Presentazione


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31/10/2025

Una donna sposata (1964) di Jean-Luc Godard - Minirece

Mala tempora currunt

di Sandro Moiso

Don’t let this shakes go on,
It’s time we have a break from it
It’s time we had some leave
We’ve been livin’ in the flames,
We’ve been eatin’ out our brains
Oh, please, don’t let these shakes go on

(Veteran of the Psychic Wars, 1981 –
Testo: Michael Moorcock. Musica: Blue Oyster Cult)

Che per l’Occidente e gli Stati Uniti, in particolare, siano tempi grevi lo dimostrano non soltanto i fallimentari piani di pace di Trump e le sue sbiadite minacce oppure la passività dei governi europei nei confronti dello stesso o, ancora, i paranoici timori per una possibile aggressione russa ai paesi della Nato e per le interminabile a trionfalistiche parate militari cinesi.

No, il male oscuro che lo agita è ancora più profondo e non è riassumibile assegnando colpe a governi di destra, centro o sinistra, populisti o meno, come a molti giornalisti e osservatori superficiali piace fare, illudendosi così di avere ancora a disposizione spiegazioni e risposte che, in realtà, non hanno e non possono più avere. E anche se la crisi di accumulazione del capitale, già più vicina a spiegare l’attuale tendenza alla guerra e al suicidio politico collettivo della land of freedom occidentale e liberale, permette di fare qualche passo verso una più concreta analisi del problema, anch’essa non è sufficiente a risolvere l’enigma di un Occidente lanciato, come un treno senza conduttori e frenatori, verso la catastrofe.

Ma se è vero, come afferma Chuck Palahniuk, nel suo romanzo Soffocare, che «l’irreale è più potente del reale, perché la realtà non arriva mai al grado di perfezione cui può spingersi l’immaginazione», allora il più recente lavoro cinematografico di Paul Thomas Anderson (classe 1970), Una battaglia dopo l’altra (One Battle After Another) uscito il 25 settembre nelle sale, può costituire un eccellente punto di partenza per iniziare ad affrontare il problema.

Un punto di vista grottesco, cinico, spietato ed esilarante allo stesso tempo, che non fa sconti a nessuno: né ai suprematisti bianchi e ai loro rappresentanti politici istituzionali, né ai governi ombra che sembrano muoversi alle spalle di una già di per sé intricatissima realtà, ma nemmeno alle pretese rivoluzionarie di chi ha fatto strame, letteralmente, della lotta armata contro il “sistema”, attraverso tradimenti e complicazioni burocratiche dettate dalla stessa clandestinità e da parole d’ordine che servono soltanto a rendere drammaticamente ridicola e inutilmente complessa l’azione che si vorrebbe portare a termine, così come la causa “rivoluzionaria” che dovrebbe giustificarla con le sue, spesso, altrettanto ridicole proposizioni teoriche.

Non a caso, la trama del film si basa su una sceneggiatura che rielabora, aggiornandole, le vicende contenute nel quarto romanzo, Vineland (1990), dello scrittore americano Thomas Pynchon1, sicuramente uno dei maestri e più illustri esponenti della letteratura statunitense degli ultimi decenni. Lo stesso scrittore di cui, già in passato, Anderson aveva utilizzato un romanzo, cronologicamente più recente rispetto a Vineland, per una sua opera cinematografica del 2014: Vizio di forma2.

Anche per quello il substrato era rappresentato dalla California degli anni Settanta, con affiliati alla Fatellanza ariana, militanti delle Pantere nere, Richard Nixon e Charles Manson, insieme ad una banda di hippie e surfisti dediti all’uso di svariate droghe, psichedeliche e non. Due Americhe, quella di allora e quella di un presente straordinariamente ambivalente dal punto di vista temporale, che, nella cinematografia di Anderson e nell’opera di Thomas Pynchon continuano e riflettersi una nell’altra, attraverso un gioco di specchi deformanti, come in una casa dei fantasmi di un allucinato luna park.

Pur non essendo possibile approfondire maggiormente il discorso sull’opera di Pynchon (classe 1937), per ragioni spazio, occorre però almeno ricordare che, pur essendo considerato uno dei maggiori scrittori americani viventi, Pynchon è rimasto sempre volontariamente lontano da qualsiasi forma di mondanità e celebrità mediatica, celando ostinatamente il proprio volto alla fame di immagini che la società dello spettacolo impone. Tanto da far sì che, nel suo classico stile pop e irridente del business mediatico, il grande pubblico ha potuto ascoltare la sua vera voce soltanto in un episodio della serie animata I Simpson, mentre veniva raffigurato con nome e cognome, ma con il volto coperto da un sacchetto di carta.

Lo scrittore, in comune con Anderson, esibisce certamente un non dissimulato fastidio per la rappresentazione realistica della società e della storia americana recente. Opponendo alle verità “certificate” dall’ideologia, dalla “storia” o dalla propaganda, mediatica e politica, uno sguardo disincantato, la cui lucidità trova lo spazio più adatto per manifestarsi nel paradosso e nella fantasia scatenata piuttosto che nell’analisi di stampo sociologico.

Nel caso del film Il petroliere, con cui nel 2007 aveva vinto l’Orso d’argento al festival di Berlino come miglior regista, però, Anderson aveva preso spunto da un romanzo di Upton Sinclair, Oil! (Petrolio!), pubblicato negli Stati Uniti nel 1927 e mai tradotto in Italia, che si ispirava alla vita e alle imprese dei baroni del petrolio Edward Doheny e Harry Sinclair, ma soltanto per modificarlo radicalmente per una buona parte delle vicende narrate. Lavoro cinematografico per il quale aveva proposto e ottenuto come titolo: There will be blood, poiché sentiva che non c’era abbastanza del libro per trattarlo come se fosse un adattamento adeguato del romanzo.

Prima di scegliere quel titolo e quella trama, ampiamente modificata nel corso della realizzazione del film, Anderson aveva letto tutte, o quasi, le opere di Sinclair Lewis, la più famosa delle quali rimane La giungla (The Jungle, 1906), tradotta e pubblicata in Italia da Mondadori. Tutte opere in cui sia le vicende che la loro ambientazione erano funzionali alla denuncia delle malefatte sociali, politiche ed economiche del capitalismo americano.

Tanto da far sì che l’opera di Sinclair, insieme a quella di Frank Norris, sia stata sempre associata alle migliori espressioni della letteratura, della saggistica e delle inchieste giornalistiche dei cosiddetti muckrakers, giornalisti, scrittori e fotografi riformisti degli Stati Uniti che, tra il 1890 e il 1920, denunciavano con veemenza la corruzione e le malefatte nelle istituzioni economiche e politiche, spesso per mezzo di pubblicazioni di carattere sensazionalistico.

Le riviste di muckraking si scontrarono così con i monopoli aziendali e i loro rappresentanti politici, mentre cercavano di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della povertà urbana, delle condizioni di lavoro insicure, della prostituzione e del lavoro minorile. Cosicché, ancora oggi, nel linguaggio comune, il termine può riferirsi a giornalisti che “scavano in profondità nei fatti” o, se usato in senso peggiorativo, a coloro che cercano di causare scandalo e che, come un personaggio del classico Pilgrim’s Progress di John Bunyan, di fatto “rastrellano il letame”3.

Ma il “muckracking” che sembra indirizzare l’opera di Anderson, e anche di Pynchon, è più di carattere psichico che non economico e sociale o, almeno, se lo è dal punto di vista sociale lo è comunque dal punto di vista della psiche, non di un individuo ma collettiva. Un affare che, a ben pensarci, sembra pervadere la letteratura americana almeno fin dai tempi di Herman Melville, Edgar Allan Poe e Ambrose Bierce che, da punti di vista diversi e con differenti modalità stilistiche, esaminarono tutti il rapporto di una società, quella del Nuovo Mondo, con la morte, le sue paure, i suoi incubi, le sue mancate promesse e le sue fallimentari illusioni.

Un’attenzione ai più remoti meandri della mente collettiva di una intera nazione che difficilmente è altrettanto diffusa nelle altre espressioni della letteratura occidentale moderna, ma che caratterizza anche l’opera di tanti altri autori come Philip K. Dick, Mark Twain, fino a Bret Easton Ellis. Tutti al lavoro, insieme a numerosi altri autori, sulle infinite e possibili varianti di una psiche estremamente divisa e contraddittoria, sostanzialmente affetta da schizofrenia.

Di cui la diffusione dei serial killer e delle loro gesta efferate e sanguinarie non è che una delle possibili manifestazioni epifenomeniche. Insieme alle sparatorie nelle campagne, nelle chiese, nelle scuole, nei night, nei supermercati, negli stadi, nelle caserme o, più semplicemente, nelle strade delle città americane. Tutti comportamenti riconducibili a una nazione nata “schizofrenica”.

Partorita dalla prima rivoluzione coloniale contro gli imperi europei e trasformatasi via via nella maggior potenza imperiale. Basata su principi democratici che hanno informato le successive rivoluzioni europee ed extra europee di cui però è stata spesso la prima affossatrice. Ancorata a severi principi di eguaglianza giuridica, ma affetta dal razzismo più bieco. Abitata da immigrati di ogni parte del mondo e di diversa fede religiosa o politica fin dalla sua fondazione ma, oggi, avversa a qualsiasi forma di migrazione verso i suoi confini.

Divisa in una miriade di nazionalità che si è sforzata inutilmente di mescolare in un’unica Nazione. Una nazione in cui la libertà religiosa e di parola dovrebbe essere garantita dalla costituzione e dai suoi successivi emendamenti, ma che ancora oggi, e sempre di più, vede le chiese battiste e metodiste opporsi con virulenza a qualsiasi libertà di discorso che sia altro da quello bianco e cristiano. Una nazione che della wilderness e dei suoi magnifici panorami ha fatto una sorta di religione naturale, ma in cui i popoli aborigeni sono stati massacrati e imprigionati in nome del progresso. Progresso e attività estrattive per le quali la stessa Natura è stata devastata, violentata, ridotta a “parchi” in cui immaginare e rivivere un tempo che non esiste più.

Un paese dove le libertà individuali sono portate costantemente in palmo di mano, salvo poi proibire e vietare qualsiasi libertà di scelta delle donne e di genere più in generale. In cui esiste una classe operaia con una delle storie più battagliere dell’età contemporanea, ma che allo stesso tempo difende valori legati sostanzialmente al lavoro e alla valorizzazione del capitale.

Un groviglio di contraddizioni il cui sbocco sempre più probabile sembra essere quello di una guerra civile, causata più dalla follia collettiva che dalle contraddizioni di classe che, in fin dei conti, non sono altro che la manifestazione più evidente della schizofrenia della società che ancora si fonda sulle leggi del capitale. Un groviglio che permette così, ad autori come Anderson e Pynchon, di rilevare come non sia necessario «delineare appieno il colpevole o i colpevoli perché, in fondo, lo sono tutti. Per avere operato, per aver tentato o per aver anche solo semplicemente creduto» (qui). Motivo per cui anche il soprannome, Perfidia, scelto per la leader del gruppo French 75 che opera clandestinamente all’inizio del film, appare decisamente adatto.

Una nazione, ma forse un intero mondo, in cui tutti vivono illusoriamente un sogno di libertà che ognuno interpreta a proprio modo. Come presunto rivoluzionario oppure appartenente alla Fratellanza ariana; come membro di una comunità di Santi purificati discesa direttamente dall’immaginario razzista e religioso dei Padri Pellegrini o della umma dei Black Muslims; come parte di una comunità sempre e comunque offesa perché vede lesi diritti che, in realtà, sono solo e sempre stati promessi sulla carta, dalla celluloide delle pellicole hollywoodiane oppure nei dischi microsolco, ieri, o in rete, oggi.

Tutte schegge di un sogno infranto di libertà, uguaglianza, felicità e unicità, che non si ricompongono se non nell’immagine impazzita di un caleidoscopio pronto ad offrirne altre e di nuove ad ogni nuovo giro delle lenti contenute nello strumento, in cui le figure geometriche, simmetriche, colorate, generatesi dall’unione dell’immagine diretta dei frammenti e di quelle create dal loro riflesso negli specchi, mutano e cambiano colore e forma, senza mai ripetersi.

