31/10/2024
Lo sciopero generale di Landini e Bombardieri e gli accordi firmati da Cgil e Uil. USB conferma lo sciopero generale il 13 dicembre
I segretari di Cgil e Uil hanno annunciato uno sciopero generale per la fine di novembre contro il governo Meloni e la sua legge di bilancio. È sempre una buona notizia quando le grandi organizzazioni sindacali decidono di uscire dalla passività e chiamano i lavoratori alla lotta, ma l’annuncio stride con il comportamento delle stesse organizzazioni ai tavoli negoziali.
Negli ultimi tempi hanno continuato a firmare accordi e contratti che peggiorano le condizioni di lavoro e sul piano salariale non consentono nemmeno di recuperare la perdita di potere d’acquisto subita in questi anni. Inoltre, quando sottopongono in modo corretto gli accordi al vaglio dei lavoratori ricevono per lo più sonori schiaffoni, al punto che sono costretti a millantare assemblee che si rifiutano di tenere, inventandosi di aver raccolto l’approvazione dei lavoratori, è il caso dei portuali di questi giorni.
Ed infine, è sempre più frequente il mancato rinnovo delle RSU e la firma di accordi con RSU scadute da anni, per esempio nelle ferrovie. E infine il nodo dei rapporti con la Cisl. Non fanno lo sciopero generale insieme, ma poi sono d’accordo e firmano assieme praticamente tutti i contratti.
Vediamo alcuni casi concreti.
Hanno appena firmato con la Cisl il contratto dei portuali sonoramente bocciato a Genova e dato per approvato negli altri porti sulla base di assemblee fantasma o consultazioni disertate dalla stragrande maggioranza dei lavoratori. Hanno firmato un accordo nella manutenzione delle ferrovie, insieme alla Cisl, che aumenta la flessibilità, aggravando i problemi della sicurezza in un settore martoriato da orribili stragi, e che è stato bocciato da ripetuti scioperi che hanno coinvolto più del 90% della categoria.
Hanno firmato il contratto nazionale per i lavoratori Rai, anche lì con la Cisl, che è stato bocciato dal referendum tra i lavoratori. Hanno firmato un accordo nella più grande azienda del trasporto locale, l’Atac di Roma, anche lì con la Cisl, che rispecchia la stessa logica di quello delle ferrovie perché aumenta la flessibilità e allarga a dismisura il sistema dei turni spezzati, contro il quale ha scioperato qualche giorno fa la gran parte dei dipendenti dell’azienda.
Continuano a firmare accordi e contratti nel mondo del lavoro povero, sottopagato, è meglio dire, sempre insieme alla Cisl, con paghe orarie abbondantemente al di sotto della decenza e dei limiti costituzionali, riconosciuti recentemente anche dalla Corte Costituzionale.
Nel settore delle cooperative sociali l’ultimo rinnovo, lo scorso anno, si è tenuto abbondantemente al di sotto del rincaro dei prezzi degli ultimi anni. In primavera hanno rinnovato i contratti del commercio, anche lì assieme alla Cisl, concedendo un aggravio di flessibilità oraria in un settore dove il lavoro è già sottoposto ad una fortissima elasticità. E la lista potrebbe continuare ancora a lungo, ci scusiamo per tutte le categorie che non abbiamo citato!
La pratica dello sciopero generale e della difesa del salario comincia dai posti di lavoro. L’USB conferma lo sciopero generale e generalizzato del 13 dicembre.
Fonte
Negli ultimi tempi hanno continuato a firmare accordi e contratti che peggiorano le condizioni di lavoro e sul piano salariale non consentono nemmeno di recuperare la perdita di potere d’acquisto subita in questi anni. Inoltre, quando sottopongono in modo corretto gli accordi al vaglio dei lavoratori ricevono per lo più sonori schiaffoni, al punto che sono costretti a millantare assemblee che si rifiutano di tenere, inventandosi di aver raccolto l’approvazione dei lavoratori, è il caso dei portuali di questi giorni.
Ed infine, è sempre più frequente il mancato rinnovo delle RSU e la firma di accordi con RSU scadute da anni, per esempio nelle ferrovie. E infine il nodo dei rapporti con la Cisl. Non fanno lo sciopero generale insieme, ma poi sono d’accordo e firmano assieme praticamente tutti i contratti.
Vediamo alcuni casi concreti.
Hanno appena firmato con la Cisl il contratto dei portuali sonoramente bocciato a Genova e dato per approvato negli altri porti sulla base di assemblee fantasma o consultazioni disertate dalla stragrande maggioranza dei lavoratori. Hanno firmato un accordo nella manutenzione delle ferrovie, insieme alla Cisl, che aumenta la flessibilità, aggravando i problemi della sicurezza in un settore martoriato da orribili stragi, e che è stato bocciato da ripetuti scioperi che hanno coinvolto più del 90% della categoria.
Hanno firmato il contratto nazionale per i lavoratori Rai, anche lì con la Cisl, che è stato bocciato dal referendum tra i lavoratori. Hanno firmato un accordo nella più grande azienda del trasporto locale, l’Atac di Roma, anche lì con la Cisl, che rispecchia la stessa logica di quello delle ferrovie perché aumenta la flessibilità e allarga a dismisura il sistema dei turni spezzati, contro il quale ha scioperato qualche giorno fa la gran parte dei dipendenti dell’azienda.
Continuano a firmare accordi e contratti nel mondo del lavoro povero, sottopagato, è meglio dire, sempre insieme alla Cisl, con paghe orarie abbondantemente al di sotto della decenza e dei limiti costituzionali, riconosciuti recentemente anche dalla Corte Costituzionale.
Nel settore delle cooperative sociali l’ultimo rinnovo, lo scorso anno, si è tenuto abbondantemente al di sotto del rincaro dei prezzi degli ultimi anni. In primavera hanno rinnovato i contratti del commercio, anche lì assieme alla Cisl, concedendo un aggravio di flessibilità oraria in un settore dove il lavoro è già sottoposto ad una fortissima elasticità. E la lista potrebbe continuare ancora a lungo, ci scusiamo per tutte le categorie che non abbiamo citato!
La pratica dello sciopero generale e della difesa del salario comincia dai posti di lavoro. L’USB conferma lo sciopero generale e generalizzato del 13 dicembre.
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Ambasciatrice USA in Libano lavora per la rivolta interna contro Hezbollah
Mentre ieri le forze armate israeliane hanno lanciato una delle ondate più distruttive di incursioni aeree nel Libano orientale e meridionale, una rivelazione fatta al quotidiano Al-Akhbar, con sede a Beirut, ha messo in evidenza le macchinazioni statunitensi sul paese dei cedri.
Una fonte di alto rango della sicurezza nazionale libanese ha fatto sapere che, in un recente incontro con alcuni politici del paese l’ambasciatrice USA in Libano, Lisa Johnson, avrebbe invitato ad attaccare direttamente Hezbollah, per sostenere Tel Aviv.
“Israele non può ottenere tutto con la guerra, è tempo che facciate la vostra parte e lanciate una rivolta interna per dire basta”, avrebbe detto la diplomatica. L’apertura di un ‘fronte interno‘ vuole essere preludio a un cambio di governo nel paese, da traghettare in un epoca senza Hezbollah e, ovviamente, allineato agli interessi occidentali.
Lisa Johnson avrebbe continuato affermando: “il popolo libanese deve dimostrare la sua volontà di ribellarsi e di sbarazzarsi di Hezbollah, tornando al contesto emerso dopo l’assassinio di Rafik Hariri (ex primo ministro, ndr), soprattutto perché le circostanze regionali, internazionali e sul campo sono a vostro favore”.
Di fronte a queste parole, sembra che anche i politici libanesi siano stati colti alla sprovvista. “Perché sembrate spaventati?”, ha aggiunto, “Hezbollah è stato sconfitto, la sua leadership è stata distrutta, e noi siamo con voi, e l’intero mondo libero è al vostro fianco”. Persino il quotidiano israeliano ha parlato di una “decisione insolita”.
Johnson ha invitato i politici libanesi a sostenere Joseph Aoun, vertice delle forze armate del paese (in foto con l’ambasciatrice di Washington), come nuovo presidente del Libano. Dalle fonti, sembra che abbia persino tracciato la roadmap del cambio di regime.
“[Aoun] nominerà un comandante forte per l’esercito libanese e noi sosterremo l’esercito nel frenare tutti i sostenitori di Hezbollah. Avrete il sostegno degli stati arabi e dell’Occidente. Ma è il momento di agire adesso”. In pratica, è stato un invito alla guerra civile.
La fonte ha infatti confermato che la Johnson sta già incitando organizzazioni civili e i media a creare una frattura tra la comunità sciita e il resto del Libano. Molti sono sfollati in altre zone del paese, dove si stanno alimentando anche le tensioni religiose.
Ma le mire a stelle-e-strisce vanno ben oltre Hezbollah, e raggiungono i suoi alleati a Teheran. “Non vogliamo solo limitare l’influenza di Hezbollah”, avrebbe affermato l'amasciatrice, “ma colpiremo anche le sue linee di sostegno e stiamo lavorando senza sosta per far cadere il regime anche in Iran”.
A questa operazione si accompagnano anche i movimenti degli agenti di Tel Aviv per destabilizzare il Libano dall’interno, e soprattutto la missione a Beirut di Amos Hochstein, lobbista e diplomatico statunitense nato in Israele. Obiettivo: modificare la Risoluzione 1701 dell’ONU.
Approvata nel 2006, Israele è in evidente violazione del testo con l’occupazione Shebaa Farms. Anche agli occhi del diritto internazionale, quindi, la risposta armata agli occupanti risulta quantomeno giustificata e Hezbollah assume perciò anche un ruolo ‘legale‘.
Questo è il quadro dell’offensiva mossa da Washington e da Israele all’interno del Libano, a sostegno dei continui bombardamenti portati avanti dalle forze sioniste e della violazione delle norme internazionali. Ma soprattutto, è un esempio lampante di come ha sempre operato la diplomazia statunitense, in particolare in Medio Oriente.
Se le mosse occidentali andranno a buon fine, ciò significherà lo scoppio di una guerra civile che andrà a colpire innanzitutto la popolazione, gettando il Libano in una situazione ancora più critica di quella attuale. Un copione che abbiamo già visto in Libia, ad esempio, dove infuriano gli scontri tra fazioni da più di dieci anni.
Gli Stati Uniti e i suoi alleati continuano ad accelerare l’escalation globale, e sono sempre più il principale pericolo per la pace.
Fonte
Una fonte di alto rango della sicurezza nazionale libanese ha fatto sapere che, in un recente incontro con alcuni politici del paese l’ambasciatrice USA in Libano, Lisa Johnson, avrebbe invitato ad attaccare direttamente Hezbollah, per sostenere Tel Aviv.
“Israele non può ottenere tutto con la guerra, è tempo che facciate la vostra parte e lanciate una rivolta interna per dire basta”, avrebbe detto la diplomatica. L’apertura di un ‘fronte interno‘ vuole essere preludio a un cambio di governo nel paese, da traghettare in un epoca senza Hezbollah e, ovviamente, allineato agli interessi occidentali.
Lisa Johnson avrebbe continuato affermando: “il popolo libanese deve dimostrare la sua volontà di ribellarsi e di sbarazzarsi di Hezbollah, tornando al contesto emerso dopo l’assassinio di Rafik Hariri (ex primo ministro, ndr), soprattutto perché le circostanze regionali, internazionali e sul campo sono a vostro favore”.
Di fronte a queste parole, sembra che anche i politici libanesi siano stati colti alla sprovvista. “Perché sembrate spaventati?”, ha aggiunto, “Hezbollah è stato sconfitto, la sua leadership è stata distrutta, e noi siamo con voi, e l’intero mondo libero è al vostro fianco”. Persino il quotidiano israeliano ha parlato di una “decisione insolita”.
Johnson ha invitato i politici libanesi a sostenere Joseph Aoun, vertice delle forze armate del paese (in foto con l’ambasciatrice di Washington), come nuovo presidente del Libano. Dalle fonti, sembra che abbia persino tracciato la roadmap del cambio di regime.
“[Aoun] nominerà un comandante forte per l’esercito libanese e noi sosterremo l’esercito nel frenare tutti i sostenitori di Hezbollah. Avrete il sostegno degli stati arabi e dell’Occidente. Ma è il momento di agire adesso”. In pratica, è stato un invito alla guerra civile.
La fonte ha infatti confermato che la Johnson sta già incitando organizzazioni civili e i media a creare una frattura tra la comunità sciita e il resto del Libano. Molti sono sfollati in altre zone del paese, dove si stanno alimentando anche le tensioni religiose.
Ma le mire a stelle-e-strisce vanno ben oltre Hezbollah, e raggiungono i suoi alleati a Teheran. “Non vogliamo solo limitare l’influenza di Hezbollah”, avrebbe affermato l'amasciatrice, “ma colpiremo anche le sue linee di sostegno e stiamo lavorando senza sosta per far cadere il regime anche in Iran”.
A questa operazione si accompagnano anche i movimenti degli agenti di Tel Aviv per destabilizzare il Libano dall’interno, e soprattutto la missione a Beirut di Amos Hochstein, lobbista e diplomatico statunitense nato in Israele. Obiettivo: modificare la Risoluzione 1701 dell’ONU.
Approvata nel 2006, Israele è in evidente violazione del testo con l’occupazione Shebaa Farms. Anche agli occhi del diritto internazionale, quindi, la risposta armata agli occupanti risulta quantomeno giustificata e Hezbollah assume perciò anche un ruolo ‘legale‘.
Questo è il quadro dell’offensiva mossa da Washington e da Israele all’interno del Libano, a sostegno dei continui bombardamenti portati avanti dalle forze sioniste e della violazione delle norme internazionali. Ma soprattutto, è un esempio lampante di come ha sempre operato la diplomazia statunitense, in particolare in Medio Oriente.
Se le mosse occidentali andranno a buon fine, ciò significherà lo scoppio di una guerra civile che andrà a colpire innanzitutto la popolazione, gettando il Libano in una situazione ancora più critica di quella attuale. Un copione che abbiamo già visto in Libia, ad esempio, dove infuriano gli scontri tra fazioni da più di dieci anni.
Gli Stati Uniti e i suoi alleati continuano ad accelerare l’escalation globale, e sono sempre più il principale pericolo per la pace.
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Democrazia truccata
Il fatto che la maggioranza dei cittadini liguri abbia deciso di non votare in elezioni regionali, che pure erano state convocate per il collasso giudiziario della giunta precedente, non ha sollevato alcuna discussione nel sistema politico e nel suo corrispettivo mediatico.
Quello che a me pare il fatto più importante è diventato il tenue, scontato sfondo di analisi e proposte che stanno tutte dentro quel 46% che è andato alle urne. È meglio Renzi di Conte, o magari Grillo? E a Meloni va bene di vincere con percentuali dimezzate per il suo partito? E che faranno Schlein e Bonaccini, litigheranno? E Bonelli e Fratoianni per quale larghezza del loro campo tifano?
Politici e giornalisti di palazzo, cioè quasi tutti, si occupano del campo sempre più ristretto degli elettori attivi, il resto non interessa davvero. Del resto i politologi liberali hanno a lungo definito la riduzione della partecipazione al voto come il necessario effetto di un democrazia soddisfatta e matura. Non so se lo pensino ancora, certo che la nostra nostra democrazia più che matura sembra sempre più marcia.
Oggi non è la soddisfazione pacificata che riduce la partecipazione al voto, ma il suo esatto opposto, l’insoddisfazione rabbiosa e al tempo stesso rassegnata sulle possibilità di cambiare qualcosa della propria condizione ingiusta. È il popolo che in maggioranza non va più a votare, perché si sente sempre più suddito di decisioni immodificabili e non cittadino con diritti da rivendicare e far valere.
Oggi nella politica domina il vecchio acronimo di Margaret Thatcher: TINA, there is not alternative, non c’è alternativa.
Non c’è alternativa alla guerra e al genocidio, non c’è alternativa all’austerità economica, non c’è alternativa alla catastrofe ambientale. Chi propone vere alternative su questi temi vitali è subito tacciato di essere fuori dal mondo, ridotto ad un ruolo minoritario e, se protesta troppo, severamente punito. La competizione ammessa è quella tra chi si contende la migliore esecuzione della stessa politica, o al massimo la sua variante più mediatica.
È ovvio che la minoranza conservatrice e reazionaria, in questo campo ristretto, finisca per essere maggioranza o per dettare l’agenda alla maggioranza. Pensiamo alla questione dei migranti in Europa e negli Stati Uniti, dove è la destra reazionaria e razzista a spostare continuamente verso il fascismo la risposta ad una gigantesca questione sociale, con le forze liberal-democratiche che affannosamente inseguono.
L’Italia era il paese dove si votava di più quando c’era il più grande partito comunista dell’Occidente, ora è il paese dove si vota di meno. Nessun paese democratico ha avuto un crollo come il nostro nella partecipazione alle elezioni.
Pensiamo poi al fatto che è proprio alle elezioni regionali e per i comuni delle grandi città che vanno meno persone a votare. Ma come, la Regione ed il Comune sono le istituzioni più vicine ai cittadini, si occupano di tanti aspetti della loro vita quotidiana, eppure sono vissute come le più lontane?
Si chiamavano una volta enti locali, proprio per sottolinearne la maggiore prossimità verso le persone rispetto alle istituzioni nazionali. Ora un presidente di regione appare più distante di un presidente del consiglio. E adesso vogliono anche aggiungere l’orrore dell’autonomia differenziata.
La realtà è che la politica locale è ancora più imbragata di quella nazionale, che almeno a volte può fuggire nelle suggestioni. Negli enti locali domina brutalmente il partito unico degli affari, del cemento, delle privatizzazioni e dei tagli ai servizi sociali.
Avete capito che differenza ci fosse tra Bucci e Orlando, sulle dighe, sulle gronde, sul turismo, sulla casa, sulla sanità, sugli appalti? Io no e secondo me nemmeno la maggioranza degli elettori. La verità è che in questo campo ristretto della politica sono in tanti a salire più o meno metaforicamente sugli yacht degli armatori, anche quando non si commettono reati.
E così alla fine il cane si morde la coda: una politica sempre più escludente che viene sempre più esclusa dall’interesse dei cittadini. E al palazzo politico mediatico va bene così, altrimenti oggi avremmo riunioni su riunioni dei partiti per capire le ragioni dell’astensione, mentre gli inviati di giornali e tv sarebbero nei quartieri popolari a chiedere chi e perché non vota.
Invece non gliene importa niente. Anzi questo sistema è il loro migliore prodotto.
Hanno varato una miriade di regole burocratiche per impedire agli outsider di candidarsi. Poi hanno innalzato sbarramenti per essere eletti. Poi hanno costruito clientele e fedeltà e le hanno difese con montagne di soldi, senza i quali la campagna elettorale è proibitiva. Poi hanno i mass media e infine la selezione più radicale, quella del maggioritario. Si vota solo per chi può vincere, non per chi ti possa rappresentare meglio.
La democrazia è truccata e a chi è privilegiato dai trucchi va bene così.
Nasce però una domanda: c’è un limite oltre il quale il sistema entri in contraddizione con se stesso, una riduzione della partecipazione al voto tale da mettere in crisi il potere?
Nel suo romanzo distopico “Saggio sulla lucidità” José Saramago racconta della capitale di uno stato posta sotto assedio militare dal governo, perché alle elezioni non aveva partecipato nessuno. Arriveremo a questo? Magari no, però sarebbe ora di mettere la partecipazione al voto al centro delle preoccupazioni di chi si ritenga ancora un democratico.
Prima di tutto bisognerebbe buttare a mare il maggioritario e ripristinare il proporzionale, con vere pari condizioni per tutti i partecipanti: dovrebbero essere i cittadini a selezionare con il voto chi deve rappresentarli, non chi è già nelle istituzioni e nei mass media e vuole escludere tutti gli altri.
Solo per questa via si ricostruirebbe una politica in grado di misurarsi sulle alternative reali e non su quelle finte. Solo per questa via la destra conservatrice e reazionaria sarebbe ricondotta alle sue proporzioni reali.
Ma so perfettamente che nessuno dei principali partiti sarà mai disponibile a cambiare il sistema da cui trae alimento. Attendiamo dunque, e magari operiamo per, la crisi inevitabile di questo sistema; fino ad allora il massimo di solidarietà a chi, pur sapendo che sarà sconfitto, partecipa testardamente alle elezioni per affermare i principi di una vera democrazia.
Fonte
Quello che a me pare il fatto più importante è diventato il tenue, scontato sfondo di analisi e proposte che stanno tutte dentro quel 46% che è andato alle urne. È meglio Renzi di Conte, o magari Grillo? E a Meloni va bene di vincere con percentuali dimezzate per il suo partito? E che faranno Schlein e Bonaccini, litigheranno? E Bonelli e Fratoianni per quale larghezza del loro campo tifano?
Politici e giornalisti di palazzo, cioè quasi tutti, si occupano del campo sempre più ristretto degli elettori attivi, il resto non interessa davvero. Del resto i politologi liberali hanno a lungo definito la riduzione della partecipazione al voto come il necessario effetto di un democrazia soddisfatta e matura. Non so se lo pensino ancora, certo che la nostra nostra democrazia più che matura sembra sempre più marcia.
