediatamente l'argomento principale brandito nell'ultimo mese (in seguito a un aumento minimale e temporaneo dei posti di lavoro in agosto, senza troppo stare a guardare alla "qualità" di quei posti).
A settembre 2014 - ha reso noto l'Istat stamattina - il numero di disoccupati (3 milioni 236 mila), aumenta dell'1,5% rispetto al mese precedente (+48 mila) e dell'1,8% su base annua (+58 mila). Un ritorno molto secco, drastico, alla tendenza in atto da oltre sette anni a questa parte.
Il tasso di disoccupazione, pertanto, sale di 0,1 punti percentuali (sia in termini congiunturali sia nei dodici mesi), tornando al 12,6%.
Come prima e peggio di prima, la fascia di popolazione più colpita dalla disoccupazione è quella giovanile. Tra i 15 e i 24 anni, i disoccupati ufficiali (senza contare i "neet", stimati in oltre due milioni) sono 698 mila. La loro incidenza sulla popolazione in questa fascia di età è pari all'11,7%, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente, ma in aumento di 0,6 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,9%, in calo di 0,8 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 1,9 punti nel confronto con l'anno precedente.
Non vi sembra sorprendente, dopo tante revisioni del "mercato del lavoro" giustificate con la necessità di aumentare l'occupazione giovanile e diminuire la precarietà?
Il rapporto completo dell'Istat.
Le serie storiche.
Fonte
A settembre 2014 - ha reso noto l'Istat stamattina - il numero di disoccupati (3 milioni 236 mila), aumenta dell'1,5% rispetto al mese precedente (+48 mila) e dell'1,8% su base annua (+58 mila). Un ritorno molto secco, drastico, alla tendenza in atto da oltre sette anni a questa parte.
Il tasso di disoccupazione, pertanto, sale di 0,1 punti percentuali (sia in termini congiunturali sia nei dodici mesi), tornando al 12,6%.
Come prima e peggio di prima, la fascia di popolazione più colpita dalla disoccupazione è quella giovanile. Tra i 15 e i 24 anni, i disoccupati ufficiali (senza contare i "neet", stimati in oltre due milioni) sono 698 mila. La loro incidenza sulla popolazione in questa fascia di età è pari all'11,7%, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente, ma in aumento di 0,6 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,9%, in calo di 0,8 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 1,9 punti nel confronto con l'anno precedente.
Non vi sembra sorprendente, dopo tante revisioni del "mercato del lavoro" giustificate con la necessità di aumentare l'occupazione giovanile e diminuire la precarietà?
Il rapporto completo dell'Istat.
Le serie storiche.
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Giappone. La droga (monetaria) non funziona? Aumentare la dose...
Non se l'aspettava nessuno. Perché quando una cura non funziona (l'allentamento monetario o quantitative easing, in pratica stampare moneta per favorire la ripresa del mercato finanziario e di lì l'economia reale) si cerca in genere una medicina alternativa.
Ma per i mercati finanziari la "liquidità" - anzi, l'eccesso di liquidità - è una droga. E come in tutte le tossicodipendenze, quando un certo dosaggio non produce più l'effetto atteso... si aumenta la dose.
Proprio questo ha fatto la Banca del Giappone (BoJ) stamattina, provocando - oltre che il delirio di gioia della borsa di Tokyo (+4,83%) - un crollo della quotazione dello yen, sceso subito ai minimi da sei anni a questa parte, quotando in chiusura 110 per un dollaro.
La BoJ espanderà la base monetaria di altri 10mila-20mila miliardi di yen l'anno (per un totale di circa 80mila miliardi) e triplicherà gli acquisti di Etf (titoli legati all'andamento di vari indici o comparti, non solo finanziari) e trust immobiliari. Inoltre allungherà la durata media dei titoli che ha in portafoglio, rinviando dunque il momento della restituzione.
Anche il Giappone sta del resto sperimentando un inizio di deflazione, anche se non nelle dimensioni di quella europea, ma comunque al di sotto del "desiderabile" 2%. Non si è trattato però di una decisione unanime. Il comitato esecutivo si è espresso infatti con 5 membri a favore e 4 contro.
Sulle quotazioni di borsa hanno influito anche le indiscrezioni su un possibile cambio di strategia da parte del Fondo pensioni pubblico, che dovrebbe raddoppiare l'esposizione sul mercato azionario (dal 12 al 25%), immettendo a sua volta enormi quantità di soldi liquidi nel mercato borsistico e - ovviamente - mettendo a rischio le coperture per le pensioni dei dipendenti pubblici (se vai in pensione in un momento di crisi di borsa riceverai briciole invece di panini).
La decisione della BoJ arriva mentre si stavano tirando i bilanci di quasi due anni di "abenomics" (la svolta imposta dal premier liberal-liberista-nazionalista Shinzo Abe) negativi, e in modo anche pesante. Gli ultimi dati macro registrano infatti un calo dei consumi delle famiglie del 5,6% in un anno e un tasso di disoccupazione salito al 3,6% (ridicolo per noi o per gli Ua, ma un dramma per la società nipponica). Nemmeno l'aumento dell'Iva - misura assai contestata al momento del varo - ha risollevato la tendenza a deflazionare, anche se ha scoraggiato lo stesso i consumi.
La BoJ ha quindi scelto di incrementare la portata della stessa strategia. La conseguenza più importante, però, è sul fronte della guerra tra le principali monete mondiali. Lo yen, di fatto, subisce una svalutazione ulteriore, proprio mentre la Federal Reserve statunitense - che ha messo fine in settimana alla sua terza ondata di quantitative easing - ha preso a muoversi con circospezione in direzione opposta, scontando anche una rivalutazione del dollaro. Ma soprattutto mentre la Bce ha iniziato - con moltissima prudenza e sotto lo sguardo preoccupato di Bundesbank - una politica simile a quella giapponese.
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Ma per i mercati finanziari la "liquidità" - anzi, l'eccesso di liquidità - è una droga. E come in tutte le tossicodipendenze, quando un certo dosaggio non produce più l'effetto atteso... si aumenta la dose.
Proprio questo ha fatto la Banca del Giappone (BoJ) stamattina, provocando - oltre che il delirio di gioia della borsa di Tokyo (+4,83%) - un crollo della quotazione dello yen, sceso subito ai minimi da sei anni a questa parte, quotando in chiusura 110 per un dollaro.
La BoJ espanderà la base monetaria di altri 10mila-20mila miliardi di yen l'anno (per un totale di circa 80mila miliardi) e triplicherà gli acquisti di Etf (titoli legati all'andamento di vari indici o comparti, non solo finanziari) e trust immobiliari. Inoltre allungherà la durata media dei titoli che ha in portafoglio, rinviando dunque il momento della restituzione.
Anche il Giappone sta del resto sperimentando un inizio di deflazione, anche se non nelle dimensioni di quella europea, ma comunque al di sotto del "desiderabile" 2%. Non si è trattato però di una decisione unanime. Il comitato esecutivo si è espresso infatti con 5 membri a favore e 4 contro.
Sulle quotazioni di borsa hanno influito anche le indiscrezioni su un possibile cambio di strategia da parte del Fondo pensioni pubblico, che dovrebbe raddoppiare l'esposizione sul mercato azionario (dal 12 al 25%), immettendo a sua volta enormi quantità di soldi liquidi nel mercato borsistico e - ovviamente - mettendo a rischio le coperture per le pensioni dei dipendenti pubblici (se vai in pensione in un momento di crisi di borsa riceverai briciole invece di panini).
La decisione della BoJ arriva mentre si stavano tirando i bilanci di quasi due anni di "abenomics" (la svolta imposta dal premier liberal-liberista-nazionalista Shinzo Abe) negativi, e in modo anche pesante. Gli ultimi dati macro registrano infatti un calo dei consumi delle famiglie del 5,6% in un anno e un tasso di disoccupazione salito al 3,6% (ridicolo per noi o per gli Ua, ma un dramma per la società nipponica). Nemmeno l'aumento dell'Iva - misura assai contestata al momento del varo - ha risollevato la tendenza a deflazionare, anche se ha scoraggiato lo stesso i consumi.
La BoJ ha quindi scelto di incrementare la portata della stessa strategia. La conseguenza più importante, però, è sul fronte della guerra tra le principali monete mondiali. Lo yen, di fatto, subisce una svalutazione ulteriore, proprio mentre la Federal Reserve statunitense - che ha messo fine in settimana alla sua terza ondata di quantitative easing - ha preso a muoversi con circospezione in direzione opposta, scontando anche una rivalutazione del dollaro. Ma soprattutto mentre la Bce ha iniziato - con moltissima prudenza e sotto lo sguardo preoccupato di Bundesbank - una politica simile a quella giapponese.
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L’Ucraina è più nera. Poroshenko, azzoppato, cerca alleati a destra
E’ un Poroshenko azzoppato quello uscito dalle elezioni politiche di domenica scorsa in Ucraina. Il ‘re del cioccolato’, in virtù della sua elezioni a presidente nel maggio scorso e di una fama di moderato alquanto immeritata, pensava di sbaragliare alleati e avversari accreditandosi come gestore del dopo Maidan. Ma non è andata così. Intanto ha perso la sfida della legittimazione del nuovo regime, visto che alle urne sono andati poco più della metà degli aventi diritto, segno che la tanto decantata ‘rivoluzione’ non c’è stata e che anzi una fetta importante della popolazione, anche delle regioni più ‘maidaniste’, non si identifica affatto con la nuova ideologia nazionalista e liberale.
Ma soprattutto Poroshenko, con il suo Blocco, non è riuscito ad ottenere la maggioranza dei seggi alla Rada Suprema, e dovrà quindi scendere a patti con forze politiche alla sua destra e poco inclini al compromesso che il presidente ha in qualche modo cercato negli ultimi mesi con la Russia di Putin. Il presidente ha dovuto subire anche lo smacco di vedere la coalizione che porta il suo nome (Blok Petra Poroshenka) arrivare solo seconda, anche se per lo 0,3%, dopo il Fronte popolare (Narodniy Front) del primo ministro Arseniy Yatsenyuk. E comunque i due movimenti, insieme, non raggiungono il 45% dei voti.
C’è la fatta solo per un soffio l’ex zarina Yulia Timochenko, col suo movimento Batkivshchyna – ‘Patria’ – da cui si è opportunamente tirato fuori Yatseniuk e che ha superato di pochissimo la soglia del 5% (5,7%) necessaria per entrare in parlamento. Poco meglio è andata per ciò che resta dell’ex Partito delle Regioni, partito uscito vincitore alle scorse elezioni; stavolta il Blocco delle opposizioni (Opozytsinyy Blok) ha superato di poco l’asticella arrivando all’8,25%. Voti concentrati al 90% nelle regioni orientali dell’Ucraina dove il movimento guidato da alcuni dei più ricchi oligarchi del paese si è affermato come primo partito a Dnipropetrovsk, Donetsk, Luhansk, Zaporizhia e Kharkiv.
I nazionalsocialisti di Svoboda invece non ce l’hanno fatta, arrivando solo al 4,7% dei voti (percentuale riferita alla quota proporzionale, altri seggi sono assegnati su base uninominale); una sconfitta pesante rispetto alle scorse elezioni e soprattutto considerando il ruolo di primo piano che l’estrema destra aveva ricoperto prima nella spallata di piazza e poi nella Giunta, dove ‘Libertà’ poteva contare su ben 4 ministri.
Il partito ultranazionalista che si richiama all’esperienza storica di Stepan Bandera – leader delle milizie nazionaliste ucraine che collaborarono con gli occupanti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale – ora grida ai brogli, e i suoi militanti si sono scagliati contro la Commissione Elettorale Centrale di Kiev, in queste ore assediata al grido di ‘riconteggio, riconteggio’. "I nostri ex alleati di Maidan ci hanno tradito!", ha tuonato il leader del partito, Oleg Tiaghnibok, che alle scorse elezioni aveva ottenuto il 10,44%.