Ecco, il film, comunque bello e dagli interpreti spesso bravissimi (Sean Penn, Leonardo DiCaprio, Benicio del Toro e Chase Payne “Infiniti” soprattutto), caratterizzato da un anti-eroe sempre in vestaglia da camera, ritagliato sulla figura del Grande Lebowski dei fratelli Cohen, e da scelte narrative e stilistiche innovative4, di Anderson può essere riassunto così. Come l’immagine prodotta in un caleidoscopio dai frammenti di una società caduta, sia in alto che in basso, negli stessi tranelli che pensava di poter maneggiare con disinvolta destrezza.

E in cui a potersi salvare sembrano esser soltanto gli ultimi, i marginali: gli immigrati e i migranti obbligati ad organizzarsi per sopravvivere, anche per mezzo di una “ferrovia sotterranea” che ricorda quella dei tempi di una schiavitù mai davvero finita, e le giovani generazioni, obbligate a sperare e a lottare collettivamente, almeno per sopravvivere a ciò che un vecchio e bastardissimo sogno infranto ha lasciato loro in eredità. Come le recenti e meravigliose piazze Pro-Pal, ma non solo, sembrano confermare.

Note

1) T. Pynchon, Vineland, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano, 1991 (prima edizione italiana) e con la medesima traduzione, ma aggiornata da Andrea Mattacheo, per la seconda edizione, uscita nella Collana ET Scrittori, Einaudi, Torino, 2021.  

2) Inherent Vice (2009), uscito in Italia nel 2011 per Giulio Einaudi editore, Torino.

3) Per maggiori delucidazioni sull’argomento si veda M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024  

4) Si pensi soltanto all’autentica reinvenzione della più abusata trovata della cinematografia americana degli ultimi cinquant’anni, da Bullit in poi: l’inseguimento in auto lungo strade urbane oppure sprofondate in anonimi e vastissimi deserti.

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Un flop la manifestazione pro-Israele a Roma

Un po’ avrà influito il maltempo ma forse ha influito ancora di più l’enorme contraddizione di voler sostenere uno stato che sta producendo un genocidio. Fatto sta che la manifestazione a sostegno di Israele e contro l’antisemitismo di ieri a Roma è stato un visibile flop.

Curiosa la coincidenza tra la data di Roma e la conclusione del 39° Congresso Sionista Mondiale a Gerusalemme. Dei 525 delegati, il 38% proviene da Israele, il 29% dagli Stati Uniti e il 33% dal resto della diaspora. È evidente come il sionismo non sia un progetto solo legato al territorio israeliano ma un progetto suprematista e coloniale con dimensioni internazionali.

Ieri sera solo qualche centinaio di persone si sono radunate a Piazza SS Apostoli convocate dall’Associazione 7 Ottobre e da una trentina tra associazioni ebraiche, giornali, e partiti politici come FdI, Lega, Forza Italia, Italia Viva, Azione.

Per Fdi, sono intervenuti il capogruppo Lucio Malan e Giovanni Donzelli, presente anche l’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata. Per Forza Italia il capogrupppo Maurizio Gasparri e Andrea Orsini, per la Lega Simonetta Matone, per i renziani Maria Elena Boschi, per Azione Elena Bonetti. A rappresentare il PD, che però non ha aderito, c’era Pina Picierno, leader della corrente moderata. Nel pubblico anche Renato Brunetta, il presidente del CNEL che proprio recentemente ha ospitato un convegno dei filo-israeliani nel quale sono circolate affermazioni che hanno suscitato indignazione.

Da sottolineare quanto detto dal presidente della “Associazione 7 Ottobre” Stefano Parisi (ex presidente di Confindustria e candidato della destra al Comune di Roma negli anni scorsi), il quale ha ringraziato i soldati israeliani “che difendono la sicurezza degli ebrei a Gaza”, come se a Gaza ci fossero ancora coloni ebrei da difendere (non ce ne sono dal 2005) e non migliaia di civili palestinesi morti sotto le macerie. Un concetto declinato anche dal fratelloitaliota Donzelli come “il diritto di Israele ad esistere in sicurezza”, una condizione esclusiva, come se i palestinesi non debbano mai usufruire di questo diritto alla sicurezza.

Per dare un’idea del clima, una giornalista che stava raccogliendo interviste nella piazza è stata apostrofata con “sei una rotta in culo” ed è stata allontanata dalla polizia.

Il giornale filo-sionista Il Riformista, lamenta oggi che “Nelle ultime stagioni l’Italia ha conosciuto troppi episodi oltre la soglia dell’opinione: pressioni, disinviti, minacce, censure di fatto”.

Il paradosso è che in questa condizione si sono trovati per anni giornalisti e attivisti italiani o esponenti delle comunità palestinesi in Italia, ai quali per anni sono state vietate aule universitarie o scolastiche, hanno subito pressioni e censure professionali, sono stati disdetti inviti precedentemente accordati dopo le pressioni dell’ambasciata israeliana o dei gruppi sionisti su rettori e istituzioni.

Poi, di fronte ad un inaccettabile genocidio del popolo palestinese sotto gli occhi di tutti, questo meccanismo si è finalmente rotto e la censura – e l’autocensura – non hanno più funzionato come prima.

Si capisce che sionisti e filo-israeliani vorrebbero ripristinare la situazione precedente a due anni fa, quando la narrazione israeliana della realtà spadroneggiava senza contrasti nei mass media come nelle università, e si vede anche che ci stanno provando con ogni mezzo.

Ma chi è sceso in piazza in questi anni e soprattutto negli ultimi mesi per la Palestina, non è intenzionato a cedere un millimetro né a concedere spazi nel nostro paese al ripristino di una narrazione suprematista e razzista sulla questione palestinese ispirata dagli apparati ideologici dello Stato di Israele.

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Cosa pensano i palestinesi del ‘piano Trump’?

Un recente sondaggio pubblicato dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research (PCPSR) ha interrogato i palestinesi su cosa pensano riguardo al piano di ‘pace’ (cioè di nuova amministrazione coloniale) promosso dal presidente USA Trump. Le risposte che sono state registrate lascerebbero sicuramente spiazzati molti commentatori occidentali, se solo si prendessero la briga di chiedere ai diretti interessati cosa vogliono.

No al disarmo di Hamas, sfiducia dilagante verso Abbas alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), sostegno alla formazione di un comitato per amministrare Gaza, ma senza l’esclusione di Hamas e nemmeno dell’ANP, così come a una forza internazionale, ma solo se il suo scopo è difendere i confini di Gaza e non togliere le armi ad Hamas.

Questo, in sunto, il risultato del sondaggio. È bene dare qualche indicazione tecnica, per evitare strumentalizzazioni e propaganda sui dati che stiamo per riportare. Prima di tutto, l’indagine è stata svolta intervistando di persone poco più di 1.200 persone, di cui circa 760 nella Cisgiordania occupata e circa 440 nella Striscia. Le informazioni sono state trasferite su server a cui solo i ricercatori possono accedere, e i loro calcoli hanno un margine di errore del 3,5%.

La PCPSR è un think tank con sede a Ramallah, ha un’esperienza trentennale nella conduzione di sondaggi, cominciata per verificare le opinioni dei palestinesi dopo le novità introdotte dagli Accordi di Oslo nella prima metà degli anni Novanta. Tra i finanziatori delle sue attività c’è stata anche l’Unione Europea, che ha considerato seriamente i dati elaborati dal gruppo di ricerca, anche in anni recenti.

Quello del PCPSR, insomma, non è il profilo di un istituto ‘connivente’ con Hamas e con i ‘terroristi’, come i sionisti nostrani potrebbero tentare di inventarsi. Del resto, poco più di un anno fa l’IDF aveva sostenuto di aver trovato un documento, tra le macerie di Gaza, che dava prova di come i dati del think tank fossero stati falsficati da Hamas. Al solito, uno dei tanti ritrovamenti ‘fortunati’ delle forze israeliane.

Arriviamo ora ai numeri. Stando alle domande poste tra il 22 e il 25 ottobre, il 70% dei palestinesi si oppone al disarmo di Hamas, anche se ciò dovesse significare la ripresa degli attacchi israeliani. È di certo significativo che la contrarietà al disarmo è maggiore nella West Bank occupata, dove circa l’80% degli intervistati ha dichiarato di volere che l’ala armata del gruppo islamico mantenga le armi. Anche a Gaza, comunque, circa il 55% dei palestinesi la pensa così.

Tali opinioni sono evidentemente collegate alla sfiducia rispetto al ‘piano Trump’ e al fatto che Israele decida di fare marcia indietro sulla pulizia etnica. Infatti, il 62% dei palestinesi ritiene che il percorso elaborato dall’amministrazione statunitense non abbia portato alla fine della guerra una volta per tute, e ancora una volta il pessimismo è maggiore in Cisgiordania che a Gaza.

La popolazione palestinese rimane ancora chiaramente divisa sull’attacco del 7 ottobre 2023: per il 53% è stata una scelta corretta. Quello che è certo è che, comunque, Hamas viene vista come un’opzione meno corrotta dell’ANP. Il 35% dei palestinesi sostiene Hamas, mentre il 24% è a favore di Fatah (il 32% non sostiene nessuno dei due partiti o non ha alcuna opinione).

Hamas supera l’apprezzamento dato a Fatah anche nella Cisgiordania, dove teoricamente governa da anni. In generale, è il 60% degli intervistati che si dice soddisfatta della condotta di Hamas – il 66% nella Cisgiordania occupata e il 51% a Gaza –. Ciò si ripercuote anche sulla soddisfazione che riscuote il presidente palestinese Abbas: si ferma al 23%, mentre l’85% dei palestinesi ne auspica le dimissioni. Marwan Barghouti rimane la figura più apprezzata.

Nello specifico del ‘piano Trump’, il 53% degli intervistati si è dichiarato contrario a un comitato di palestinesi non affiliati ad Hamas o all’ANP per governare Gaza, mentre il 45% lo ha sostenuto. Ancora una volta, l’opposizione è molto più alta in Cisgiordania che a Gaza, che ha vissuto gli ultimi due anni sotto le bombe israeliane.

Ma quando ai palestinesi è stata posta la stessa domanda, ma senza prevedere l’esclusione di Hamas e dell’ANP, aggiungendo che la formazione del comitato sarebbe stata legata ai fondi per la ricostruzione, il 67% dei palestinesi ha sostenuto l’idea. Una dinamica simile è stata riscontrata quando si è chiesta un’opinione riguardo a una forza di peacekeeping.

L’opposizione a una forza internazionale araba e musulmana nella Striscia varia notevolmente tra West Bank e Gaza stessa: 78% nella prima, 52% nella seconda. Cifre che si riducono notevolmente quando la funzione delle truppe è stata indicata nella difesa dei confini di Gaza e non nel disarmo di Hamas: il 53% degli intervistati a Gaza e il 43% nella Cisgiordania occupata hanno dichiarato di sostenere la forza, in questo scenario.

Insomma, questi dati confermano che c’è un popolo che parla in favore della sua autodeterminazione. Bisogna fare in modo che i nostri governi guerrafondai comincino ad ascoltarlo.

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Il governo Meloni pensa a una scappatoia per salvare il ponte sullo Stretto

La Corte dei Conti ha deciso infine di negare il visto di legittimità alla delibera del CIPESS dello scorso agosto, con la quale era stato approvato il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto di Messina. Un altro colpo alla storia travagliata di questa grande opera inutile, su cui però il governo ha già chiamato una riunione d’urgenza, cercando scappatoie.

Bisogna dire subito una cosa: non c’è necessità di soluzioni da ‘azzeccagarbugli’ in casi del genere, perché anche con il parere negativo della Corte dei Conti, secondo la legge, l’amministrazione interessata può chiedere un’apposita delibera da parte del Consiglio dei Ministri per procedere, se quest’ultimo ritiene che l’atto risponda ad interessi pubblici superiori.