Oggi non è la soddisfazione pacificata che riduce la partecipazione al voto, ma il suo esatto opposto, l’insoddisfazione rabbiosa e al tempo stesso rassegnata sulle possibilità di cambiare qualcosa della propria condizione ingiusta. È il popolo che in maggioranza non va più a votare, perché si sente sempre più suddito di decisioni immodificabili e non cittadino con diritti da rivendicare e far valere.
Oggi nella politica domina il vecchio acronimo di Margaret Thatcher: TINA, there is not alternative, non c’è alternativa.
Non c’è alternativa alla guerra e al genocidio, non c’è alternativa all’austerità economica, non c’è alternativa alla catastrofe ambientale. Chi propone vere alternative su questi temi vitali è subito tacciato di essere fuori dal mondo, ridotto ad un ruolo minoritario e, se protesta troppo, severamente punito. La competizione ammessa è quella tra chi si contende la migliore esecuzione della stessa politica, o al massimo la sua variante più mediatica.
È ovvio che la minoranza conservatrice e reazionaria, in questo campo ristretto, finisca per essere maggioranza o per dettare l’agenda alla maggioranza. Pensiamo alla questione dei migranti in Europa e negli Stati Uniti, dove è la destra reazionaria e razzista a spostare continuamente verso il fascismo la risposta ad una gigantesca questione sociale, con le forze liberal-democratiche che affannosamente inseguono.
L’Italia era il paese dove si votava di più quando c’era il più grande partito comunista dell’Occidente, ora è il paese dove si vota di meno. Nessun paese democratico ha avuto un crollo come il nostro nella partecipazione alle elezioni.
Pensiamo poi al fatto che è proprio alle elezioni regionali e per i comuni delle grandi città che vanno meno persone a votare. Ma come, la Regione ed il Comune sono le istituzioni più vicine ai cittadini, si occupano di tanti aspetti della loro vita quotidiana, eppure sono vissute come le più lontane?
Si chiamavano una volta enti locali, proprio per sottolinearne la maggiore prossimità verso le persone rispetto alle istituzioni nazionali. Ora un presidente di regione appare più distante di un presidente del consiglio. E adesso vogliono anche aggiungere l’orrore dell’autonomia differenziata.
La realtà è che la politica locale è ancora più imbragata di quella nazionale, che almeno a volte può fuggire nelle suggestioni. Negli enti locali domina brutalmente il partito unico degli affari, del cemento, delle privatizzazioni e dei tagli ai servizi sociali.
Avete capito che differenza ci fosse tra Bucci e Orlando, sulle dighe, sulle gronde, sul turismo, sulla casa, sulla sanità, sugli appalti? Io no e secondo me nemmeno la maggioranza degli elettori. La verità è che in questo campo ristretto della politica sono in tanti a salire più o meno metaforicamente sugli yacht degli armatori, anche quando non si commettono reati.
E così alla fine il cane si morde la coda: una politica sempre più escludente che viene sempre più esclusa dall’interesse dei cittadini. E al palazzo politico mediatico va bene così, altrimenti oggi avremmo riunioni su riunioni dei partiti per capire le ragioni dell’astensione, mentre gli inviati di giornali e tv sarebbero nei quartieri popolari a chiedere chi e perché non vota.
Invece non gliene importa niente. Anzi questo sistema è il loro migliore prodotto.
Hanno varato una miriade di regole burocratiche per impedire agli outsider di candidarsi. Poi hanno innalzato sbarramenti per essere eletti. Poi hanno costruito clientele e fedeltà e le hanno difese con montagne di soldi, senza i quali la campagna elettorale è proibitiva. Poi hanno i mass media e infine la selezione più radicale, quella del maggioritario. Si vota solo per chi può vincere, non per chi ti possa rappresentare meglio.
La democrazia è truccata e a chi è privilegiato dai trucchi va bene così.
Nasce però una domanda: c’è un limite oltre il quale il sistema entri in contraddizione con se stesso, una riduzione della partecipazione al voto tale da mettere in crisi il potere?
Nel suo romanzo distopico “Saggio sulla lucidità” José Saramago racconta della capitale di uno stato posta sotto assedio militare dal governo, perché alle elezioni non aveva partecipato nessuno. Arriveremo a questo? Magari no, però sarebbe ora di mettere la partecipazione al voto al centro delle preoccupazioni di chi si ritenga ancora un democratico.
Prima di tutto bisognerebbe buttare a mare il maggioritario e ripristinare il proporzionale, con vere pari condizioni per tutti i partecipanti: dovrebbero essere i cittadini a selezionare con il voto chi deve rappresentarli, non chi è già nelle istituzioni e nei mass media e vuole escludere tutti gli altri.
Solo per questa via si ricostruirebbe una politica in grado di misurarsi sulle alternative reali e non su quelle finte. Solo per questa via la destra conservatrice e reazionaria sarebbe ricondotta alle sue proporzioni reali.
Ma so perfettamente che nessuno dei principali partiti sarà mai disponibile a cambiare il sistema da cui trae alimento. Attendiamo dunque, e magari operiamo per, la crisi inevitabile di questo sistema; fino ad allora il massimo di solidarietà a chi, pur sapendo che sarà sconfitto, partecipa testardamente alle elezioni per affermare i principi di una vera democrazia.
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Regno Unito e Germania rafforzano la loro cooperazione militare
Il 23 ottobre scorso, il Regno Unito e la Germania hanno firmato quello che viene definito come un accordo “storico”, volto a rafforzare la cooperazione in materia di difesa tra i due Paesi. Denominato “Trinity House Agreement”, il patto firmato a Londra dai ministri della Difesa dei rispettivi Paesi – Boris Pistorius per la Germania e John Healey per il Regno Unito – fa seguito all’annuncio dello scorso 28 agosto.
Oltre a ribadire l’impegno nel “promuovere la stabilità sul fianco orientale della NATO, in Europa nel suo complesso e al di là dell’area euro-atlantica” in un contesto di “crescenti preoccupazioni per la sicurezza, esacerbate dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”, l’accordo abbraccia numerosi aspetti che saranno ulteriormente affinati per la finalizzazione del trattato, prevista l’anno prossimo.
“Con questo accordo, abbiamo messo a fuoco, con risorse e ambizione, i nostri obiettivi precedentemente dichiarati: rafforzare le industrie della difesa, rafforzare la sicurezza euro-atlantica, migliorare l’inter–operabilità, affrontare le minacce emergenti, sostenere l’Ucraina e l’attacco profondo di precisione”, afferma la dichiarazione congiunta.
La Germania e il Regno Unito sono i due maggiori contributori europei di aiuti militari all’Ucraina, con rispettivamente 10,6 e 9,4 miliardi di euro tra gennaio 2022 e fine agosto 2024, secondo i dati del Kiel Institute for the World Economy.
L’accordo prevede anche un lavoro congiunto sullo sviluppo di armi d’attacco a lungo raggio per “rafforzare la difesa aerea e missilistica integrata europea” e sul coordinamento delle attività di difesa aerea e missilistica integrata attraverso l’iniziativa europea “Sky Shield”.
La scorsa settimana il Regno Unito aveva già annunciato l’adesione a un’iniziativa europea su questo tema insieme a Germania, Italia, Francia e Polonia e, nel breve termine, si impegna a supportare l’equipaggiamento degli elicotteri “Sea King” donati dalla Germania con moderni sistemi missilistici.
Inoltre, l’accordo prevede che i due eserciti si addestrino insieme più spesso negli Stati baltici, utilizzando come catalizzatore le “Forward Land Forces” (il cui comando è a guida italiana dall’ottobre 2022). Gli aerei da pattugliamento marittimo tedeschi, utilizzati in particolare per la guerra antisommergibile, opereranno periodicamente dalla base scozzese di Lossiemouth per contribuire alla protezione del fianco nord-atlantico.
Il Regno Unito e la Germania lavoreranno insieme per rafforzare la cooperazione navale, con particolare attenzione all’Atlantico settentrionale e al Mare del Nord. All’inizio di questa settimana, la Germania ha inaugurato un nuovo centro di comando navale della NATO nel Mar Baltico, a Rostock, per coordinare le forze degli Stati membri dell’Alleanza nell’area. Il centro impiegherà 180 persone, compresi i rappresentanti britannici.
L’accordo mira inoltre a “promuovere una profonda partnership industriale tra le industrie della difesa britanniche e tedesche, anche assistendo i rispettivi appaltatori principali che desiderano espandere gli impianti di produzione nei rispettivi Paesi”. Per questo, viene annunciata anche l’apertura di una nuova fabbrica nel Regno Unito da parte dell’azienda tedesca Rheinmetall, con la promessa di creare più di 400 posti di lavoro.
“Questo accordo segna un percorso verso una più profonda cooperazione industriale”, ha dichiarato John Healey. Tuttavia, ciò richiederà un certo sforzo di coordinazione, visto che da un lato Berlino intende trasformare la Bundeswehr nel principale esercito convenzionale europeo e si concentra sulla difesa del territorio, mentre dall’altro Londra vuole rafforzare in via prioritaria le proprie capacità navali e aeree.
E alla domanda se questo accordo potesse rappresentare una minaccia per la cooperazione franco-tedesca, Boris Pistorius ha assicurato che Parigi è stata coinvolta nelle discussioni, anche in virtù trattato di “Lancaster House”, firmato nel 2010 da David Cameron e Nicolas Sarkozy e integrato da altri accordi bilaterali tra Francia e Regno Unito.
“Una delle idee dell’accordo di Trinity House è quella di rafforzare questi tre grandi Paesi europei attraverso accordi bilaterali”, ha dichiarato a Claudia Major, direttrice del gruppo di ricerca “Sicurezza internazionale” presso il think tank tedesco. Dato che Francia e Germania sono vincolate dai Trattati dell’Eliseo e di Aquisgrana, “mancava solo un accordo anglo-tedesco”, ha aggiunto.
“A tal fine, il nostro accordo diventerà un elemento cruciale nella più ampia architettura della sicurezza europea; è esplicitamente concepito per sostenere i nostri alleati e rafforzare il contributo europeo alla NATO”, conclude il comunicato congiunto firmato da Regno Unito e Germania.
La crisi economica e sociale morde in tutto il continente europeo – in particolare nella vecchia locomotiva tedesca e proprio nello storico settore faro dell’automobile – mentre manovre “lacrime e sangue” sono già pronte sui tavoli dei governi per “riallineare” i deficit e i debiti pubblici ai diktat della Commissione europea.
La corsa al riarmo e l’economia di guerra non sono altro che la drammatica conseguenza della crisi strutturale del modo di produzione capitalista e del tentativo forsennato da parte delle classi dirigenti occidentali di contrastare – ad ogni costo e a rischio di una catastrofe per l’intera umanità – l’inesorabile declino della propria egemonia su scala mondiale.
Fonte
Oltre a ribadire l’impegno nel “promuovere la stabilità sul fianco orientale della NATO, in Europa nel suo complesso e al di là dell’area euro-atlantica” in un contesto di “crescenti preoccupazioni per la sicurezza, esacerbate dalla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”, l’accordo abbraccia numerosi aspetti che saranno ulteriormente affinati per la finalizzazione del trattato, prevista l’anno prossimo.
“Con questo accordo, abbiamo messo a fuoco, con risorse e ambizione, i nostri obiettivi precedentemente dichiarati: rafforzare le industrie della difesa, rafforzare la sicurezza euro-atlantica, migliorare l’inter–operabilità, affrontare le minacce emergenti, sostenere l’Ucraina e l’attacco profondo di precisione”, afferma la dichiarazione congiunta.
La Germania e il Regno Unito sono i due maggiori contributori europei di aiuti militari all’Ucraina, con rispettivamente 10,6 e 9,4 miliardi di euro tra gennaio 2022 e fine agosto 2024, secondo i dati del Kiel Institute for the World Economy.
L’accordo prevede anche un lavoro congiunto sullo sviluppo di armi d’attacco a lungo raggio per “rafforzare la difesa aerea e missilistica integrata europea” e sul coordinamento delle attività di difesa aerea e missilistica integrata attraverso l’iniziativa europea “Sky Shield”.
La scorsa settimana il Regno Unito aveva già annunciato l’adesione a un’iniziativa europea su questo tema insieme a Germania, Italia, Francia e Polonia e, nel breve termine, si impegna a supportare l’equipaggiamento degli elicotteri “Sea King” donati dalla Germania con moderni sistemi missilistici.
Inoltre, l’accordo prevede che i due eserciti si addestrino insieme più spesso negli Stati baltici, utilizzando come catalizzatore le “Forward Land Forces” (il cui comando è a guida italiana dall’ottobre 2022). Gli aerei da pattugliamento marittimo tedeschi, utilizzati in particolare per la guerra antisommergibile, opereranno periodicamente dalla base scozzese di Lossiemouth per contribuire alla protezione del fianco nord-atlantico.
Il Regno Unito e la Germania lavoreranno insieme per rafforzare la cooperazione navale, con particolare attenzione all’Atlantico settentrionale e al Mare del Nord. All’inizio di questa settimana, la Germania ha inaugurato un nuovo centro di comando navale della NATO nel Mar Baltico, a Rostock, per coordinare le forze degli Stati membri dell’Alleanza nell’area. Il centro impiegherà 180 persone, compresi i rappresentanti britannici.
L’accordo mira inoltre a “promuovere una profonda partnership industriale tra le industrie della difesa britanniche e tedesche, anche assistendo i rispettivi appaltatori principali che desiderano espandere gli impianti di produzione nei rispettivi Paesi”. Per questo, viene annunciata anche l’apertura di una nuova fabbrica nel Regno Unito da parte dell’azienda tedesca Rheinmetall, con la promessa di creare più di 400 posti di lavoro.
“Questo accordo segna un percorso verso una più profonda cooperazione industriale”, ha dichiarato John Healey. Tuttavia, ciò richiederà un certo sforzo di coordinazione, visto che da un lato Berlino intende trasformare la Bundeswehr nel principale esercito convenzionale europeo e si concentra sulla difesa del territorio, mentre dall’altro Londra vuole rafforzare in via prioritaria le proprie capacità navali e aeree.
E alla domanda se questo accordo potesse rappresentare una minaccia per la cooperazione franco-tedesca, Boris Pistorius ha assicurato che Parigi è stata coinvolta nelle discussioni, anche in virtù trattato di “Lancaster House”, firmato nel 2010 da David Cameron e Nicolas Sarkozy e integrato da altri accordi bilaterali tra Francia e Regno Unito.
“Una delle idee dell’accordo di Trinity House è quella di rafforzare questi tre grandi Paesi europei attraverso accordi bilaterali”, ha dichiarato a Claudia Major, direttrice del gruppo di ricerca “Sicurezza internazionale” presso il think tank tedesco. Dato che Francia e Germania sono vincolate dai Trattati dell’Eliseo e di Aquisgrana, “mancava solo un accordo anglo-tedesco”, ha aggiunto.
“A tal fine, il nostro accordo diventerà un elemento cruciale nella più ampia architettura della sicurezza europea; è esplicitamente concepito per sostenere i nostri alleati e rafforzare il contributo europeo alla NATO”, conclude il comunicato congiunto firmato da Regno Unito e Germania.
La crisi economica e sociale morde in tutto il continente europeo – in particolare nella vecchia locomotiva tedesca e proprio nello storico settore faro dell’automobile – mentre manovre “lacrime e sangue” sono già pronte sui tavoli dei governi per “riallineare” i deficit e i debiti pubblici ai diktat della Commissione europea.
La corsa al riarmo e l’economia di guerra non sono altro che la drammatica conseguenza della crisi strutturale del modo di produzione capitalista e del tentativo forsennato da parte delle classi dirigenti occidentali di contrastare – ad ogni costo e a rischio di una catastrofe per l’intera umanità – l’inesorabile declino della propria egemonia su scala mondiale.
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L’Italia spenderà 8 miliardi di euro per un nuovo carro armato tedesco
Le commissioni Difesa di Camera e Senato hanno approvato ieri un nuovo contratto del valore di circa 8,2 miliardi di euro per acquistare carri armati MBT di nuova generazione.
È quanto riferisce l’emittente televisiva tedesca “N-tv” che cita fonti interne al governo italiano e un documento relativo redatto dall’esecutivo. Il progetto fa parte del piano del governo Meloni, per modernizzare l’esercito di fronte all’aumento dei conflitti e si fonda sull’accordo tra la tedesca Rheinmetall e l’italiana Leonardo spa.
Secondo le informazioni trapelate, il programma durerà dal 2025 al 2038 e risultano già stanziati circa 5,4 miliardi, mentre devono ancora essere stabiliti gli accordi per finanziare i restanti 2,7 miliardi. Il termine per esprimere il parere definitivo è stato fissato per il 5 novembre al Senato e il 10 novembre alla Camera.
“Il programma riguarda l’acquisizione di piattaforme di componenti pesanti, con particolare riferimento alla nuova generazione di carri armati da combattimento (Mbt)”, si legge nel documento.
Il carro armato Panther KF51 sviluppato da Rheinmetall costituirà la base per il nuovo mezzo corazzato che sostituirà il carro Ariete nell’esercito italiano. Il programma italiano prevede l’acquisizione futura di oltre 1.000 sistemi di combattimento corazzati in 16 varianti. Oltre al classico veicolo da combattimento di fanteria, ci saranno versioni antiaeree (Skyranger), da ricognizione e anticarro.
A luglio l’azienda italiana produttrice di armamenti Leonardo e la tedesca Rheinmetall avevano annunciato che si sarebbero unite in una joint venture, denominata Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (Lrm), il cui scopo principale era quello di sviluppare un nuovo modello di carro armato Mbt.
L’amministratore delegato della Rheinmetall AG Papperger ha dichiarato che: “Stiamo creando un nuovo peso massimo nella produzione europea di carri. Leonardo e Rheinmetall, due principali fornitori europei di tecnologie per la difesa, uniscono le forze per realizzare progetti ambiziosi. Ci rivolgiamo, in prima istanza, al mercato italiano, ma ci rivolgeremo anche ad altri paesi partner che in futuro avranno bisogno di modernizzare i loro sistemi di combattimento. Rheinmetall possiede le tecnologie perfette per le esigenze dell’Italia”.
Secondo Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo: “Si tratta di un passo significativo verso la creazione di un sistema della difesa europeo basato su piattaforme specializzate condivise. Rheinmetall e Leonardo puntano a sviluppare tecnologie all’avanguardia in grado di competere a livello internazionale”.
Il documento parlamentare approvato dalle Commissioni Difesa non fa alcun riferimento diretto alle due aziende, ma una delle fonti interne citate dai media ha affermato che Lrm sarà il principale partner industriale del progetto.
Fonte
È quanto riferisce l’emittente televisiva tedesca “N-tv” che cita fonti interne al governo italiano e un documento relativo redatto dall’esecutivo. Il progetto fa parte del piano del governo Meloni, per modernizzare l’esercito di fronte all’aumento dei conflitti e si fonda sull’accordo tra la tedesca Rheinmetall e l’italiana Leonardo spa.
Secondo le informazioni trapelate, il programma durerà dal 2025 al 2038 e risultano già stanziati circa 5,4 miliardi, mentre devono ancora essere stabiliti gli accordi per finanziare i restanti 2,7 miliardi. Il termine per esprimere il parere definitivo è stato fissato per il 5 novembre al Senato e il 10 novembre alla Camera.
“Il programma riguarda l’acquisizione di piattaforme di componenti pesanti, con particolare riferimento alla nuova generazione di carri armati da combattimento (Mbt)”, si legge nel documento.
Il carro armato Panther KF51 sviluppato da Rheinmetall costituirà la base per il nuovo mezzo corazzato che sostituirà il carro Ariete nell’esercito italiano. Il programma italiano prevede l’acquisizione futura di oltre 1.000 sistemi di combattimento corazzati in 16 varianti. Oltre al classico veicolo da combattimento di fanteria, ci saranno versioni antiaeree (Skyranger), da ricognizione e anticarro.
A luglio l’azienda italiana produttrice di armamenti Leonardo e la tedesca Rheinmetall avevano annunciato che si sarebbero unite in una joint venture, denominata Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (Lrm), il cui scopo principale era quello di sviluppare un nuovo modello di carro armato Mbt.
L’amministratore delegato della Rheinmetall AG Papperger ha dichiarato che: “Stiamo creando un nuovo peso massimo nella produzione europea di carri. Leonardo e Rheinmetall, due principali fornitori europei di tecnologie per la difesa, uniscono le forze per realizzare progetti ambiziosi. Ci rivolgiamo, in prima istanza, al mercato italiano, ma ci rivolgeremo anche ad altri paesi partner che in futuro avranno bisogno di modernizzare i loro sistemi di combattimento. Rheinmetall possiede le tecnologie perfette per le esigenze dell’Italia”.
Secondo Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo: “Si tratta di un passo significativo verso la creazione di un sistema della difesa europeo basato su piattaforme specializzate condivise. Rheinmetall e Leonardo puntano a sviluppare tecnologie all’avanguardia in grado di competere a livello internazionale”.
Il documento parlamentare approvato dalle Commissioni Difesa non fa alcun riferimento diretto alle due aziende, ma una delle fonti interne citate dai media ha affermato che Lrm sarà il principale partner industriale del progetto.
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La Grecia verso lo sciopero generale a Novembre
Gli scioperi hanno attraversato la Grecia nella settimana del 21 ottobre per protestare contro le misure di austerità imposte dal governo del primo ministro Kyriakos Mitsotakis. I lavoratori hanno chiesto aumenti salariali, il rafforzamento degli accordi di contrattazione collettiva e l’inversione delle riforme dei servizi pubblici, soprattutto nella sanità e nell’istruzione.