E’ andata anche peggio per i nazisti di Praviy Sektor (Settore Destro) che hanno raggranellato uno scarso 1,8%, comunque non male per un movimento nato da gruppuscoli inconsistenti e in un paese in cui il panorama politico è praticamente tutto di destra. E comunque saranno ben due i deputati di Settore Destro a sedere nella Verkhovna Rada. Il leader del movimento Dmytro Yarosh e un altro rappresentante, Borys Beresa, sono stati eletti come deputati nella quota uninominale. Yarosh si è presentato nella sua natia Dnipropetrivsk dove 20 mila persone, il 29% degli elettori, l’hanno votato, mentre Beresa è stato eletto in una circoscrizione maggioritaria a Kiev con il 30% dei voti, circa 27 mila elettori. Sembra quasi che il nuovo regime preferisca i tagliagole di Yarosh ai nazisti in doppio petto di Tiaghnibok, visto che proprio ai miliziani di Settore Destro è stato affidato il compito di gestire il servizio d’ordine nei seggi di alcune importanti città, come la ribelle Kharkov. D’altronde nei seggi delle regioni orientali i pochi elettori che hanno votato lo hanno fatto sotto la minaccia dei mitra degli squadristi che alla vigilia delle elezioni a Lisiciansk hanno fucilato tre adolescenti arrestati qualche giorno prima. Campagna elettorale all’Ucraina…
Da notare che tra i votanti ucraini all’estero l’estrema destra apertamente neonazista è andata assai meglio che in patria: nella circoscrizione estera – Italia compresa – Praviy Sektor è arrivato al quarto posto e Svoboda al quinto, totalizzando insieme addirittura il 15% dei voti.
Fuori dal parlamento sono naturalmente rimasti i comunisti che sono di fatto stati espulsi con la violenza dalla legalità e non hanno più alcuna agibilità politica nel paese. Il PCU di Petro Simonenko si è fermato al 3,86%, contro il 13,18% ottenuto nel 2012.
A sorpresa s’è invece affermato con l’11% dei consensi il movimento Samopomich (‘Auto aiuto’) fondato da pochi mesi e guidato da Andriy Sadovy, il sindaco di Leopoli (zona dove l’affluenza ha sfiorato il 70%), e fortemente nazionalista e antirusso.
Ottimo risultato anche per il Partito Radicale di Oleg Lyashko, ultranazionalista e di destra, che dall’1,8 del 2012 è salito al 7,5%.
Alla fine dalle urne è uscito un parlamento assai frammentato, litigioso, pieno di oligarchi o di loro rappresentanti diretti, con una stragrande maggioranza formalmente filo-europea e filo-Nato e tutta schierata su posizioni ultrnazionaliste e di destra, senza alcuna presenza di forze di sinistra o di centro-sinistra. L’unico movimento contrario all’integrazione nell’Ue e nell’Alleanza Atlantica è il Blocco delle Opposizioni, legato a doppio filo con Mosca.
Se vorranno governare, il Blocco Poroshenko (che comprende Udar di Vitali Klitschko) e il Fronte Popolare di Yatsenyuk dovranno allearsi, e cercare il sostegno di qualche altra realtà, probabilmente Samopomich e forse addirittura il Partito Radicale di Lyashko. Insomma nel nuovo governo dovranno convivere coloro che rappresentano gli interessi di Bruxelles e coloro che invece prendono ordini da Washington. Una convivenza e una gestione affatto facili, se si considera che nella nuova Rada non più arancione ma bruna siederanno un centinaio tra dirigenti e volontari dei battaglioni punitivi, esponenti delle forze armate e criminali comuni al soldo dei vari oligarchi, sparpagliati in diversi partiti.
Spenti i riflettori sui seggi, ora l’attenzione di tutti è di nuovo puntata sul fronte, dove nelle ultime ore si è assistito a una nuova recrudescenza dei combattimenti e dei bombardamenti. Secondo Kiev nelle ultime 48 ore sono stati ben 9 i soldati che hanno perso la vita, e anche tra i miliziani delle Repubbliche Popolari e tra i civili che abitano le città assediate di Donetsk e Lugansk – che si apprestano a votare domenica per eleggere il loro parlamento ‘separatista’ – si contano vittime. Almeno sei i morti provocati dai bombardamenti indiscriminati dell’artiglieria dell’esercito e della Guardia Nazionale.
A preoccupare soprattutto il fatto che Kiev abbia ritirato, alla chetichella, la firma apposta a settembre a Minsk all’accordo sulla linea di separazione tra le parti in conflitto, lasciandosi così aperto il terreno per un’offensiva che in molti, nel Donbass, giudicano ormai questione di ore, o forse di giorni. Negli ultimi giorni le milizie hanno rafforzato le proprie posizioni e in alcuni casi condotto vittoriose imboscate contro alcuni reparti delle forze di Kiev rimasti isolati, impossessandosi di mezzi militari e armi pesanti che si rivelano assai preziosi nella difesa delle Repubbliche Popolari. Frequenti anche i casi in cui i soldati ucraini hanno ceduto le loro armi al ‘nemico’ in cambio di cibo e medicinali, mentre da Mosca partiva l’ennesimo convoglio di aiuti umanitari destinati alle martoriate popolazioni di Donetsk e Lugansk.
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Ma soprattutto Poroshenko, con il suo Blocco, non è riuscito ad ottenere la maggioranza dei seggi alla Rada Suprema, e dovrà quindi scendere a patti con forze politiche alla sua destra e poco inclini al compromesso che il presidente ha in qualche modo cercato negli ultimi mesi con la Russia di Putin. Il presidente ha dovuto subire anche lo smacco di vedere la coalizione che porta il suo nome (Blok Petra Poroshenka) arrivare solo seconda, anche se per lo 0,3%, dopo il Fronte popolare (Narodniy Front) del primo ministro Arseniy Yatsenyuk. E comunque i due movimenti, insieme, non raggiungono il 45% dei voti.
C’è la fatta solo per un soffio l’ex zarina Yulia Timochenko, col suo movimento Batkivshchyna – ‘Patria’ – da cui si è opportunamente tirato fuori Yatseniuk e che ha superato di pochissimo la soglia del 5% (5,7%) necessaria per entrare in parlamento. Poco meglio è andata per ciò che resta dell’ex Partito delle Regioni, partito uscito vincitore alle scorse elezioni; stavolta il Blocco delle opposizioni (Opozytsinyy Blok) ha superato di poco l’asticella arrivando all’8,25%. Voti concentrati al 90% nelle regioni orientali dell’Ucraina dove il movimento guidato da alcuni dei più ricchi oligarchi del paese si è affermato come primo partito a Dnipropetrovsk, Donetsk, Luhansk, Zaporizhia e Kharkiv.
I nazionalsocialisti di Svoboda invece non ce l’hanno fatta, arrivando solo al 4,7% dei voti (percentuale riferita alla quota proporzionale, altri seggi sono assegnati su base uninominale); una sconfitta pesante rispetto alle scorse elezioni e soprattutto considerando il ruolo di primo piano che l’estrema destra aveva ricoperto prima nella spallata di piazza e poi nella Giunta, dove ‘Libertà’ poteva contare su ben 4 ministri.
Il partito ultranazionalista che si richiama all’esperienza storica di Stepan Bandera – leader delle milizie nazionaliste ucraine che collaborarono con gli occupanti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale – ora grida ai brogli, e i suoi militanti si sono scagliati contro la Commissione Elettorale Centrale di Kiev, in queste ore assediata al grido di ‘riconteggio, riconteggio’. "I nostri ex alleati di Maidan ci hanno tradito!", ha tuonato il leader del partito, Oleg Tiaghnibok, che alle scorse elezioni aveva ottenuto il 10,44%.
E’ andata anche peggio per i nazisti di Praviy Sektor (Settore Destro) che hanno raggranellato uno scarso 1,8%, comunque non male per un movimento nato da gruppuscoli inconsistenti e in un paese in cui il panorama politico è praticamente tutto di destra. E comunque saranno ben due i deputati di Settore Destro a sedere nella Verkhovna Rada. Il leader del movimento Dmytro Yarosh e un altro rappresentante, Borys Beresa, sono stati eletti come deputati nella quota uninominale. Yarosh si è presentato nella sua natia Dnipropetrivsk dove 20 mila persone, il 29% degli elettori, l’hanno votato, mentre Beresa è stato eletto in una circoscrizione maggioritaria a Kiev con il 30% dei voti, circa 27 mila elettori. Sembra quasi che il nuovo regime preferisca i tagliagole di Yarosh ai nazisti in doppio petto di Tiaghnibok, visto che proprio ai miliziani di Settore Destro è stato affidato il compito di gestire il servizio d’ordine nei seggi di alcune importanti città, come la ribelle Kharkov. D’altronde nei seggi delle regioni orientali i pochi elettori che hanno votato lo hanno fatto sotto la minaccia dei mitra degli squadristi che alla vigilia delle elezioni a Lisiciansk hanno fucilato tre adolescenti arrestati qualche giorno prima. Campagna elettorale all’Ucraina…
Da notare che tra i votanti ucraini all’estero l’estrema destra apertamente neonazista è andata assai meglio che in patria: nella circoscrizione estera – Italia compresa – Praviy Sektor è arrivato al quarto posto e Svoboda al quinto, totalizzando insieme addirittura il 15% dei voti.
Fuori dal parlamento sono naturalmente rimasti i comunisti che sono di fatto stati espulsi con la violenza dalla legalità e non hanno più alcuna agibilità politica nel paese. Il PCU di Petro Simonenko si è fermato al 3,86%, contro il 13,18% ottenuto nel 2012.
A sorpresa s’è invece affermato con l’11% dei consensi il movimento Samopomich (‘Auto aiuto’) fondato da pochi mesi e guidato da Andriy Sadovy, il sindaco di Leopoli (zona dove l’affluenza ha sfiorato il 70%), e fortemente nazionalista e antirusso.
Ottimo risultato anche per il Partito Radicale di Oleg Lyashko, ultranazionalista e di destra, che dall’1,8 del 2012 è salito al 7,5%.
Alla fine dalle urne è uscito un parlamento assai frammentato, litigioso, pieno di oligarchi o di loro rappresentanti diretti, con una stragrande maggioranza formalmente filo-europea e filo-Nato e tutta schierata su posizioni ultrnazionaliste e di destra, senza alcuna presenza di forze di sinistra o di centro-sinistra. L’unico movimento contrario all’integrazione nell’Ue e nell’Alleanza Atlantica è il Blocco delle Opposizioni, legato a doppio filo con Mosca.
Se vorranno governare, il Blocco Poroshenko (che comprende Udar di Vitali Klitschko) e il Fronte Popolare di Yatsenyuk dovranno allearsi, e cercare il sostegno di qualche altra realtà, probabilmente Samopomich e forse addirittura il Partito Radicale di Lyashko. Insomma nel nuovo governo dovranno convivere coloro che rappresentano gli interessi di Bruxelles e coloro che invece prendono ordini da Washington. Una convivenza e una gestione affatto facili, se si considera che nella nuova Rada non più arancione ma bruna siederanno un centinaio tra dirigenti e volontari dei battaglioni punitivi, esponenti delle forze armate e criminali comuni al soldo dei vari oligarchi, sparpagliati in diversi partiti.
Spenti i riflettori sui seggi, ora l’attenzione di tutti è di nuovo puntata sul fronte, dove nelle ultime ore si è assistito a una nuova recrudescenza dei combattimenti e dei bombardamenti. Secondo Kiev nelle ultime 48 ore sono stati ben 9 i soldati che hanno perso la vita, e anche tra i miliziani delle Repubbliche Popolari e tra i civili che abitano le città assediate di Donetsk e Lugansk – che si apprestano a votare domenica per eleggere il loro parlamento ‘separatista’ – si contano vittime. Almeno sei i morti provocati dai bombardamenti indiscriminati dell’artiglieria dell’esercito e della Guardia Nazionale.