Politicamente, però, si tratterebbe di una forzatura di non poco conto nei confronti dei magistrati contabili, proprio a ridosso del via libera appena ottenuto sulla riforma della giustizia. Lo stesso ANM ha sottolineato come le reazioni governative siano state un ulteriore atto di delegittimazione nei confronti delle magistrature, verso cui Meloni e compagnia mostrano “totale insofferenza al controllo di legalità”.

Infatti, la presidente del Consiglio ha affermato che quello della Corte è un “ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento”, mentre il ministro Salvini ha detto che “la decisione della Corte dei Conti è un grave danno per il Paese e appare una scelta politica più che un sereno giudizio tecnico”.

Per quanto sappiamo bene che le scelte giudiziarie possano essere influenzate da vari fattori, in questo caso bisogna sottolineare che sono mesi e mesi che vengono fatti rilievi sostanziali al progetto, in primis dai movimenti che si oppongono a questa opera inutile. Rilievi che riguardano criticità che vanno dai costi in levitazione ai danni ambientali, e su cui le risposte del governo sono state spesso tacciate di superficialità.

Ad ogni modo, le motivazioni della Corte verranno depositate entro 30 giorni, perciò ad oggi si possono fare solo elucubrazioni su come i giudici sono arrivati al diniego del visto. Tra i punti emersi in passato ci sono: le coperture finanziarie, l’affidabilità delle stime di traffico, la conformità del progetto alle normative ambientali e antisismiche, nonché alle regole europee sul superamento del 50% del costo iniziale. Infine, dubbi sulla competenza del CIPESS sull’affare in questione sono già stati sollevati.

Fonti informate sui fatti hanno rivelato al Fatto Quotidiano che, nel vertice svoltosi ieri mattina, il governo starebbe valutando non solo di procedere con la delibera per imporre la registrazione della delibera del CIPESS, ma anche di presentarsi in Parlamento (Giorgia Meloni stessa o più probabilmente il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini) per spiegare le ragioni dell’atto e ribadire il valore politico, oltre che economico, che ha il Ponte sullo Stretto.

Infatti, al di là dei problemi che sorgeranno da questa scelta della Corte dei Conti, a partire dai ritardi nei lavori, il Ponte è sempre stato sostenuto per due motivazioni ulteriori: l’utilità per la mobilità militare e, ultimamente, la possibilità di inserirlo tra le spese infrastrutturali legate alla sicurezza previste dai nuovi target NATO. Ma su questa ipotesi, gli Stati Uniti avevano già messo una pietra tombale.

Per quanto il Ponte sarebbe un facile obiettivo militare, nella delibera governativa di qualche mese fa con la quale il progetto arrivava al CIPESS veniva accennata anche a una sua funzione dentro il Military Mobility Action Plan per la mobilità militare all’interno della UE. Insomma, anche questa grande opera inutile è pensata in prospettiva di una UE armata fino ai denti. Oltre, ovviamente, ad essere un pozzo senza fondo di soldi pubblici da cui potranno abbeverarsi varie cordate imprenditoriali.

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Germania: 10 mila disoccupati al mese, crollo produzione ma riarmo

Cosa sta succedendo all’economia tedesca?

Ad agosto, denuncia il Berliner Zeitung, «la produzione industriale è crollata significativamente». E l’Ufficio federale di statistica, trasforma il titolo in numeri. Industria, edilizia e fornitori di energia hanno prodotto complessivamente il 4,3% in meno rispetto al mese precedente. «Il calo più significativo dall’inizio della guerra in Ucraina», rilancia il giornalismo. Berlino ha visto la produzione industriale in rosso per otto degli ultimi dodici mesi, i dati finali.

Export in declino strutturale

‘Trading Economics’ ricorda che il crollo ad agosto si è avuto in campi strategici: «Nell’industria automobilistica (-18,5%), nella produzione di macchinari e attrezzature (-6,2%), nei prodotti farmaceutici (-10,3%) e nei prodotti informatici, elettronici e ottici (-6,1%)». Il 48% delle esportazioni tedesche secondo Destatis. «La possibilità che a entrare in recessione sia l’intero sistema-Germania», avverte InsideOver. Da agosto 2022 a agosto 2025 il dato mensile dell’export è calato da 136 a 129,7 miliardi di euro, e di fatto Berlino ha perso il 5% del suo potenziale di esportazione.

10mila posti di lavoro in meno ogni mese

L’Istituto Economico Tedesco sostiene che la Germania abbia carenza di personale qualificato, un ‘deficit’ di 400mila lavoratori, mentre – paradossalmente – il Frankfurter Rundschau denuncia che mediamente nel 2025 la Germania sta perdendo 10mila posti di lavoro ogni mese. L’economista Enzo Weber ha ricordato a Die Welt che gli annunci di nuove offerte di lavoro sono ai minimi dall’epoca dell’arrivo del coronavirus nel 2020. Problematiche strutturali che superano l’orizzonte dei singoli governi, ma il cancelliere rischia però di trovarsi impantanato, avverte Andrea Muratore. 

Le sfide strutturali

Tra dubbi legittimi e incertezze intanto avanza a fatica il progetto di riconversione industriale per il riarmo, che se può supplire una parte della domanda mancante dall’automotive – meno Volkswagen e più carri armati – certamente non può fare molto per gli altri settori in crisi. C’è la spada di Damocle del settore siderurgico, che dovrebbe alimentare tutti i piani del maxiprogetto da 500 miliardi di euro di investimento in infrastrutture concordato da Merz con gli alleati socialdemocratici. Ma la produzione di acciaio tedesca è diminuita del 12% nella prima metà di quest’anno, colpisce il Financial Times.

Mercato, politica ed economia

Merz ha annunciato agevolazioni fiscali per le imprese per l’acquisto di attrezzature e sussidi sul prezzo dell’elettricità per le industrie ad alta intensità energetica come quella chimica, e ha nominato un responsabile degli investimenti, l’ex presidente della Commerzbank Martin Blessing, per promuovere la Germania come destinazione attraente per i ‘capitali stranieri’ ma ad oggi non si colgono segnali di ripresa e Berlino appare destinata a un altro anno di incertezze.

Tra Usa e Cina

Nel frattempo, sono arrivati i dazi Usa e con la Cina è nata una sfida ricca di tensioni. La Germania, dopo aver fatto la faccia feroce verso la Russia, ha chiesto agli Usa di esentare dalle sanzioni sul petrolio di Mosca la filiale tedesca di Rosneft mentre i costi energetici rimangono un fattore di criticità. Non sarà facile invertire la china per Merz, la cui luna di miele col Paese è già finita, sottolinea Andrea Muratore. E alle cui spalle incombe l’ombra di Alternative fur Deutschland, pronta a sfruttare ogni segnale di malcontento del Paese.

Lista della spesa in armamenti

Centocinquanta giorni dopo aver promesso di trasformare la Germania nella prima potenza militare convenzionale d’Europa il cancelliere Friedrich Merz, presenta la lista della spesa pluriennale da inserire nel bilancio militare del 2026. Un elenco lungo 39 pagine zeppo di armi di ogni genere, marca e paese di origine (tra cui spicca anche Israele), pauroso sotto il profilo del costo economico e inquietante per il salto di qualità della capacità offensiva della Bundeswehr che in futuro «sarà una forza di difesa, ma solo nel nome», avverte Sebastiano Canetta sul manifesto.

Germania da paura

Il riarmo tedesco si apre con 50 caccia-bombardieri F-35 adatti anche al trasporto di ordigni nucleari, mezzo migliaio di blindati fabbricati dal colosso nazionale Rheinmetall, 14 sistemi di difesa aerea Iris-T e 400 Tomahawk con gittata di 2.500 chilometri: lo stesso missile che Donald Trump ha negato a Volodymir Zelensky nel corso dell’ultimo faccia a faccia. Ma arriva anche la prima partita del «muro di droni» promesso di Pistorius all’indomani del «sorvolo ostile» di oggetti non identificati su alcuni siti sensibili del paese. Droni sospettabilissimi nelle mani di troppi per usi di comodo.

Numeri da sballo

In totale la spesa bellica tedesca corrisponde a 377 miliardi di euro, conteggia il sito ‘Politico’ che ha diffuso stralci della lista preparata dal leader Cdu di concerto con gli alleati di governo, il vicecancelliere e ministro delle Finanze, Lars Klingbeil, e il ministro della Difesa, Boris Pistorius.

Gigante dai piedi d’argilla

In tanti felici e contenti. Volontà di potenza di Merz, perfetto per l’amministrazione Usa, il segretario generale della Nato e la presidente della Commissione Ue che lo prenderà a modello. Salvo il ’dettaglio’ che non c’è la montagna di euro che servono. «Un gigante dai piedi d’argilla», come da bocciatura della manovra da parte della Corte dei Conti per l’esposizione debitoria che da qui al 2029 porterà il deficit statale a 850 miliardi. Chi guadagna davvero dalla valanga di denaro che comunque inizia ad uscire dalle casse UE e di Berlino, «fin da subito, senza rischi d’impresa» – denuncia Vannetta – (così Pistorius), è il settore bellico trainato da Rheinmetall. Da sola l’impresa renana incassa 88 miliardi sul totale delle commesse, ma gioisce non poco pure la bavarese Diehl Defence, seconda beneficiaria dell’affare che nel suo caso vale 17,3 miliardi ed è politicamente targato Csu.

E anche Israele gode

Poi arriveranno i droni; tra le voci di spesa più elevata proprio l’espansione della capacità degli «Heron Tp» prodotti in Israele con l’acquisto di 100 milioni di euro di munizioni dedicate. Si aggiungono a 12 droni tattici «Luna Ng» del valore di 1,6 miliardi e al programma dei droni navali per la marina militare del costo di 671 milioni. Le voci elencate saranno presentate in diverse tranche per essere sottoposte al voto della Commissione bilancio del Bundestag e ogni commessa di valore superiore a 25 milioni di euro necessita del suo via libera, ricorda Politico, ma la lista di Merz prova comunque la definizione già di 320 appalti di cui 178 assegnati. L’industria bellica tedesca porta a casa 160 commesse, ovvero circa 182 miliardi di euro, il resto saranno gare aperte, a eccezione dei contratti obbligati con gli Usa come gli F-35 che saranno 15 più del previsto.

Dall’acciaio al petrolio

Dopo l’acciaio tedesco ora tocca al petrolio russo di Rosneft sottoposto a sanzioni Usa da cui dipendono le tre raffinerie tedesche di Karlsruhe, Vohnburg e Schwedt. Attualmente la filiale Rosneft-Deutschland non è gestita da Mosca ma in regime di amministrazione controllata dai tedeschi e «così il fermo dell’impianto di Schwedt, che al Consiglio di fabbrica appare inevitabile, avrebbe effetti devastanti sull’intero Nord-Est della Germania, compreso l’aeroporto di Berlino» è l’allarme lanciato dalla Cdu del Brandeburgo che ammette: «Il governo Merz sta trattando l’esenzione dalle sanzioni su Rosneft con Trump». Un altro indizio della grande impotenza di Berlino nonostante tutti i muscoli.

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L’assassinio di Shireen Abu Akleh coperto dal Dipartimento di Stato USA

Stando alle dichiarazioni rilasciate al New York Times da Steve Gabavics, un esperto membro della polizia militare USA, la giornalista statunitense-palestinese Shireen Abu Akleh è stata uccisa deliberatamente dalle forze armate israeliane, e il Dipartimento di Stato stelle-e-strisce avrebbe attivamente coperto l’omicidio.

Ricordiamo brevemente i fatti. Nel maggio 2022 Shireen è stata colpita alla testa da un cecchino israeliano, mentre riportava le notizie su scontri tra l’IDF e forze della resistenza palestinese per l’emittente Al Jazeera. Il suo omicidio è avvenuto a Jenin: in Cisgiordania, non a Gaza, e ben prima del 7 ottobre, a ricordarci come l’eliminazione sistematica dei giornalisti è una pratica di lunga data per Tel Aviv.