Le azioni in tutti i settori, tra cui alberghi, la metalmeccanica, i trasporti, la logistica e l’istruzione, stanno dando impulso allo sciopero generale convocato per il 20 novembre, dimostrando la frustrazione per il deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita.
I lavoratori dei traghetti hanno invitato i passeggeri a essere solidali, sottolineando che attualmente operano con poche squadre e in condizioni al di sotto degli standard. Gli scioperi hanno interrotto i principali servizi alberghieri, bloccato le rotte dei traghetti e portato in piazza i lavoratori dell’istruzione.
Nel periodo che ha preceduto la giornata di azione, il Ministero dell’Istruzione ha tentato di impedire ai lavoratori dell’istruzione primaria di scioperare con un’ordinanza del tribunale. Tuttavia, questo non ha fatto altro che alimentare la rabbia degli insegnanti e spingere i lavoratori di altri settori ad aderire. Alla fine, circa 3.000 lavoratori dell’istruzione hanno marciato per Atene, chiedendo aumenti salariali e il rispetto dell’attivismo sindacale ed esprimendo il loro sostegno alla Palestina.
I lavoratori greci hanno sempre dimostrato solidarietà con la Palestina, in particolare bloccando le spedizioni di armi attraverso i porti. A metà ottobre, i lavoratori portuali del porto del Pireo di Atene hanno bloccato un container di munizioni diretto in Israele. Il loro messaggio è stato chiaro: il governo dovrebbe dare priorità ai servizi sociali e ai diritti dei lavoratori rispetto alla guerra.
In linea con ciò, il Pame (Fronte militante di tutti i lavoratori) ha annunciato che il tema dello sciopero generale di novembre sarà “Fuori dai macelli della guerra; finanziate invece i salari, la salute e l’istruzione”.
Fonte
Le azioni in tutti i settori, tra cui alberghi, la metalmeccanica, i trasporti, la logistica e l’istruzione, stanno dando impulso allo sciopero generale convocato per il 20 novembre, dimostrando la frustrazione per il deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita.
I lavoratori dei traghetti hanno invitato i passeggeri a essere solidali, sottolineando che attualmente operano con poche squadre e in condizioni al di sotto degli standard. Gli scioperi hanno interrotto i principali servizi alberghieri, bloccato le rotte dei traghetti e portato in piazza i lavoratori dell’istruzione.
Nel periodo che ha preceduto la giornata di azione, il Ministero dell’Istruzione ha tentato di impedire ai lavoratori dell’istruzione primaria di scioperare con un’ordinanza del tribunale. Tuttavia, questo non ha fatto altro che alimentare la rabbia degli insegnanti e spingere i lavoratori di altri settori ad aderire. Alla fine, circa 3.000 lavoratori dell’istruzione hanno marciato per Atene, chiedendo aumenti salariali e il rispetto dell’attivismo sindacale ed esprimendo il loro sostegno alla Palestina.
I lavoratori greci hanno sempre dimostrato solidarietà con la Palestina, in particolare bloccando le spedizioni di armi attraverso i porti. A metà ottobre, i lavoratori portuali del porto del Pireo di Atene hanno bloccato un container di munizioni diretto in Israele. Il loro messaggio è stato chiaro: il governo dovrebbe dare priorità ai servizi sociali e ai diritti dei lavoratori rispetto alla guerra.
In linea con ciò, il Pame (Fronte militante di tutti i lavoratori) ha annunciato che il tema dello sciopero generale di novembre sarà “Fuori dai macelli della guerra; finanziate invece i salari, la salute e l’istruzione”.
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30/10/2024
UE: dazi fino al 45,3 per cento sulle auto elettriche importate dalla Cina
Il 29 ottobre 2024, la Commissione europea ha concluso la sua inchiesta “anti-sussidi” sui veicoli elettrici prodotti in Cina importati nel mercato comunitario, imponendo sugli stessi i seguenti dazi addizionali compensativi, che si sommano a quelli già in vigore, del 10 per cento:
- BYD: 17,0%
- Geely: 18,8%
- SAIC: 35,3%
- Le altre società che hanno collaborato con l’indagine avviata il 4 ottobre 2023 saranno soggette a dazi del 20,7 per cento.
- A seguito di una richiesta motivata di un esame individuale, a Tesla verrà assegnato un dazio del 7,8 per cento.
- Tutte le altre società che non hanno collaborato avranno un dazio del 35,3 per cento.
I dazi definitivi saranno riscossi a partire dal 31 ottobre 2024 e rimarranno in vigore per cinque anni.
La decisione dell’esecutivo comunitario si intreccia con la crisi del mercato dell’auto europeo, in particolare con l’intenzione di Volkswagen di chiudere almeno tre delle sue fabbriche in Germania, che danno lavoro a circa 15.000 persone. L’azienda sarebbe inoltre decisa a tagliare del 10 per cento gli stipendi e a bloccare gli aumenti per i prossimi due anni.
Il ministero del Commercio di Pechino ha fatto sapere che «la Cina non riconosce né accetta la sentenza definitiva dell’UE sull’indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici fabbricati in Cina e ha intentato una causa presso l’Organizzazione mondiale per il commercio attraverso il suo meccanismo di risoluzione delle controversie. La Cina continuerà ad adottare tutte le misure necessarie per salvaguardare fermamente i diritti e gli interessi legittimi delle aziende cinesi».
Lo stesso ministero nel fine settimana aveva reso noto che erano ripartiti i negoziati tecnici per arrivare a un accordo in base al quale le tariffe sarebbero state ridotte o sospese in cambio di un intesa con le aziende su un prezzo minimo per i veicoli elettrici made in China importati nella UE.
Tuttavia, i colloqui si sono arenati sullo scoglio “tecnico” del funzionamento di un simile accordo. Pechino pretendeva che l’intesa fosse applicata a tutte le aziende attraverso una camera di commercio governativa, mentre la Commissione intendeva negoziare con le singole aziende.
Oggi il governo di Pechino ha segnalato che la Cina e l’UE stanno conducendo una nuova fase di negoziati e che «si spera che l’UE, con un atteggiamento costruttivo, possa rilanciare i negoziati con la Cina e raggiungere rapidamente una soluzione accettabile per entrambe le parti aderendo a un approccio pragmatico, principi equilibrati e tenendo conto delle preoccupazioni reciproche per evitare l’escalation degli attriti commerciali». Ovvero una vera e propria guerra commerciale UE-Cina.
Pechino ha già pronta la rappresaglia, che potrà colpire una serie di settori sui quali ha avviato inchieste anti-dumping e anti sussidi. In particolare:
- sulle importazioni di carne di maiale, che arrivano principalmente dalla Spagna (che sull’aumento dei dazi si è astenuta), dalla Danimarca e dall’Olanda (entrambe favorevoli);
- sulle importazioni di latticini, rispetto alle quali i paesi più esposti sono Irlanda, Francia e Olanda (tutti e tre hanno votato “sì”);
- sulle importazioni di Cognac, con la Francia nel mirino;
- sulle importazioni di auto di grossa cilindrata, che colpirebbe Germania e Slovacchia (entrambi i paesi hanno però votato contro l’aumento dei dazi).
Fonte
- BYD: 17,0%
- Geely: 18,8%
- SAIC: 35,3%
- Le altre società che hanno collaborato con l’indagine avviata il 4 ottobre 2023 saranno soggette a dazi del 20,7 per cento.
- A seguito di una richiesta motivata di un esame individuale, a Tesla verrà assegnato un dazio del 7,8 per cento.
- Tutte le altre società che non hanno collaborato avranno un dazio del 35,3 per cento.
I dazi definitivi saranno riscossi a partire dal 31 ottobre 2024 e rimarranno in vigore per cinque anni.
La decisione dell’esecutivo comunitario si intreccia con la crisi del mercato dell’auto europeo, in particolare con l’intenzione di Volkswagen di chiudere almeno tre delle sue fabbriche in Germania, che danno lavoro a circa 15.000 persone. L’azienda sarebbe inoltre decisa a tagliare del 10 per cento gli stipendi e a bloccare gli aumenti per i prossimi due anni.
Il ministero del Commercio di Pechino ha fatto sapere che «la Cina non riconosce né accetta la sentenza definitiva dell’UE sull’indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici fabbricati in Cina e ha intentato una causa presso l’Organizzazione mondiale per il commercio attraverso il suo meccanismo di risoluzione delle controversie. La Cina continuerà ad adottare tutte le misure necessarie per salvaguardare fermamente i diritti e gli interessi legittimi delle aziende cinesi».
Lo stesso ministero nel fine settimana aveva reso noto che erano ripartiti i negoziati tecnici per arrivare a un accordo in base al quale le tariffe sarebbero state ridotte o sospese in cambio di un intesa con le aziende su un prezzo minimo per i veicoli elettrici made in China importati nella UE.
Tuttavia, i colloqui si sono arenati sullo scoglio “tecnico” del funzionamento di un simile accordo. Pechino pretendeva che l’intesa fosse applicata a tutte le aziende attraverso una camera di commercio governativa, mentre la Commissione intendeva negoziare con le singole aziende.
Oggi il governo di Pechino ha segnalato che la Cina e l’UE stanno conducendo una nuova fase di negoziati e che «si spera che l’UE, con un atteggiamento costruttivo, possa rilanciare i negoziati con la Cina e raggiungere rapidamente una soluzione accettabile per entrambe le parti aderendo a un approccio pragmatico, principi equilibrati e tenendo conto delle preoccupazioni reciproche per evitare l’escalation degli attriti commerciali». Ovvero una vera e propria guerra commerciale UE-Cina.
Pechino ha già pronta la rappresaglia, che potrà colpire una serie di settori sui quali ha avviato inchieste anti-dumping e anti sussidi. In particolare:
- sulle importazioni di carne di maiale, che arrivano principalmente dalla Spagna (che sull’aumento dei dazi si è astenuta), dalla Danimarca e dall’Olanda (entrambe favorevoli);
- sulle importazioni di latticini, rispetto alle quali i paesi più esposti sono Irlanda, Francia e Olanda (tutti e tre hanno votato “sì”);
- sulle importazioni di Cognac, con la Francia nel mirino;
- sulle importazioni di auto di grossa cilindrata, che colpirebbe Germania e Slovacchia (entrambi i paesi hanno però votato contro l’aumento dei dazi).
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Forze speciali Usa tra i mercenari uccisi in territorio russo
Il Servizio federale di sicurezza russo il 27 ottobre ha dichiarato che quattro sabotatori stranieri sono stati uccisi nel distretto di Klimovsky, nella regione di Bryansk, nell’ambito di una operazione condotta da un gruppo di 10 unità terrestri.
Tra le identità dei mercenari ci sono soldati statunitensi, canadesi e polacchi, notizia poi confermata dalle parole della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.
Forze speciali Usa impegnate al fronte
Nel silenzio dei media occidentali, la novità emersa martedì è che uno dei sabotatori era – o era stato – un ufficiale del 75° reggimento Ranger, o Army Rangers, unità di fanteria leggera aviotrasportata d’élite dell’esercito statunitense.
I Ranger sono un battaglione inquadrato all’interno del Comando per le operazioni speciali dell’esercito degli Stati Uniti (USASOC), alle dipendenze dirette del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
Il quartier generale e le unità principali delle forze di terra si trovano sul territorio dell’unità militare dell’esercito statunitense a Fort Moore, nello Stato federato della Georgia.
“Si tratta di un’unità di ricognizione in profondità, specializzata principalmente in atti di sabotaggio dietro le linee nemiche e nel distruggere infrastrutture militari e campi d’aviazione”, ha dichiarato Alexander Stepanov, direttore del programma dell’Accademia di scienze politiche e ricercatore senior presso l’Istituto dell’America Latina dell’Accademia delle scienze russa.
La natura dell’operazione
Questo significa che nella regione di Bryansk sono stati dispiegati specialisti altamente qualificati, con istruzioni precise data la delicatezza delle operazioni, probabilmente veterani addestrati in ambito Nato per effettuare operazioni terroristiche in territorio nemico.
La quantità di esplosivi e armi da fuoco trovati in possesso del gruppo fa supporre che intendessero raggiungere obiettivi di alto profilo, nella regione di Bryansk.
Secondo Stepanov, “ci sono prove che il gruppo di sabotaggio e ricognizione era supportato da veicoli aerei senza pilota, compresi i droni FPV. Ciò ha messo in luce l’intricata rete di piani di operazioni di sabotaggio”.
“Sono evidenti i segni della ricognizione dei siti più vulnerabili nelle aree di confine russe per aprire nuove opportunità ai gruppi di sabotaggio e ricognizione”, ha aggiunto l’esperto.
Un altro soldato statunitense entrato a settembre
Un secondo soldato identificato invece era un marine degli Stati Uniti. Si tratta di Cory John Nawrocki, sul cui corpo è stato trovato un documento di identità militare datato 4 settembre 2024, rilasciato dall’ufficio di arruolamento militare del distretto Podolsk di Kiev.
Da quanto si apprende da fonti militari, Nawrocki si era unito all’unità militare A3449 delle Forze armate dell’Ucraina, ossia il Centro per le attività speciali della Direzione principale dell’intelligence della “Legione straniera”.
Autista di un’unità di forze speciali, era armato con una pistola Glock di ultima generazione e un fucile automatico da 5,56 mm.
La presenza Nato in Ucraina
La presenza di personale militare straniero in territorio ucraino è una realtà documentata sin dal 2014 e dagli eventi successivi al golpe dell’Euromaidan.
Tuttavia, se la propaganda occidentale si era spesso limitata a giustificare il “supporto” alle forze armate ucraine di esperti e formatori addestrati in ambito Nato, l’operatività di un ufficiale delle forze speciali statunitensi – seppur probabilmente inquadrato “ufficialmente” in un gruppo di mercenari – sul territorio russo è una grana non da poco per Washington e suoi alleati.
Forse, l’allarmismo generato nei media occidentali dalla presunta presenza di truppe nordcoreane al fronte ucraino serve proprio a mantenere il più possibile una coltre di fumo su come invece, in maniera molto meno ortodossa, gli alleati Nato stanno supportando l’esercito ucraino.
La differenza è che da una parte si firmano Trattati e si dà evidenza pubblica degli eventi, persino sul sito del Parlamento russo. Dall’altra, si tenta di nascondere il più possibile la propria ingerenza. Fino a quando non si cade sul campo.
Fonte
Tra le identità dei mercenari ci sono soldati statunitensi, canadesi e polacchi, notizia poi confermata dalle parole della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.
Forze speciali Usa impegnate al fronte
Nel silenzio dei media occidentali, la novità emersa martedì è che uno dei sabotatori era – o era stato – un ufficiale del 75° reggimento Ranger, o Army Rangers, unità di fanteria leggera aviotrasportata d’élite dell’esercito statunitense.
I Ranger sono un battaglione inquadrato all’interno del Comando per le operazioni speciali dell’esercito degli Stati Uniti (USASOC), alle dipendenze dirette del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
Il quartier generale e le unità principali delle forze di terra si trovano sul territorio dell’unità militare dell’esercito statunitense a Fort Moore, nello Stato federato della Georgia.
“Si tratta di un’unità di ricognizione in profondità, specializzata principalmente in atti di sabotaggio dietro le linee nemiche e nel distruggere infrastrutture militari e campi d’aviazione”, ha dichiarato Alexander Stepanov, direttore del programma dell’Accademia di scienze politiche e ricercatore senior presso l’Istituto dell’America Latina dell’Accademia delle scienze russa.
La natura dell’operazione
Questo significa che nella regione di Bryansk sono stati dispiegati specialisti altamente qualificati, con istruzioni precise data la delicatezza delle operazioni, probabilmente veterani addestrati in ambito Nato per effettuare operazioni terroristiche in territorio nemico.
La quantità di esplosivi e armi da fuoco trovati in possesso del gruppo fa supporre che intendessero raggiungere obiettivi di alto profilo, nella regione di Bryansk.
Secondo Stepanov, “ci sono prove che il gruppo di sabotaggio e ricognizione era supportato da veicoli aerei senza pilota, compresi i droni FPV. Ciò ha messo in luce l’intricata rete di piani di operazioni di sabotaggio”.
“Sono evidenti i segni della ricognizione dei siti più vulnerabili nelle aree di confine russe per aprire nuove opportunità ai gruppi di sabotaggio e ricognizione”, ha aggiunto l’esperto.
Un altro soldato statunitense entrato a settembre
Un secondo soldato identificato invece era un marine degli Stati Uniti. Si tratta di Cory John Nawrocki, sul cui corpo è stato trovato un documento di identità militare datato 4 settembre 2024, rilasciato dall’ufficio di arruolamento militare del distretto Podolsk di Kiev.
Da quanto si apprende da fonti militari, Nawrocki si era unito all’unità militare A3449 delle Forze armate dell’Ucraina, ossia il Centro per le attività speciali della Direzione principale dell’intelligence della “Legione straniera”.
Autista di un’unità di forze speciali, era armato con una pistola Glock di ultima generazione e un fucile automatico da 5,56 mm.
La presenza Nato in Ucraina
La presenza di personale militare straniero in territorio ucraino è una realtà documentata sin dal 2014 e dagli eventi successivi al golpe dell’Euromaidan.
Tuttavia, se la propaganda occidentale si era spesso limitata a giustificare il “supporto” alle forze armate ucraine di esperti e formatori addestrati in ambito Nato, l’operatività di un ufficiale delle forze speciali statunitensi – seppur probabilmente inquadrato “ufficialmente” in un gruppo di mercenari – sul territorio russo è una grana non da poco per Washington e suoi alleati.
Forse, l’allarmismo generato nei media occidentali dalla presunta presenza di truppe nordcoreane al fronte ucraino serve proprio a mantenere il più possibile una coltre di fumo su come invece, in maniera molto meno ortodossa, gli alleati Nato stanno supportando l’esercito ucraino.
La differenza è che da una parte si firmano Trattati e si dà evidenza pubblica degli eventi, persino sul sito del Parlamento russo. Dall’altra, si tenta di nascondere il più possibile la propria ingerenza. Fino a quando non si cade sul campo.
Fonte
Brigate Rosse: trojan usato su “ignoti” che invece sono “noti”
Ti piazzano addosso il captatore trojan, ti intercettano per mesi confrontando le tue impronte con quanto repertato 50 anni fa, e quando i tuoi difensori eccepiscono l’assenza del decreto autorizzativo da parte del gip il gup rigetta l’eccezione e ti spiega che il decreto non era necessario perché al momento l’inchiesta era “contro ignoti”. Diventata contro “noti” solo dopo aver ascoltato le conversazioni intercettate. Insomma ti metto addosso il mezzo più invasivo possibile e non si può dire che ti sospetto. Sei ignoto.
Stiamo parlando dell’inchiesta sulla sparatoria di Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 quando morirono il carabiniere Giovanni D’Alfonso e Mara Cagol. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra ferita, arresa e disarmata.
Il gup Ombretta Vanini ha deciso che non c’erano irregolarità e violazioni dei diritti, apprestandosi il prossimo 30 ottobre a rinviare a giudizio per concorso in omicidio Renato Curcio, Mario Moretti, Pierluigi Zuffada e Lauro Azzolini.
Il captatore trojan insomma veniva usato per “ragioni di assoluta urgenza”. Su un fatto badate bene avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987, senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione di Alessandria.
A far riaprire l’indagine era stato l’esposto presentato dagli eredi del carabiniere. In aula, in udienza preliminare sono stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Br. Un fatto notorio già all’epoca dei fatti e della prima inchiesta poi “alluvionata”.
Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico, quello degli anni ‘70.
Ovviamente davanti a questi veri e propri strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti che affollano un paese disgraziato. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan.
Quando si tratta di quella storia, un conflitto sociale durissimo sfociato in una guerra civile a bassa intensità ma neanche troppo bassa, le garanzie non esistono. Infine ultima considerazione. Con quello che hanno speso per i captatori trojan non si può permettere che la procura di Torino, una delle più forcaiole d’Italia, venga smentita.
Per cui si andrà in corte d’Assise per assistere ai vincitori che processano i vinti. Norimberga due.
Fonte
Stiamo parlando dell’inchiesta sulla sparatoria di Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 quando morirono il carabiniere Giovanni D’Alfonso e Mara Cagol. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra ferita, arresa e disarmata.
Il gup Ombretta Vanini ha deciso che non c’erano irregolarità e violazioni dei diritti, apprestandosi il prossimo 30 ottobre a rinviare a giudizio per concorso in omicidio Renato Curcio, Mario Moretti, Pierluigi Zuffada e Lauro Azzolini.
Il captatore trojan insomma veniva usato per “ragioni di assoluta urgenza”. Su un fatto badate bene avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987, senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione di Alessandria.
A far riaprire l’indagine era stato l’esposto presentato dagli eredi del carabiniere. In aula, in udienza preliminare sono stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Br. Un fatto notorio già all’epoca dei fatti e della prima inchiesta poi “alluvionata”.
Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico, quello degli anni ‘70.
Ovviamente davanti a questi veri e propri strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti che affollano un paese disgraziato. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan.
Quando si tratta di quella storia, un conflitto sociale durissimo sfociato in una guerra civile a bassa intensità ma neanche troppo bassa, le garanzie non esistono. Infine ultima considerazione. Con quello che hanno speso per i captatori trojan non si può permettere che la procura di Torino, una delle più forcaiole d’Italia, venga smentita.