A preoccupare soprattutto il fatto che Kiev abbia ritirato, alla chetichella, la firma apposta a settembre a Minsk all’accordo sulla linea di separazione tra le parti in conflitto, lasciandosi così aperto il terreno per un’offensiva che in molti, nel Donbass, giudicano ormai questione di ore, o forse di giorni. Negli ultimi giorni le milizie hanno rafforzato le proprie posizioni e in alcuni casi condotto vittoriose imboscate contro alcuni reparti delle forze di Kiev rimasti isolati, impossessandosi di mezzi militari e armi pesanti che si rivelano assai preziosi nella difesa delle Repubbliche Popolari. Frequenti anche i casi in cui i soldati ucraini hanno ceduto le loro armi al ‘nemico’ in cambio di cibo e medicinali, mentre da Mosca partiva l’ennesimo convoglio di aiuti umanitari destinati alle martoriate popolazioni di Donetsk e Lugansk.
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Sparisce l'acciaio italiano, a cominciare dai lavoratori
Sulla serietà degli impegni del governo riguardo all'Ast-ThyssenKrupp di Terni vale forse la pena di far il punto sulla produzione dell'acciaio in Italia. Vi proponiamo questo articolo dal confindustriale IlSole24Ore, che spiega piuttosto chiaramente come la produzione di acciaio sia stata sostanzialmente considerata "non più strategica" - limitatamente al nostro paese - da Unione Europea, governi di centrodestra e centrosinistra, imprenditori nazionali o multinazionali.
Un lento esproprio che somiglia molto a quello avvenuto, nell'arco di venti anni e più, nel trasporto aereo. O anche nelle telecomunicazioni, nell'informatica, ecc. Ogni "privatizzazione" ha insomma portato con sé la perdita per il paese di competenze e asset strategici. Non si può infatti parlare di "passaggio da imprenditore pubblico a privato". Il "privato" - infatti - ha sempre proceduto a spacchettare e rivendere al migliore offerente. Nessuna presa in carico della necessità investimenti, ma vendite a prezzi di realizzo (comunque superiori a quelli pagati dagli stessi "privati" allo Stato che dismetteva).
La domanda - politica, di strategia industriale e di prospettiva storica - è: ma come si pensa di restare un "paese avanzato" senza acciaio, compagnie aeree, telecomunicazioni, informatica?
*****
Crollo dell'occupazione in tutti i poli dell'acciaio
di Matteo Meneghello
MILANO - Il 66% delle aziende italiane attive nel comparto siderurgico ha registrato nel 2013 un calo di fatturato. Nell'ultimo triennio la redditività è precipitata: le strutture finanziarie dei principali produttori non sono tecnicamente a rischio, ma non sono più adeguate all'attuale capacità di generare reddito.
I numeri dei conti economici e degli stati patrimoniali (oltre 2.500 realtà tra produttori, trasformatori, distributori, centri servizio e commercianti di rottame), analizzati dal portale di settore Siderweb nell'annuale edizione di «Bilanci d'acciaio» evidenziano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la filiera dell'acciaio ha il fiato corto. Le risorse accumulate negli anni d'oro precedenti alla crisi si stanno per esaurire: c'è chi è pronto a scommettere su un «redde rationem» nel settore già entro i prossimi due anni. Una definitiva razionalizzazione della capacità produttiva installata che sembra, da qualche mese a questa parte, l'unica richiesta esplicita del mercato, in sovrapproduzione sia a livello nazionale che a livello europeo.
Ad oggi le tessere del domino non hanno ancora iniziato a cadere, ma i segnali di questi ultimi anni, anche e soprattutto in Italia, sono evidenti: la corda è fin troppo tirata. Dall'inizio della crisi, secondo i dati di Federacciai, gli oltre 39mila occupati del settore sono scesi a circa 36mila unità. Nel 2013 le ore lavorate sono calate del 5,6%, mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate del 70%, da 3,3 a 5,5 milioni (35 milioni in tutto il comparto metallurgico nei primi otto mesi del 2014).
I principali polmoni siderurgici italiani (Taranto, Piombino, Terni) pagano difficoltà politiche e gestionali. La situazione emergenziale di questi giorni non deve fare dimenticare, però, che le sirene dell'allarme «ordinario» avevano già iniziato a suonare anni fa, dall'autunno del 2008. All'inizio del 2009 la famiglia Riva, che aveva già iniziato a rallentare la produzione dell'Ilva proprio alla fine dell'anno precedente, in concomitanza con i primi segnali di crisi del settore, aveva deciso di mettere in cassa integrazione a rotazione a Taranto oltre 4mila dipendenti, motivando la decisione con la «gravissima crisi finanziaria» e con «il crollo della domanda dell'acciaio».
A fine aprile dello stesso anno un'altra pesante decisione: stop all'altoforno 2, produzione drasticamente ridotta (da 26mila tonnellate al giorno a 7mila) con metà degli addetti praticamente fuori dal ciclo produttivo. Stesso copione alla Lucchini. L'altoforno di Piombino (oggi è chiuso, e il gruppo è in amministrazione straordinaria) nel 2009 marciava al 50% del potenziale. In quel periodo il management (la proprietà era dei russi di Severstal) ha avviato un piano di taglio dei costi.
Il primo piano di ristrutturazione è del 2010, mentre nel 2011 viene approvato un piano di risanamento che prevede la cessione di asset: la francese Ascometal, Bari fonderie meridionali, ma soprattutto il simbolo dell'«impero» costruito da Luigi Lucchini negli anni: il «palazzo di vetro» di Brescia, dove aveva sede il quartier generale del gruppo. Alla fine del 2012, falliti i tentativi di salvataggio, Lucchini viene ammessa all'amministrazione straordinaria. Oggi i circa 2mila dipendenti sono in solidarietà, in attesa di conoscere il nome del nuovo proprietario (in lizza ci sono gli indiani di Jindal e gli algerini di Cevital): la società, secondo i dati più recenti, ha fatturato nei primi sei mesi dell'anno 261 milioni, contro i 759 dell'intero anno precedente.
Anche Ast, che in queste settimane sta vivendo la difficile vertenza relativa al piano esuberi deciso dalla proprietà tedesca di ThyssenKrupp, aveva già varato negli ultimi anni un primo piano di ristrutturazione con mobilità incentivata. Sempre nel settore, Berco (produce componenti per macchine movimento terra) ha messo in mobilità nella primavera dell'anno scorso 611 lavoratori (con incentivi all'esodo): all'epoca della vertenza l'ad dell'azienda, di proprietà del gruppo ThyssenKrupp, era Lucia Morselli, oggi al vertice di Ast.
Pesante anche la ristrutturazione decisa dal gruppo Beltrame di Vicenza in questi ultimi mesi. Il piano industriale ha comportato in Italia la chiusura del sito di Marghera (parte dell'area dell'ex Sidermarghera, specializzata nella produzione di cingoli per il movimento terra, è attualmente in vendita) e il riassetto dei poli di San Didero (stop all'acciaieria, mantenimento del laminatoio e ricorso a cassa e mobilità) e San Giovanni Valdarno. All'estero il gruppo ha chiuso due laminatoi, in Belgio e in Lussemburgo. Il piano industriale ha però permesso al gruppo di raggiungere con le banche creditrici il riscadenzamento del debito finanziario.
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USA, la Fed chiude il rubinetto
di Michele Paris
Per la terza volta in sei anni, la Federal Reserve americana ha annunciato questa settimana la fine del proprio programma di acquisto di titoli azionari legati ai mutui e di bond del Tesoro, comunemente denominato “quantitative easing” (QE). Il programma è servito in sostanza a iniettare migliaia di miliardi di dollari nel sistema finanziario d’oltreoceano e si è accompagnato al mantenimento dei tassi di interesse attorno allo zero, cosa che la Fed ha assicurato di voler continuare a fare anche nel prossimo futuro.
La decisione senza precedenti di intraprendere la strada del QE era stata adottata dall’ex governatore della Fed, Ben Bernanke, dopo che sul finire del 2008 la crisi finanziaria da poco esplosa aveva gettato i vertici politici e finanziari americani nella disperazione. Senza altri strumenti a disposizione per influenzare il corso degli eventi, una volta azzerati i tassi di interesse, Bernanke aveva avviato il discusso programma di acquisto per sostenere i mercati, garantendo agli istituti finanziari la possibilità di scaricare sulla Fed i propri “asset” senza valore.
La terza e fin qui ultima fase del “quantitative easing” o QE3 era iniziata nel settembre del 2012 con l’acquisto di titoli legati ai mutui per 40 miliardi di dollari ogni singolo mese. Tre mesi più tardi, la Banca Centrale USA avrebbe poi aggiunto altri 45 miliardi mensili per acquistare bond del Tesoro. Il graduale abbandono del QE, o “tapering”, era iniziato nel gennaio di quest’anno, in coincidenza con l’addio alla Fed di Bernanke. Al poso di quest’ultimo, il presidente Obama avrebbe scelto la sua vice, Janet Yellen, la quale ha seguito diligentemente i piani del suo predecessore.
I titoli nel portafoglio della Fed hanno così raggiunto cifre da capogiro, essendo passati da meno di mille miliardi all’inizio del programma ai quasi 4,5 mila miliardi odierni, pari a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti. Vista l’esposizione della Fed, in caso di esplosione di una nuova crisi finanziaria, le prospettive in termini di tenuta del sistema appaiono dunque preoccupanti.
La chiusura del rubinetto erogante denaro stampato dalla Fed per drogare i mercati non ha causato il panico in borsa come qualcuno prevedeva. Ciò è dovuto principalmente al fatto che Janet Yellen e i governatori dei distaccamenti regionali della Fed hanno deciso di mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a quando il livello di inflazione negli USA tornerà ad avvicinarsi al 2%. In questo modo, banche e investitori continueranno ad avere accesso al denaro a costo zero per proseguire con le proprie operazioni speculative.
Inoltre, la Fed non intende disfarsi a breve dei titoli che ha in portafoglio, ma inizierà a farlo gradualmente sempre in concomitanza con il rialzo del livello di inflazione e dei tassi di interesse, secondo gli analisti non prima della metà del 2015.
Il giorno dopo l’annuncio della Fed, i giornali americani si sono interrogati sull’utilità del “quantitative easing” e sulla corrispondenza alla realtà del paese del contenuto delle dichiarazioni ufficiali diffuse per motivare lo stop al programma di acquisto titoli.
Il comunicato formale della Fed è in effetti un concentrato di cinismo e tentativi di dipingere un quadro economico decisamente più roseo di quello reale. In particolare, le dichiarazioni rilasciate mercoledì sottolineano sia il “sostanziale miglioramento delle prospettive per il mercato del lavoro” sia la “forza dell’economia in generale”, tale da favorire “l’avanzamento verso il livello massimo di occupazione in un contesto di stabilità dei prezzi”.
La pretesa che la massiccia infusione di denaro sui mercati finanziari abbia portato a un miglioramento dei livelli occupazionali o delle condizioni economiche della maggior parte della popolazione americana è semplicemente assurda.
L’enorme quantità di denaro stampato dalla Fed - a fronte della continua richiesta di sacrifici a lavoratori e classe media a causa della presunta mancanza di risorse per finanziare la spesa pubblica - ha infatti finito per beneficiare pressoché esclusivamente la speculazione finanziaria, arricchendo gli investitori e senza indurre riflessi significativi sull’economia reale.
Come ha ricordato giovedì il New York Times, il QE della Fed americana ha alimentato una delle strisce più lunghe di aumenti degli indici di borsa nella storia degli Stati Uniti. A partire dal primo round, inaugurato nel novembre 2008, l’indice Standard & Poor’s 500 è salito ad esempio del 131%, mentre dall’avvio del QE3 due anni fa l’impennata è stata di oltre il 42%.