Ad ogni modo, inizialmente le autorità israeliane avevano incolpato i resistenti palestinesi, mentre la polizia sionista aveva persino preso d’assalto il funerale della donna. Salvo poi dover ammettere che erano state le forze israeliane a uccidere Shireen, presentando scuse in ritardo di un anno per un crimine che, era evidente a tutti, era stato commesso volontariamente.

Oggi Gabavics, ex militare in pensione dall’inizio del 2025, non solo lo conferma, ma rivela anche l’insabbiamento coperto dai vertici degli USA. Il soldato statunitense era stato incaricato di indagare sulla morte della giornalista mentre prestava servizio presso l’Office of the United States Security Coordinator, il quale facilita la cooperazione tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi dell’ANP.

Gabavics e il suo team di investigatori raccolsero abbastanza indicazioni per affermare il fatto che il soldato israeliano che aveva sparato a Shireen sapeva che stava colpendo una giornalista. La precisione del proiettile indirizzato alla testa, il traffico radio israeliano che aveva indicato la presenza dei media in quella zona, la visuale chiara che i cecchini avevano della posizione di Abu Akleh, l’assenza di spari provenienti dalla sua direzione, non lasciavano dubbi (oltre a non dare motivo di aprire il fuoco contro di lei).

Tuttavia, l’allora capo di Gabavics, il tenente generale Michael R. Fenzel, lo escluse dalla revisione dell’indagine, minacciò di licenziarlo e pubblicò un rapporto finale per il Dipartimento di Stato sostenendo che l’omicidio era stato involontario. Gabavics e i suoi collaboratori rimasero sbalorditi dal testo finale.

Al New York Times, quattro funzionari statunitensi rimasti anonimi hanno dichiarato di credere che il testo sia stato modificato da Fenzel per “preservare il rapporto di lavoro del suo ufficio con l’esercito israeliano, che in precedenza aveva smesso di collaborare quando era rimasto scontento”.

Il 2 novembre è la Giornata Mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti, stabilita dall’ONU nel 2013, e queste notizie non fanno che sollevare ulteriore sdegno per l’assassinio sistematico di giornalisti operato da Israele. Tali crimini dovranno prima o poi trovare giustizia.

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Morti due ragazzi nel porto di Livorno

È questo il trattamento che riserviamo agli esseri umani mentre le armi sono benvenute?

Abbiamo appreso della morte di due ragazzi ieri mattina, nel porto di Livorno. Due giovanissimi lavoratori che, nella speranza di una vita migliore, si erano imbarcati su una nave ro-ro nascosti dentro un semirimorchio. Una volta scoperti per loro non c’è stata possibilità di fare richiesta di asilo, di spiegare la propria condizione. Non hanno potuto parlare con un avvocato o con un’associazione. Sono stati rinchiusi a forza in una cabina della nave pronti per essere rimandati in Tunisia. Senza neanche sapere se effettivamente era quello il loro Paese di provenienza.

Hanno cercato di scappare forzando la porta della cabina e si sono buttati in mare. Subito risucchiati dalle eliche di una nave Grimaldi che in quel momento transitava lungo il canale.

È questa la civiltà che tanto vogliamo difendere? È questo il trattamento che riserviamo a degli essere umani?

Nel nostro porto le armi sono sempre le benvenute perché “portano lavoro”. Molto spesso servono per andare ad ammazzare civili proprio nei paesi del “terzo mondo” da cui provengono questi ragazzi. Le armi e le navi israeliane vanno bene ma due ragazzini nascosti in un contenitore devono morire in questo modo atroce.

Noi non ci abitueremo mai a questo schifo. I lavoratori portuali non saranno mai complici di questo sistema.

Di questi due ragazzi probabilmente non si conoscono neanche i nomi. Non si potrà neanche avvisare le famiglie.

Livorno non è questo. Con tutta la rabbia dobbiamo, insieme, ribadirlo.

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30/10/2025

La pelle che abito (2011) di Pedro Almodóvar - Minirece

Massacro a Rio, il nuovo standard

Oltre 20 anni fa un film – Tropa de elite – aveva messo sotto gli occhi del mondo la realtà della “guerra al narcotraffico” a Rio de Janeiro. Un miscuglio inestricabile di emarginazione, violenza (bipartisan), corruzione, scorciatoie autoritarie, memorie golpiste.

Oggi vediamo video che non sono frutto di recitazione, ma di regia sicuramente sì.

2.500 poliziotti pesantemente armati hanno fatto irruzione nelle baraccopoli di Rio per un’operazione antidroga senza precedenti durante la quale si calcola che siano stati sparati 200 proiettili al minuto. Il bilancio è per ora di almeno 132 morti. Si tratta certamente del più sanguinoso raid della polizia contro le gang della droga nella storia della città brasiliana.

I residenti in lutto hanno deposto decine di cadaveri per strada, perché il mondo vedesse. Una donna ascoltata dalla tv Afp ha riassunto il tutto in modo lapidario: “Lo Stato è intervenuto per massacrare, non è stata un’operazione di polizia. Sono intervenuti direttamente per uccidere, per togliere vite”.

L’operazione è stata in effetti di stampo strettamente militare, utilizzando anche 32 mezzi blindati e 12 veicoli da demolizione per distruggere le barricate, ufficialmente contro il Comando Vermelho, o Comando Rosso (naturalmente il colore, in questo caso, non segnala alcun contenuto politico) nel Complesso Penha, uno dei due quartieri operai densamente popolati nella parte settentrionale di Rio, e nel Complexo do Alemao, vicino all’aeroporto internazionale.

La responsabilità dell’operazione, stante la struttura federale del Brasile, è per intero del governatore dello Stato di Rio, Claudio Castro, un fedelissimo di Bolsonaro, con un passato in carcere per corruzione e peculato, che sembra aver colto l’occasione della flotta statunitense schierata davanti al Venezuela per segnalarsi a Trump come plausibile sostituto dell’ex presidente ormai agli arresti per tentato golpe. Del resto, già otto mesi fa aveva spedito un rapporto all’amministrazione Trump per sollecitare la classificazione del Comando Vermelho come “organizzazione terrorista”, ventilando una presunta espansione delle sue attività in Nord America.

E per trascinare anche il presidente Lula in una trincea che non è la sua. Il governatore Cláudio Castro, infatti, si è difeso denunciando di «essere stato lasciato solo» a combattere il crimine organizzato e di essersi visto respingere la richiesta di utilizzo di mezzi blindati da parte dell’esercito.

Le modalità dell’azione sono state non solo particolarmente violente, ma registrate dagli operatori della stessa polizia, per nulla preoccupati – anzi: orgogliosi – di farsi vedere come killer spietati al pari dei più disorganizzati gangster delle favelas. Bombe lanciate con i droni, corpi smembrati a colpi di machete, cadaveri di giustiziati con un colpo alla nuca.

Il leader del Comando Vermelho, Edgar Alves Andrade, noto come Doca, è comunque riuscito a fuggire, protetto da una settantina di uomini, il che suggerisce che quell’intreccio criminalità/corruzione di poliziotti non sia per nulla stato sciolto.

L’Alto commissariato ONU per i diritti umani si è detto «inorridito» per quanto accaduto: «Questa operazione mortale rivela fino a che punto le operazioni di polizia in comunità emarginate del Brasile tendano a produrre conseguenze letali estreme. Ricordiamo alle autorità i loro obblighi in materia di rispetto dei diritti umani e chiediamo indagini rapide ed efficaci».

Al di là delle molte considerazioni che si possono fare, ci sembra evidente che il genocidio a Gaza abbia fissato un nuovo standard di presunta “tollerabilità” sagomato sull’appartenenza delle vittime. Se sono membri fedeli dell’Occidente imperialista, anche solo uno schiaffo dato loro merita una risposta “sproporzionata”. Al contrario, qualsiasi strage, di qualunque dimensione e comunque realizzata, nei confronti degli untermenschen dichiarati “nemico” è pienamente “rispettabile”.

Rio, come Gaza, non è un incidente della storia. È l’orizzonte verso cui stiamo venendo trascinati a forza.

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Incontro Trump-Xi Jinping: guerra commerciale congelata, per ora…

Si è concluso da poche ore il tanto atteso confronto tra il presidente USA Donald Trump e quello cinese Xi Jinping. Il tycoon parla di un accordo in arrivo, ed effettivamente qualche apertura si è vista da ambo le parti (a partire dai dazi e dalle terre rare). Ma non si tratta della composizione dei conflitti, quanto piuttosto di “stabilizzare la rivalità” tra le due maggiori potenze mondiali, come ha suggerito la Rand Corporation.

Ma andiamo con ordine. Il faccia a faccia è durato poco meno di due ore, e non si è concluso con una dichiarazione congiunta finale. Date le condizioni con cui si è arrivati a questo incontro non sembra una sconfitta: previsto da tempo a margine del vertice dell’Asia-Pacific Economic Community (APEC), Trump sembrava vicino a farlo saltare con il rilancio della guerra commerciale promosso nelle ultime settimane.

Ma al solito, abbiamo visto in azione i capisaldi della politica TACO (Trump always chicken out, ovvero ‘Trump si tira sempre indietro’), formula diffusa sui media oltreoceano che fa infuriare The Donald, perché – e diremmo noi, stavolta giustamente – è chiara la logica delle sue dichiarazioni poi spesso ritrattate o ammorbidite: minacciare per poi ottenere un accordo più vantaggioso. Forse è sul carattere intimidatorio di una tale prassi che dovrebbero concentrarsi i giornalisti, ma tant’è... 

I contenuti: “su una scala da 1 a 10, l’incontro con Xi è stato 12”, dice Trump. Il presidente USA parla di dettagli ancora da limare, ma un accordo complessivo sarebbe in arrivo. Intanto, Trump ha annunciato la riduzione dei dazi sulle merci cinesi dal 57% al 47%, abbassando dal 20% al 10% la tariffa che aveva imposto sui prodotti di Pechino in virtù del supposto ruolo nel traffico di fentanyl.

In cambio, la Cina si impegna a collaborare contro i flussi di questo stupefacente, a tornare ad acquistare grandi quantità di soia stelle-e-strisce, e anche a sospendere per un anno le restrizioni all’esportazione di terre rare, con un’intesa rinnovabile poi annualmente. Un lasso di tempo molto breve, ma di questi tempi rappresenta una boccata d’aria per la complessità dello scenario geopolitico.

Questa stabilizzazione dei rapporti era stata auspicata dalla Rand Corporation, uno dei think tank principali degli States, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’elaborare indirizzi di politica estera per decenni. Nel 2016 ipotizzava vari scenari di guerra con la Cina, entro una decina d’anni, mentre oggi parla di come rendere una lotta senza regole per l’egemonia una competizione su binari prevedibili.

Traducendo dal sito della Rand, leggiamo in un recentissimo rapporto che per limitare i pericoli, pur in un contesto di intensa competizione, è possibile “individuare meccanismi limitati di stabilizzazione in diverse aree problematiche specifiche”, e in particolare gli analisi “offrono raccomandazioni specifiche sia per la stabilizzazione generale della rivalità sia per tre aree problematiche: Taiwan, il Mar Cinese Meridionale e la competizione in ambito scientifico e tecnologico”.

Le terre rare sono un elemento centrale dell’ultimo punto, ma Washington non sembra seguire in tutto e per tutto le indicazioni della Rand. Ad esempio, l’annuncio fatto da Trump tramite il social Truth del rilancio dei test nucleari non si allinea troppo bene con “l’accettazione reciproca della deterrenza nucleare strategica”.

Ma l’aver lasciato da parte, nel confronto a Busan, temi scottanti come Taiwan allontana un confronto militare più o meno diretto. Anduril ha stretto importanti accordi per l’industria bellica con Taipei, ad esempio, ma il rapporto con Washington si è spostato da una difesa senza condizioni a una difesa da pagare profumatamente. Magari anche con il trasferimento, almeno parziale, delle filiere dei chip sul suolo statunitense.

Soprattutto, la Rand ha scritto di “ripristinare diverse linee di comunicazione affidabili tra alti funzionari” e di “migliorare le pratiche di gestione delle crisi, i collegamenti e gli accordi tra le due parti”. L’incontro appena svoltasi va evidentemente in questa direzione: c’era una pletora di figure di spicco di entrambe le amministrazioni accanto ai due presidente.