Per cui si andrà in corte d’Assise per assistere ai vincitori che processano i vinti. Norimberga due.
Fonte
Iran «avvisato», ma non è guerra in guanti bianchi
di Alberto Negri
Un attacco «telefonato», «oltre a Washington anche l’Iran è stato avvertito», «gli iraniani non risponderanno»: così dicono i media nel tentativo di tenerci tranquilli.
Sembra che la rappresaglia israeliana contro l’attacco di Teheran del primo ottobre sia una sorta di guerra «in guanti bianchi». In realtà è una guerra e basta, che aspetta solo il suo tempo – forse il prossimo presidente Usa – per sfociare in una escalation. Tutti sanno che l’Iran e il suo programma nucleare sono la vera ossessione di Netanyahu da decenni: ma per colpire al cuore la Repubblica islamica serve l’imprescindibile sostegno militare americano. Resa dei conti rinviata?
La guerra però continua, eccome, a mietere vittime e distruzione. Nella notte tra venerdì e sabato in cui è stata colpita anche Teheran – per la prima volta dagli Scud scagliati da Saddam Hussein nel 1988 – gli israeliani hanno scaricato bombe in Libano, a Gaza, a Damasco, giusto per far capire che le premesse di una tregua per ora sono ancora deboli, in attesa anche di capire cosa accadrà oggi a Doha nel vertice tra i capi di Cia, Mossad e Qatar, primo tentativo di riaprire la finestra dei negoziati dopo l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar.
Ma se pensiamo che questa sia una guerra soltanto di Israele ci sbagliamo di grosso. Non ci sono soltanto le forniture belliche miliardarie a Tel Aviv. Un’inchiesta trasmessa da Al Jazeera – la rete del Qatar – ci informa che Usa e Gran Bretagna hanno attuato in un anno un vero e proprio «ponte aereo» su Israele con 6mila voli militari, di cui almeno 1200 cargo. Ma c’è dell’altro.
Su oltre 1200 voli di ricognizione e intelligence per individuare i bersagli da colpire il 20% sono stati attuati da aerei israeliani, il 33% da quelli americani e il 47% dagli inglesi. In poche parole il 70% dei sorvoli di ricognizione per colpire Hamas e Hezbollah – salvo poi contribuire ad abbattere edifici, ospedali, scuole, e uccidere dei civili – sono stati effettuati dagli anglo-americani i cui velivoli decollano dalle basi in Germania, Grecia, Cipro e da quelle dell’Italia nel centro del Mediterraneo. Ecco come siamo coinvolti in questa guerra senza che naturalmente nessuno ci dica nulla.
Forse quando il governo Meloni, come annunciato, aprirà una base logistica militare in Qatar anche noi come Al Jazeera verremo informati di quello che accade in Medio Oriente, visto che i nostri alleati della Nato si guardano bene dal farlo.
Quindi quando si parla di legalità internazionale dobbiamo stare molto attenti. In realtà anche con il «ponte aereo» stiamo aiutando Israele a compiere la distruzione di Gaza e del Libano mentre chiediamo a Netanyahu di fare un accordo di tregua a Gaza e in Libano. Siamo scivolati in una situazione paradossale e alla lunga insostenibile, almeno per le coscienze se non per la bieca realpolitik.
Questa settimana i peacekeeper delle Nazioni Unite hanno affermato che i soldati israeliani hanno di nuovo sparato contro uno dei loro posti di osservazione nel Libano meridionale, aggiungendo che la situazione della sicurezza era «estremamente difficile». I soldati dell’Idf hanno sparato contro un posto di osservazione Onu vicino al villaggio di confine di Dhayra, e l’Unifil ha dichiarato che «le guardie di turno si sono ritirate per evitare di essere colpite». Sappiamo come la pensa Tel Aviv: i caschi blu con la loro presenza, dice Netanyahu, fanno da scudo ai terroristi.
Gli attacchi alla missione dell’Unifil non sono «incidenti» perché per il premier israeliano Netanyahu pure il diritto umanitario internazionale è un nemico. Lo ha detto lui stesso nel discorso all’assemblea generale dell’Onu quando ha l’ha definita una «palude di bile antisemita», un linguaggio che riprende un ritornello di Donald Trump, senza contare che al segretario generale alle Nazioni Unite Guterres è stato vietato l’ingresso nello stato ebraico come «persona non grata». E noi assecondiamo il premier israeliano con un profluvio di ipocrisia. Il segretario di stato Blinken nel suo ultimo viaggio in Medio Oriente ha affermato «che le forze di pace dell’Onu devono essere protette».
E lui cosa fa? Manda con gli inglesi i suoi aerei da ricognizione per favorire i bombardamenti israeliani in Libano ma si guarda bene dal fare qualcosa per garantire la missione Unifil. I radar dei suoi aerei devono essere ciechi quando sorvolano i caschi blu nel mirino dell’esercito israeliano. Del resto che cosa aspettarsi da un’amministrazione che come inviato di pace in Libano ha mandato Amos Hochstein, un ex ufficiale dell’Idf?
Questa non è un guerra «in guanti bianchi» per un nuovo ordine in Medio Oriente ma ha l’obiettivo di disgregare questa regione frantumandola per linee etniche, religiose e settarie. Divide et impera. Il patto di Abramo, voluto da Trump e appoggiato da Biden, attende le monarchie arabe, basta leggere il comunicato dell’Arabia Saudita che ieri condannava «la violazione della sovranità iraniana» ma non aveva neppure il coraggio di nominare Israele. Ubi maior…
Fonte
Un attacco «telefonato», «oltre a Washington anche l’Iran è stato avvertito», «gli iraniani non risponderanno»: così dicono i media nel tentativo di tenerci tranquilli.
Sembra che la rappresaglia israeliana contro l’attacco di Teheran del primo ottobre sia una sorta di guerra «in guanti bianchi». In realtà è una guerra e basta, che aspetta solo il suo tempo – forse il prossimo presidente Usa – per sfociare in una escalation. Tutti sanno che l’Iran e il suo programma nucleare sono la vera ossessione di Netanyahu da decenni: ma per colpire al cuore la Repubblica islamica serve l’imprescindibile sostegno militare americano. Resa dei conti rinviata?
La guerra però continua, eccome, a mietere vittime e distruzione. Nella notte tra venerdì e sabato in cui è stata colpita anche Teheran – per la prima volta dagli Scud scagliati da Saddam Hussein nel 1988 – gli israeliani hanno scaricato bombe in Libano, a Gaza, a Damasco, giusto per far capire che le premesse di una tregua per ora sono ancora deboli, in attesa anche di capire cosa accadrà oggi a Doha nel vertice tra i capi di Cia, Mossad e Qatar, primo tentativo di riaprire la finestra dei negoziati dopo l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar.
Ma se pensiamo che questa sia una guerra soltanto di Israele ci sbagliamo di grosso. Non ci sono soltanto le forniture belliche miliardarie a Tel Aviv. Un’inchiesta trasmessa da Al Jazeera – la rete del Qatar – ci informa che Usa e Gran Bretagna hanno attuato in un anno un vero e proprio «ponte aereo» su Israele con 6mila voli militari, di cui almeno 1200 cargo. Ma c’è dell’altro.
Su oltre 1200 voli di ricognizione e intelligence per individuare i bersagli da colpire il 20% sono stati attuati da aerei israeliani, il 33% da quelli americani e il 47% dagli inglesi. In poche parole il 70% dei sorvoli di ricognizione per colpire Hamas e Hezbollah – salvo poi contribuire ad abbattere edifici, ospedali, scuole, e uccidere dei civili – sono stati effettuati dagli anglo-americani i cui velivoli decollano dalle basi in Germania, Grecia, Cipro e da quelle dell’Italia nel centro del Mediterraneo. Ecco come siamo coinvolti in questa guerra senza che naturalmente nessuno ci dica nulla.
Forse quando il governo Meloni, come annunciato, aprirà una base logistica militare in Qatar anche noi come Al Jazeera verremo informati di quello che accade in Medio Oriente, visto che i nostri alleati della Nato si guardano bene dal farlo.
Quindi quando si parla di legalità internazionale dobbiamo stare molto attenti. In realtà anche con il «ponte aereo» stiamo aiutando Israele a compiere la distruzione di Gaza e del Libano mentre chiediamo a Netanyahu di fare un accordo di tregua a Gaza e in Libano. Siamo scivolati in una situazione paradossale e alla lunga insostenibile, almeno per le coscienze se non per la bieca realpolitik.
Questa settimana i peacekeeper delle Nazioni Unite hanno affermato che i soldati israeliani hanno di nuovo sparato contro uno dei loro posti di osservazione nel Libano meridionale, aggiungendo che la situazione della sicurezza era «estremamente difficile». I soldati dell’Idf hanno sparato contro un posto di osservazione Onu vicino al villaggio di confine di Dhayra, e l’Unifil ha dichiarato che «le guardie di turno si sono ritirate per evitare di essere colpite». Sappiamo come la pensa Tel Aviv: i caschi blu con la loro presenza, dice Netanyahu, fanno da scudo ai terroristi.
Gli attacchi alla missione dell’Unifil non sono «incidenti» perché per il premier israeliano Netanyahu pure il diritto umanitario internazionale è un nemico. Lo ha detto lui stesso nel discorso all’assemblea generale dell’Onu quando ha l’ha definita una «palude di bile antisemita», un linguaggio che riprende un ritornello di Donald Trump, senza contare che al segretario generale alle Nazioni Unite Guterres è stato vietato l’ingresso nello stato ebraico come «persona non grata». E noi assecondiamo il premier israeliano con un profluvio di ipocrisia. Il segretario di stato Blinken nel suo ultimo viaggio in Medio Oriente ha affermato «che le forze di pace dell’Onu devono essere protette».
E lui cosa fa? Manda con gli inglesi i suoi aerei da ricognizione per favorire i bombardamenti israeliani in Libano ma si guarda bene dal fare qualcosa per garantire la missione Unifil. I radar dei suoi aerei devono essere ciechi quando sorvolano i caschi blu nel mirino dell’esercito israeliano. Del resto che cosa aspettarsi da un’amministrazione che come inviato di pace in Libano ha mandato Amos Hochstein, un ex ufficiale dell’Idf?
Questa non è un guerra «in guanti bianchi» per un nuovo ordine in Medio Oriente ma ha l’obiettivo di disgregare questa regione frantumandola per linee etniche, religiose e settarie. Divide et impera. Il patto di Abramo, voluto da Trump e appoggiato da Biden, attende le monarchie arabe, basta leggere il comunicato dell’Arabia Saudita che ieri condannava «la violazione della sovranità iraniana» ma non aveva neppure il coraggio di nominare Israele. Ubi maior…
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Siglata l’alleanza strategica tra Russia e Corea del Nord
La Duma di Stato, ossia il Parlamento della Federazione russa, ha ratificato l’accordo per il partenariato strategico globale tra la Federazione e la Repubblica popolare democratica di Corea, o Corea del Nord, come viene denominata in Occidente.
La notizia è stata divulgata direttamente dal sito del Parlamento russo, con un comunicato datato 24 ottobre. Il documento, presentato direttamente da Vladimir Putin, aveva superato il primo giro di firme lo scorso 19 giugno a Pyongyang.
L’accordo tra Russia e Corea del Nord
L’accordo, si apprende, prevede il mantenimento di un partenariato tra i due Paesi basato sui principi del rispetto reciproco della sovranità, dell’integrità territoriale e della non ingerenza negli affari interni.
Inoltre, le parti hanno ribadito la loro volontà di rafforzare la stabilità strategica globale e promuovere un sistema multipolare di relazioni internazionali.
“Le relazioni tra la Federazione russa e la Corea del Nord a livello parlamentare si stanno sviluppando nel quadro della cooperazione tra le parti”, ha affermato il presidente della Duma di Stato Vyacheslav Volodin.
“Sia Russia Unita che il Partito Comunista [i due partiti alla guida rispettivamente di Russia e Corea del Nord] stanno facendo molto per rafforzare la comprensione reciproca e la dimensione parlamentare, che permette una maggior comprensione. Per noi è importante che le relazioni si sviluppino ulteriormente”, ha aggiunto Volodin.
Le notizie sulle truppe nordcoreane in territorio russo
La notizia è di particolare rilievo in relazione al “panico” generato sui (o forse dovremmo dire dai...) media occidentali sui presunti preparativi di effettivi dell’esercito nordcoreano da spedire al fronte ucraino.
Nel recente summit dei Brics+ avvenuto a Kazan, Putin non ha né smentito né confermato le varie indiscrezioni. Ha però messo in guardia la Nato, facendo intendere che l’alleanza con Pyongyang (e l’addestramento di truppe nordcoreane in territorio russo) potrebbe essere una risposta simmetrica alla presenza occidentale tra le file ucraine.
Solo ieri infatti nella regione di Bryansk è stata documentata la presenza di soldati statunitensi, canadesi e polacchi in un gruppo di sabotaggio respinto nel tentativo di oltrepassare il confine tra Russia e Ucraina.
Alleati militari
Sull’accordo è tornato anche il viceministro degli Esteri russo Andrey Rudenko. Rudenko ha dichiarato che questo accordo eleva la partnership tra Russia e Corea del Nord allo status di alleanza e che prevede assistenza militare in caso di aggressione a una delle parti.
“Se la Russia o la Corea del Nord si troveranno in uno stato di guerra, la clausola sull’assistenza in caso di attacco nel Trattato di partenariato strategico globale sarà messa in vigore”, ha detto Rudenko a Zvezda.
“L’accordo eleva le relazioni tra la Federazione Russa e la Corea del Nord al livello di un’alleanza, è di natura quadro e copre tutte le aree della nostra interazione”.
Sempre a Kazan, tuttavia, Putin ha fatto intendere tra le righe che la suddetta clausola posta nell’articolo 4 – l’equivalente dell’articolo 5 in ambito Nato – non è stata ancora attivata.
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La notizia è stata divulgata direttamente dal sito del Parlamento russo, con un comunicato datato 24 ottobre. Il documento, presentato direttamente da Vladimir Putin, aveva superato il primo giro di firme lo scorso 19 giugno a Pyongyang.
L’accordo tra Russia e Corea del Nord
L’accordo, si apprende, prevede il mantenimento di un partenariato tra i due Paesi basato sui principi del rispetto reciproco della sovranità, dell’integrità territoriale e della non ingerenza negli affari interni.
Inoltre, le parti hanno ribadito la loro volontà di rafforzare la stabilità strategica globale e promuovere un sistema multipolare di relazioni internazionali.
“Le relazioni tra la Federazione russa e la Corea del Nord a livello parlamentare si stanno sviluppando nel quadro della cooperazione tra le parti”, ha affermato il presidente della Duma di Stato Vyacheslav Volodin.
“Sia Russia Unita che il Partito Comunista [i due partiti alla guida rispettivamente di Russia e Corea del Nord] stanno facendo molto per rafforzare la comprensione reciproca e la dimensione parlamentare, che permette una maggior comprensione. Per noi è importante che le relazioni si sviluppino ulteriormente”, ha aggiunto Volodin.
Le notizie sulle truppe nordcoreane in territorio russo
La notizia è di particolare rilievo in relazione al “panico” generato sui (o forse dovremmo dire dai...) media occidentali sui presunti preparativi di effettivi dell’esercito nordcoreano da spedire al fronte ucraino.
Nel recente summit dei Brics+ avvenuto a Kazan, Putin non ha né smentito né confermato le varie indiscrezioni. Ha però messo in guardia la Nato, facendo intendere che l’alleanza con Pyongyang (e l’addestramento di truppe nordcoreane in territorio russo) potrebbe essere una risposta simmetrica alla presenza occidentale tra le file ucraine.
Solo ieri infatti nella regione di Bryansk è stata documentata la presenza di soldati statunitensi, canadesi e polacchi in un gruppo di sabotaggio respinto nel tentativo di oltrepassare il confine tra Russia e Ucraina.
Alleati militari
Sull’accordo è tornato anche il viceministro degli Esteri russo Andrey Rudenko. Rudenko ha dichiarato che questo accordo eleva la partnership tra Russia e Corea del Nord allo status di alleanza e che prevede assistenza militare in caso di aggressione a una delle parti.
“Se la Russia o la Corea del Nord si troveranno in uno stato di guerra, la clausola sull’assistenza in caso di attacco nel Trattato di partenariato strategico globale sarà messa in vigore”, ha detto Rudenko a Zvezda.
“L’accordo eleva le relazioni tra la Federazione Russa e la Corea del Nord al livello di un’alleanza, è di natura quadro e copre tutte le aree della nostra interazione”.
Sempre a Kazan, tuttavia, Putin ha fatto intendere tra le righe che la suddetta clausola posta nell’articolo 4 – l’equivalente dell’articolo 5 in ambito Nato – non è stata ancora attivata.
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Israele mette fuorilegge un’agenzia dell’Onu. Tel Aviv è in guerra con il mondo
Continua la guerra di Israele contro il mondo. Dopo che le forze armate israeliane hanno fatto sette volte il tiro al bersaglio contro le postazioni del contingente UNIFIL in Libano, adesso il Parlamento israeliano (Knesset) ha approvato una legge che mette al bando l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) dal condurre “qualsiasi attività” o fornire qualsiasi servizio all’interno di Israele.
Il voto è stato approvato con 92 voti a favore e 10 contrari. È prevista poi una votazione su una seconda legge che interrompe i legami diplomatici con l’Unrwa.
La legislazione non entrerà in vigore immediatamente, ma tra 60-90 giorni dopo che il ministero degli Esteri israeliano avrà notificato all’ONU la decisione della Knesset.
Israele ha tre mesi per determinare i mezzi e il personale che assumerà le responsabilità attualmente gestite dall’Unrwa, anche a Gerusalemme Est e a Gaza.
L’Unrwa denuncia il voto “scandaloso” del Parlamento israeliano che ha messo al bando le sue attività nel Paese.
“È scandaloso che un Paese membro delle Nazioni Unite cerchi di smantellare un’agenzia dell’Onu che è il più importante fornitore di operazioni umanitarie a Gaza”, ha dichiarato la portavoce dell’Unrwa Juliette Touma.
Come hanno scritto una trentina di giuristi italiani e stranieri in un appello lanciato in questi giorni: “La misura è colma. Riteniamo che i tempi siano più che maturi per l’applicazione nei confronti di Israele dell’art. 6 della Carta delle Nazioni Unite, il quale prevede che “un Membro delle Nazioni Unite che abbia persistentemente violato i principi enunciati nel presente Statuto può essere espulso dall’Organizzazione da parte dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza”.
Fonte
Il voto è stato approvato con 92 voti a favore e 10 contrari. È prevista poi una votazione su una seconda legge che interrompe i legami diplomatici con l’Unrwa.
La legislazione non entrerà in vigore immediatamente, ma tra 60-90 giorni dopo che il ministero degli Esteri israeliano avrà notificato all’ONU la decisione della Knesset.
Israele ha tre mesi per determinare i mezzi e il personale che assumerà le responsabilità attualmente gestite dall’Unrwa, anche a Gerusalemme Est e a Gaza.
L’Unrwa denuncia il voto “scandaloso” del Parlamento israeliano che ha messo al bando le sue attività nel Paese.
“È scandaloso che un Paese membro delle Nazioni Unite cerchi di smantellare un’agenzia dell’Onu che è il più importante fornitore di operazioni umanitarie a Gaza”, ha dichiarato la portavoce dell’Unrwa Juliette Touma.
Come hanno scritto una trentina di giuristi italiani e stranieri in un appello lanciato in questi giorni: “La misura è colma. Riteniamo che i tempi siano più che maturi per l’applicazione nei confronti di Israele dell’art. 6 della Carta delle Nazioni Unite, il quale prevede che “un Membro delle Nazioni Unite che abbia persistentemente violato i principi enunciati nel presente Statuto può essere espulso dall’Organizzazione da parte dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza”.
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29/10/2024
Volkswagen, il crollo dell’impero tedesco
L’annuncio fatto dal management della Volkwagen devasta completamente il modello di relazioni industriali in Germania, ma è anche il punto di arrivo di una politica economico-industriale fondata sul mercantilismo “orientato all’esportazione” e l’austerità di bilancio (pubblico), che ha creato le basi della crisi attuale.
Il mega-piano di ristrutturazione di VW, ridotto all’osso, è quanto di più scontato si possa pensare: chiudere un terzo delle fabbriche in Germania, tagliando di almeno un quinto lo stipendio degli operai.
Sul piano salariale i conti sono semplici: taglio del 10% del salario, stop all’indennità mensile di 167 euro: sommati portano alla riduzione del 18% dello stipendio.
In più abolizione dei bonus per i dipendenti e dei pagamenti annuali una tantum per i 25 anni di servizio, una costante mai disattesa dall’azienda. E così si arriva in media al 20-25% di salario in meno.
Sul piano produttivo, “vendita” di tre stabilimenti posizionati in Germania più il dimezzamento dell’impianto di Zwickau, al confine tra Sassonia e Turingia, dove un tempo si costruivano le Trabant, uno dei simboli della DDR.
L’obiettivo è chiaramente quello di risanare i conti, dissestati dalla crisi delle vendite e dalla concorrenza, oltre che da scelte sbagliate e qualche scandalo che ha incrinato il mito dell’affidabilità della meccanica tedesca. In primo luogo il cosiddetto “dieselgate”, con VW scoperta (negli Usa) a truccare i dati sulle emissioni di CO2 e polveri sottili, in modo da superare i controlli delle normative ambientali di molti paesi, compresa l’Europa.