Questa corsa al rialzo ha permesso a quei soggetti in grado di beneficiare dell’andamento positivo delle borse di arricchirsi in maniera spropositata, come conferma il quasi raddoppiamento dal 2009 a oggi dei beni nelle mani dei 400 americani più facoltosi, i quali detengono un totale di 2,9 mila miliardi di dollari.
Complessivamente, la Fed americana e le altre banche centrali nel corso della crisi hanno iniettato nei mercati finanziari una cifra stimata tra i settemila e i diecimila miliardi di dollari, confermando come il “quantitative easing” sia uno dei principali strumenti del trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale messo in atto dalle classe dirigenti dei vari paesi.
La Fed, poi, ha citato la riduzione del numero dei senza lavoro negli Stati Uniti per dimostrare l’efficacia del QE. Se il tasso di disoccupazione è nominalmente sceso dall’8,1% alla vigilia dell’inizio della terza fase del “quantitative easing” nell’agosto del 2012 all’attuale 5,9%, ciò è dovuto in larga misura, come ha dovuto ammettere giovedì anche il Wall Street Journal, all’abbandono del mercato del lavoro da parte di un numero crescente di senza lavoro che non vengono così più conteggiati tra i disoccupati.
Gli impieghi creati, inoltre, risultano oggi in gran parte molto meno pagati e più precari rispetto a quelli svaniti durante la crisi, così come il denaro della Fed, infine, non ha promosso quasi per nulla investimenti produttivi, bensì attività speculative.
Nel consiglio dei governatori della Banca Centrale USA, alla decisione di interrompere il QE3 si è opposto soltanto il numero uno della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota, secondo il quale il programma di acquisto di titoli avrebbe dovuto proseguire fino a quando l’inflazione non fosse aumentata in maniera più sostenuta.
La Fed ha comunque fatto sapere di essere pronta a riprendere il QE nel caso la situazione dell’economia dovesse nuovamente volgere al peggio, ritornando così sui propri passi come aveva già fatto dopo l’annuncio della fine dei primi due round del programma.
Se, come già ricordato, lo stop al QE3 non ha provocato scossoni in Borsa, in molti prevedono invece gravi turbolenze nel momento in cui la Fed deciderà di far salire i tassi di interesse, visto che l’eliminazione dell’ultima stampella della Fed costringerà l’economia USA a camminare sulle proprie gambe, probabilmente senza esserne in grado.
Anche se appoggiate dapprima dall’amministrazione Bush e successivamente da quella Obama, le iniziative della Fed sono viste con apprensione da molti all’interno della classe dirigente americana, soprattutto per i timori che esse abbiano contribuito alla formazione di una bolla che potrebbe esplodere in maniera ancora più rovinosa di quella dei sub-prime.
Ciononostante, i vertici politici e finanziari negli Stati Uniti come in Europa e in Asia sono da tempo a corto di ricette alternative per soccorrere un sistema capitalistico in crisi strutturale. Perciò, in concomitanza con l’abbandono del “quantitative easing” da parte della Fed, questo stesso programma di sovvenzionamento della speculazione continua a essere implementato dalla Banca Centrale del Giappone ed è stato da poco inaugurato, sia pure per il momento in una versione ridotta, dalla BCE di Mario Draghi.
Fonte
Riassunto il sistema inizia ad essere percepito anche da chi ci sguazza come alla canna del gas, ergo chi sta in fondo alla catena è sempre più "del gatto".
Per la terza volta in sei anni, la Federal Reserve americana ha annunciato questa settimana la fine del proprio programma di acquisto di titoli azionari legati ai mutui e di bond del Tesoro, comunemente denominato “quantitative easing” (QE). Il programma è servito in sostanza a iniettare migliaia di miliardi di dollari nel sistema finanziario d’oltreoceano e si è accompagnato al mantenimento dei tassi di interesse attorno allo zero, cosa che la Fed ha assicurato di voler continuare a fare anche nel prossimo futuro.
La decisione senza precedenti di intraprendere la strada del QE era stata adottata dall’ex governatore della Fed, Ben Bernanke, dopo che sul finire del 2008 la crisi finanziaria da poco esplosa aveva gettato i vertici politici e finanziari americani nella disperazione. Senza altri strumenti a disposizione per influenzare il corso degli eventi, una volta azzerati i tassi di interesse, Bernanke aveva avviato il discusso programma di acquisto per sostenere i mercati, garantendo agli istituti finanziari la possibilità di scaricare sulla Fed i propri “asset” senza valore.
La terza e fin qui ultima fase del “quantitative easing” o QE3 era iniziata nel settembre del 2012 con l’acquisto di titoli legati ai mutui per 40 miliardi di dollari ogni singolo mese. Tre mesi più tardi, la Banca Centrale USA avrebbe poi aggiunto altri 45 miliardi mensili per acquistare bond del Tesoro. Il graduale abbandono del QE, o “tapering”, era iniziato nel gennaio di quest’anno, in coincidenza con l’addio alla Fed di Bernanke. Al poso di quest’ultimo, il presidente Obama avrebbe scelto la sua vice, Janet Yellen, la quale ha seguito diligentemente i piani del suo predecessore.
I titoli nel portafoglio della Fed hanno così raggiunto cifre da capogiro, essendo passati da meno di mille miliardi all’inizio del programma ai quasi 4,5 mila miliardi odierni, pari a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti. Vista l’esposizione della Fed, in caso di esplosione di una nuova crisi finanziaria, le prospettive in termini di tenuta del sistema appaiono dunque preoccupanti.
La chiusura del rubinetto erogante denaro stampato dalla Fed per drogare i mercati non ha causato il panico in borsa come qualcuno prevedeva. Ciò è dovuto principalmente al fatto che Janet Yellen e i governatori dei distaccamenti regionali della Fed hanno deciso di mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a quando il livello di inflazione negli USA tornerà ad avvicinarsi al 2%. In questo modo, banche e investitori continueranno ad avere accesso al denaro a costo zero per proseguire con le proprie operazioni speculative.
Inoltre, la Fed non intende disfarsi a breve dei titoli che ha in portafoglio, ma inizierà a farlo gradualmente sempre in concomitanza con il rialzo del livello di inflazione e dei tassi di interesse, secondo gli analisti non prima della metà del 2015.
Il giorno dopo l’annuncio della Fed, i giornali americani si sono interrogati sull’utilità del “quantitative easing” e sulla corrispondenza alla realtà del paese del contenuto delle dichiarazioni ufficiali diffuse per motivare lo stop al programma di acquisto titoli.
Il comunicato formale della Fed è in effetti un concentrato di cinismo e tentativi di dipingere un quadro economico decisamente più roseo di quello reale. In particolare, le dichiarazioni rilasciate mercoledì sottolineano sia il “sostanziale miglioramento delle prospettive per il mercato del lavoro” sia la “forza dell’economia in generale”, tale da favorire “l’avanzamento verso il livello massimo di occupazione in un contesto di stabilità dei prezzi”.
La pretesa che la massiccia infusione di denaro sui mercati finanziari abbia portato a un miglioramento dei livelli occupazionali o delle condizioni economiche della maggior parte della popolazione americana è semplicemente assurda.
L’enorme quantità di denaro stampato dalla Fed - a fronte della continua richiesta di sacrifici a lavoratori e classe media a causa della presunta mancanza di risorse per finanziare la spesa pubblica - ha infatti finito per beneficiare pressoché esclusivamente la speculazione finanziaria, arricchendo gli investitori e senza indurre riflessi significativi sull’economia reale.
Come ha ricordato giovedì il New York Times, il QE della Fed americana ha alimentato una delle strisce più lunghe di aumenti degli indici di borsa nella storia degli Stati Uniti. A partire dal primo round, inaugurato nel novembre 2008, l’indice Standard & Poor’s 500 è salito ad esempio del 131%, mentre dall’avvio del QE3 due anni fa l’impennata è stata di oltre il 42%.
Questa corsa al rialzo ha permesso a quei soggetti in grado di beneficiare dell’andamento positivo delle borse di arricchirsi in maniera spropositata, come conferma il quasi raddoppiamento dal 2009 a oggi dei beni nelle mani dei 400 americani più facoltosi, i quali detengono un totale di 2,9 mila miliardi di dollari.
Complessivamente, la Fed americana e le altre banche centrali nel corso della crisi hanno iniettato nei mercati finanziari una cifra stimata tra i settemila e i diecimila miliardi di dollari, confermando come il “quantitative easing” sia uno dei principali strumenti del trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale messo in atto dalle classe dirigenti dei vari paesi.
La Fed, poi, ha citato la riduzione del numero dei senza lavoro negli Stati Uniti per dimostrare l’efficacia del QE. Se il tasso di disoccupazione è nominalmente sceso dall’8,1% alla vigilia dell’inizio della terza fase del “quantitative easing” nell’agosto del 2012 all’attuale 5,9%, ciò è dovuto in larga misura, come ha dovuto ammettere giovedì anche il Wall Street Journal, all’abbandono del mercato del lavoro da parte di un numero crescente di senza lavoro che non vengono così più conteggiati tra i disoccupati.
Gli impieghi creati, inoltre, risultano oggi in gran parte molto meno pagati e più precari rispetto a quelli svaniti durante la crisi, così come il denaro della Fed, infine, non ha promosso quasi per nulla investimenti produttivi, bensì attività speculative.
Nel consiglio dei governatori della Banca Centrale USA, alla decisione di interrompere il QE3 si è opposto soltanto il numero uno della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota, secondo il quale il programma di acquisto di titoli avrebbe dovuto proseguire fino a quando l’inflazione non fosse aumentata in maniera più sostenuta.
La Fed ha comunque fatto sapere di essere pronta a riprendere il QE nel caso la situazione dell’economia dovesse nuovamente volgere al peggio, ritornando così sui propri passi come aveva già fatto dopo l’annuncio della fine dei primi due round del programma.
Se, come già ricordato, lo stop al QE3 non ha provocato scossoni in Borsa, in molti prevedono invece gravi turbolenze nel momento in cui la Fed deciderà di far salire i tassi di interesse, visto che l’eliminazione dell’ultima stampella della Fed costringerà l’economia USA a camminare sulle proprie gambe, probabilmente senza esserne in grado.
Anche se appoggiate dapprima dall’amministrazione Bush e successivamente da quella Obama, le iniziative della Fed sono viste con apprensione da molti all’interno della classe dirigente americana, soprattutto per i timori che esse abbiano contribuito alla formazione di una bolla che potrebbe esplodere in maniera ancora più rovinosa di quella dei sub-prime.
Ciononostante, i vertici politici e finanziari negli Stati Uniti come in Europa e in Asia sono da tempo a corto di ricette alternative per soccorrere un sistema capitalistico in crisi strutturale. Perciò, in concomitanza con l’abbandono del “quantitative easing” da parte della Fed, questo stesso programma di sovvenzionamento della speculazione continua a essere implementato dalla Banca Centrale del Giappone ed è stato da poco inaugurato, sia pure per il momento in una versione ridotta, dalla BCE di Mario Draghi.
Fonte
Riassunto il sistema inizia ad essere percepito anche da chi ci sguazza come alla canna del gas, ergo chi sta in fondo alla catena è sempre più "del gatto".
Se Renzi va a passo di carica...
E’ evidente – come hanno sottolineato tutti i commentatori, anche quelli di parte borghese – che le manganellate agli operai di Terni, riprese e rimbalzate dalle telecamere di tutto il sistema dei media, non sono ascrivibili alla solerzia dello sbirro di turno a Roma ma sono direttamente riconducibili alla catena di comando operativa del Ministero degli Interni e del Consiglio dei Ministri.
Questo dato è stato riconosciuto, seppur a denti stretti, sia dalla Camusso sia da Landini i quali – coerenti con la loro impostazione politica storica ed immediata imperniata sul collaborazionismo di classe – stanno utilizzando questa vicenda per tentare di riaprire una impossibile seria mediazione con il complesso delle politiche economiche e sociali del governo Renzi.