Xi Jinping ha avallato questo abbassamento dei toni, e la possibilità di intese specifiche su dossier di interesse comune. “La Cina e gli Stati Uniti – ha detto all’inizio dell’incontro – possono assumersi congiuntamente le loro responsabilità di grandi potenze e lavorare insieme alla realizzazione di progetti più ambiziosi e concreti, per il bene dei nostri due paesi e del mondo intero”.

Trump ha già annunciato che si recherà in Cina il prossimo aprile, mentre Xi Jinping farà lo stesso negli Stati Uniti poco dopo, e sembra ci sarà un canale diretto per la negoziazione sulle questioni commerciali. Non un ‘telefono rosso’ come durante la Guerra Fredda, ma è chiaro che questo incontro è stato fatto perché i risultati che ne sono venuti fuori durassero. TACO permettendo.

Un ultimo paio di appunti vanno fatti. Washington e Pechino non sono gli unici attori in gioco. Trump ha annunciato anche nuovi accordi con la Corea del Sud, mentre un paio di giorni fa Cina e ASEAN hanno finalizzato un nuovo accordo commerciale al 47esimo summit dell’organizzazione del Sud-Est asiatico, tenutosi in Malesia. Intanto, l’Indonesia ha emesso per la prima volta obbligazioni sovrane prevalentemente in yuan.

Quello che abbiamo di fronte è un mondo che va cambiando profondamente, e il multipolarismo è un’evidente realtà. Le opportunità di alternative vanno colte anche alle nostre latitudini.

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L’Istat conferma: le retribuzioni reali in 4 anni hanno perso quasi il 10%

La questione dei salari da fame (e in generale del lavoro sottopagato) che attanaglia l’Italia non accenna a migliorare. E non potrebbe essere altrimenti con le politiche governative apertamente antipopolari. Anche se Giorgia Meloni continua a fregiarsi dei risultati del suo esecutivo, al solito sparando dati senza analizzarli, come quelli sulla disoccupazione.

Su questo giornale abbiamo più volte sottolineato come, ad esempio, oggi lavorare non tolga dal rischio povertà. Ed è facile capire perché, nonostante la propaganda governativa, quando si legge il rapporto periodico sui “Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali” dell’Istat, pubblicato ieri per il trimestre luglio-settembre.

“Le retribuzioni contrattuali in termini reali a settembre 2025 restano al di sotto dell’8,8% ai livelli di gennaio 2021”, scrive l’istituto di statistica. I salari hanno perso quasi un decimo del loro potere d’acquisto negli ultimi quattro anni, segnati dall’inflazione galoppante e dalla mancanza di conseguenti adeguamenti salariali.

Già l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, qualche giorno fa, aveva messo in guardia sul fatto che, nel secondo trimestre dell’anno in corso, la dinamica delle retribuzioni salariali era andata rallentando. Ora l’Istat afferma che anche nel trimestre appena passato “la crescita tendenziale delle retribuzioni ha rallentato”, pur mantenendosi al di sopra del tasso di inflazione.

È evidente che ciò non basta per recuperare l’aumento dei prezzi a cui abbiamo assistito dopo le politiche fallimentari fatte di sanzioni e guerra commerciale, implementate sempre più pesantemente dopo l’intervento russo in Ucraina. Le scelte deflattive della BCE hanno aiutato solo le banche a fare extraprofitti, mentre il mantenimento di salari bassi è stato salutato con compiacimento da Francoforte.

La retribuzione oraria media è cresciuta del 3,3% nel periodo gennaio-settembre 2025, rispetto allo stesso lasso di tempo del 2024, con incrementi differenziati nei diversi settori. “L’indebolimento della dinamica salariale – scrive l’Istat – è sintesi di un marcato rallentamento nel settore industriale, di una sostanziale stabilità nei servizi privati e di una lieve accelerazione nel comparto pubblico, a seguito dell’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale”.

A settembre 2025, i contratti nazionali ancora in attesa di rinnovo sono 29, coinvolgendo “circa 5,6 milioni di dipendenti, il 43,1% del totale”. Inoltre, “il tempo medio di attesa di rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto, tra settembre 2024 e settembre 2025, è passato da 18,3 a 27,9 mesi; per il totale dei dipendenti da 9,6 a 12,0 mesi”.

Ciò mostra sia il fatto che tanti adeguamenti – seppur insufficienti – mancano ad arrivare, peggiorando la condizione dei lavoratori, sia che è sempre più difficile trovare una composizione delle contraddizioni tra capitale e lavoro, nonostante i sindacati complici che firmano la qualunque. E mostra anche come solo un salario minimo per legge possa rappresentare una ‘rete di salvataggio’ per chi vive della propria fatica.

Questa, come altre rivendicazioni, dovranno necessariamente animare le mobilitazioni contro la prossima legge di bilancio, fatta solo di tagli e spese militari, che già sono state chiamate, a partire dallo sciopero generale indetto da USB per il 28 novembre.

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In Germania è isteria di guerra nelle scuole

Ventiquattr’ore su ventiquattro, politici, funzionari, militari e giornalisti aziendali bombardano la popolazione tedesca con notizie e scenari dell'orrore per giustificare i miliardi di euro che vengono investiti in armi e i preparativi generali per la guerra.

Sabato, ad esempio, l’ex ispettore generale della Bundeswehr, Eberhard Zorn, ha lanciato da solo il “piano d’attacco russo” regolarmente evocato dai propagandisti della NATO e dagli ufficiali dell’intelligence per il 2029: “Potrebbe essere il 2026. Potrebbe essere stasera”, ha dichiarato a Springer’s World. E il giornale non si chiede se il generale in pensione faccia sul serio, ma se sia davvero sufficiente iniziare a registrare i giovani nell’esercito fino al 2027.

Ma la propaganda non vuole davvero prendere piede. L’entusiasmo del popolo di questo paese per la guerra è ancora limitato, così come la volontà dei giovani di alzare la testa nella Bundeswehr per la “difesa” di uno Stato che non ha più nulla da offrire loro. Secondo vari sondaggi degli ultimi giorni, ad esempio dell’Università di Bielefeld o di Greenpeace, fino a due terzi dei giovani rifiutano ancora la reintroduzione del servizio militare obbligatorio, nonostante il costante fuoco propagandistico dei media.

È qui che entra in gioco Alexander Dobrindt. Il ministro dell’Interno della Repubblica Federale Tedesca vuole rivolgersi direttamente ai giovani, lì dove non possono fuggire: a scuola. In un’intervista all’Handelsblatt (edizione domenicale), l’uomo della CSU ha annunciato di voler lavorare alla prossima conferenza dei ministri dell’Interno per “integrare il tema della prevenzione delle crisi nella vita scolastica di tutti i giorni”.

Il suo suggerimento è “che in un anno scolastico, in una doppia lezione, gli studenti più grandi discutano quali scenari di minaccia possono esserci e come prepararsi ad affrontarli”. Dopotutto, i bambini sono “importanti portatori di conoscenza” nelle famiglie.

A quanto pare, il ministro federale dell’Interno spera che gli scolari – spaventati da alcuni “scenari di minaccia” – portino con sé la paura della Russia per infettare i loro genitori e fratelli.

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E allora in Sudan? Anche lì, siete sempre voi

Ci sono stati chiaramente ordini di scuderia ed una campagna organizzata. Lo ha svelato lo stesso ambasciatore di Israele in Italia, Jonathan Peled, oramai membro a tutti gli effetti del governo Meloni, con particolari competenze sulla propaganda e l’ordine pubblico.

In un suo lungo post sui social il governatore di Netanyahu in Italia ha accusato tutti coloro che sono scesi in piazza per la Palestina di averlo fatto solo per ragioni politiche strumentali, perché nel frattempo nel Sudan è in corso un vero genocidio, verso il quale i terribili propal sarebbero completamente insensibili.

Assieme al capo propaganda, sono subito scesi nel campo delle tempeste di troll giornalisti politici e opinionisti di destra e liberali, che probabilmente prima non avrebbero neppure saputo trovare sulla cartina il Sudan ed in particolare la regione del Darfur, dove si compiono le maggiori stragi.

“E allora il Sudan?” Urlano in coro con l’ambasciatore tutti costoro.

Come se uno sterminio ne attenuasse o cancellasse un altro. “E allora gli armeni?”, intimava il ministro della propaganda nazista Goebbels, quando in qualche consesso internazionale gli venivano rivolte domande sugli ebrei.

Usare un altro delitto per affermare che in fondo non si è così cattivi e forse neppure colpevoli, è la tipica autodifesa di ogni criminale, che però non lo scagiona, anzi. Per quanto mi riguarda il fatto che oggi i sostenitori di Israele si nascondano dietro le stragi in Sudan, è la conferma della loro assoluta malafede e della loro piena consapevolezza del genocidio che Israele sta compiendo a Gaza.

Ma c’è un altro fatto. Le immani stragi di donne e bambini nel grande stato africano, la carestia volutamente provocata per sterminare la popolazione, il genocidio in Sudan insomma, sono in gran parte opera delle milizie denominate RSF, Rapid Support Forces, che spadroneggiano nel Darfur e vorrebbero conquistare tutto il paese.

Queste milizie, colpevoli da anni di enormi crimini, hanno un principale sostenitore che li finanzia e li arma: gli Emirati Arabi Uniti. Questo stato, guidato da una dittatura di sceicchi straricchi per il petrolio, è il primo alleato di Israele nel Medio Oriente.

E a loro volta gli Emirati hanno come primo nemico gli Houthi dello Yemen, che come sappiamo sostengono fino in fondo la resistenza palestinese.

Insomma tutto si tiene. Il principale complice arabo di Israele nel genocidio in Palestina, è responsabile anche del genocidio in Sudan

Quindi quando sentiamo dire "e allora in Sudan?" Dobbiamo rispondere: anche lì i criminali siete sempre voi.

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La bufala Tomahawk e il tifo di UE e Kiev

di Fabio Mini

Americani e russi stanno sostenendo la finzione che esista una guerra soltanto fra Russia e Ucraina. La finzione è politicamente conveniente per entrambi fintanto che essa permette di continuare a dialogare.

Sebbene la mistificazione della realtà non sia di grande aiuto nelle guerre perché alimenta soltanto la propaganda, in questo caso potrebbe tornare utile. Si tratterebbe dell’unico caso nella Storia che un falso pretesto sia adottato per fare la pace. Sempre che essa sia veramente contemplata almeno come obiettivo sussidiario.

Nel caso della guerra in Ucraina la Storia ha già parlato. A partire dal 2004, gli Stati Uniti non si sono limitati a dare sostegno all’Ucraina e al rovesciamento del regime legittimo appoggiando e finanziando le frange estreme anti-russe.

Le forze armate e di sicurezza degli Stati Uniti di cui il presidente è comandante in capo sono state profondamente coinvolte nella questione ucraina. Con la guerra nel Donbass ufficiali statunitensi hanno partecipato attivamente alla preparazione, equipaggiamento e addestramento delle forze ucraine non solo “regolari” ma soprattutto irregolari. Le stesse che fino al 2014 gli Usa definivano milizie private degli oligarchi ucraini e bande neonaziste.

L’attuale Comandante supremo della Nato, nel periodo successivo alla débâcle ucraina del 2015, quando era in servizio presso il comando delle forze statunitensi in Europa ha diretto per conto degli Usa e non della Nato, la ricostituzione dell’esercito ucraino. Ufficiali statunitensi e britannici hanno effettivamente diretto e comandato le offensive ucraine nelle regioni di Kherson e Kharkiv nel 2022. Le uniche ad aver avuto un minimo successo.

Come è stato ampiamente confermato, anche dal New York Times, gli americani hanno sostanzialmente comandato la controffensiva ucraina dell’estate 2023. Un’azione fallita completamente e che gli americani hanno voluto addebitare all’incapacità ucraina. Ed è stato ampiamente confermato che gli inglesi hanno svolto un ruolo molto simile con un’operazione risultata catastrofica attraverso il Dniepr che gli ucraini hanno cercato di condurre nell’inverno del 2023-2024.