Tra i concorrenti più seri, in questo momento, ci sono i produttori cinesi, in grado di fornire – al contrario di VW, Bmw, Porsche e Opel – auto a trazione elettrica ormai di livello “interessante”. Contro di loro i difensori del “libero mercato” invocano disperati dazi pesantissimi (il contrario del libero mercato), anche sapendo che si tratta di una decisione suicida e anche facilmente aggirabile: la cinese Nio vuole acquistare in Belgio una fabbrica Audi, tra gli impianti fuori della Germania che il gruppo Volkswagen vuol vendere.
E proprio qui si scopre il punto di caduta delle politiche export oriented. In quel quadro – ancora vigente – la Cina e altri mercati extraeuropei erano fondamentalmente luoghi in cui vendere – e magari produrre, a costi ovviamente inferiori – i propri prodotti. Mentre il “mercato interno” veniva depresso dal blocco salariale e dai “mini-job”, i “lavoretti” legalizzati all’inizio del secolo da un governo “socialdemocratico”, con salari altrettanto ovviamente da fame, appena mitigati da servizi pubblici (asili, casa, trasporti, sussidi, ecc.) ancora decenti.
Quel che sembrava geniale trenta anni fa, ed imposto a tutto il Continente tramite le politiche di austerità dell’Unione Europea, a lungo andare – come ogni processo squilibrato a favore del capitale – ha prodotto conseguenze devastanti. A cominciare dal calo di vendite sul mercato europeo, dato il potere d’acquisto dei lavoratori in costante diminuzione.
Il costo inferiore delle auto extraeuropee, soprattutto cinesi, ha veicolato il più classico dei processi capitalistici: la competizione sul prezzo (e la scala produttiva, ormai). Mettendo quasi fuorigioco l’automotive tedesco e quindi anche quello europeo (Stellantis e Renault, poco altro).
Il tentativo di recuperare competitività senza però adeguare la produzione e investire su auto elettriche più efficienti (per autonomia e velocità di ricarica) avviene così nel più classico dei modi: diminuzione della produzione, chiusura di impianti, tagli al personale e ai salari.
Il che mette, però, il modello tedesco sulla graticola del conflitto sociale, sedato per decenni con la “compartecipazione” sindacale alla gestione dell’azienda (il sindacato IgMetall siede nel consiglio di amministrazione di VW, chiaramente con una quota non decisiva), i discreti livelli salariali (imparagonabili con quelli italiani), minore orario di lavoro, certezza del posto, bonus e un welfare pubblico di qualità.
Il sindacato è così stato risvegliato dal sonno e prepara ora una mobilitazione totale, con una piattaforma che non prevede chiusure e licenziamenti, anzi pretende un aumento salariale del 7%. Ma con calma, tra due mesi, perché «attualmente nel Gruppo VW nessun posto di lavoro è più al sicuro».
Il governo Scholz, scosso già dagli insuccessi elettorali e dalla necessità di far finta che il gasdotto North Stream sia stato sabotato da “ignoti” (la magistratura ha individuato i responsabili con nome e cognome: i servizi segreti ucraini, spalleggiati da quelli inglesi e statunitensi), promette ora di non permettere a VW di proseguire su questa strada. Ma nessuno ci crede davvero, sia nella ormai ex maggioranza che nelle opposizioni di destra e di sinistra.
Un modello ultratrentennale sta venendo giù molto rapidamente. E riguarda tutta l’Europa “europeista”, ossia fondata sul prevalere assoluto del capitale finanziario e dell’impresa.
Urge la capacità di organizzare movimenti di resistenza con in testa un “modello alternativo”, fondato sugli interessi delle popolazioni.
Fonte
Il mega-piano di ristrutturazione di VW, ridotto all’osso, è quanto di più scontato si possa pensare: chiudere un terzo delle fabbriche in Germania, tagliando di almeno un quinto lo stipendio degli operai.
Sul piano salariale i conti sono semplici: taglio del 10% del salario, stop all’indennità mensile di 167 euro: sommati portano alla riduzione del 18% dello stipendio.
In più abolizione dei bonus per i dipendenti e dei pagamenti annuali una tantum per i 25 anni di servizio, una costante mai disattesa dall’azienda. E così si arriva in media al 20-25% di salario in meno.
Sul piano produttivo, “vendita” di tre stabilimenti posizionati in Germania più il dimezzamento dell’impianto di Zwickau, al confine tra Sassonia e Turingia, dove un tempo si costruivano le Trabant, uno dei simboli della DDR.
L’obiettivo è chiaramente quello di risanare i conti, dissestati dalla crisi delle vendite e dalla concorrenza, oltre che da scelte sbagliate e qualche scandalo che ha incrinato il mito dell’affidabilità della meccanica tedesca. In primo luogo il cosiddetto “dieselgate”, con VW scoperta (negli Usa) a truccare i dati sulle emissioni di CO2 e polveri sottili, in modo da superare i controlli delle normative ambientali di molti paesi, compresa l’Europa.
Tra i concorrenti più seri, in questo momento, ci sono i produttori cinesi, in grado di fornire – al contrario di VW, Bmw, Porsche e Opel – auto a trazione elettrica ormai di livello “interessante”. Contro di loro i difensori del “libero mercato” invocano disperati dazi pesantissimi (il contrario del libero mercato), anche sapendo che si tratta di una decisione suicida e anche facilmente aggirabile: la cinese Nio vuole acquistare in Belgio una fabbrica Audi, tra gli impianti fuori della Germania che il gruppo Volkswagen vuol vendere.
E proprio qui si scopre il punto di caduta delle politiche export oriented. In quel quadro – ancora vigente – la Cina e altri mercati extraeuropei erano fondamentalmente luoghi in cui vendere – e magari produrre, a costi ovviamente inferiori – i propri prodotti. Mentre il “mercato interno” veniva depresso dal blocco salariale e dai “mini-job”, i “lavoretti” legalizzati all’inizio del secolo da un governo “socialdemocratico”, con salari altrettanto ovviamente da fame, appena mitigati da servizi pubblici (asili, casa, trasporti, sussidi, ecc.) ancora decenti.
Quel che sembrava geniale trenta anni fa, ed imposto a tutto il Continente tramite le politiche di austerità dell’Unione Europea, a lungo andare – come ogni processo squilibrato a favore del capitale – ha prodotto conseguenze devastanti. A cominciare dal calo di vendite sul mercato europeo, dato il potere d’acquisto dei lavoratori in costante diminuzione.
Il costo inferiore delle auto extraeuropee, soprattutto cinesi, ha veicolato il più classico dei processi capitalistici: la competizione sul prezzo (e la scala produttiva, ormai). Mettendo quasi fuorigioco l’automotive tedesco e quindi anche quello europeo (Stellantis e Renault, poco altro).
Il tentativo di recuperare competitività senza però adeguare la produzione e investire su auto elettriche più efficienti (per autonomia e velocità di ricarica) avviene così nel più classico dei modi: diminuzione della produzione, chiusura di impianti, tagli al personale e ai salari.
Il che mette, però, il modello tedesco sulla graticola del conflitto sociale, sedato per decenni con la “compartecipazione” sindacale alla gestione dell’azienda (il sindacato IgMetall siede nel consiglio di amministrazione di VW, chiaramente con una quota non decisiva), i discreti livelli salariali (imparagonabili con quelli italiani), minore orario di lavoro, certezza del posto, bonus e un welfare pubblico di qualità.
Il sindacato è così stato risvegliato dal sonno e prepara ora una mobilitazione totale, con una piattaforma che non prevede chiusure e licenziamenti, anzi pretende un aumento salariale del 7%. Ma con calma, tra due mesi, perché «attualmente nel Gruppo VW nessun posto di lavoro è più al sicuro».
Il governo Scholz, scosso già dagli insuccessi elettorali e dalla necessità di far finta che il gasdotto North Stream sia stato sabotato da “ignoti” (la magistratura ha individuato i responsabili con nome e cognome: i servizi segreti ucraini, spalleggiati da quelli inglesi e statunitensi), promette ora di non permettere a VW di proseguire su questa strada. Ma nessuno ci crede davvero, sia nella ormai ex maggioranza che nelle opposizioni di destra e di sinistra.
Un modello ultratrentennale sta venendo giù molto rapidamente. E riguarda tutta l’Europa “europeista”, ossia fondata sul prevalere assoluto del capitale finanziario e dell’impresa.
Urge la capacità di organizzare movimenti di resistenza con in testa un “modello alternativo”, fondato sugli interessi delle popolazioni.
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Georgia - Se i risultati elettorali non piacciono alla Nato si passa al golpe
Se i risultati elettorali non corrispondono alle ambizioni euroatlantiche c’è sempre l’opzione del golpe. Come avvenuto nella Kiev di Euromaidan nel 2014.
Migliaia di manifestanti si sono riuniti ieri nel centro di Tbilisi per protestare contro il risultato elettorale che ha assegnato la vittoria al partito di governo Sogno Georgiano, denunciando brogli e cercando di rovesciare il risultato delle urne.
I manifestanti sventolavano bandiere della Georgia, dell’Unione Europea e qualcuna anche dell’Ucraina. La presidente della Repubblica, Zourabichvili, è intervenuta al raduno di piazza attaccando il governo e le presunte interferenze russe sul voto. La vittoria di Sogno Georgiano è stata definita dalla presidente “un’operazione senza precedenti e pre pianificata che ci ha privato dei nostri voti, del nostro parlamento e della nostra costituzione”. La Zourabichvili non ha però ancora fornito prove in merito al coinvolgimento della Russia, accusata di aver ostacolato l’adesione della Georgia all’Unione Europea.
La coalizione filo Ue/Nato ha dichiarato intanto che l’opposizione non parteciperà a nessun colloquio con il governo e spingerà per un nuovo voto sotto la supervisione internazionale.
“La presidente georgiana Salome Zurabishvili e i partiti di opposizione definiscono illegittimi i risultati delle elezioni parlamentari al fine di preparare il terreno per un colpo di Stato”, ha affermato il presidente del parlamento georgiano Shalva Papuashvili rispondendo alle minacce delle forze filo Ue e filo Nato. “Questo scenario è stato preparato in anticipo: dichiarare illegittimi i risultati, inventare un governo tecnico... tutto questo è una fase di un colpo di stato verso il quale si stanno dirigendo e quindi vanno contro l’ordine costituzionale”, ha detto il presidente del parlamento sottolineando che la Georgia non lo permetterà.
Alla delegittimazione dei risultati elettorali in Georgia non poteva mancare il segretario del Dipartimento di Stato americano, Anthony Blinken, il quale ha chiesto un’indagine su possibili violazioni delle elezioni in Georgia. “Ci uniamo agli appelli ... a un’indagine completa su tutte le segnalazioni di violazioni legate alle elezioni”, ha detto Blinken in una dichiarazione rilasciata dal Dipartimento di Stato.
Non c’è stata alcuna interferenza russa nelle elezioni parlamentari in Georgia ha detto oggi il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, bollando come “infondate” le accuse mosse contro Mosca. Peskov ha riferito di “tentativi di destabilizzare la situazione nella repubblica”, precisando che “i tentativi di interferenza sono visibili anche a occhio nudo, ma non da parte della Russia”, perchè “noi non ci intromettiamo negli affari interni georgiani e non ci intrometteremo”.
Le elezioni parlamentari nella repubblica si sono tenute il 26 ottobre. Secondo la Commissione Elettorale Centrale, dopo aver contato tutte le schede, il partito di governo Sogno Georgiano ha vinto, ottenendo il 53,93% dei voti. Entrano in parlamento anche quattro partiti di opposizione, che in totale hanno ricevuto il 37,78%. Ma non era questo il risultato perseguito dalla Nato e dall’Unione Europea.
Il voto in Georgia è stato monitorato da 1700 osservatori provenienti da 76 organizzazioni internazionali.
Pascal Allizard, coordinatore speciale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha espresso domenica la speranza che il governo neoeletto della Georgia “avvicini il paese” ai suoi obiettivi di integrazione europea. “Spero sinceramente che la leadership eletta ieri affronti in modo efficace le principali sfide che questo Paese si trova ad affrontare e avvicini la Georgia agli obiettivi legati all’adesione all’Unione Europea”, ha affermato Allizard durante la presentazione dei risultati dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE dopo le elezioni generali di sabato.
“Sebbene la campagna abbia offerto agli elettori un’ampia scelta in vista delle elezioni parlamentari in Georgia, è stato bello vedere che ciò non è sufficiente per allineare le elezioni ai principi democratici internazionali”, ha affermato Eoghan Murphy, che ha guidato la missione di osservazione elettorale dell’ODIHR. “La profonda polarizzazione nel paese, l’indebita pressione sugli elettori e sulla società civile e la tensione che abbiamo visto il giorno delle elezioni dimostrano che c’è ancora molto lavoro da fare”.
Il tentativo di rovesciare il risultato elettorale in Georgia, cosa che non ha fatto l’opposizione in Moldavia nel recente referendum sull’adesione alla Ue pur avendone abbondanti ragioni, dimostra come l’Unione Europea e la Nato non esitino a ricorrere al lavoro sporco per piegare i paesi della periferia dell’Europa ai propri diktat politici e militari.
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Migliaia di manifestanti si sono riuniti ieri nel centro di Tbilisi per protestare contro il risultato elettorale che ha assegnato la vittoria al partito di governo Sogno Georgiano, denunciando brogli e cercando di rovesciare il risultato delle urne.
I manifestanti sventolavano bandiere della Georgia, dell’Unione Europea e qualcuna anche dell’Ucraina. La presidente della Repubblica, Zourabichvili, è intervenuta al raduno di piazza attaccando il governo e le presunte interferenze russe sul voto. La vittoria di Sogno Georgiano è stata definita dalla presidente “un’operazione senza precedenti e pre pianificata che ci ha privato dei nostri voti, del nostro parlamento e della nostra costituzione”. La Zourabichvili non ha però ancora fornito prove in merito al coinvolgimento della Russia, accusata di aver ostacolato l’adesione della Georgia all’Unione Europea.
La coalizione filo Ue/Nato ha dichiarato intanto che l’opposizione non parteciperà a nessun colloquio con il governo e spingerà per un nuovo voto sotto la supervisione internazionale.
“La presidente georgiana Salome Zurabishvili e i partiti di opposizione definiscono illegittimi i risultati delle elezioni parlamentari al fine di preparare il terreno per un colpo di Stato”, ha affermato il presidente del parlamento georgiano Shalva Papuashvili rispondendo alle minacce delle forze filo Ue e filo Nato. “Questo scenario è stato preparato in anticipo: dichiarare illegittimi i risultati, inventare un governo tecnico... tutto questo è una fase di un colpo di stato verso il quale si stanno dirigendo e quindi vanno contro l’ordine costituzionale”, ha detto il presidente del parlamento sottolineando che la Georgia non lo permetterà.
Alla delegittimazione dei risultati elettorali in Georgia non poteva mancare il segretario del Dipartimento di Stato americano, Anthony Blinken, il quale ha chiesto un’indagine su possibili violazioni delle elezioni in Georgia. “Ci uniamo agli appelli ... a un’indagine completa su tutte le segnalazioni di violazioni legate alle elezioni”, ha detto Blinken in una dichiarazione rilasciata dal Dipartimento di Stato.
Non c’è stata alcuna interferenza russa nelle elezioni parlamentari in Georgia ha detto oggi il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, bollando come “infondate” le accuse mosse contro Mosca. Peskov ha riferito di “tentativi di destabilizzare la situazione nella repubblica”, precisando che “i tentativi di interferenza sono visibili anche a occhio nudo, ma non da parte della Russia”, perchè “noi non ci intromettiamo negli affari interni georgiani e non ci intrometteremo”.
Le elezioni parlamentari nella repubblica si sono tenute il 26 ottobre. Secondo la Commissione Elettorale Centrale, dopo aver contato tutte le schede, il partito di governo Sogno Georgiano ha vinto, ottenendo il 53,93% dei voti. Entrano in parlamento anche quattro partiti di opposizione, che in totale hanno ricevuto il 37,78%. Ma non era questo il risultato perseguito dalla Nato e dall’Unione Europea.
Il voto in Georgia è stato monitorato da 1700 osservatori provenienti da 76 organizzazioni internazionali.
Pascal Allizard, coordinatore speciale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha espresso domenica la speranza che il governo neoeletto della Georgia “avvicini il paese” ai suoi obiettivi di integrazione europea. “Spero sinceramente che la leadership eletta ieri affronti in modo efficace le principali sfide che questo Paese si trova ad affrontare e avvicini la Georgia agli obiettivi legati all’adesione all’Unione Europea”, ha affermato Allizard durante la presentazione dei risultati dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE dopo le elezioni generali di sabato.
“Sebbene la campagna abbia offerto agli elettori un’ampia scelta in vista delle elezioni parlamentari in Georgia, è stato bello vedere che ciò non è sufficiente per allineare le elezioni ai principi democratici internazionali”, ha affermato Eoghan Murphy, che ha guidato la missione di osservazione elettorale dell’ODIHR. “La profonda polarizzazione nel paese, l’indebita pressione sugli elettori e sulla società civile e la tensione che abbiamo visto il giorno delle elezioni dimostrano che c’è ancora molto lavoro da fare”.
Il tentativo di rovesciare il risultato elettorale in Georgia, cosa che non ha fatto l’opposizione in Moldavia nel recente referendum sull’adesione alla Ue pur avendone abbondanti ragioni, dimostra come l’Unione Europea e la Nato non esitino a ricorrere al lavoro sporco per piegare i paesi della periferia dell’Europa ai propri diktat politici e militari.
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BRICS+ 2024. Il veto suicida del Brasile contro il Venezuela
L’imperdonabile veto del governo brasiliano all’ingresso del Venezuela nei BRICS+ non è una sorpresa. Esistono conflitti profondamente radicati tra i progetti regionali e internazionali del Ministero degli Affari Esteri del Brasile e quelli del governo bolivariano. Questo conflitto, a volte latente, altre volte manifesto, si è verificato indipendentemente da ciò che Lula pensava durante i suoi primi otto anni di mandato. Dopo molti attriti diplomatici, le relazioni tra Brasilia e Caracas si sono normalizzate solo dopo la sconfitta dell’ALCA nel novembre 2005.
Ma i rancori tra i due governi, e soprattutto tra i rispettivi ministeri degli Esteri, erano come quelle braci coperte di cenere, apparentemente spente, dove bastava una brezza per ravvivare il fuoco. E il vento soffiava forte nelle steppe di Kazan.
Per i diplomatici del subimperialismo brasiliano – mi rifaccio a questa caratterizzazione di Ruy Mauro Marinii (cf. “Subimperialismo y dependencia en América Latina”, Ver Adrián Sotelo Valencia, CLACSO 2021) – la posizione internazionale di Chávez, il suo instancabile iperattivismo e il tono fortemente antimperialista del suo discorso e della sua pratica concreta (come la creazione di Petrocaribe, ad esempio), hanno provocato fin dall’inizio una malcelata repulsione nei quadri dirigenti del Ministero degli Affari Esteri brasiliano.
Va ricordato che, a differenza della stragrande maggioranza dei Paesi, la “relativa autonomia” di cui gode il ministero degli Esteri all’interno dell’apparato statale brasiliano fa sì che le sue definizioni e proposte prevalgano spesso su quelle che potrebbero essere adottate dal presidente in carica, soprattutto quando quest’ultimo è un civile. La condotta di questa potente burocrazia sub-imperiale è regolata da un assioma: la coincidenza, l’accompagnamento (o almeno il non confronto) con la politica estera statunitense.
L’obiettivo di questo tacito allineamento con Washington è quello di preservare la stabilità dell’ordine neocoloniale in Sudamerica e, per quanto possibile, di impedire l’emergere di governi antimperialisti o, quando ciò è impossibile, di agire come fattore di “moderazione”. In cambio, la Casa Bianca dà la sua benedizione alla leadership del Brasile nella regione e gli apre persino la porta per collocare i suoi rappresentanti in alcuni ambiti del quadro istituzionale postbellico, come ad esempio l’Organizzazione mondiale del commercio.
Per questo motivo, il crescente protagonismo internazionale di Hugo Chávez ha sottoposto il patto siglato tra Brasilia e Washington a forti tensioni. Durante gran parte del primo mandato di Lula (2003-2007), le collisioni tra Caracas e Brasilia erano innegabili. L’amministrazione repubblicana ha chiesto più volte l’intervento di Brasilia per calmare le acque agitate dal leader bolivariano, che avrebbero presto acquistato nuovo vigore con l’avanzare del primo ciclo progressista e le elezioni che hanno catapultato alla presidenza personaggi come Evo Morales, Rafael Correa, Cristina Fernández e Fernando Lugo, Tabaré Vázquez e “Mel” Zelaya, e successivamente con la creazione dell’UNASUR Washington si è spinta a tal punto nel tentativo di convincere Lula a “calmare” Chávez da inviare Condoleezza Rice in Brasile per intercedere con il leader bolivariano affinché Caracas non disdicesse l’accordo di cooperazione militare tra Stati Uniti e Venezuela firmato circa trent’anni fa e, inoltre, per scoprire le “ragioni per cui Chávez aveva acquistato 70.000 fucili dalla Spagna”.