Ma l’esecutivo, però, è da mesi che parla chiaro circa la propria volontà di produrre, a tutti i costi, un affondo decisivo contro le condizioni di vita e di lavoro dei settori popolari della società ben oltre quanto già fatto da Belusconi, Monti e Letta. Un affondo necessario per le esigenze dell’Azienda/Italia nell’ambito dell’accresciuta competizione globale e dell’attuale corso della crisi.
Il Jobs Act, il decreto Sblocca/Italia, le nuove norme per la scuola, il rinnovato interventismo bellico e la Legge di Stabilità sono i tasselli di un unico disegno che ha il dichiarato obiettivo di determinare una generale svalorizzazione del lavoro (quello “garantito” e quello precario) ed un drastico ridimensionamento dei diritti con l’emarginazione/dissolvimento di ogni forma di tutela collettiva ed organizzata dei diritti.
Di questi contenuti, profondamente antisociali, si è discusso, con spocchia ed arroganza, alla Leopolda nei giorni scorsi con annesse le dichiarazioni, tutt'altro che spontanee e poco avvedute, del finanziere Davide Serra e dell’aspirante velina Pina Picierno le quali, alla bisogna, servono, attraverso queste che appaino come dichiarazioni improvvide, alla preparazione del clima culturale e politico per ulteriori offensive antioperaie ed antipopolari.
Da questo nuovo corso dell’esecutivo – con un occhio sempre rivolto verso i diktat dell’Unione Europea e della rampante borghesia continentale – derivano l’insieme delle modalità con cui si affrontano le contraddizioni sociali: dal continuo ricorso al voto di fiducia in Parlamento, alla derisione della forma/sindacato fino alle manganellate contro gli operai di Terni nel centro di Roma.
Il governo Renzi non può – pena il suo fallimento – derogare dal programma di macelleria sociale e di esecutore dei desiderata di Marchionne, della Confindustria e dell’Unione Europea.
La repressione, le inchieste della Magistratura ed il complesso delle forme di criminalizzazione del conflitto sociale sono un aspetto fondamentale dell’azione di Renzi e della filosofia politica che sottende al Partito Democratico.
Con questa nuova condizione del conflitto e dello scontro di classe occorre cominciare a fare i conti, nei posti di lavoro, nei territori e nell’insieme della società.
Alla naturale e scontata solidarietà con i lavoratori di Terni e con l’insieme dei soggetti sociali colpiti dalla terapia del manganello (dai No Tav ai facchini della logistica, dagli studenti di Napoli a quelli di Torino, dagli occupanti di case a quelli degli spazi sociali) va affiancata la necessità politica ed organizzativa di adeguarci, complessivamente, alla nuova qualità dell’offensiva padronale e governativa.
Accanto alla indispensabile autonomia ed indipendenza dalle contabilità capitalistiche e da ogni forma di subalternità al Partito Democratico va implementata, con più determinazione, una linea di condotta politica ed organizzativa che punti alla stabilizzazione dell’organizzazione sindacale e sociale del conflitto ed alla ricostruzione di una Rappresentanza Politica degli interessi dei settori popolari della società oltre la catastrofe ed il fallimento della sinistra politica e dei sindacati complici e collusi.
Rete dei Comunisti
Fonte
“Il Giovane Favoloso”: sulle orme di un Leopardi positivo
Un film biografico non è mai affar
semplice: dal Wittgenstein di Jarman ai polpettoni di Rossellini sui
vari filosofi (su Socrate, su Cartesio, ecc…) passando per “Beautiful
mind” su John Nash, non abbiamo ricordo di pellicole, come dire,
imprescindibili. Può piacere, al limite, l’“Amadeus” di Milos Forman,
ma solo a chi piacciono le interpretazioni ermeneutiche (o
“iperinterpretate” per dirla con il Sablich) di Von Karajan delle ultime
Sinfonie di Mozart.
Martone ci prova con Leopardi.
C’è chi si è entusiasmato, come Saviano, e chi si è indignato . Certo, il regista, presentando il “suo” Leopardi come il “Kurt Cobain dell’Ottocento” pensando forse che il grunge vada ancora di moda e sperando di strizzare l’occhio ai “gggiovani”, ostenta tutta la pochezza teorica che sta dietro alla sua interpretazione. Martone ignora, probabilmente, la differenza tra morire suicida a 27 anni sparandosi un colpo alla testa, e morire di morte naturale.
C’è chi si è entusiasmato, come Saviano, e chi si è indignato . Certo, il regista, presentando il “suo” Leopardi come il “Kurt Cobain dell’Ottocento” pensando forse che il grunge vada ancora di moda e sperando di strizzare l’occhio ai “gggiovani”, ostenta tutta la pochezza teorica che sta dietro alla sua interpretazione. Martone ignora, probabilmente, la differenza tra morire suicida a 27 anni sparandosi un colpo alla testa, e morire di morte naturale.
Martone cerca di scartarsi dagli
stupidi cliché della critica mainstream, cerca di sottrarre il grande
poeta dal ritratto di un nichilista qualsiasi, “preso male”. In alcuni
momenti ci riesce, ci restituisce un Leopardi che considera “ottimismo e
pessimismo [...] parole vuote”, ma non si spinge oltre. Cerca di
mostrarci un Leopardi entusiasta, e di questo gli va reso merito: la
scena dell’incontro con l’amico Giordani è davvero toccante. Germano e
Martone tentano di far sorridere il loro Giacomo, ma solo quando gli
mettono accanto una bottiglia di vino, in una modesta osteria
napoletana.
Dov’è il Leopardi che il 23 settembre 1828 nel suo Zibaldone scriveva:
“Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.” ? Non pervenuto.
“Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.” ? Non pervenuto.
Se non è vero che il poeta
ritratto da Martone è solo un “paguro piagnucoloso” è altrettanto vero
che è comunque un Leopardi incompleto del quale vengono al massimo
tratteggiati solo alcuni dei suoi aspetti: tra le scene migliori, anzi
forse la scena più riuscita del film, è da segnalare il dialogo con la
gigantesca statua che rappresenta la natura. Lì troviamo, se non il
Leopardi che Saviano azzarda a chiamare “rivoluzionario”, un uomo
rabbioso che affronta le avversità della vita con orgoglio e
determinazione.
L’impressione è quella di un buon tentativo, apprezzabile, ma non completamente riuscito.
A monte, a nostro avviso c’è una mancata
comprensione del messaggio leopardiano da parte degli addetti ai
lavori, che si riflette anche su Martone il quale si adagia
sull’interpretazione standard aggiungendo solo qualcosina, nella giusta
direzione, qua e là: la nostra interpretazione si concentra sul
testamento leopardiano, la “Ginestra”.
La lettura che ne diamo è
vicina al Leopardi “progressivo” (e progressista) di Binni, Luporini e
Timpanaro (Binni, “La nuova poetica leopardiana”, 1947, e “La protesta
di Leopardi”, 1973; Luporini, “Leopardi progressivo”; Timpanaro,
“Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano”, 1965) e si lascia
suggestionare dal Leopardi accostato al pensiero socialista di
Salvatorelli e Carpi (Salvatorelli, “Il pensiero politico italiano dal
1700 al 1870”, 1935; Carpi, “Il poeta e la politica”, 1978).
Sintetizzando: la nostra interpretazione tiene sicuramente in
considerazione quella critica cosiddetta “marxista” che individua un
Leopardi consapevole dei risvolti negativi della società del suo tempo,
che vuole proporre nella Ginestra il rimedio ad essi auspicando
un’umanità rinnovata, fondata sul sentimento della solidarietà
universale.
Nella Ginestra, però, c’è molto di più.
“La ricerca di un’ ‘altra
radice’, di un altro fondamento, è la condizione affinché l’umanità
liberata dall’ ‘ottusa fede’ possa fondare la sua storia su basi
stabili. La ‘social catena’, questo nuovo legame sociale, trova quindi
il suo fondamento in una opposizione, in una ‘guerra’ [...] contro l’
‘empia natura’.” (Pineri, “Leopardi et le retrait de la voix”, p. 242).
Pineri però continua la sua critica non riuscendosi a spiegare come
possa Leopardi pretendere di fondare la comunità umana sulla base di un
principio negativo (la natura concepita come negatività). La nostra
interpretazione, grata ai nomi fatti fino ad esso, prosegue invece verso
altre conclusioni.
Nel rapporto
dialettico tra uomo e natura viene tracciata quella che è la missione
storica della specie umana, e quale potrà essere lo strumento per
attuare questo compito: la formazione della social catena, abolendo la
divisione in classi, permetterebbe all’umanità di lottare unita per la
propria sopravvivenza fronteggiando la natura, e integrandosi
dialetticamente in essa formando quindi un’unità degli opposti
attraverso un ciclo di ricambio organico.
Prima che Clausius enunciasse chiaramente il secondo principio della termodinamica,
“l’entropia dell’universo tende a un massimo”, principio che sanciva la
lotta tra la natura anarchica e entropica e la missione della specie
umana, necessariamente neg-entropica, pena l’estinzione; prima che Boltzmann desse una formulazione statistica del lavoro di Clausius, sviluppando una nuova concezione del divenire temporale e della sua irreversibilità; prima che Marx considerasse il vero motore della storia la lotta tra uomo e natura,
contrapponendolo al fittizio motore della storia, cioè la lotta
dell’uomo contro l’uomo, prima che Marx ed Engels organizzassero il
primo tentativo di una Internazionale (“social catena”) dei Lavoratori, prima di queste sistematizzazioni, Leopardi
aveva già colto tutto questo con la sua arte. Partendo da quello
sperduto angolo di mondo che era Recanati il genio sublima nell’arte
tutto ciò che non trova altrove, e si erge fino ad avere una visione
biologica, politica, morale, rivoluzionaria, internazionalista, non
solo del percorso dell’umanità ma del divenire del pianeta. Egli
vede, decenni prima, la possibilità (mai realizzata ad oggi) di
sviluppare una concezione statistica unitaria dello sviluppo tendenziale
tanto del divenire della natura che della storicità dell’uomo.
Prima che la razionalità della fisica, dell’economia politica, della filosofia della storia, e del pensiero politico e morale trovassero le loro equazioni, le loro formule, i loro concetti, la sensibilità e l’istintualità ragionata del cervello sociale, attraverso il pensiero-poesia leopardiano, avevano già sentito tutto. L’arte riesce ad intuire decenni prima quello che sarebbe stato, poi, lo sviluppo del movimento reale.
Prima che la razionalità della fisica, dell’economia politica, della filosofia della storia, e del pensiero politico e morale trovassero le loro equazioni, le loro formule, i loro concetti, la sensibilità e l’istintualità ragionata del cervello sociale, attraverso il pensiero-poesia leopardiano, avevano già sentito tutto. L’arte riesce ad intuire decenni prima quello che sarebbe stato, poi, lo sviluppo del movimento reale.
Lontano dal senso comune,
critico ironico delle meschine speranze borghesi del suo tempo, geniale
pensatore, poeta dell’infinito, amante generosissimo della specie umana,
eroico esempio di sublime moralità... questo è il nostro Giacomo Leopardi.