Da sempre gli Stati Uniti forniscono intelligence e dati di targeting all’Ucraina. Almeno da luglio 2024 hanno aiutato l’Ucraina a condurre attacchi con droni contro posizioni russe, comprese le raffinerie di petrolio all’interno della Russia. E naturalmente, di recente hanno iniziato a parlare di fornire missili Tomahawk all’Ucraina per condurre attacchi in profondità praticamente in tutta la Russia.

Quindi, come ha ammesso una volta il Segretario di Stato americano Marco Rubio, evidentemente alle prime armi e ignaro del significato delle parole che pronunciava, questa è quantomeno una guerra per procura tra Ucraina, Russia e Stati Uniti.

Anche la perplessità di Trump nel fornire all’Ucraina i missili Tomahawk è legata alla finzione che non sia coinvolto nella guerra. La fornitura dei missili porta con sé lo spiegamento in Ucraina di forze militari Usa e contractors per operarli e questo farebbe decadere la finzione dell’estraneità rispetto alla guerra.

Ma è un dettaglio trascurabile come lo è stato per gli Atacms, i Patriot, i Taurus tedeschi e altri mezzi. Non è nemmeno una questione di disponibilità. Gli Usa hanno circa settemila di queste armi e Zelensky ne chiede “soltanto” un centinaio. Sarebbe semmai una questione di soldi perché ogni missile disponibile costa circa 2 milioni di dollari e quelli per rimpiazzarli il doppio. Ma anche questo elemento è superabile specie se i dollari sono virtuali o a debito, o sottratti agli assetti finanziari russi congelati in Europa.

Ma la cosa più importante per il Pentagono è la funzione di deterrenza che tali missili assolvono e che non ammette finzioni. La deterrenza è una strana bestia, deve essere credibile e funziona soltanto se, durante l’impiego, gli effetti reali corrispondono a quelli minacciati. Se tale rapporto non viene rispettato la minaccia perde di credibilità.

I Tomahawk, come gli stessi bombardieri tattici e strategici, con gittata fino a 2.500 chilometri, possono portare testate convenzionali e nucleari. Ufficialmente gli attuali missili imbarcati sono armati di sole testate convenzionali perché quelle nucleari sarebbero state ritirate nel 2010, ma da allora a oggi il clima di fiducia tra Russia e Usa è crollato e quello tra Russia e Ucraina è inesistente.

Nessuno può dire se le amministrazioni precedenti di Obama e Biden o Trump stesso non abbiano restituito le testate alla loro funzione iniziale. E se lo dicono nessuno ci crede.

Inoltre, il presunto ritiro degli ordigni ha segnato il rinnegamento dei trattati di limitazione e controllo sugli armamenti nucleari, mentre gli Stati Uniti sono tornati a esprimersi in chiari termini di guerra contro la Russia.

I missili Tomahawk appartengono alla categoria delle armi di teatro. Non appartengono alla Triade nucleare strategica che comprende i missili intercontinentali balistici da sommergibili e da terra e dai bombardieri strategici. Ma sono nati come fulcro della deterrenza convenzionale e nucleare tattica.

Come armamento di teatro (a esempio Europa) l’incertezza sul reale munizionamento è un fattore che aumenta la deterrenza, ma anche il rischio di escalation nucleare dal livello tattico a quello strategico. I russi lo hanno chiarito in modo inequivocabile: l’incertezza li costringe a considerare tutti i mezzi a lungo raggio come potenziali vettori nucleari e quindi ad agire di conseguenza entrando di fatto nella guerra nucleare.

I Tomahawk sono spiegati in tutto il globo a bordo di piattaforme navali e sommergibili. Hanno velocità di crociera relativamente bassa, inferiore a quella del suono, e guida con rilevamento ottico di punti stabiliti sulla mappa elettronica di bordo. Possono sfuggire ai radar ma non al jamming elettronico e all’avvistamento ottico propri delle difese contraeree più elementari. Nei lunghi percorsi possono essere intercettati e inseguiti e raggiunti dai moderni missili supersonici e quelli ipersonici che i russi possiedono e usano regolarmente.

Finora il missile è stato impiegato con cariche convenzionali contro avversari completamente privi di difesa aerea e missilistica su obiettivi fissi chiaramente individuabili, attraversando aree sicure per la compiacenza o l’alleanza di Stati terzi. In pratica un impiego facile e sicuro, di grande effetto che ha contribuito al mito della loro letalità.

Tuttavia, dare all’Ucraina 20-50 missili che impiegherebbe per attacchi in profondità sulla Russia significa far attraversare al missile aree con difesa aerea avanzata, con capacità d’intercettazione e abbattimento elevate e con capacità di reazione che supera decuplicata quella dell’azione subita.

In Ucraina l’efficacia delle precedenti armi “risolutive” come gli Atacms e Patriot è crollata dal dichiarato 90% al 6%. Considerando che gli Usa con i Tomahawk tengono sotto ricatto intere nazioni e sotto tiro milioni di poveracci e che hanno ingenti ordini di acquisto (ad esempio 175 dalla sola Olanda), non si possono permettere il lusso di vederne diminuita la credibilità ai fini della deterrenza.

Il Pentagono lo sa e lo ha detto chiaramente al presidente che a sua volta deve nicchiare e continuare nella finzione di non essere coinvolto. Lo sanno anche al Cremlino e assistono stupefatti alla piega infantile assunta dall’argomento.

Da parte loro Ucraina ed Europa, che non fanno parte della partita strategica e se ne infischiano delle conseguenze, puntano sull’azzardo rischiando il tutto per tutto o per niente continuando nella finzione che l’ennesima arma letale possa far capitolare la Russia.

In realtà entrambe vogliono punire Trump e liquidarlo nella prospettiva che un cambio di amministrazione porti di nuovo l’America nel conflitto europeo. Senza finzioni né funzioni.

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“Tentativo USA di corrompere un pilota per rapire Maduro”

Associated Press, agenzia di stampa internazionale con sede a New York, ha rivelato che una recente inchiesta ha fatto emergere come ci sia stato un tentativo di corrompere il pilota del presidente venezuelano Nicolas Maduro, per rapirlo e portarlo in un luogo dove le forze USA avrebbero potuto arrestarlo, con accuse infondate riguardanti il narcotraffico.

La vicenda è stata raccontata da tre funzionari statunitensi, ancora attivi e in pensione, e anche da uno degli oppositori di Maduro. Tutte e quattro le fonti hanno parlato a condizione di anonimato. L’Associated Press ha esaminato, verificato e autenticato gli scambi di messaggi tra il pilota e l’agente stelle-e-strisce che ha portato avanti il tentativo di corruzione.

La storia prende le mosse nel maggio 2024, e protagonista è l’agente investigativo della Sicurezza Nazionale statunitense, Edwin Lopez, in quel momento in servizio come attaché nella Repubblica Dominicana. Lì, era venuto a sapere che due jet privati, spesso utilizzati per trasportare Maduro, erano atterrati nella nazione caraibica per delle riparazioni.

Lopez ha intravisto un’opportunità, e quando il personale dell’aeronautica militare venezuelana è arrivato a Santo Domingo per ritirare gli aerei, l’investigatore statunitense ottenne il permesso di parlare con gli aviatori. Lopez chiese al pilota di Maduro di dirottare il velivolo del presidente venezuelano verso un luogo dove potesse essere catturato dalle autorità statunitensi.

Il luogo dove farlo atterrare poteva essere scelto liberamente dal pilota tra tre opzioni: la Repubblica Dominicana, Porto Rico o la base militare statunitense di Guantanamo, a Cuba, stando a quel che hanno affermato due delle fonti dell’Associated Press. In cambio, l’aviatore sarebbe diventato molto ricco e Lopez gli avrebbe persino promesso l’adorazione di milioni di venezuelani.

In questa storia compare dunque il pilota di Maduro, Bitner Villegas, membro della guardia d’onore presidenziale d’élite. Il quale non si è pronunciato con l’agente statunitense, ma gli ha comunque dato il suo numero di telefono. Lopez è andato in pensione quest’anno, ma avrebbe comunque ricontattato Villegas pochi mesi fa.

“Sto ancora aspettando la tua risposta”, avrebbe scritto l’agente al pilota lo scorso 7 agosto, allegando anche il link al comunicato stampa del Dipartimento di Giustizia USA che annunciava l’aumento della taglia messa sulla testa di Maduro a 50 milioni di dollari, dopo l’accusa emessa nei suoi confronti nel 2020 per narcoterrorismo, con la quale era stato accusato senza prove di inondare gli States con la cocaina.

Qualche giorno dopo, un altro messaggio sarebbe arrivato a Villegas: “c’è ancora tempo per essere l’eroe del Venezuela e stare dalla parte giusta della storia”. Il pilota, però, ha respinto le pressioni statunitensi. E di conseguenza, a quel punto si è messa in moto la macchina del fango e della disinformazione.

Marshall Billingslea, un altro ex funzionario della sicurezza nazionale USA, ha pubblicato un messaggio di auguri per Villegas il giorno del suo 48esimo compleanno. Dopo pochi giorni, ad ogni modo, il pilota è comparso in un programma televisivo molto seguito, condotto dal Ministro degli Interni Diosdado Cabello: il ministro scherzava sulla corruzione dell’esercito, mentre Villegas alzava il pugno chiuso in segno di lealtà.

È evidente che il tempismo dei messaggi mandati di recente da Lopez non è casuale, ma è stato orchestrato insieme alle massime autorità degli Stati Uniti. Al di là delle artificiose accuse mosse a Caracas intorno al traffico di droga (che sono alla base dei vari attacchi a piccole imbarcazioni nei Caraibi e nel Pacifico di questi giorni), il tentativo di corruzione si inserisce in un quadro di pressione avviato da Washington contro il legittimo presidente venezuelano.

Bisogna notare che il contatto tra Lopez e Villegas è avvenuto quando c’era ancora Biden alla Casa Bianca, rivelando il tentativo continuo di destabilizzazione della regione, e anche i meccanismi illegali con cui gli Stati Uniti pretendono di affermare la propria supremazia su quello che considerano il proprio ‘cortile di casa’.

È la stessa Associated Press, ad ogni modo, a far notare non solo la portata, ma la superficialità degli USA nei tentativi di rovesciare il governo di Caracas. Su questo, possiamo stendere un velo pietoso, mentre allo stesso tempo ci ricorda l’importanza di mantenere alta l’attenzione per solidarizzare e difendere l’esperienza bolivariana, oggi pesantemente sotto attacco.

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L’ONU rinnova la sua condanna per il Bloqueo a Cuba

Nei giorni 28 e 29 ottobre si è dibattuta e votata nella sede delle Nazioni Unite, per la 32esima volta, durante la sessione ordinaria dell’Assemblea Generale dell’ONU, la risoluzione presentata da Cuba intitolata “Necessità di porre fine al blocco economico. commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba”.

Dal 1992 Cuba chiede al mondo l’opinione sul genocida blocco economico, commerciale e finanziario che gli Stati Uniti dal 1962 applicano all’isola caraibica per aver deciso di essere un paese socialista. La Casa Bianca non ha mai perdonato a Fidel e a coloro che avevano combattuto per la loro libertà e per la sovranità del paese di aver cacciato la loro marionetta Fulgencio Batista.

Durante la sessione tutti i paesi e le organizzazioni che hanno preso la parola, ad eccezione ovviamente degli Stati Uniti, hanno manifestato il loro rifiuto riguardo al blocco e hanno chiesto di cancellare l’ingiusto provvedimento che ogni giorno mette i cubani di fronte a mille problemi.

Questa sessione avviene nel mezzo delle pressioni esercitate da Washington nei confronti dei paesi europei e dell’America Latina per modificare il loro voto a favore di Cuba. Nelle lettere inviate ai governi, delle vere e proprie minacce, la Casa Bianca sostiene l’insostenibile affermando che non esiste nessun blocco economico, commerciale e finanziario nei confronti di Cuba, che tutti i problemi che la popolazione soffre sono da imputare alla inefficiente e incapace gestione del governo dell’isola, che Cuba è una minaccia alla libertà della regione, che è una minaccia agli interessi statunitensi e che attualmente sta appoggiando la Russia nel conflitto con l’Ucraina avendo inviato al fronte 20 mila cubani.