Naturalmente, questa mediazione non ha avuto alcun effetto.
I disaccordi tra Brasilia e Caracas continuarono a lungo. Elencarli sarebbe tanto lungo quanto noioso. Ricordiamone solo due: il rifiuto del governo Lula di attuare concretamente la Banca del Sud, solennemente fondata nel dicembre 2007 ma paralizzata fin dall’inizio soprattutto per la riluttanza brasiliana; e l’ostinato rifiuto del Brasile di ammettere il Venezuela nel Mercosur.
Date queste premesse, il comportamento della delegazione brasiliana a Kazan era prevedibile. L’assenza di Lula, dovuta a uno strano “incidente domestico”, rimarrà una delle grandi incognite del Vertice di Kazan. Forse lo sfortunato voto del Brasile all’ONU di condanna dell’“invasione russa” dell’Ucraina (4) può aver giocato un ruolo.
Ma quel che è certo è che con il veto all’ingresso del Venezuela come membro associato dei BRICS+, categoria che comprendeva anche Bolivia e Cuba, il prestigio internazionale del Brasile e la necessaria solidarietà tra i Paesi latinoamericani sono stati seriamente danneggiati.
Il governo di Lula ha ceduto alle pressioni conservatrici della sua stessa coalizione di governo e a quelle degli Stati Uniti, per i quali mantenere il Venezuela isolato è essenziale per continuare impunemente il suo criminale blocco contro quel Paese. Attaccarlo da solo non è la stessa cosa che attaccarlo quando è già membro dei BRICS+.
Quanto accaduto scredita il Brasile e fa apparire il suo governo come un docile partner di Washington che opera in America Latina, favorendo lo scollamento, per non dire la “disintegrazione”, tra i Paesi dell’area, il che alimenta i sospetti sulle future intenzioni del Ministero degli Affari Esteri brasiliano in campo internazionale. Per questo la mossa di Lula a Kazan è un “veto suicida” perché indebolisce la dignità internazionale del Brasile non solo in America Latina ma anche a livello globale.
L’analista brasiliano José Luis Fiori ha detto senza mezzi termini: “un Sudamerica diviso perderebbe rilevanza geopolitica e geoeconomica e le sue piccole unità ‘primarie-esportatrici’, nel loro isolamento, sono completamente irrilevanti sullo scacchiere geopolitico mondiale”. L’alternativa sarebbe quella di costruire un asse tra Brasile, Argentina e Venezuela, ma è quello che si è rotto quest’anno con il rifiuto di Milei all’incorporazione dell’Argentina nei BRICS+ e il veto del Brasile all’ingresso del Venezuela in questa organizzazione.
Con il suo veto, il governo brasiliano ha privato i BRICS+ dell’enorme vantaggio che avrebbe dato a questo raggruppamento l’incorporazione nei suoi ranghi del Paese con le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo. Obiettivamente: ha indebolito il BRICS+, con grande gioia di Washington. Ecco perché credo che questo veto non avrà vita lunga e che Lula finirà per essere respinto, perché pochi errori potrebbero essere più gravi, nel mondo di oggi, che lasciare questa enorme riserva di petrolio alla mercé degli Stati Uniti, cosa che Cina, Russia e persino India non vedrebbero di buon occhio.
Ciò che sta accadendo è che il Ministero degli Affari Esteri brasiliano non crede che lo scacchiere internazionale si sia già trasformato in un sistema multipolare, da cui la sua errata decisione di porre il veto all’ingresso del Venezuela nei BRICS+. Continua a scommettere sul declino dell’egemonia statunitense e sul marcio “ordine mondiale basato sulle regole” con cui gli Stati Uniti difendono i propri interessi nazionali.
Il Ministero degli Esteri bolivariano ha ragione quando descrive il veto come “un gesto ostile, che si aggiunge alla politica criminale di sanzioni che sono state imposte a un popolo coraggioso e rivoluzionario”. Dire che “si aggiunge”, in un linguaggio diplomatico accurato, equivale a dire che il Brasile ha agito come una pedina diligente di Washington, convalidando le oltre 900 misure coercitive unilaterali che colpiscono il Paese fratello e mostrando una penosa mancanza di solidarietà.
Lula non ha ricordo del fatto che durante la pandemia, durante il governo dell’impresentabile Jair Bolsonaro, quando la gente moriva negli ospedali di Manaus per mancanza di ossigeno, il presidente Nicolás Maduro ordinò l’invio di 107 medici e sei autobotti con un totale di 136.000 litri di ossigeno per far fronte alla drammatica situazione negli ospedali di quella città? È questa la ricompensa del Brasile per quel gesto di solidarietà? Un veto deplorevole e imperdonabile.
Il Presidente Lula avrà un compito arduo se vuole che il suo Paese recuperi credibilità e dignità, non solo nell’ordine regionale latinoamericano e caraibico, ma anche agli occhi dei principali partner BRICS+, principalmente Cina, Russia e India. Sicuramente non passerà molto tempo prima che questo fatidico veto venga revocato e il presidente brasiliano dovrà sopportare un’amara bocciatura.
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Ma i rancori tra i due governi, e soprattutto tra i rispettivi ministeri degli Esteri, erano come quelle braci coperte di cenere, apparentemente spente, dove bastava una brezza per ravvivare il fuoco. E il vento soffiava forte nelle steppe di Kazan.
Per i diplomatici del subimperialismo brasiliano – mi rifaccio a questa caratterizzazione di Ruy Mauro Marinii (cf. “Subimperialismo y dependencia en América Latina”, Ver Adrián Sotelo Valencia, CLACSO 2021) – la posizione internazionale di Chávez, il suo instancabile iperattivismo e il tono fortemente antimperialista del suo discorso e della sua pratica concreta (come la creazione di Petrocaribe, ad esempio), hanno provocato fin dall’inizio una malcelata repulsione nei quadri dirigenti del Ministero degli Affari Esteri brasiliano.
Va ricordato che, a differenza della stragrande maggioranza dei Paesi, la “relativa autonomia” di cui gode il ministero degli Esteri all’interno dell’apparato statale brasiliano fa sì che le sue definizioni e proposte prevalgano spesso su quelle che potrebbero essere adottate dal presidente in carica, soprattutto quando quest’ultimo è un civile. La condotta di questa potente burocrazia sub-imperiale è regolata da un assioma: la coincidenza, l’accompagnamento (o almeno il non confronto) con la politica estera statunitense.
L’obiettivo di questo tacito allineamento con Washington è quello di preservare la stabilità dell’ordine neocoloniale in Sudamerica e, per quanto possibile, di impedire l’emergere di governi antimperialisti o, quando ciò è impossibile, di agire come fattore di “moderazione”. In cambio, la Casa Bianca dà la sua benedizione alla leadership del Brasile nella regione e gli apre persino la porta per collocare i suoi rappresentanti in alcuni ambiti del quadro istituzionale postbellico, come ad esempio l’Organizzazione mondiale del commercio.
Per questo motivo, il crescente protagonismo internazionale di Hugo Chávez ha sottoposto il patto siglato tra Brasilia e Washington a forti tensioni. Durante gran parte del primo mandato di Lula (2003-2007), le collisioni tra Caracas e Brasilia erano innegabili. L’amministrazione repubblicana ha chiesto più volte l’intervento di Brasilia per calmare le acque agitate dal leader bolivariano, che avrebbero presto acquistato nuovo vigore con l’avanzare del primo ciclo progressista e le elezioni che hanno catapultato alla presidenza personaggi come Evo Morales, Rafael Correa, Cristina Fernández e Fernando Lugo, Tabaré Vázquez e “Mel” Zelaya, e successivamente con la creazione dell’UNASUR Washington si è spinta a tal punto nel tentativo di convincere Lula a “calmare” Chávez da inviare Condoleezza Rice in Brasile per intercedere con il leader bolivariano affinché Caracas non disdicesse l’accordo di cooperazione militare tra Stati Uniti e Venezuela firmato circa trent’anni fa e, inoltre, per scoprire le “ragioni per cui Chávez aveva acquistato 70.000 fucili dalla Spagna”.
Naturalmente, questa mediazione non ha avuto alcun effetto.
I disaccordi tra Brasilia e Caracas continuarono a lungo. Elencarli sarebbe tanto lungo quanto noioso. Ricordiamone solo due: il rifiuto del governo Lula di attuare concretamente la Banca del Sud, solennemente fondata nel dicembre 2007 ma paralizzata fin dall’inizio soprattutto per la riluttanza brasiliana; e l’ostinato rifiuto del Brasile di ammettere il Venezuela nel Mercosur.
Date queste premesse, il comportamento della delegazione brasiliana a Kazan era prevedibile. L’assenza di Lula, dovuta a uno strano “incidente domestico”, rimarrà una delle grandi incognite del Vertice di Kazan. Forse lo sfortunato voto del Brasile all’ONU di condanna dell’“invasione russa” dell’Ucraina (4) può aver giocato un ruolo.
Ma quel che è certo è che con il veto all’ingresso del Venezuela come membro associato dei BRICS+, categoria che comprendeva anche Bolivia e Cuba, il prestigio internazionale del Brasile e la necessaria solidarietà tra i Paesi latinoamericani sono stati seriamente danneggiati.
Il governo di Lula ha ceduto alle pressioni conservatrici della sua stessa coalizione di governo e a quelle degli Stati Uniti, per i quali mantenere il Venezuela isolato è essenziale per continuare impunemente il suo criminale blocco contro quel Paese. Attaccarlo da solo non è la stessa cosa che attaccarlo quando è già membro dei BRICS+.
Quanto accaduto scredita il Brasile e fa apparire il suo governo come un docile partner di Washington che opera in America Latina, favorendo lo scollamento, per non dire la “disintegrazione”, tra i Paesi dell’area, il che alimenta i sospetti sulle future intenzioni del Ministero degli Affari Esteri brasiliano in campo internazionale. Per questo la mossa di Lula a Kazan è un “veto suicida” perché indebolisce la dignità internazionale del Brasile non solo in America Latina ma anche a livello globale.
L’analista brasiliano José Luis Fiori ha detto senza mezzi termini: “un Sudamerica diviso perderebbe rilevanza geopolitica e geoeconomica e le sue piccole unità ‘primarie-esportatrici’, nel loro isolamento, sono completamente irrilevanti sullo scacchiere geopolitico mondiale”. L’alternativa sarebbe quella di costruire un asse tra Brasile, Argentina e Venezuela, ma è quello che si è rotto quest’anno con il rifiuto di Milei all’incorporazione dell’Argentina nei BRICS+ e il veto del Brasile all’ingresso del Venezuela in questa organizzazione.
Con il suo veto, il governo brasiliano ha privato i BRICS+ dell’enorme vantaggio che avrebbe dato a questo raggruppamento l’incorporazione nei suoi ranghi del Paese con le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo. Obiettivamente: ha indebolito il BRICS+, con grande gioia di Washington. Ecco perché credo che questo veto non avrà vita lunga e che Lula finirà per essere respinto, perché pochi errori potrebbero essere più gravi, nel mondo di oggi, che lasciare questa enorme riserva di petrolio alla mercé degli Stati Uniti, cosa che Cina, Russia e persino India non vedrebbero di buon occhio.
Ciò che sta accadendo è che il Ministero degli Affari Esteri brasiliano non crede che lo scacchiere internazionale si sia già trasformato in un sistema multipolare, da cui la sua errata decisione di porre il veto all’ingresso del Venezuela nei BRICS+. Continua a scommettere sul declino dell’egemonia statunitense e sul marcio “ordine mondiale basato sulle regole” con cui gli Stati Uniti difendono i propri interessi nazionali.
Il Ministero degli Esteri bolivariano ha ragione quando descrive il veto come “un gesto ostile, che si aggiunge alla politica criminale di sanzioni che sono state imposte a un popolo coraggioso e rivoluzionario”. Dire che “si aggiunge”, in un linguaggio diplomatico accurato, equivale a dire che il Brasile ha agito come una pedina diligente di Washington, convalidando le oltre 900 misure coercitive unilaterali che colpiscono il Paese fratello e mostrando una penosa mancanza di solidarietà.
Lula non ha ricordo del fatto che durante la pandemia, durante il governo dell’impresentabile Jair Bolsonaro, quando la gente moriva negli ospedali di Manaus per mancanza di ossigeno, il presidente Nicolás Maduro ordinò l’invio di 107 medici e sei autobotti con un totale di 136.000 litri di ossigeno per far fronte alla drammatica situazione negli ospedali di quella città? È questa la ricompensa del Brasile per quel gesto di solidarietà? Un veto deplorevole e imperdonabile.
Il Presidente Lula avrà un compito arduo se vuole che il suo Paese recuperi credibilità e dignità, non solo nell’ordine regionale latinoamericano e caraibico, ma anche agli occhi dei principali partner BRICS+, principalmente Cina, Russia e India. Sicuramente non passerà molto tempo prima che questo fatidico veto venga revocato e il presidente brasiliano dovrà sopportare un’amara bocciatura.
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Pensioni: nella Legge di Bilancio appena una carità di Stato
Salvo verifiche e nuovi interventi in sede di approvazione della Legge di Bilancio 2025 in discussione in queste ore in Parlamento, le risorse destinate dal Governo Meloni all’aumento delle pensioni minime rispetto all’aumento del costo della vita comporteranno il riconoscimento di circa tre euro al mese in più sul rateo della pensione.
Il valore attuale della pensione minima è di 598,61 euro per gli under 75 e di 614,77 euro per gli over 75 che, con l’adeguamento al costo della vita, arriveranno così a 616,9 euro, cifre ben lontane dai 1.000,00 euro sbandierati in campagna elettorale e per cui continueremo a batterci.
Oltre 5 milioni di Italiani sono censiti tra chi si colloca al di sotto della soglia di povertà, oltre 4,5 milioni di pensioni non raggiungono i 1.000,00 euro.
Dai provvedimenti varati da questo Governo si fa sempre più forte la sensazione che non si voglia affrontare il problema ed anzi si sprofondi, in tema di pensioni, alla fine dell’800 alle Opere Pie, al mutualismo operaio, alla beneficenza caritatevole della borghesia liberale con cui si provava ad affrontare il problema degli infortuni, dell’invalidità, vecchiaia e superstiti, prima dell’approvazione nel 1898 della Cassa di previdenza libera sussidiata dallo Stato, per la quale l’iscrizione era ancora volontaria.
Piuttosto che allo smantellamento della “Legge Fornero”, a forza di interventi peggiorativi il Governo Meloni sembra tornare indietro anche rispetto al 1898, manca solo la riattivazione delle Poor laws e delle workhouse di Oliver Twist, che forse a pensarci bene sono già attive come quella appena varata in Albania, insieme a tutte le altre presenti nel territorio nazionale, per la gestione del fenomeno dell’immigrazione insieme con lo sfruttamento o per meglio dire schiavismo soprattutto in agricoltura.
Un’assoluta regressione rispetto all’Art.38 del dettato costituzionale, che ha affidato allo Stato il superamento della condizione di bisogno, come fattore necessario per garantire ai cittadini di questo Paese il pieno godimento di tutti i diritti civili e politici.
Come a dire che oggi questi diritti sono di fatto negati a causa della condizione materiale di bisogno di chi si trova sotto la soglia di povertà, che non si modifica con tre euro in più, mentre la ricchezza ed il capitale appaiono sempre più arroganti e, difesi dal Governo, non intendono accettare “sacrifici” sul piano fiscale, rendendosi disponibili tuttalpiù a concedere caritatevolmente solo l’elemosina.
Fonte
Il valore attuale della pensione minima è di 598,61 euro per gli under 75 e di 614,77 euro per gli over 75 che, con l’adeguamento al costo della vita, arriveranno così a 616,9 euro, cifre ben lontane dai 1.000,00 euro sbandierati in campagna elettorale e per cui continueremo a batterci.
Oltre 5 milioni di Italiani sono censiti tra chi si colloca al di sotto della soglia di povertà, oltre 4,5 milioni di pensioni non raggiungono i 1.000,00 euro.
Dai provvedimenti varati da questo Governo si fa sempre più forte la sensazione che non si voglia affrontare il problema ed anzi si sprofondi, in tema di pensioni, alla fine dell’800 alle Opere Pie, al mutualismo operaio, alla beneficenza caritatevole della borghesia liberale con cui si provava ad affrontare il problema degli infortuni, dell’invalidità, vecchiaia e superstiti, prima dell’approvazione nel 1898 della Cassa di previdenza libera sussidiata dallo Stato, per la quale l’iscrizione era ancora volontaria.
Piuttosto che allo smantellamento della “Legge Fornero”, a forza di interventi peggiorativi il Governo Meloni sembra tornare indietro anche rispetto al 1898, manca solo la riattivazione delle Poor laws e delle workhouse di Oliver Twist, che forse a pensarci bene sono già attive come quella appena varata in Albania, insieme a tutte le altre presenti nel territorio nazionale, per la gestione del fenomeno dell’immigrazione insieme con lo sfruttamento o per meglio dire schiavismo soprattutto in agricoltura.
Un’assoluta regressione rispetto all’Art.38 del dettato costituzionale, che ha affidato allo Stato il superamento della condizione di bisogno, come fattore necessario per garantire ai cittadini di questo Paese il pieno godimento di tutti i diritti civili e politici.
Come a dire che oggi questi diritti sono di fatto negati a causa della condizione materiale di bisogno di chi si trova sotto la soglia di povertà, che non si modifica con tre euro in più, mentre la ricchezza ed il capitale appaiono sempre più arroganti e, difesi dal Governo, non intendono accettare “sacrifici” sul piano fiscale, rendendosi disponibili tuttalpiù a concedere caritatevolmente solo l’elemosina.
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Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
L’avanzata e soprattutto l’allargamento dei paesi Brics sono un problema ormai molto consistente per la propaganda che deve vendere la storica “superiorità occidentale”. Soprattutto sul piano economico.
L’ingresso, un anno fa, di altri quattro paesi (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti), ha portato quell’area a rappresentare il 35% del Pil e quasi la metà della popolazione mondiali, mentre il G7 (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Italia, Francia e Germania) è sceso ormai al 30% del Pil, con appena un sedicesimo della popolazione. Particolari decisivi: la quota del Pil “occidentale” continua a scendere velocemente e l’età media nei Brics (e nei candidati) è molto bassa, mentre l’area G7 sente il morso del calo demografico, con popolazioni che invecchiano e fisiologicamente escono dalla produzione (nonostante il costante aumento dell’età pensionabile).
Anche il fatto di controllare il 42% della produzione di petrolio chiarisce l’importanza di questo insieme, forte nella produzione industriale e nelle materie prime. Soprattutto tenendo presente che alcuni paesi già oggi sulla porta dell’organizzazione potranno solo aumentare di molto queste caratteristiche: a cominciare da Arabia Saudita, Malesia, Algeria, Venezuela, Indonesia, Cuba.
Detto in estrema sintesi, economie sovradimensionate dalle attività finanziarie, con una popolazione in calo, contro economie “fisiche” che possono contare su una massa di giovani che – una volta migliorate le condizioni per il loro protagonismo in tutti gli ambiti del lavoro (istruzione, formazione, sviluppo industriale, ecc.) – non potranno che moltiplicare la distanza che già ora separa i Brics dall’“Occidente collettivo”.
Questa situazione è nota a tutti gli analisti ed anche ai semplici propagandisti di complemento che abitano nelle redazioni. Si possono distinguere facilmente questi ultimi perché ogni volta che aprono bocca o scrivono un pezzo cercano di convincervi che il problema in realtà non esiste, se non come “preoccupazione” per le aspirazioni “egemoniche” dei paesi più grandi e forti, come Russia e Cina (e Iran). Agitando davanti ai vostri occhi lo straccio rozzo dell’“asse del male”.
Oppure provando a ridicolizzare quelle ambizioni – in primo luogo lo svincolo del proprio commercio globale dall’ostacolo chiamato dollaro (e dal sistema di pagamenti Swift, controllato dagli Stati Uniti) – con la creazione di un’altra moneta e di un altro sistema di pagamenti.
Un esempio classico sono i molti “Rambini” che descrivono i Brics come un “insieme di mattoni” (giocando sulla parola inglese “bric”) ma “senza cemento”. Instabile e non resistente, insomma, che basta una buona spallata per far cadere.
Bambinate, certo, ma che possono confondere chi non ha tempo e infarinatura economica per farsi un giudizio da solo.
Ma fortunatamente ci sono anche analisti seri, che magari hanno la fortuna di lavorare o collaborare con giornali che hanno il compito di “informare gli investitori”, non un pubblico generico (l’“opinione pubblica manipolata” nella sua accezione orwelliana). E che dunque devono dire la verità per permettere a chi ha soldi da mettere sui mercati di avere notizie valide, altrimenti la funzione di quel giornale salta.
Sul recente vertice dei Brics a Kazan, e sui risultati raggiunti (“nulli” per i propagandisti meno attrezzati) il giornale economico MilanoFinanza ci ha offerto un lucidissimo contributo di Guido Salerno Aletta, che evidenzia come il processo di costruzione di una moneta comune e di un sistema di pagamenti alternativo abbia questa volta fatto un passo avanti forse decisivo.