Ancora su Landini e ricomposizione di classe
Il dibattito suscitato intorno alla
nostra riflessione sull’eventuale nuovo soggetto politico a sinistra del
PD e guidato presumibilmente da Landini non va perso per strada. E’
importante chiarire alcuni passaggi del nostro articolo, e ancor più
importante portare avanti una riflessione che per forza di cose non può
esaurirsi in poche battute o pochi articoli. Per questo occorre
precisare che: non stiamo appoggiando, né idealmente né tantomeno
concretamente, alcun soggetto politico riformista o socialdemocratico;
non abbiamo alcuna fiducia né in Landini né in quella dirigenza
politico-sindacale che probabilmente comporrà il nuovo soggetto
politico; la stessa fase politico-economica che stiamo attraversando
rende impossibile la nascita di un sincero riformismo progressista,
motivo per cui tale eventuale soggetto, anche laddove fosse animato
dalle migliori intenzioni, si scontrerebbe con l’impossibilità di
qualsiasi “riformismo operaio”. Queste considerazioni, ovvie per quanto
ci riguarda, evidentemente vanno rimarcate visti i dubbi emersi dal
dibattito seguito all’articolo. Detto
questo, è necessario anche portare avanti un ragionamento che non può
fermarsi alla mera opposizione al Landini di turno perché riformista,
anticomunista e via insultando, perché non è certo oggi la fase in cui
tali battaglie ideologiche riuscirebbero ad essere comprese al di fuori
di chi le porta avanti, a costruire cioè opinione pubblica.
Come dicevamo, manca oggi una
rappresentanza politica del mondo del lavoro. Nel corso di due secoli,
nell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, questa – almeno in Europa
occidentale – è stata garantita dalle forze socialdemocratiche. Anche i
partiti comunisti, in primo luogo quello italiano e francese, diverranno
partiti di massa e inizieranno a rappresentare concretamente la classe
operaia solo quando si trasformeranno in partiti di fatto
riformisti. E’ nel dopoguerra che queste forze prendono il monopolio dei
destini politici della classe operaia, e non lo perderanno neanche nei
momenti più caldi della “concorrenza” fra organizzazioni a sinistra dei
partiti comunisti ufficiali. Detto questo, quindi, sperare che oggi, di
fronte alla ritirata storica delle forze della sinistra di classe, di
fronte all’egemonia incontrastata della cultura politica
liberal-liberista, e soprattutto di fronte ad un mondo del lavoro
atomizzato, individualizzato, sfilacciato fino all’estremo, sia questa sinistra
antagonista ad assumerne la guida, a rappresentarne le ragioni
politiche, ci sembra effettivamente poco credibile. In primo luogo,
perché non è stato così neanche nei momenti in cui questa sinistra aveva
la forza e gli argomenti per strappare “quote d’egemonia” proprio al
PCI. In secondo, perché ci sembra manchi persino la volontà.
Se la storia potesse insegnarci qualcosa
ci direbbe che, almeno in Europa, il mondo del lavoro non è stato mai
organizzato dalle sinistre radicali. Allo stesso tempo è necessario, per
le sorti di tutta la sinistra, un lavoro di ricomposizione politica
della classe, pena la perdita di rilevanza delle istanze della sinistra
stessa, sia riformista che radicale (come infatti in questi anni).
Questa contraddizione ci mette davanti ad un problema a cui non possiamo
sottrarci: possiamo continuare a voltarci dall’altra parte ma, come
diceva un nostro commentatore, “in sostanza non è possibile costruire
una prospettiva rivoluzionaria in un paese privo di qualunque forma di
rappresentanza politica organica del lavoro salariato”. Chi la da questa
rappresentanza oggi? La scomparsa del PCI e del resto delle forze
riformiste data ormai a venticinque anni fa. Questi venticinque anni non
hanno visto la sinistra radicale colmare alcun vuoto politico, ma
soprattutto non hanno colmato la voragine sociale che la scomparsa di
quel partito si è portata dietro. Resiste l’organizzazione sindacale, ma
è evidentemente in declino e, rotto il rapporto politico con il partito
di riferimento, senza alcuna prospettiva se non quella di tappare i
buchi dell’ondata liberista che inevitabilmente, dati gli attuali
rapporti di forza politici, travolgerà quelle residue garanzie strappate
con la lotta quarant’anni prima.
Questa è la premessa del nostro
ragionamento, e da questa partivamo per affermare sostanzialmente una
cosa: c’è la necessità storica di riattivare un percorso di
ricomposizione politica della classe, perché senza di questo
continueremmo a navigare nell’irrilevanza, ai margini della politica
ufficiale, trasformandoci più in caso di studio che in problema
politico. E questa ricomposizione non avverrà con la lotta, o quantomeno
non sarà principalmente attraverso l’orizzonte di un conflitto
permanente che si riusciranno a rimettere insieme i cocci di un tessuto
sociale di classe. L’unità di classe garantita dalle forze riformiste si
basava su molto più prosaiche soluzioni quotidiane ai problemi
quotidiani, sull’aggregazione attorno ad una comunità che partiva dal
luogo di lavoro per espandersi ad ogni momento della vita del
lavoratore. Quell’insieme di strutture sociali basate sulla
cooperazione, il mutuo soccorso, il dopo-lavoro, quella sorta di “stato
sociale” parallelo creato dal PCI che al tempo stesso anestetizzava
determinati istinti rivoluzionari ma che costruiva una visione
collettiva del proprio essere sociale, un idem sentire, una
comunità sociale con determinati punti di riferimento politici. Questa
costruzione garantiva un dissodamento del terreno su cui intervenivano
anche le sinistre radicali e rivoluzionarie. Per quanto anestetizzati,
pacificati e sostanzialmente guadagnati al riformismo operaio, i
lavoratori organizzati dal PCI-CGIL di sicuro facevano parte di una
entità collettiva con alla base dei valori democratici e inclusivi su
cui era molto più facile lavorare politicamente. Per quanto un
lavoratore del PCI fosse culturalmente monolitico, lavorare su una
classe che non si percepisce più tale, sedotta dal leghismo o dal
nazionalismo piccolo-borghese, individualizzata all’eccesso, con
venature para-fasciste in alcuni casi e qualunquiste in altri,
sostanzialmente disinteressata al destino altrui che non sia la mera
difesa del proprio posto di lavoro a scapito del migrante di turno,
impedisce alle forze antagoniste di produrre un discorso politico che
possa essere recepito da qualsivoglia soggetto sociale.
Al tempo stesso, non c’è dubbio che
questo tipo di soggettività sociale sia oggi in profonda crisi anche per
ragioni oggettive, di ristrutturazione del mondo del lavoro, e che il
cuore della produzione capitalista si basi oggi su una forma di lavoro
precaria in costante ascesa. Ma questo non può nascondere il fatto che
quella composizione descritta, novecentesca, non solo sia
ancora presente, ma sia una presenza di massa che non può essere
ignorata o banalizzata. E’ giusto ritenere il lavoro precario, senza
diritti, saltuario, migrante, centrale nel processo produttivo,
ma è altrettanto opportuno non sottovalutare il resto del panorama
sociale, che ancora oggi è determinante. Il parallelo tra il Partito
Bolscevico operaio e la composizione contadina russa è fin troppo
evidente. Senza i contadini, senza un discorso credibile e degli
obiettivi politici realizzabili e convincenti per i contadini russi,
nessuna Rivoluzione sarebbe potuta prodursi in Russia sotto la guida del
partito operaio per definizione.
E’ per questa ragione che oggi sarebbe
necessario un ritorno alla cooperazione sociale nella classe, un lavoro
che possa ricomporre i fili sociali di un discorso che, purtroppo, non
siamo noi in grado di ricomporre. Non sarà il partito di Landini a
farlo, ma questo non elimina il problema, e cioè che sarebbe opportuna
la nascita di una forza politica di classe, espressione del mondo del
lavoro, capace di riattivare un discorso politico del lavoro, anche da
un punto di vista riformista, ma che abbia la forza di farsi egemone su
quella determinata composizione. Non risolverebbe i nostri problemi
politici come sinistra antagonista, ma determinerebbe quelle condizioni
di lavoro tali da poter riattivare un lavoro politico nella classe e una
battaglia ideologica con le forze riformiste, oggi inesistenti. Il
fallimento delle decine di costituenti socialdemocratiche, dei tentativi
di rimettere in piedi un discorso coerentemente riformista, non
descrivono solo i limiti soggettivi di chi compie questi tentativi, ma
ci dicono anche del limite oggettivo, storico, di riproporre questo
nuovo partito di massa della classe operaia. La soluzione non è quella
di recuperare vecchi modelli, oggi inattuabili, quanto quello di uscire
da questo cul de sac che impedisce sia la pratica riformista
che quella rivoluzionaria. Ma il problema dell’organizzazione politica e
sociale della massa di lavoratori dell’industria, della pubblica
amministrazione, delle attività intellettuali o d’ufficio, delle grandi
aziende: questo è uno dei problemi principali oggi, senza risolvere il
quale continueremo a navigare lontani dalla Politica, quella con la P
maiuscola e che muove i destini delle popolazioni, riducendoci purtroppo
al ruolo di organizzatori della fisiologica rabbia sociale che esprime
ogni tipo di società.
La CIA e i criminali nazisti
di Michele Paris
Per decenni dopo la fine di una Seconda Guerra Mondiale combattuta ufficialmente per fermare la minaccia del nazi-fascismo e in difesa della democrazia, gli Stati Uniti hanno assoldato migliaia di ex membri del regime nazista da impiegare come spie, informatori o ricercatori, nonostante il passato da criminali di molti di loro fosse ben noto alle agenzie di intelligence americane.
La notizia è tutt’altro che nuova ma un libro pubblicato questa settimana negli Stati Uniti (The Nazis next door: how America became a safe haven for Hitler’s men) e scritto dal reporter del New York Times, Eric Lichtblau, racconta alcuni particolari nel dettaglio e rivela una collaborazione tra la CIA, così come altre agenzie governative, e gli ex nazisti decisamente più profonda rispetto a quanto era noto finora.
I piani più “aggressivi” per reclutare ex nazisti vengono attribuiti soprattutto agli sforzi messi in atto negli anni Cinquanta dall’FBI sotto la guida di J. Edgar Hoover e dalla CIA di Allen Dulles. Il desiderio di avere a disposizione individui ben addestrati in vari ambiti - da quello militare a quello scientifico o dell’intelligence - per essere utilizzati in funzione anti-sovietica aveva prevalso su qualsiasi altro scrupolo, tanto che Hoover, ad esempio, era solito respingere le accuse nei loro confronti come propaganda di Mosca.
Molti degli ex nazisti a cui fu garantito l’accesso negli Stati Uniti erano noti criminali di guerra e, ciononostante, i vertici della sicurezza nazionale americana non solo li avrebbero ingaggiati ma sarebbero giunti ad adoperarsi per ostacolare varie indagini nei loro confronti.
Il libro di Lichtblau si basa sul lavoro di un gruppo di ricerca negli Stati Uniti che si occupa di identificare e classificare documenti relativi ai crimini nazisti e del Giappone imperiale. Alcuni documenti analizzati dall’autore contribuiscono a fare maggiore luce anche sull’impegno del governo USA nel creare una nuova agenzia di intelligence nella Germania dell’Ovest (BND) dopo la fine del conflitto.
Già una ricerca di alcuni storici del 2004 aveva mostrato come il numero uno dei servizi segreti nazisti sul Fronte Orientale, generale Reinhard Gehlen, fosse stato scelto dai militari americani per mettere in piedi il primo nucleo dell’intelligence tedesco-occidentale. Gehlen scelse personalmente un centinaio di ex nazisti che avevano avuto incarichi di spicco nell’esercito o nei servizi segreti del Reich.
Il gruppo di spie finite successivamente sul libro paga della CIA includeva allo stesso modo ex nazisti che avevano operato ai vertici del regime di Adolf Hitler, come l’ex ufficiale delle SS, Otto von Bolschwing. Quest’ultimo era molto vicino ad Adolf Eichmann, del quale condivideva la teoria della “Soluzione Finale”, essendo stato autore di scritti programmatici sullo sterminio degli ebrei.
Dopo la guerra, scrive Lichtblau, Bolschwing era stato assoldato dalla CIA come spia in Europa e nel 1954 venne trasferito a New York assieme alla famiglia. L’agenzia di intelligence americana scriveva a proposito dell’ex SS che la residenza negli USA gli era stata offerta come “premio per i suoi fedeli servizi nel dopoguerra e alla luce dell’irrilevanza delle sue attività nel partito [Nazista]”.