Il ministro degli esteri cubano Bruno Rodriguez Parrilla, durante il suo intervento, ha sottolineato che il blocco applicato dagli Stati Uniti ha lo scopo di provocare una sovversione del popolo cubano nei confronti del legittimo governo. Le centinaia di misure di cui si compone il blocco colpiscono direttamente la popolazione in ogni settore della vita quotidiana, dalla salute, all’educazione, passando per le difficoltà nel reperimento dei principali generi alimentari e all’attuale crisi energetica.

Le pressioni esercitate dalla Casa Bianca non hanno ottenuto l’effetto immaginato a Washington: 165 paesi hanno votato a favore della risoluzione presentata da Cuba, 7 contro e 11 si sono astenuti.

Hanno votato contro: Stati Uniti, Israele, Ucraina, Ungheria, Argentina, Macedonia del Nord, Paraguay. Si sono astenuti: Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Moldavia, Micronesia, Palau, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Singapore, Svezia, Togo, Somalia.

«Il voto delle Nazioni Unite che, ancora una volta, condanna in maniera schiacciante il bloqueo economico, commerciale e finanziario contro Cuba rappresenta l’ennesima dimostrazione del totale fallimento della strategia statunitense. Washington ha cercato per decenni di isolare l’isola, di piegarne la sovranità e di soffocare un modello sociale alternativo, ma la realtà politica internazionale mostra esattamente il contrario: è l’imperialismo che resta isolato», afferma il professor Luciano Vasapollo che, intervistato da FarodiRoma, ricorda come «il blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba è stato introdotto dagli Stati Uniti nel febbraio 1962 in risposta alla decisione dell’isola di essere un paese socialista. Il blocco a cui Cuba è sottoposta condiziona in modo determinante lo sviluppo economico e sociale dell’isola e colpisce in modo diretto tutti i campi economici e sociali della vita del popolo cubano».

Sono colpite la sanità, l’istruzione, la cultura, il turismo, le telecomunicazioni, l’economia, la finanza e molto altro. Inoltre l’extraterrittorialità del blocco colpisce pure la nazioni che intendono liberamente commerciare ed avere relazioni economiche con l’isola caraibica perché gli Stati Uniti si arrogano il diritto di sanzionare chiunque non rispetti le leggi del loro blocco. «Ecco il perché – spiega il docente – del blocco a Cuba insieme all’attuale guerra economica contro il Venezuela, e la connessa destabilizzazione attuata due anni fa in Bolivia».

La finanza internazionale, rileva Vasapollo, ha giocato in tutto questo un ruolo centrale ma non riesce a creare condizioni affinché si risolva la crisi sistemica che cerca di superare attraverso le guerre, e il contrasto a qualsiasi forma di espressione di sovranità popolare e di avanzamento del mondo multicentrico.

Il blocco contro Cuba viola la Carta delle Nazioni Unite, provoca sofferenze nella popolazione dell’isola, è una misura ingiusta emanata in un momento storico oramai passato, è contrario al diritto internazionale, impedisce lo sviluppo economico dell’isola, l’extraterritorialità del blocco impedisce ai paesi terzi di commerciare con Cuba, è una misura immorale.

Per Vasapollo, docente de “La Sapienza” e analista dei processi economici latinoamericani, ciò che avviene all’ONU va letto come un segnale storico: «La quasi totalità dei paesi del mondo – Asia, Africa, America Latina, perfino molte nazioni europee – dice con chiarezza che il bloqueo è illegale, criminale e contrario ai più elementari principi del diritto internazionale. Gli Stati Uniti, che pretendono di essere arbitri morali del pianeta, restano inchiodati con una politica anacronistica, figlia della Guerra Fredda e di un’arroganza geopolitica che non trova più consensi».

L’economista sottolinea come il voto confermi il valore della resistenza cubana: «Nonostante i costi enormi imposti dal bloqueo, Cuba non ha mai rinunciato ai suoi principi: l’educazione e la sanità gratuite, la solidarietà internazionale, la cooperazione medica, la sovranità nelle scelte economiche. Questa coerenza etica e sociale è proprio ciò che molti popoli del Sud globale riconoscono oggi all’isola. La diplomazia cubana – fatta di dignità, dialogo e rigore – smonta con i fatti la narrazione tossica che Washington tenta di imporre».

Secondo Vasapollo, gli Stati Uniti avevano tentato di sfruttare la crisi economica internazionale per ottenere nuovi consensi alla loro posizione, ma senza successo: «La Casa Bianca pensava che l’aumento delle tensioni globali avrebbe creato un clima più favorevole a un irrigidimento sanzionatorio. Invece è successo l’opposto: i popoli del Mondo vedono nel bloqueo un simbolo dell’ingiustizia sistemica che colpisce tutte le nazioni che non accettano la subordinazione. La pretesa egemonica statunitense, di fronte al voto dell’Assemblea Generale, appare più debole che mai».

Infine, Vasapollo lega il voto ONU a un cambiamento strutturale nei rapporti di forza globali: «Non si tratta solo di solidarietà verso Cuba, che pure è fortissima. È il segno che l’ordine mondiale unipolare è in crisi e che le economie emergenti non accettano più che una potenza imponga unilateralmente sanzioni extraterritoriali. L’isolamento diplomatico degli Stati Uniti sul tema del bloqueo non è un episodio: è l’anticipazione di un nuovo equilibrio internazionale, fondato sul multipolarismo, sulla cooperazione e sul rispetto delle sovranità. Cuba, come sempre nella sua storia, apre la strada».

Vasapollo conclude con una sottolineatura piena di speranza: «La fine del bloqueo sarà il risultato inevitabile della pressione morale e politica globale. Ma, soprattutto, sarà la vittoria di un popolo che da oltre sessant’anni dimostra che un altro modello di società è possibile. E questo, per Washington, è il vero scandalo: non aver sconfitto Cuba, ma aver fallito nel cancellarne l’esempio».

Fonte

29/10/2025

L'Isola (2000) di Kim Ki-duk - Minirece

Le aziende italiane sognano grandi affari a Gaza

di Antonio Mazzeo

Le forze armate israeliane continuano a bombardare la Striscia di Gaza nonostante l’accordo di cessate il fuoco promosso da Donald Trump ma in Italia c’è già chi pensa a fare affari miliardari con la “ricostruzione” di Gaza City.

L’edizione italiana di Fortune (nota rivista economica USA) ha pubblicato un articolo dal significativo titolo “La ricostruzione a Gaza e le sfide per le imprese tricolore” in cui elenca le principali società che punterebbero a mettere le mani sull’affaire, stimato internazionalmente tra i 50 e i 70 miliardi di dollari.

“Le aziende europee avranno una corsia privilegiata nelle gare per la ricostruzione, e in questo quadro aziende italiane come Webuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire, potrebbero partecipare alle attività di ricostruzione”, scrive Fortune Italia.

“Prysmian potrebbe essere coinvolta nella fornitura dei cavi dell’alta tensione per ripristinare la rete elettrica e di quelli per l’elettrificazione degli edifici. Ci sono poi aziende come Buzzi Unicem e Cementir che potrebbero essere coinvolte in ogni caso, essendo tra i maggiori produttori al mondo di cemento e calcestruzzo (e quindi in grado di collaborare con chiunque sarà il committente dei lavori)”.

In pole position dunque le aziende leader del settore costruzioni ed engineering, prima fra tutte la Webuild assopigliatutto delle Grandi Opere in Italia, prima fra tutti il Ponte sullo Stretto di Messina, irrealizzabile, ma per cui è previsto comunque un investimento non inferiore ai 15 miliardi di euro.

“Si parla di aziende italiane di dimensione globale, abituate a destreggiarsi in mezzo continente, tra appalti e tecnologie all’avanguardia”, commenta ancora Fortune. Che poi si lancia in giudizi politici positivi per la destra al governo in Italia. “È interessante notare due fattori che potrebbero favorire le aziende italiane: la prossimità geografica, che consente di abbattere i costi di trasporto rispetto ad altri competitor e la prossimità politica, perché indubbiamente il ruolo equilibrato del governo Meloni, favorevole alla pace ma contrario a frettolosi riconoscimenti di nuovi stati e non equidistante tra Israele e un gruppo terroristico come Hamas, ci rende più credibili agli occhi di americani e israeliani”.

Fonte

Intelligenza artificiale: al servizio del capitale o strumento di liberazione?

Intelligenza artificiale: riprodurre il dominio di classe attraverso mezzi più avanzati

Come ha notato Karl Marx in molte delle sue opere, ogni salto tecnologico all’interno del sistema capitalista non porta alla liberazione umana, ma alla riproduzione del dominio di classe con mezzi più avanzati. Pertanto, gli attuali sviluppi tecnologici non sono neutri, ma prendono forma all’interno dei rapporti di produzione prevalenti.

L’intelligenza artificiale, nonostante il suo enorme potenziale al servizio dell’umanità, è diventata uno strumento utilizzato dalla borghesia per rafforzare il suo controllo sul lavoro, dominare le risorse e rimodellare la coscienza di massa in modi che servono al sistema capitalista.

Così come le macchine sono state utilizzate durante la rivoluzione industriale per intensificare lo sfruttamento invece di ridurre l’orario di lavoro, l’intelligenza artificiale oggi viene impiegata nell’automazione per abbassare i costi di produzione e ridurre la necessità di lavoro umano nella maggior parte dei casi, imponendo condizioni di lavoro più precarie e meno sicure.

Ciò aggrava anche l’alienazione, poiché i lavoratori manuali e intellettuali vengono trasformati in strumenti umani nei loro luoghi di lavoro e sostituiti da algoritmi, il che porta a un aumento della disoccupazione o li costringe a cercare un lavoro alternativo. Allo stesso tempo, si impongono nuovi rapporti di produzione in cui la borghesia stringe la presa sui mezzi di produzione digitale. In questo contesto, l’intelligenza artificiale diventa uno strumento per riprodurre lo sfruttamento nella sua forma più avanzata.

L’intelligenza artificiale come strumento di controllo, repressione e lavaggio della coscienza di massa

Il controllo capitalistico sull’intelligenza artificiale non si ferma più alla riproduzione dei rapporti di produzione, ma è diventato anche uno strumento diretto di controllo e di repressione politica. Oggi, l’intelligenza artificiale viene utilizzata nei sistemi di sorveglianza di massa, nel riconoscimento facciale, nell’analisi del comportamento politico di individui e gruppi e altro ancora.

Ciò consente ai regimi repressivi, anche nei paesi cosiddetti democratici, di intervenire preventivamente per indebolire o contrastare qualsiasi potenziale resistenza di sinistra radicale che attraversi le “linee rosse” prestabilite, cioè ponga una seria minaccia alla struttura del sistema capitalista.

La sorveglianza digitale oggi va oltre la semplice eliminazione di contenuti o il blocco degli account. Assume la forma di “autocensura volontaria”, in cui gli individui iniziano a modificare i propri discorsi e le proprie opinioni per paura della censura o delle sanzioni digitali. Ciò riduce la capacità delle organizzazioni di sinistra e progressiste di mobilitare le masse e aiuta a trasformare Internet, in larga misura, in uno spazio governato dalla logica del mercato capitalista e dal dominio statale.

Oltre al suo ruolo nel rimodellare i rapporti di lavoro e migliorare il controllo e la repressione, la maggior parte delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, proprio come i media in tutte le sue forme passate e presenti, sono utilizzate come strumenti per manipolare la consapevolezza di massa e instillare i valori capitalisti.

Questo viene fatto attraverso algoritmi che controllano il flusso di informazioni, guidano il discorso pubblico e tentano di imporre una realtà culturale singolare che rafforza il dominio del mercato e il consumo individuale come valori naturali e inevitabili.