Dopo di che bisogna sapere – e capire – che la “moneta unica” dei Brics non sarà e non può essere un equivalente dell’euro, con tutte le sue costrizioni invalidanti che hanno azzoppato la crescita europea. Né potrà ovviamente essere un equivalente del dollaro, ovvero di una “moneta imperiale” che obbliga ogni attività economica a passare per la sua mediazione e a lasciare, nel passaggio, una fettina di plusvalore prodotto altrove; ma soprattutto a subire le ondate di “finanziamento facile” e quelle opposte di “rientro veloce dal debito” che hanno incatenato per decenni una valanga di paesi alle decisioni del Fmi (di Washington, di fatto).
Sarà invece una sorta di “unità di conto”, con meccanismi completamente diversi e tali da proteggere anche i paesi meno forti dall’emergere di un “imperatore valutario”. Potendo contare peraltro su un “sistema dei pagamenti” diverso dall’americano Swift, che fin qui era servito a dare efficacia concreta alle “sanzioni” unilaterali decise da Washington.
Ma vi lasciamo volentieri al testo di Salerno Aletta, certamente più preciso...
L’ingresso, un anno fa, di altri quattro paesi (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti), ha portato quell’area a rappresentare il 35% del Pil e quasi la metà della popolazione mondiali, mentre il G7 (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Italia, Francia e Germania) è sceso ormai al 30% del Pil, con appena un sedicesimo della popolazione. Particolari decisivi: la quota del Pil “occidentale” continua a scendere velocemente e l’età media nei Brics (e nei candidati) è molto bassa, mentre l’area G7 sente il morso del calo demografico, con popolazioni che invecchiano e fisiologicamente escono dalla produzione (nonostante il costante aumento dell’età pensionabile).
Anche il fatto di controllare il 42% della produzione di petrolio chiarisce l’importanza di questo insieme, forte nella produzione industriale e nelle materie prime. Soprattutto tenendo presente che alcuni paesi già oggi sulla porta dell’organizzazione potranno solo aumentare di molto queste caratteristiche: a cominciare da Arabia Saudita, Malesia, Algeria, Venezuela, Indonesia, Cuba.
Detto in estrema sintesi, economie sovradimensionate dalle attività finanziarie, con una popolazione in calo, contro economie “fisiche” che possono contare su una massa di giovani che – una volta migliorate le condizioni per il loro protagonismo in tutti gli ambiti del lavoro (istruzione, formazione, sviluppo industriale, ecc.) – non potranno che moltiplicare la distanza che già ora separa i Brics dall’“Occidente collettivo”.
Questa situazione è nota a tutti gli analisti ed anche ai semplici propagandisti di complemento che abitano nelle redazioni. Si possono distinguere facilmente questi ultimi perché ogni volta che aprono bocca o scrivono un pezzo cercano di convincervi che il problema in realtà non esiste, se non come “preoccupazione” per le aspirazioni “egemoniche” dei paesi più grandi e forti, come Russia e Cina (e Iran). Agitando davanti ai vostri occhi lo straccio rozzo dell’“asse del male”.
Oppure provando a ridicolizzare quelle ambizioni – in primo luogo lo svincolo del proprio commercio globale dall’ostacolo chiamato dollaro (e dal sistema di pagamenti Swift, controllato dagli Stati Uniti) – con la creazione di un’altra moneta e di un altro sistema di pagamenti.
Un esempio classico sono i molti “Rambini” che descrivono i Brics come un “insieme di mattoni” (giocando sulla parola inglese “bric”) ma “senza cemento”. Instabile e non resistente, insomma, che basta una buona spallata per far cadere.
Bambinate, certo, ma che possono confondere chi non ha tempo e infarinatura economica per farsi un giudizio da solo.
Ma fortunatamente ci sono anche analisti seri, che magari hanno la fortuna di lavorare o collaborare con giornali che hanno il compito di “informare gli investitori”, non un pubblico generico (l’“opinione pubblica manipolata” nella sua accezione orwelliana). E che dunque devono dire la verità per permettere a chi ha soldi da mettere sui mercati di avere notizie valide, altrimenti la funzione di quel giornale salta.
Sul recente vertice dei Brics a Kazan, e sui risultati raggiunti (“nulli” per i propagandisti meno attrezzati) il giornale economico MilanoFinanza ci ha offerto un lucidissimo contributo di Guido Salerno Aletta, che evidenzia come il processo di costruzione di una moneta comune e di un sistema di pagamenti alternativo abbia questa volta fatto un passo avanti forse decisivo.
Dopo di che bisogna sapere – e capire – che la “moneta unica” dei Brics non sarà e non può essere un equivalente dell’euro, con tutte le sue costrizioni invalidanti che hanno azzoppato la crescita europea. Né potrà ovviamente essere un equivalente del dollaro, ovvero di una “moneta imperiale” che obbliga ogni attività economica a passare per la sua mediazione e a lasciare, nel passaggio, una fettina di plusvalore prodotto altrove; ma soprattutto a subire le ondate di “finanziamento facile” e quelle opposte di “rientro veloce dal debito” che hanno incatenato per decenni una valanga di paesi alle decisioni del Fmi (di Washington, di fatto).
Sarà invece una sorta di “unità di conto”, con meccanismi completamente diversi e tali da proteggere anche i paesi meno forti dall’emergere di un “imperatore valutario”. Potendo contare peraltro su un “sistema dei pagamenti” diverso dall’americano Swift, che fin qui era servito a dare efficacia concreta alle “sanzioni” unilaterali decise da Washington.
Ma vi lasciamo volentieri al testo di Salerno Aletta, certamente più preciso...
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Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza
Via libera all’uso delle valute nazionali nelle transazioni tra i Paesi Brics+, che saranno effettuate attraverso i rispettivi sistemi bancari su una piattaforma autonoma rispetto allo Swift: è questo il passo operativo e decisivo che emerge dalle conclusioni del summit tenuto a Kazak sotto la presidenza della Russia nel nuovo formato a nove Paesi, nel lungo e complesso cammino verso l’obiettivo ambiziosissimo di sottrarsi all’egemonia del dollaro.
Dettagli del summit
Sfrondando i documenti finali del vertice dalle consuete affermazioni di principio che si ripetono invariabilmente altisonanti insieme agli impegni confermati per il futuro, il punto decisivo viene dettagliato ai paragrafi 5.1 e 12 del Joint Statement dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali, che utilizza una gergalità tecnica indistinguibile rispetto a quella utilizzata nei documenti elaborati dell’analogo organismo del G7.
Questa forma di mimesi linguistica punta a due obiettivi: dimostrare che il sistema messo a punto parte dalla perfetta conoscenza teorica e tecnica del sistema occidentale oggi diffuso dappertutto a livello globale; sottolineare che è più vantaggioso sia dal punto di vista economico che delle libertà che garantisce.
Il documento parte dal riconoscimento del vantaggio derivante dall’uso di strumenti di pagamento transfrontalieri a basso costo, più rapidi e più efficienti di quelli attuali, trasparenti, sicuri e inclusivi, basati sul principio di minimizzazione delle barriere e di un accesso non discriminatorio: quest’ultima è una chiara risposta a favore della Russia e dell’Iran, che hanno subito pesanti limitazioni attraverso sanzioni sempre più severe per quanto riguarda l’accesso ai sistemi internazionali di pagamento.
Un assetto monetario multilaterale
C’è un secondo aspetto del documento, ancor più significativo rispetto alla stessa indipendenza della nuova piattaforma dal punto di vista tecnologico e politico, in quanto definisce la prospettiva davvero multilaterale del nuovo assetto monetario, in quanto evita il prefigurarsi di una nuova egemonia in via di fatto: si accoglie con favore l’uso delle valute locali nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie tra i Brics e i loro partner commerciali, e si incoraggia il rafforzamento delle reti bancarie dei paesi Brics consentendo regolamenti nelle valute locali in linea con la Bcbpi (Brics Cross-Border Payments Initiative).
Quest’ultima affermazione ci riporta indietro nel tempo, al regolamento in oro degli sbilanci valutari, un onere che incombeva alle banche centrali che dovevano pagare con le proprie riserve e ridurre la circolazione della corrispondente moneta ritirata dal Paese creditore: un rimedio insufficiente, assunto a posteriori.
Rischi legati al debito
Abbandonata la base aurea, il pagamento viene ora effettuato o acquistando preliminarmente sul mercato la valuta del venditore o quella di riserva internazionale; in alternativa, si contrae un credito così denominato: mentre acquisti massicci di monete straniere indeboliscono di continuo il cambio rendendo più costose le importazioni, nel secondo caso il problema viene spostato in avanti nel tempo sul piano della affidabilità finanziaria del singolo debitore o dell’intero Paese nel caso di debito pubblico.
Quando la prospettiva del default dei debitori privati diviene sistemica, viene affrontata liberandosi velocemente dei bond da loro emessi che perdono conseguentemente di valore ed innescano una crisi di borsa; il pericolo di default del debito sovrano viene invece affrontato con la svalutazione e con le politiche restrittive della domanda di importazioni e di sostegno alle esportazioni.
Ebbene, sono queste le tipologie di squilibri dei conti con l’estero che vengono affrontate sia dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) che dalle diverse istituzioni regionali come la Latin American Reserve Fund (Flar), l’Arab Monetary Fund (Amf), l’Esm (European Stability Mechanism), e dallo stesso Contingent Reserve Arrangement (Cra) stipulato dai cinque Paesi fondatori dei Brics, ma che non è mai stato operativo.
Commercio tra i Paesi Brics
Nei rapporti commerciali intrattenuti tra i diversi Paesi Brics e verso terzi gli squilibri sono spesso cospicui e talora strutturali: ad esempio, commerciando nelle rispettive valute, la Russia e l’India si trovano la prima ad accumulare continuamente rupie che non sa come utilizzare e la seconda a doversi continuamente indebitare in rubli.
Se, dunque, il debito emesso nella propria valuta espone lo straniero che lo detiene al rischio di una svalutazione, e quello emesso nella valuta del creditore rappresenta un vincolo assai rilevante, il ricorso al finanziamento in dollari inchioda chi lo contrae alle dinamiche della politica monetaria di Washington, con repentini rialzi dei tassi di interesse e del rapporto di cambio che più di una volta hanno creato immense difficoltà ai Paesi indebitati, in particolare quelli sudamericani.
Il Brasile ne sa qualcosa, di questo tsunami della valuta americana che prima inonda l’economia di credito e poi si ritira con altrettanta devastante violenza.
La nuova valuta «R5»
L’obiettivo di commerciare e indebitarsi in una moneta di riserva internazionale che sia scevra da questi pericoli di egemonia, rappresenta l’ambizione dei Brics: se la Russia teme il sopravvento dello yuan, neppure l’India accetterebbe mai di replicare con Pechino le relazioni valutarie e finanziarie che le vennero imposte da Londra ai tempi in cui era la Perla dell’Impero.
E se, nell’ambito dei Brics, l’adozione di una moneta unica come l’euro non è minimamente ipotizzabile, sembra assai più plausibile che venga presa in considerazione una prospettiva analoga a Hard Ecu che venne abbandonata per il concorso di una triplice concomitanza di interessi: l’ambizione sfrenata della Germania di imporre la propria costituzione monetaria al resto del Continente; l’illusione della Francia di eliminare così dalla scena monetaria il marco che spadroneggiava sui tassi; la assoluta indisponibilità del Regno Unito ad abbandonare la sterlina, per rimanere davvero sovrana.
La valuta dei Brics di cui da tanto tempo si parla, e di cui Putin ha mostrato a Kazak una maquette, prenderebbe il nome «R5» dalle iniziali delle valute nazionali dei Paesi fondatori (Reais, Rublo, Rupia, Renminbi e Rand) e circolerebbe in parallelo alle valute esistenti ma solo in forma digitale. Sarebbe una moneta internazionale finalmente partecipata, non egemonizzata da nessun Paese: né adespota, né straniera.
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Turchia - Il PKK rivendica l’attacco di Ankara, ma il dialogo non si ferma
Alla fine il PKK ha rivendicato apertamente l’attacco alla sede dell’industria aerospaziale Tusas, nei pressi di Ankara, avvenuto il 24 ottobre con un bilancio finale di 5 morti e 22 feriti.
Le tempistiche di tale attacco hanno stupito molti poiché è avvenuto proprio mentre il clima fra governo e sinistra filo – curda sembra essere mutato, rispetto agli ultimi 9 anni, nella direzione della ripresa del dialogo.
Il giorno precedente era stato ancora una volta Davlet Bahceli, alleato di governo di estrema destra, ad uscire allo scoperto, evocando addirittura la possibilità di un invito ad Ocalan in Parlamento: “Se l’isolamento del leader terrorista viene revocato, lasciatelo venire a parlare (in Parlamento)”, ha detto, rivolgendosi ai rappresentanti del movimento filo-curdo di sinistra, Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem), “Lasciamo che gridi che il terrorismo è completamente finito e che l’organizzazione è smantellata”.
Il giorno dopo, ad attacco avvenuto, il Ministero della Difesa aveva immediatamente puntato il dito contro il PKK ancor prima della rivendicazione, facendo partire immediatamente la rappresaglia, con una serie di raid in Siria, nelle aree controllate dalla Ypg/Ypj, e in Iraq, dove hanno base le milizie curde.
Rivendicazione che poi è arrivata: “È noto che le armi prodotte da Tusas hanno ucciso migliaia di civili, compresi bambini e donne, in Kurdistan. Non esiste diritto più legittimo di quello di ogni organizzazione, istituzione e persona patriottica del Kurdistan ad agire contro i centri in cui vengono prodotte queste armi di massacro”. In un altro passaggio, i combattenti curdi spiegano, però, che l’azione era programmata da tempo e “non ha alcuna relazione con l’agenda politica discussa in Turchia nell’ultimo mese”, quasi a non voler interferire con le prove di dialogo dell’ultimo mese.
Effettivamente, nonostante tutto facesse pensare che fosse stata messa una pietra sopra qualsiasi possibilità di dialogo, il giorno dopo è stato consentito ugualmente ad Omer Ocalan, parlamentare del partito DEM, di andare a trovare lo zio Abdullah sull’isola prigione di Imrali, rompendo un isolamento assoluto che durava dal 2020.
Il messaggio recapitato dal leader curdo è breve ma significativo: “L’isolamento continua. Se le condizioni saranno quelle buone, avremo il potere teorico e pratico di muovere questo processo da un piano di conflitto e violenza a un piano legale e politico”.
La portavoce del partito DEM Ayşegül Doğan lo ha così commentato: “Questo messaggio, che sembra composto da 3 righe e 3 frasi contiene molti messaggi in sé. Innanzitutto, lui stesso afferma che l’isolamento continua. In secondo luogo afferma che se vengono create le condizioni ha il potere teorico e pratico di spostare questo processo dal terreno del conflitto e della violenza a un terreno legale e politico. İmralı è pronta, il signor Öcalan è pronto. Ma lo Stato è pronto? Come Partito DEM qui chiediamo: la politica democratica è pronta, il signor Öcalan è pronto, lo Stato è pronto a creare queste condizioni, a eliminare l’isolamento e a creare il terreno legale e politico per la soluzione democratica della questione curda? È il turno di coloro che hanno fatto questo appello e di coloro che lo sostengono. Una volta che la parola è stata pronunciata, è tempo di metterla in pratica”.
L’altro prigioniero eccellente, Salhattim Demirtas, si è spinto a condannare l’attacco di Ankara con un messaggio su X: “Condanniamo l’attentato di Ankara, che Dio abbia pietà di coloro che hanno perso la vita e offriamo le nostre condoglianze ai loro parenti. Auguriamo ai feriti una pronta guarigione.
La mentalità che cerca di fermare con il sangue la ricerca di risolvere i nostri problemi attraverso la conversazione, il dialogo e la politica dovrebbe sapere che se Öcalan prenderà un’iniziativa e vorrà aprire la strada alla politica, noi saremo al suo fianco con tutte le nostre forze.
Non accetteremo alcun approccio che miri a screditare la politica democratica e la ricerca della pace. Tutti dovrebbero fare i loro calcoli e comportarsi di conseguenza. Questa volta non permetteremo mai che le voci di coloro che vogliono la pace vengano soppresse, non importa da quale direzione”.
Questo messaggio fa pensare ad una divaricazione interna al movimento filo-curdo, che, tuttavia, rimane unito nel riconoscere la leadership di Ocalan. Lo afferma chiaramente Zilar Stêrk, la dirigente del KCK, organizzazione transnazionale curda cui è affiliato anche il PKK, in un’intervista pubblicata sul sito KCK-info: “Tutta la lotta che abbiamo condotto negli ultimi ventisei anni è stata volta a sviluppare una soluzione democratica alla questione curda. È diretta a garantire la libertà fisica di Rêber Apo (Abdullah Ocalan). Perché la soluzione alla questione curda significa la libertà fisica di Rêber Apo. E la libertà di Rêber Apo significa la soluzione alla questione curda. Entrambi sono due aspetti fondamentali che sono il più possibile vicini tra loro”.
La combattente ha voluto, poi, commentare le affermazioni concilianti di Bahceli, tenendo aperta la porta del dialogo, seppure con termini più aspri rispetto al partito DEM: “Il fascista Devlet Bahceli ha invocato Imrali nel suo discorso dal podio del parlamento. Hanno chiuso la porta a Imrali. Non permettono che una sola parola esca da Imrali. Come può chiamare Imrali senza che ci sia un incontro con Imrali? Ha chiamato Imrali ad agire. Ha detto a Rêber Apo di liquidare la sua organizzazione. Bahceli, la tua gente non ti chiede cosa sta succedendo con i curdi che hai dichiarato morti? Cosa sta succedendo con il movimento che hai dato per morto? I curdi hanno dato il loro messaggio molto chiaramente ad Amed. “I giovani sono i Fedayin di Rêber Apo” e “Nessuna vita senza Rêber Apo” erano gli slogan che si sentivano ad Amed. Devi prendere il vero messaggio da qui. Se vuoi fare una chiamata sincera a Imrali, allora prima devi aprire la porta a Imrali. Devi fissare un incontro e un dialogo a Imrali”.
In definitiva, nonostante la prudenza sia d’obbligo da parte curda e nonostante l’attacco ad Ankara, intervenuto proprio nel momento in cui si decideva di consentire la prima visita ad Ocalan dopo 4 anni, almeno l’argomento del destino di quest’ultimo sembra sdoganato definitivamente.
Si tratta di una novità importante, in quanto negli ultimi nove anni il leader curdo sembrava sepolto vivo nell’isola – prigione di Imrali ed il suo nome era tabù nel dibattito politico turco. Ovviamente, nel caso in cui il suo isolamento dovesse essere alleggerito e gli fosse consentito di avere un ruolo politico, lo scenario potrebbe cambiare con riflessi non solo in Turchia, ma anche in Siria, Iraq e forse, Iran. Fondamentale rimane l’unità dell’intero movimento curdo, al di là del comune riconoscimento della leadership di Ocalan. Le tempistiche dell’attacco di Ankara e le successive dichiarazioni di Demirtas lasciano intravedere alcune differenze che potrebbero essere usate dal governo turco.
Fonte
Le tempistiche di tale attacco hanno stupito molti poiché è avvenuto proprio mentre il clima fra governo e sinistra filo – curda sembra essere mutato, rispetto agli ultimi 9 anni, nella direzione della ripresa del dialogo.
Il giorno precedente era stato ancora una volta Davlet Bahceli, alleato di governo di estrema destra, ad uscire allo scoperto, evocando addirittura la possibilità di un invito ad Ocalan in Parlamento: “Se l’isolamento del leader terrorista viene revocato, lasciatelo venire a parlare (in Parlamento)”, ha detto, rivolgendosi ai rappresentanti del movimento filo-curdo di sinistra, Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem), “Lasciamo che gridi che il terrorismo è completamente finito e che l’organizzazione è smantellata”.
Il giorno dopo, ad attacco avvenuto, il Ministero della Difesa aveva immediatamente puntato il dito contro il PKK ancor prima della rivendicazione, facendo partire immediatamente la rappresaglia, con una serie di raid in Siria, nelle aree controllate dalla Ypg/Ypj, e in Iraq, dove hanno base le milizie curde.
Rivendicazione che poi è arrivata: “È noto che le armi prodotte da Tusas hanno ucciso migliaia di civili, compresi bambini e donne, in Kurdistan. Non esiste diritto più legittimo di quello di ogni organizzazione, istituzione e persona patriottica del Kurdistan ad agire contro i centri in cui vengono prodotte queste armi di massacro”. In un altro passaggio, i combattenti curdi spiegano, però, che l’azione era programmata da tempo e “non ha alcuna relazione con l’agenda politica discussa in Turchia nell’ultimo mese”, quasi a non voler interferire con le prove di dialogo dell’ultimo mese.
Effettivamente, nonostante tutto facesse pensare che fosse stata messa una pietra sopra qualsiasi possibilità di dialogo, il giorno dopo è stato consentito ugualmente ad Omer Ocalan, parlamentare del partito DEM, di andare a trovare lo zio Abdullah sull’isola prigione di Imrali, rompendo un isolamento assoluto che durava dal 2020.
Il messaggio recapitato dal leader curdo è breve ma significativo: “L’isolamento continua. Se le condizioni saranno quelle buone, avremo il potere teorico e pratico di muovere questo processo da un piano di conflitto e violenza a un piano legale e politico”.