La protezione della CIA non doveva tuttavia lasciare troppo tranquillo un uomo con il passato di Bolschwing, visto che l’ex nazista, dopo la cattura di Eichmann da parte degli israeliani in Argentina nel 1960, manifestò ai suoi nuovi padroni americani la preoccupazione di venire catturato allo stesso modo.
Anche la CIA stessa era in apprensione, poiché l’eventuale arresto di Bolschwing avrebbe potuto esporre il suo passato da “collaboratore” di Eichmann, risultando “imbarazzante” per il governo USA. Due agenti della CIA incontrarono però Bolschwing nel 1961 e gli assicurarono che l’agenzia non avrebbe rivelato i suoi legami con Eichmann. Bolschwing sarebbe così vissuto indisturbato per altri vent’anni prima di essere scovato e messo sotto accusa. Nel 1981 rinunciò alla cittadinanza americana e morì alcuni mesi più tardi.
Un altro caso raccontato dal libro appena pubblicato è quello del collaboratore dei nazisti in Lituania, Aleksandras Lileikis, collegato dagli stessi documenti della CIA al massacro di 60 mila ebrei a Vilnius. Nonostante i sospetti sulle sue responsabilità e il fatto che fosse “sotto il controllo della Gestapo durante la guerra”, Lileikis venne assunto dalla CIA nel 1952 per condurre attività di spionaggio in Germania dell’Est.
Quattro anni più tardi sarebbe stato anch’egli accolto negli USA, dove ha vissuto in pace per quasi quarant’anni prima di venire scoperto nel 1994. Il Dipartimento di Giustizia USA si sarebbe dovuto però scontrare con l’ostruzionismo della CIA, da dove si invitava a insabbiare il caso per evitare la diffusione di informazioni imbarazzanti per l’agenzia di intelligence.
Lileikis fu alla fine deportato in Lituania ma la CIA si sarebbe distinta nuovamente per i suoi sforzi nel nascondere il passato criminale del proprio uomo. In una comunicazione classificata trasmessa alla commissione della Camera dei Rappresentanti per i Servizi Segreti, la CIA aveva infatti ammesso l’utilizzo di Lileikis come spia, negando però di essere a conoscenza delle sue “attività in tempo di guerra”.
Nel 1980 fu invece l’FBI a respingere le richieste del Dipartimento di Giustizia di consegnare documenti e informazioni relativi a 16 sospetti ex nazisti residenti negli Stati Uniti. L’atteggiamento dell’FBI era dovuto al fatto che i 16 individui erano stati tutti suoi informatori, resisi utili, tra l’altro, nel fornire notizie relative a “simpatizzanti comunisti”.
Tra le personalità legate al nazismo che collaborarono con la CIA ci sono stati anche svariati scienziati che il governo USA sapeva essere coinvolti in esperimenti pseudo-medici su esseri umani. Gli scienziati nazisti furono reclutati a partire dal 1945, quando il precursore della CIA - l’Office of Strategic Services (OSS) - fu autorizzato dall’amministrazione Truman a mettere in atto il cosiddetto progetto “Paperclip”.
In base a questo piano giunsero negli USA almeno 1.500 scienziati tedeschi legati al regime hitleriano. A costoro sarebbe stata garantita la possibilità di continuare a svolgere l’attività scientifica nella loro nuova patria dopo avere firmato una dichiarazione nella quale erano tenuti a spiegare le ragioni dell’adesione al Partito Nazista.
Tra gli scienziati ingaggiati dalla CIA figurava il dottor Hubertus Strughold, fortemente sospettato di avere condotto raccapriccianti esperimenti anche su bambini. Strughold era stato messo sotto indagine nell’ambito del processo di Norimberga ma le accuse furono lasciate cadere nel 1947. Di lì a poco, il medico nazista sarebbe stato trasferito in Texas, dove gli fu garantito un impiego per l’aeronautica militare americana, mentre alcune successive inchieste avviate nei suoi confronti dal sistema giudiziario degli Stati Uniti non avrebbero avuto alcun successo.
Complessivamente, i documenti citati dal giornalista del New York Times indicano almeno un migliaio di ex nazisti al servizio della CIA, dell’FBI e di altre agenzie USA dopo la Seconda Guerra Mondiale. Secondo gli stessi ricercatori, tuttavia, il numero reale deve essere molto superiore, dal momento che parecchi documenti restano tuttora classificati.
Il recentissimo studio, assieme a molti altri pubblicati in passato, contribuisce dunque a rivelare l’atteggiamento indiscutibilmente benevolo nei confronti del nazismo da parte delle sezioni più potenti e influenti della classe dirigente americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.
A motivare la collaborazione con individui macchiatisi di crimini atroci, e che incarnavano un’ideologia e un sistema di potere dittatoriale che gli Stati Uniti e i loro alleati sostenevano dovessero essere annientati con la forza, era in sostanza il timore dell’Unione Sovietica e dei fermenti rivoluzionari seguiti al conflitto.
L’impiego senza scrupoli di criminali nazisti per il raggiungimento degli obiettivi dell’imperialismo americano rende infine evidente come i valori della “democrazia” e della lotta al nazi-fascismo - con una eco inquietante che ricorda l’attuale “guerra al terrore” - fossero per il governo di Washington poco più di espedienti retorici per mobilitare l’opinione pubblica e intervenire in una guerra da combattere in difesa di interessi decisamente meno nobili.
Fonte
Ormai le dimostrazioni che il capitalismo va a braccetto con le ideologie e gli autoritarismi più biechi si sprecano.
Per decenni dopo la fine di una Seconda Guerra Mondiale combattuta ufficialmente per fermare la minaccia del nazi-fascismo e in difesa della democrazia, gli Stati Uniti hanno assoldato migliaia di ex membri del regime nazista da impiegare come spie, informatori o ricercatori, nonostante il passato da criminali di molti di loro fosse ben noto alle agenzie di intelligence americane.
La notizia è tutt’altro che nuova ma un libro pubblicato questa settimana negli Stati Uniti (The Nazis next door: how America became a safe haven for Hitler’s men) e scritto dal reporter del New York Times, Eric Lichtblau, racconta alcuni particolari nel dettaglio e rivela una collaborazione tra la CIA, così come altre agenzie governative, e gli ex nazisti decisamente più profonda rispetto a quanto era noto finora.
I piani più “aggressivi” per reclutare ex nazisti vengono attribuiti soprattutto agli sforzi messi in atto negli anni Cinquanta dall’FBI sotto la guida di J. Edgar Hoover e dalla CIA di Allen Dulles. Il desiderio di avere a disposizione individui ben addestrati in vari ambiti - da quello militare a quello scientifico o dell’intelligence - per essere utilizzati in funzione anti-sovietica aveva prevalso su qualsiasi altro scrupolo, tanto che Hoover, ad esempio, era solito respingere le accuse nei loro confronti come propaganda di Mosca.
Molti degli ex nazisti a cui fu garantito l’accesso negli Stati Uniti erano noti criminali di guerra e, ciononostante, i vertici della sicurezza nazionale americana non solo li avrebbero ingaggiati ma sarebbero giunti ad adoperarsi per ostacolare varie indagini nei loro confronti.
Il libro di Lichtblau si basa sul lavoro di un gruppo di ricerca negli Stati Uniti che si occupa di identificare e classificare documenti relativi ai crimini nazisti e del Giappone imperiale. Alcuni documenti analizzati dall’autore contribuiscono a fare maggiore luce anche sull’impegno del governo USA nel creare una nuova agenzia di intelligence nella Germania dell’Ovest (BND) dopo la fine del conflitto.
Già una ricerca di alcuni storici del 2004 aveva mostrato come il numero uno dei servizi segreti nazisti sul Fronte Orientale, generale Reinhard Gehlen, fosse stato scelto dai militari americani per mettere in piedi il primo nucleo dell’intelligence tedesco-occidentale. Gehlen scelse personalmente un centinaio di ex nazisti che avevano avuto incarichi di spicco nell’esercito o nei servizi segreti del Reich.
Il gruppo di spie finite successivamente sul libro paga della CIA includeva allo stesso modo ex nazisti che avevano operato ai vertici del regime di Adolf Hitler, come l’ex ufficiale delle SS, Otto von Bolschwing. Quest’ultimo era molto vicino ad Adolf Eichmann, del quale condivideva la teoria della “Soluzione Finale”, essendo stato autore di scritti programmatici sullo sterminio degli ebrei.
Dopo la guerra, scrive Lichtblau, Bolschwing era stato assoldato dalla CIA come spia in Europa e nel 1954 venne trasferito a New York assieme alla famiglia. L’agenzia di intelligence americana scriveva a proposito dell’ex SS che la residenza negli USA gli era stata offerta come “premio per i suoi fedeli servizi nel dopoguerra e alla luce dell’irrilevanza delle sue attività nel partito [Nazista]”.
La protezione della CIA non doveva tuttavia lasciare troppo tranquillo un uomo con il passato di Bolschwing, visto che l’ex nazista, dopo la cattura di Eichmann da parte degli israeliani in Argentina nel 1960, manifestò ai suoi nuovi padroni americani la preoccupazione di venire catturato allo stesso modo.
Anche la CIA stessa era in apprensione, poiché l’eventuale arresto di Bolschwing avrebbe potuto esporre il suo passato da “collaboratore” di Eichmann, risultando “imbarazzante” per il governo USA. Due agenti della CIA incontrarono però Bolschwing nel 1961 e gli assicurarono che l’agenzia non avrebbe rivelato i suoi legami con Eichmann. Bolschwing sarebbe così vissuto indisturbato per altri vent’anni prima di essere scovato e messo sotto accusa. Nel 1981 rinunciò alla cittadinanza americana e morì alcuni mesi più tardi.
Un altro caso raccontato dal libro appena pubblicato è quello del collaboratore dei nazisti in Lituania, Aleksandras Lileikis, collegato dagli stessi documenti della CIA al massacro di 60 mila ebrei a Vilnius. Nonostante i sospetti sulle sue responsabilità e il fatto che fosse “sotto il controllo della Gestapo durante la guerra”, Lileikis venne assunto dalla CIA nel 1952 per condurre attività di spionaggio in Germania dell’Est.
Quattro anni più tardi sarebbe stato anch’egli accolto negli USA, dove ha vissuto in pace per quasi quarant’anni prima di venire scoperto nel 1994. Il Dipartimento di Giustizia USA si sarebbe dovuto però scontrare con l’ostruzionismo della CIA, da dove si invitava a insabbiare il caso per evitare la diffusione di informazioni imbarazzanti per l’agenzia di intelligence.
Lileikis fu alla fine deportato in Lituania ma la CIA si sarebbe distinta nuovamente per i suoi sforzi nel nascondere il passato criminale del proprio uomo. In una comunicazione classificata trasmessa alla commissione della Camera dei Rappresentanti per i Servizi Segreti, la CIA aveva infatti ammesso l’utilizzo di Lileikis come spia, negando però di essere a conoscenza delle sue “attività in tempo di guerra”.
Nel 1980 fu invece l’FBI a respingere le richieste del Dipartimento di Giustizia di consegnare documenti e informazioni relativi a 16 sospetti ex nazisti residenti negli Stati Uniti. L’atteggiamento dell’FBI era dovuto al fatto che i 16 individui erano stati tutti suoi informatori, resisi utili, tra l’altro, nel fornire notizie relative a “simpatizzanti comunisti”.
Tra le personalità legate al nazismo che collaborarono con la CIA ci sono stati anche svariati scienziati che il governo USA sapeva essere coinvolti in esperimenti pseudo-medici su esseri umani. Gli scienziati nazisti furono reclutati a partire dal 1945, quando il precursore della CIA - l’Office of Strategic Services (OSS) - fu autorizzato dall’amministrazione Truman a mettere in atto il cosiddetto progetto “Paperclip”.