Oggi, l’intelligenza artificiale è tra gli strumenti più efficaci per consolidare questa egemonia ideologica. Gli algoritmi sono configurati per guidare le masse verso l’accettazione del capitalismo come il sistema migliore, persino eterno. Questo viene fatto gradualmente, dolcemente e impercettibilmente, dando agli utenti la falsa impressione che il sistema sia completamente neutro.

Nel corso del tempo, il pubblico può essere trasformato in un “docile gregge facilmente guidabile”, indebolendo la coscienza di classe appiattendo il pensiero progressista e critico e riducendo il discorso politico a banali questioni secondarie, invece di analizzare l’attuale struttura politica, economica e sociale basata sullo sfruttamento.

L’alternativa di sinistra: affrontare la schiavitù digitale e liberare la tecnologia

Reindirizzare l’intelligenza artificiale al servizio delle persone piuttosto che del capitale richiede lo sviluppo di sistemi open source e trasparenti con orientamenti neutrali, gestiti democraticamente e soggetti alla supervisione della comunità, come soluzione attualmente fattibile.

Richiede anche l’approvazione di una legislazione internazionale per regolamentare il suo funzionamento per garantire che serva la società nel suo complesso, fino a quando non verranno proposte alternative progressiste e di sinistra basate sulla proprietà comunitaria come soluzione necessaria, lontana dal monopolio delle grandi aziende.

Dobbiamo lottare per garantire che l’intelligenza artificiale sia utilizzata per ridurre l’orario di lavoro senza abbassare i salari, ottenere un’equa distribuzione delle risorse, promuovere la giustizia e l’uguaglianza, ecc., consentendo all’umanità di beneficiare della tecnologia nelle sue forme più ampie e di costruire un mondo migliore.

La lotta per l’intelligenza artificiale non può essere separata dalla più ampia lotta di classe. Pertanto, la lotta contro lo sfruttamento dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in generale è una parte vitale della più ampia lotta per la liberazione umana dallo sfruttamento capitalista.

Liberare la tecnologia dalla morsa del capitale e reindirizzarla al servizio delle masse e raggiungere la giustizia sociale e un’alternativa socialista non è solo una scelta, è una necessità storica imposta dalle crescenti contraddizioni all’interno dello stesso sistema capitalista.

Questo deve essere uno dei compiti principali delle forze di sinistra, progressiste e di destra in tutto il mondo; Altrimenti, ci troveremo di fronte a una nuova era di schiavitù digitale, se non ci stiamo già vivendo, in cui le élite capitaliste controllano ogni aspetto della vita, dal lavoro al pensiero, alla coscienza e all’esistenza quotidiana.

Costruire Internazionali della Sinistra Digitale

L’umanità oggi si trova di fronte a un controllo globale senza precedenti da parte delle grandi aziende tecnologiche, degli stati capitalisti e dei regimi autoritari sull’intelligenza artificiale e sulla tecnologia in generale. Ciò rende la formazione di alleanze globali di sinistra e internazionali una necessità inevitabile per affrontare questa egemonia.

Queste alleanze devono andare oltre le differenze ideologiche tra le varie organizzazioni di sinistra e progressiste, con l’obiettivo di unificare ampiamente gli sforzi, e soprattutto in questo campo, per sviluppare tecnologie alternative open-source o di sinistra che servano alla giustizia sociale e all’uguaglianza.

Questo confronto richiede l’adozione di politiche e programmi efficaci, come garantire l'afflusso di fondi indipendenti attraverso il finanziamento cooperativo e le campagne di sostegno popolare, lontano dai finanziamenti condizionati dai governi capitalisti. È anche necessario lottare per l’imposizione di politiche fiscali progressive alle grandi società tecnologiche e per reindirizzare parte dei loro enormi profitti a sostegno di progetti sociali e cooperativi.

La reazione capitalista prevista non può essere ignorata, le corporazioni e gli stati dominanti imporranno ostacoli legali e tecnici per contrastare qualsiasi alternativa tecnologica progressista di sinistra, anche sopprimendola e sabotandola in vari modi. Pertanto, è fondamentale adottare strategie proattive per sviluppare sistemi resistenti alla repressione tecnologica che garantiscano l’indipendenza digitale e la capacità di competere tecnologicamente.

Attrarre i giovani, sviluppare competenze ed eliminare l’analfabetismo digitale all’interno delle organizzazioni di sinistra

L’intelligenza artificiale e la tecnologia digitale rappresentano una nuova e importante arena di lotta di classe. Il capitalismo continua a investire intensamente e costantemente in strumenti digitali per rafforzare la sua egemonia, mentre la maggior parte delle organizzazioni di sinistra soffre di un chiaro divario digitale.

La presenza digitale non si limita più alla gestione delle pagine dei social media o alla pubblicazione di dichiarazioni online, ma è diventata una necessità strategica che richiede lo sviluppo di infrastrutture tecnologiche indipendenti, possedute e gestite da organizzazioni di sinistra e progressiste. Per garantire la sopravvivenza della sinistra in quest’epoca, è essenziale concentrarsi sull’eliminazione dell’analfabetismo digitale attraverso programmi di formazione che consentano ai leader e ai membri di comprendere e utilizzare efficacemente gli strumenti digitali, e persino di contribuire al loro sviluppo.

I giovani svolgono un ruolo fondamentale in questa trasformazione, in quanto hanno la capacità di assorbire rapidamente gli sviluppi tecnologici e di applicarli efficacemente nell’attivismo di sinistra. Attraverso le loro competenze in aree come i social network, YouTube, l’intelligenza artificiale, la sicurezza digitale, l’analisi dei dati e altro ancora, non solo possono colmare il divario digitale all’interno delle organizzazioni di sinistra, ma anche guidarle verso la costruzione di politiche digitali indipendenti.

Ciò richiede anche di attrarre talenti tecnici verso il pensiero di sinistra e di creare ambienti organizzativi flessibili che consentano a ingegneri, programmatori e tutti coloro che sono interessati alla tecnologia di lavorare su progetti progressisti indipendenti lontano dalle società monopolistiche.

Questi sforzi dovrebbero includere la creazione di scuole digitali e l’apertura di workshop locali e globali che offrano formazione tecnica avanzata in aree quali l’uso ottimale ed efficace della tecnologia, la sicurezza digitale, l’analisi dei dati, lo sviluppo collaborativo di software e altro ancora. L’influenza della sinistra dovrebbe anche essere rafforzata attraverso le reti professionali e le piattaforme tecniche per espandere la portata delle idee progressiste all’interno dei circoli tecnologici e attirarle nei ranghi della sinistra.

La posizione sulle attuali applicazioni dell’intelligenza artificiale

La domanda importante qui è: le forze di sinistra possono beneficiare dell’attuale intelligenza artificiale, nonostante sia un prodotto capitalista e non neutrale?

La risposta non è un semplice sì o no. Fino a quando non saranno sviluppate alternative progressiste di sinistra, i movimenti di sinistra e progressisti potranno utilizzare attentamente e criticamente l’intelligenza artificiale esistente per espandere la loro influenza nell’affrontare l’egemonia capitalista e i sistemi autoritari. Questa tecnologia può essere impiegata per analizzare i dati politici e sociali, comprendere i modelli di cambiamento economico e identificare le questioni più urgenti per le comunità della classe lavoratrice.

L’intelligenza artificiale può anche essere utilizzata per studiare le tendenze dell’opinione pubblica, il che potrebbe aiutare i movimenti di sinistra a sviluppare programmi e politiche più scientifici, realistici ed efficaci, basati non solo su ciò che si desidera ma su ciò che è possibile, fondati su bisogni reali che portano a varie teorie di sinistra, non il contrario. Può migliorare la loro capacità di influenza politica e di massa.

Inoltre, l’intelligenza artificiale può essere uno strumento efficace per smascherare la disinformazione praticata dalle istituzioni capitaliste e dai regimi autoritari, analizzare il discorso dominante dei media per smantellare la manipolazione e il controllo ideologico e contrastarlo con una narrativa progressista di sinistra avanzata e di opposizione, contribuendo ad aumentare la consapevolezza di massa.

Questi strumenti possono migliorare i media di sinistra che riflettono gli interessi delle classi lavoratrici e dei gruppi emarginati, rendendo possibile raggiungere un pubblico più ampio e presentare contenuti anticapitalisti e antiautoritari in modi più incisivi ed economici.

Dal punto di vista organizzativo, l’intelligenza artificiale può migliorare i meccanismi di coordinamento e interazione all’interno delle organizzazioni di sinistra analizzando le dinamiche organizzative, identificando i punti di forza e di debolezza e migliorando la coesione tra membri e gruppi.

Aiuta anche nella gestione delle informazioni all’interno delle organizzazioni, valutando l’efficacia delle politiche attuali, identificando modelli di lavoro di successo e migliorando così le prestazioni organizzative collettive, riducendo la burocrazia e promuovendo una comunicazione interna più fluida ed efficace.

Tuttavia, è fondamentale avvicinarsi a questa tecnologia con cautela e consapevolezza critica, assicurandosi che rimanga uno strumento di supporto piuttosto che una forza dominante. Deve essere utilizzata per rafforzare l’organizzazione politica e di massa e la lotta sul campo, senza sostituirsi ad esse. Devono essere sempre applicati una rigorosa supervisione umana e un auditing. È essenziale evitare di cadere nella trappola di un’eccessiva dipendenza dalla tecnologia o di permetterle di rimodellare le priorità della lotta secondo la sua logica tecnica radicata in un ambiente capitalista.

Conclusioni

Liberare l’intelligenza artificiale e la tecnologia digitale dalla morsa del capitale e trasformarle in strumenti al servizio del popolo è una lotta urgente di fronte a un sistema capitalista che sfrutta queste tecnologie per rafforzare il dominio di classe e approfondire le disuguaglianze sociali.

La tecnologia non deve rimanere sotto il controllo delle corporazioni monopolistiche e degli stati autoritari dominanti, ma deve essere posta sotto il controllo democratico popolare che la reindirizza verso il raggiungimento della giustizia e dell’uguaglianza, lo smantellamento delle relazioni di produzione sfruttatrici e la costruzione di una società socialista democratica basata sulla proprietà collettiva e sulla gestione comunitaria delle risorse digitali.

L’uso tecnologico deve inoltre rispettare rigorosi standard ambientali, impiegando l’intelligenza artificiale per ridurre i danni ambientali invece di diventare un nuovo strumento per l’esaurimento delle risorse e il deterioramento del clima.

Tuttavia, la resistenza a questa egemonia non può avvenire individualmente o in isolamento, richiede la costruzione di internazionali digitali di sinistra e alleanze progressiste in grado di imporre alternative tecnologiche progressiste e rafforzare la cooperazione e il coordinamento tra organizzazioni di sinistra e progressiste, sindacati, gruppi per i diritti umani e sostenitori della tecnologia.

Devono inoltre essere garantite risorse finanziarie indipendenti per sostenere tali sforzi attraverso meccanismi di finanziamento cooperativo e collettivo. Inoltre, il divario digitale all’interno delle organizzazioni di sinistra deve essere colmato promuovendo l’alfabetizzazione digitale, attraendo talenti tecnici e creando piattaforme educative progressiste open source incentrate sulla programmazione, l’analisi dei dati e le competenze di sicurezza delle informazioni al servizio di cause sociali e politiche.

La sinistra non può rimanere spettatrice degli sviluppi tecnologici, deve penetrare la fortezza digitale non solo criticando il sistema esistente, ma anche producendo le proprie alternative tecniche di sinistra.

Nella fase attuale, le organizzazioni di sinistra devono avvicinarsi all’intelligenza artificiale con cautela e consapevolezza critica, sfruttando il suo potenziale nell’analisi politica, nella mobilitazione di massa, nei media e altro ancora, mentre lavorano costantemente per sviluppare strumenti tecnologici indipendenti liberi dal controllo delle grandi aziende.

La lotta per liberare la tecnologia è inseparabile dalla lotta di classe contro il capitalismo, e la vera liberazione non può essere raggiunta senza il controllo collettivo sugli strumenti della produzione digitale. In definitiva, la questione non riguarda solo la tecnologia, ma la lotta per il futuro della società umana stessa.

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