In base a questo piano giunsero negli USA almeno 1.500 scienziati tedeschi legati al regime hitleriano. A costoro sarebbe stata garantita la possibilità di continuare a svolgere l’attività scientifica nella loro nuova patria dopo avere firmato una dichiarazione nella quale erano tenuti a spiegare le ragioni dell’adesione al Partito Nazista.
Tra gli scienziati ingaggiati dalla CIA figurava il dottor Hubertus Strughold, fortemente sospettato di avere condotto raccapriccianti esperimenti anche su bambini. Strughold era stato messo sotto indagine nell’ambito del processo di Norimberga ma le accuse furono lasciate cadere nel 1947. Di lì a poco, il medico nazista sarebbe stato trasferito in Texas, dove gli fu garantito un impiego per l’aeronautica militare americana, mentre alcune successive inchieste avviate nei suoi confronti dal sistema giudiziario degli Stati Uniti non avrebbero avuto alcun successo.
Complessivamente, i documenti citati dal giornalista del New York Times indicano almeno un migliaio di ex nazisti al servizio della CIA, dell’FBI e di altre agenzie USA dopo la Seconda Guerra Mondiale. Secondo gli stessi ricercatori, tuttavia, il numero reale deve essere molto superiore, dal momento che parecchi documenti restano tuttora classificati.
Il recentissimo studio, assieme a molti altri pubblicati in passato, contribuisce dunque a rivelare l’atteggiamento indiscutibilmente benevolo nei confronti del nazismo da parte delle sezioni più potenti e influenti della classe dirigente americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.
A motivare la collaborazione con individui macchiatisi di crimini atroci, e che incarnavano un’ideologia e un sistema di potere dittatoriale che gli Stati Uniti e i loro alleati sostenevano dovessero essere annientati con la forza, era in sostanza il timore dell’Unione Sovietica e dei fermenti rivoluzionari seguiti al conflitto.
L’impiego senza scrupoli di criminali nazisti per il raggiungimento degli obiettivi dell’imperialismo americano rende infine evidente come i valori della “democrazia” e della lotta al nazi-fascismo - con una eco inquietante che ricorda l’attuale “guerra al terrore” - fossero per il governo di Washington poco più di espedienti retorici per mobilitare l’opinione pubblica e intervenire in una guerra da combattere in difesa di interessi decisamente meno nobili.
Fonte
Ormai le dimostrazioni che il capitalismo va a braccetto con le ideologie e gli autoritarismi più biechi si sprecano.
Isis-Resto del mondo ognuno la sua guerra
Sarà forse ricordata come la guerra più confusa della storia moderna: troppi competitori e obiettivi contrapposti tra stessi alleati, a rendere la contesa incerta ed infinita nei tempi e negli ‘effetti collaterali’. Gli Usa scommettono sui curdi ma Turchia e sauditi sembra abbiano altro in mente.
La riflessione, interessante, è di LookOut. ‘Né buoni né cattivi come unica certezza che abbiamo sulla guerra in Siria e Iraq’. Detta altrimenti, non ci sono solo buoni tra i ‘buoni’ per schieramento. Non sono evidentemente “buoni” i miliziani sunniti dello Stato Islamico, ma non lo sono neanche gli uomini al comando del presidente siriano Assad, mentre tra i buoni ‘ufficiali’ esistono problemi anche dove non te li aspetti, vedi le divisioni interne nascoste in casa curda, senza parlare di Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti, ciascuno dei quali ha parte di responsabilità per lo scoppio della guerra.
Riepilogo delle porcate precedenti: Arabia Saudita e Qatar veri sponsor del sunnismo estremo contro lo sciismo in Siria e in Iraq. Riad agisce con la Turchia e i due servizi segreti lavorano alla defenestrazione di Assad foraggiando il gruppo salafita Ahrar Al Sham. Il Qatar traffica assieme con Ahrar Al Sham e con lo Stato Islamico. Poi la Turchia presidenziale di Erdogan, emblema di quella “zona grigia”, un’area virtuale che si estende sopra gran parte del Medio Oriente a oscurare le vere ragioni del grande conflitto in atto in questa regione e le motivazioni di ogni singolo Paese.
L’Iraq resta il principale obiettivo dello Stato Islamico, che sta praticando una politica di terrore e di azioni diversive con autobombe e attacchi lampo contro le forze regolari per infliggere colpi non tanto sul campo ma per far saltare la catena di comando delle operazioni ancora ‘consigliata’ Usa. Progetto di un futuro assalto alla capitale irachena? Baghdad bersaglio al momento impossibile per gli uomini del Califfato. Assedio di proporzioni impossibili, con fronti ancora aperti nella provincia di Anbar e forze sciite che tentano di riprendersi Tikrit, sul Tigri, a metà strada tra Mosul e Baghdad.
In Iraq si stanno organizzando sempre meglio anche gli iraniani. Mohammad Ali Jafari, che guida i Pasdaran, l’élite delle forze armate iraniane, si è incontrato il 21 ottobre a Teheran con il premier iracheno Al Abadi. Ne è uscito un accordo per schierare in Iraq 500 uomini di Al Quds, le Guardie Rivoluzionarie, che addestreranno quel che rimane dell’esercito iracheno e preparare la difesa della capitale e delle altre aree sotto controllo sciita, nel meridione del Paese. Controffensiva futura con reparti di Hezbollah e altre milizie sciite nello scontro con i sunniti che è il vero motore della guerra.
Fonte
Di questo articolo non colpiscono tanto le parole (che sono cose ormai risapute per il sottoscritto e chi prova ad informarsi alla mia medesima maniera) quanto le immagini.
Due foto che descrivono benissimo una tragedia di dimensioni incalcolabili di cui non si riesce a vedere una fine.
30/10/2014
Il Nuovo Partito Democratico del futuro
La settimana che sconvolse il (piccolo) mondo dei rapporti tra politica e sindacato.
Il 24 ottobre lo sciopero generale indetto dai sindacati di base, riuscito ben al di là delle attese, a dimostrazione di una tensione forte e antigovernativa tra i lavoratori italiani, nonostante il silenzio dei mass media.
Il 25 la manifestazione nazionale della Cgil, “un milione di persone” a Roma, convocata cercando di tenere basso il livello di conflittualità con il governo (una manifestazione “pesa” decisamente meno di uno sciopero generale), ma esplosa in piazza contro Renzi e la sua banda, il jobs act e in generale le sue politiche. Una rottura esplicita rispetto ai “consensi” vantati dal premier.
Il 26 il “me ne frego” del premier-segretario del (nuovo) Partito Democratico, dalla Leopolda, che equipara il sindacato e le tutele del lavoro al telefono a gettoni; “rottami sui binari” da buttar via il più rapidamente possibile per far ripartire il “treno della crescita”.
Il 27 e 28 attraversato da botte e risposte (verbali) tra la segretaria della Cgil e alcuni pitbull renziani, con accuse di “messo lì dai poteri forti” e “eletta con tessere false” che volano come manganellate metaforiche.
Il 29 dalle parole si passa ai fatti. Le botte – nella versione delle manganellate della polizia – diventano fisiche, le distribuisce la polizia su sindacalisti Fiom e operai Ast di Terni, venuti a Roma per sventare la minaccia di 550 licenziamenti e il ridimensionamento dello stabilimento.
Una settimana che segna il passaggio d'epoca, non un episodio scappato di mano. Lo andiamo ripetendo da mesi: i governi diretti dalla Troika (da Monti in poi, solo indirettamente quelli precedenti) non hanno più lo spazio finanziario per la mediazione sociale. Quindi debbono anche “ideologicamente” abolirla. Così come debbono smantellare i corpi intermedi (sindacati e partiti) che per 70 anni hanno interpretato bene o male il ruolo dei mediatori, accogliendo e stemperando interessi sociali, slanci di ribellione, bisogni vitali, ambizioni di emancipazione.
Renzi lo dice in modo chiaro, supportato sfacciatamente da ogni media padronale; lui per primo ha acceso lo scontro indicando il sindacato – la Cgil, soprattutto, per dimensioni, storia, “base sociale” della sinistra riformista – come un nemico da demolire. Molte delle misure economiche pensate per “tagliare i viveri” alle organizzazioni sindacali (dal dimezzamento dei distacchi e dei permessi fino alla riduzione dei fondi per patronati e Caf) erano addirittura “popolari”, giocate in chiave di sforbiciata alle “spese inutili” per una casta quasi indistinguibile da quella politica. La chiave del successo in questa offensiva l'aveva in qualche modo anticipata lui stesso: “tratto con gli operai, non con i sindacati”. Ovvero attacco ai vertici con un uso strumentale degli argomenti (quasi sempre rispondenti alla realtà) tipici delle critiche da sinistra al sindacato (acquiescenza con padroni e governi, disinteresse per il precariato, avallo dato alle peggiori operazioni di divisione del mondo del lavoro, ecc.) per facilitare un'identificazione della base col “rottamatore”, colui che “sta facendo qualcosa di nuovo”. Salvo entrare nel merito e scoprire che “il nuovo” è un ritorno alla giungla ottocentesca...
Ma le cariche su operai e sindacalisti lo hanno zittito. Il gioco della comunicazione si è improvvisamente spezzato. Non può essere un “premier operaio” quello che manda la polizia a manganellare gli operai, trattandoli come i centri sociali, i No Tav o i black bloc (quelli si possono bastonare senza tanto scompiglio...).
Non ci interessa qui stabilire – non abbiamo “fonti” a palazzo Chigi o al Viminale – se l'ordine di caricare sia venuto da Renzi stesso o dal solito Angelino Alfano. Le due ipotesi sono una peggiore dell'altra. Sta di fatto che è stato creato un clima politico e ideologico in cui caricare e pestare gli operai e addirittura i sindacalisti “concertativi” è diventato legittimo, possibile, fattibile. Chi conosce anche superficialmente la geografia interna ai sindacati, sa bene che la Fiom dell'Ast non è neppure “landiniana”, ma addirittura camussiana. Alcuni dei feriti sono pacifici funzionari che in vita loro hanno trattato qualsiasi accordo – in genere pessimi – senza battere ciglio.
“Il futuro è solo l'inizio”. Lo slogan della Leopolda è diventato carne e sangue nelle vie di Roma, ieri mattina.
Chi si illudeva – sia tra i tranquilli funzionari sindacali come nella sinistra antagonista – che i governi della Troika fossero solo una “blindatura tecnica” degli scassatissimi bilanci dello Stato, mentre tutte le dinamiche politico-sociali potevano andare avanti come prima (un cartello elettorale qui, un'occupazione là, un inciucio su, un gioco di sponda giù, ecc.) deve ora prendere atto che ci stiamo muovendo in territorio sconosciuto e minato. Le “regole istituzionali” prima in vigore non esistono più.
Quelle regole dicevano che esisteva una protesta legittima perché politicamente controllata, che aveva libero accesso in ogni dove; e un'altra protesta dichiarata altrettanto legittima, ma solo sulla carta, doveva invece contrattare ogni passo, districandosi tra “zone rosse”, “tonnare”, infiltrazioni, avvisi di garanzia, detenzione carceraria o domiciliare.
La linea di faglia della “legittimità” è stata spostata all'interno del campo prima considerato in toto “istituzionale”. La politica – le leggi e le pratiche dello Stato – riconosce i rapporti di forza sociali creati negli ultimi quaranta anni e “decreta” (jobs act, bavaglio “monetario” alla libertà di stampa, cariche di polizia, ecc.) che il mondo del lavoro non ha più diritto a una rappresentanza. Né all'interno delle istituzioni, né fuori di esse. È un passaggio storico “di classe” e strutturale, non un incidente di percorso di un governo o di un partito guidato da neofiti senza patente. Il Nuovo Partito Democratico – per scelta o per incidente – ha cominciato a farsi conoscere. È l'Npd del futuro, una sigla inquietante.
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