La portavoce del partito DEM Ayşegül Doğan lo ha così commentato: “Questo messaggio, che sembra composto da 3 righe e 3 frasi contiene molti messaggi in sé. Innanzitutto, lui stesso afferma che l’isolamento continua. In secondo luogo afferma che se vengono create le condizioni ha il potere teorico e pratico di spostare questo processo dal terreno del conflitto e della violenza a un terreno legale e politico. İmralı è pronta, il signor Öcalan è pronto. Ma lo Stato è pronto? Come Partito DEM qui chiediamo: la politica democratica è pronta, il signor Öcalan è pronto, lo Stato è pronto a creare queste condizioni, a eliminare l’isolamento e a creare il terreno legale e politico per la soluzione democratica della questione curda? È il turno di coloro che hanno fatto questo appello e di coloro che lo sostengono. Una volta che la parola è stata pronunciata, è tempo di metterla in pratica”.
L’altro prigioniero eccellente, Salhattim Demirtas, si è spinto a condannare l’attacco di Ankara con un messaggio su X: “Condanniamo l’attentato di Ankara, che Dio abbia pietà di coloro che hanno perso la vita e offriamo le nostre condoglianze ai loro parenti. Auguriamo ai feriti una pronta guarigione.
La mentalità che cerca di fermare con il sangue la ricerca di risolvere i nostri problemi attraverso la conversazione, il dialogo e la politica dovrebbe sapere che se Öcalan prenderà un’iniziativa e vorrà aprire la strada alla politica, noi saremo al suo fianco con tutte le nostre forze.
Non accetteremo alcun approccio che miri a screditare la politica democratica e la ricerca della pace. Tutti dovrebbero fare i loro calcoli e comportarsi di conseguenza. Questa volta non permetteremo mai che le voci di coloro che vogliono la pace vengano soppresse, non importa da quale direzione”.
Questo messaggio fa pensare ad una divaricazione interna al movimento filo-curdo, che, tuttavia, rimane unito nel riconoscere la leadership di Ocalan. Lo afferma chiaramente Zilar Stêrk, la dirigente del KCK, organizzazione transnazionale curda cui è affiliato anche il PKK, in un’intervista pubblicata sul sito KCK-info: “Tutta la lotta che abbiamo condotto negli ultimi ventisei anni è stata volta a sviluppare una soluzione democratica alla questione curda. È diretta a garantire la libertà fisica di Rêber Apo (Abdullah Ocalan). Perché la soluzione alla questione curda significa la libertà fisica di Rêber Apo. E la libertà di Rêber Apo significa la soluzione alla questione curda. Entrambi sono due aspetti fondamentali che sono il più possibile vicini tra loro”.
La combattente ha voluto, poi, commentare le affermazioni concilianti di Bahceli, tenendo aperta la porta del dialogo, seppure con termini più aspri rispetto al partito DEM: “Il fascista Devlet Bahceli ha invocato Imrali nel suo discorso dal podio del parlamento. Hanno chiuso la porta a Imrali. Non permettono che una sola parola esca da Imrali. Come può chiamare Imrali senza che ci sia un incontro con Imrali? Ha chiamato Imrali ad agire. Ha detto a Rêber Apo di liquidare la sua organizzazione. Bahceli, la tua gente non ti chiede cosa sta succedendo con i curdi che hai dichiarato morti? Cosa sta succedendo con il movimento che hai dato per morto? I curdi hanno dato il loro messaggio molto chiaramente ad Amed. “I giovani sono i Fedayin di Rêber Apo” e “Nessuna vita senza Rêber Apo” erano gli slogan che si sentivano ad Amed. Devi prendere il vero messaggio da qui. Se vuoi fare una chiamata sincera a Imrali, allora prima devi aprire la porta a Imrali. Devi fissare un incontro e un dialogo a Imrali”.
In definitiva, nonostante la prudenza sia d’obbligo da parte curda e nonostante l’attacco ad Ankara, intervenuto proprio nel momento in cui si decideva di consentire la prima visita ad Ocalan dopo 4 anni, almeno l’argomento del destino di quest’ultimo sembra sdoganato definitivamente.
Si tratta di una novità importante, in quanto negli ultimi nove anni il leader curdo sembrava sepolto vivo nell’isola – prigione di Imrali ed il suo nome era tabù nel dibattito politico turco. Ovviamente, nel caso in cui il suo isolamento dovesse essere alleggerito e gli fosse consentito di avere un ruolo politico, lo scenario potrebbe cambiare con riflessi non solo in Turchia, ma anche in Siria, Iraq e forse, Iran. Fondamentale rimane l’unità dell’intero movimento curdo, al di là del comune riconoscimento della leadership di Ocalan. Le tempistiche dell’attacco di Ankara e le successive dichiarazioni di Demirtas lasciano intravedere alcune differenze che potrebbero essere usate dal governo turco.
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Armi per 2 miliardi a Taiwan, gli USA rendono l’Indo-Pacifico una polveriera
Venerdì l’amministrazione Biden, ormai prossima alla sfida elettorale e alla possibile sconfitta, ha deciso un altro pacchetto di sostegno militare per Taiwan. Si tratta di sistemi contraerei a medio raggio, missili terra-aria e aria-aria, radar e altra strumentazione di supporto, per un valore di 1,16 miliardi di dollari.
La richiesta è arrivata dall’Ufficio di rappresentanza economica e culturale di Taipei (TECRO) negli Stati Uniti e la Defense Security Cooperation Agency (DSCA) ha rilasciato le certificazioni necessarie. Il sì definitivo deve arrivare dal Congresso, ma è difficile che si blocchino tali esportazioni.
Intanto, è stato annunciato anche un altro contratto di vendita, sempre riguardante sistemi radar, per un importo di 828 milioni di dollari. Questo insieme di strumentazione militare, secondo le autorità coinvolte, servirà ad aumentare le capacità di difesa di Taiwan, ma anche l’interoperabilità con le forze armate di Washington.
Infatti, nelle richieste di Taipei vi erano anche software classificati, pubblicazioni (classificate e non), documentazione tecnica, studi e indagini, supporto tecnico, ingegneristico e logistico. Questi ultimi verranno forniti anche dalla Raytheon (RTX), azienda maggiormente coinvolta in questi ordini militari.
Si prevede che ventisei rappresentanti del Governo statunitense e trentaquattro degli appaltatori industriali dovranno recarsi a Taiwan per il lungo periodo di tempo richiesto dall’installazione delle apparecchiature, dal settaggio del sistema, dalla formazione del personale. Più che interoperabilità, si deve ormai parlare di un vero e proprio avamposto a-stelle-e-strisce.
Questo processo è ormai arrivato a un livello di compiuta maturazione, in una cornice più ampia segnata dalla competizione globale e in cui la filiera dei chip ha un ruolo centrale. Dall’estate del 2022 è partito il dialogo bilaterale conosciuto come Iniziativa USA-Taiwan sul Commercio del XXI secolo, con la quale sta aumentando il legame tra i due mercati.
Le sanzioni decise a settembre da Pechino hanno riguardato nove società statunitensi che operano nei campi della cybersicurezza, dell’intelligenza artificiale e della modernizzazione delle forze militari. A metà ottobre, in concomitanza con le esercitazioni militari svolte intorno a Formosa, il Dragone ha deciso altri due pacchetti di sanzioni illustri.
Questi due sono stati diretti contro Puma Shen, ideatore della Kuma Academy, organizzazione creata per formare i civili nelle pratiche di autodifesa e parabelliche, e contro Robert Tsao, tra i fondatori della United Microelectronic Corporation (UMC), azienda di punta nel settore dei semiconduttori. Tsao ha finanziato la Kuma Academy con milioni e milioni di dollari.
Intanto, Zhu Fenglian, portavoce di Pechino per l’Ufficio per gli Affari di Taiwan, ha parlato dell’accordo appena concluso come di “una violazione degli impegni degli Stati Uniti”, facendo esplicito riferimento a un comunicato congiunto firmato in passato, in cui viene stabilito l’impegno a non vendere armi a Taipei. La militarizzazione “renderà solo Taiwan un posto più pericoloso e a rischio di conflitto”.
Una logica ineccepibile, soprattutto perché è la dinamica che abbiamo sempre osservato in tutti i grandi conflitti del secolo scorso, e anche in quelli degli ultimi decenni. La risposta muscolare e militare ha portato solo a lunghi conflitti in cui le popolazioni civili coinvolte sono state le prime vittime.
Ma questo non interessa a Washington. E forse, è proprio quello che cerca, guardando alla crisi ucraina.
Fonte
La richiesta è arrivata dall’Ufficio di rappresentanza economica e culturale di Taipei (TECRO) negli Stati Uniti e la Defense Security Cooperation Agency (DSCA) ha rilasciato le certificazioni necessarie. Il sì definitivo deve arrivare dal Congresso, ma è difficile che si blocchino tali esportazioni.
Intanto, è stato annunciato anche un altro contratto di vendita, sempre riguardante sistemi radar, per un importo di 828 milioni di dollari. Questo insieme di strumentazione militare, secondo le autorità coinvolte, servirà ad aumentare le capacità di difesa di Taiwan, ma anche l’interoperabilità con le forze armate di Washington.
Infatti, nelle richieste di Taipei vi erano anche software classificati, pubblicazioni (classificate e non), documentazione tecnica, studi e indagini, supporto tecnico, ingegneristico e logistico. Questi ultimi verranno forniti anche dalla Raytheon (RTX), azienda maggiormente coinvolta in questi ordini militari.
Si prevede che ventisei rappresentanti del Governo statunitense e trentaquattro degli appaltatori industriali dovranno recarsi a Taiwan per il lungo periodo di tempo richiesto dall’installazione delle apparecchiature, dal settaggio del sistema, dalla formazione del personale. Più che interoperabilità, si deve ormai parlare di un vero e proprio avamposto a-stelle-e-strisce.
Questo processo è ormai arrivato a un livello di compiuta maturazione, in una cornice più ampia segnata dalla competizione globale e in cui la filiera dei chip ha un ruolo centrale. Dall’estate del 2022 è partito il dialogo bilaterale conosciuto come Iniziativa USA-Taiwan sul Commercio del XXI secolo, con la quale sta aumentando il legame tra i due mercati.
Le sanzioni decise a settembre da Pechino hanno riguardato nove società statunitensi che operano nei campi della cybersicurezza, dell’intelligenza artificiale e della modernizzazione delle forze militari. A metà ottobre, in concomitanza con le esercitazioni militari svolte intorno a Formosa, il Dragone ha deciso altri due pacchetti di sanzioni illustri.
Questi due sono stati diretti contro Puma Shen, ideatore della Kuma Academy, organizzazione creata per formare i civili nelle pratiche di autodifesa e parabelliche, e contro Robert Tsao, tra i fondatori della United Microelectronic Corporation (UMC), azienda di punta nel settore dei semiconduttori. Tsao ha finanziato la Kuma Academy con milioni e milioni di dollari.
Intanto, Zhu Fenglian, portavoce di Pechino per l’Ufficio per gli Affari di Taiwan, ha parlato dell’accordo appena concluso come di “una violazione degli impegni degli Stati Uniti”, facendo esplicito riferimento a un comunicato congiunto firmato in passato, in cui viene stabilito l’impegno a non vendere armi a Taipei. La militarizzazione “renderà solo Taiwan un posto più pericoloso e a rischio di conflitto”.
Una logica ineccepibile, soprattutto perché è la dinamica che abbiamo sempre osservato in tutti i grandi conflitti del secolo scorso, e anche in quelli degli ultimi decenni. La risposta muscolare e militare ha portato solo a lunghi conflitti in cui le popolazioni civili coinvolte sono state le prime vittime.
Ma questo non interessa a Washington. E forse, è proprio quello che cerca, guardando alla crisi ucraina.
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28/10/2024
“Manovra nel segno dell’austerity. Più severa di quanto lo chieda l’Ue”
Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio, come giudica questa terza legge di Bilancio del governo Meloni? Si va verso l’espansione o verso la stretta di bilancio?
“Il nuovo Regolamento UE e la Commissione europea pretendono un sostanziale ritorno alla politica di austerity. Anziché cercare vie per attenuare questa svolta, il governo italiano l’ha accentuata. La stretta di bilancio è anche più impetuosa di quanto fosse stato chiesto dalle istituzioni europee”.
Alcuni commentatori sostengono che questa dose aggiuntiva di “disciplina fiscale” sta contribuendo a ridurre lo spread sui tassi d’interesse, il che dovrebbe migliorare i conti pubblici.
“È la fiaba della cosiddetta ‘austerità espansiva’, che è stata più volte smentita dai fatti. La verità è che non esiste evidenza scientifica di legami tra queste variazioni del bilancio e lo spread sui tassi d’interesse, che dipende da fattori ben più complessi, tra cui l’orientamento generale della BCE”.
In un’audizione parlamentare e in articoli sul sito del Sole 24 Ore scritti con la collega Antonella Palumbo e altri ricercatori, Lei ha sostenuto che c’è una ‘crepa’ nell’attuale Regolamento UE che permetterebbe di attenuare la svolta verso l’austerity. In cosa consiste?
“Gli attuali vincoli di bilancio europei sono calcolati in base a una stima del tasso di disoccupazione di ‘equilibrio’ e del connesso ‘Pil potenziale’ che non ha solide basi scientifiche. Il nuovo Regolamento UE ha riconosciuto il problema e ha ammesso la possibilità di aprire finalmente un dibattito intorno al metodo di calcolo di queste variabili. La questione è rilevante. Una correzione del metodo di calcolo consentirebbe di ampliare le risorse pubbliche di oltre una decina di miliardi all’anno”.
Richiamandosi a questi vostri studi, alcuni parlamentari dell’opposizione hanno interrogato il governo sulla possibilità di sfruttare questa ‘crepa’ nel Regolamento europeo. Qual è stata la risposta del governo?
“Che non ha nessuna intenzione di farsi promotore di un’iniziativa di riforma del metodo di calcolo. La conseguenza è piuttosto spiacevole: il nostro Paese si accoda alle posizioni europee più conservatrici, di coloro che stanno remando contro l’apertura di una discussione in tema. Stiamo perdendo un’occasione per mitigare l’orientamento nuovamente restrittivo delle politiche europee”.
Eppure Meloni e Salvini pochi anni fa sventolavano la bandiera del sovranismo anti-europeo e addirittura l’uscita dall’euro. Cosa è accaduto?
“Che sono diventati più realisti del re. Il populismo ribelle che incarnavano era una mistificazione. A molti era chiaro già allora. Diciamo che adesso le prove sono lampanti”.
Al di là dei saldi di bilancio, è in corso anche una polemica su chi paga la stretta e chi ne trae beneficio. Il ministro Giorgetti dichiara che le banche daranno il loro contributo alla tenuta dei conti pubblici. Lei che ne pensa?
“Questo contributo non risulta. I famigerati 3,8 miliardi di “sacrifici” chiesti a banche e assicurazioni non sono altro che una sorta di anticipo di imposta su ciò che già dovevano dare. L’unica differenza è che pagano oggi e poi non pagheranno nei prossimi anni. Nella sostanza, il governo ha semplicemente chiesto un prestito temporaneo alle banche”.
C’è poi la polemica sulla spesa sanitaria. Il governo sostiene che aumenteranno i fondi mentre l’opposizione parla di tagli. Dove sta la verità?
“Stando alle previsioni del governo e dell’Istat, nel quadriennio 2023-2026 il fondo sanitario nazionale dovrebbe assestarsi intorno al 6,07% del Pil. Se guardiamo il decennio precedente, anche ‘limando’ il picco della pandemia il fondo sanitario aveva in media il 6,47%. È un calo dello 0,4% del Pil, che corrisponde a un taglio sul bilancio consistente, di oltre 6 punti percentuali. Io però inviterei a focalizzare non solo sulla riduzione delle risorse ma anche sulla loro destinazione...”.
Cosa intende?
“Il sistema sanitario è sotto il continuo attacco di coloro che puntano a spostare risorse pubbliche verso i privati. Per citare un esempio, le scandalose liste d’attesa negli ambulatori pubblici non dipendono solo da carenza di fondi. Sono anche il risultato di una precisa strategia privatizzatrice, che punta a dimostrare che la sanità pubblica non funziona più e che oggi l’unico modo per curarsi è pagare le strutture private. Sappiamo bene che gli stessi medici sono divisi, tra chi combatte e chi asseconda questa strategia. Le opposizioni dovrebbero fare esplodere la contraddizione, denunciando sì le risorse carenti ma anche portando avanti una lotta più generale a quest’opera di svuotamento della sanità statale”.
Accade anche in altri settori?
“Pensiamo all’università. L’attuale taglio delle risorse pubbliche agli atenei viene appoggiato da chi opera all’interno per renderli sempre più dipendenti da soggetti privati esterni. A loro volta, questi soggetti forniscono finanziamenti sostitutivi ma in cambio pretendono di governare anche le poche risorse pubbliche rimaste. A pensarci bene, è una sorta di privatizzazione potenziata: le istituzioni pubbliche non guadagnano nemmeno dalla vendita ai privati ma cedono a questi il controllo dei loro bilanci”.
Fonte
“Il nuovo Regolamento UE e la Commissione europea pretendono un sostanziale ritorno alla politica di austerity. Anziché cercare vie per attenuare questa svolta, il governo italiano l’ha accentuata. La stretta di bilancio è anche più impetuosa di quanto fosse stato chiesto dalle istituzioni europee”.
Alcuni commentatori sostengono che questa dose aggiuntiva di “disciplina fiscale” sta contribuendo a ridurre lo spread sui tassi d’interesse, il che dovrebbe migliorare i conti pubblici.
“È la fiaba della cosiddetta ‘austerità espansiva’, che è stata più volte smentita dai fatti. La verità è che non esiste evidenza scientifica di legami tra queste variazioni del bilancio e lo spread sui tassi d’interesse, che dipende da fattori ben più complessi, tra cui l’orientamento generale della BCE”.
In un’audizione parlamentare e in articoli sul sito del Sole 24 Ore scritti con la collega Antonella Palumbo e altri ricercatori, Lei ha sostenuto che c’è una ‘crepa’ nell’attuale Regolamento UE che permetterebbe di attenuare la svolta verso l’austerity. In cosa consiste?
“Gli attuali vincoli di bilancio europei sono calcolati in base a una stima del tasso di disoccupazione di ‘equilibrio’ e del connesso ‘Pil potenziale’ che non ha solide basi scientifiche. Il nuovo Regolamento UE ha riconosciuto il problema e ha ammesso la possibilità di aprire finalmente un dibattito intorno al metodo di calcolo di queste variabili. La questione è rilevante. Una correzione del metodo di calcolo consentirebbe di ampliare le risorse pubbliche di oltre una decina di miliardi all’anno”.
Richiamandosi a questi vostri studi, alcuni parlamentari dell’opposizione hanno interrogato il governo sulla possibilità di sfruttare questa ‘crepa’ nel Regolamento europeo. Qual è stata la risposta del governo?
“Che non ha nessuna intenzione di farsi promotore di un’iniziativa di riforma del metodo di calcolo. La conseguenza è piuttosto spiacevole: il nostro Paese si accoda alle posizioni europee più conservatrici, di coloro che stanno remando contro l’apertura di una discussione in tema. Stiamo perdendo un’occasione per mitigare l’orientamento nuovamente restrittivo delle politiche europee”.
Eppure Meloni e Salvini pochi anni fa sventolavano la bandiera del sovranismo anti-europeo e addirittura l’uscita dall’euro. Cosa è accaduto?
“Che sono diventati più realisti del re. Il populismo ribelle che incarnavano era una mistificazione. A molti era chiaro già allora. Diciamo che adesso le prove sono lampanti”.
Al di là dei saldi di bilancio, è in corso anche una polemica su chi paga la stretta e chi ne trae beneficio. Il ministro Giorgetti dichiara che le banche daranno il loro contributo alla tenuta dei conti pubblici. Lei che ne pensa?
“Questo contributo non risulta. I famigerati 3,8 miliardi di “sacrifici” chiesti a banche e assicurazioni non sono altro che una sorta di anticipo di imposta su ciò che già dovevano dare. L’unica differenza è che pagano oggi e poi non pagheranno nei prossimi anni. Nella sostanza, il governo ha semplicemente chiesto un prestito temporaneo alle banche”.
C’è poi la polemica sulla spesa sanitaria. Il governo sostiene che aumenteranno i fondi mentre l’opposizione parla di tagli. Dove sta la verità?
“Stando alle previsioni del governo e dell’Istat, nel quadriennio 2023-2026 il fondo sanitario nazionale dovrebbe assestarsi intorno al 6,07% del Pil. Se guardiamo il decennio precedente, anche ‘limando’ il picco della pandemia il fondo sanitario aveva in media il 6,47%. È un calo dello 0,4% del Pil, che corrisponde a un taglio sul bilancio consistente, di oltre 6 punti percentuali. Io però inviterei a focalizzare non solo sulla riduzione delle risorse ma anche sulla loro destinazione...”.
Cosa intende?
“Il sistema sanitario è sotto il continuo attacco di coloro che puntano a spostare risorse pubbliche verso i privati. Per citare un esempio, le scandalose liste d’attesa negli ambulatori pubblici non dipendono solo da carenza di fondi. Sono anche il risultato di una precisa strategia privatizzatrice, che punta a dimostrare che la sanità pubblica non funziona più e che oggi l’unico modo per curarsi è pagare le strutture private. Sappiamo bene che gli stessi medici sono divisi, tra chi combatte e chi asseconda questa strategia. Le opposizioni dovrebbero fare esplodere la contraddizione, denunciando sì le risorse carenti ma anche portando avanti una lotta più generale a quest’opera di svuotamento della sanità statale”.
Accade anche in altri settori?
“Pensiamo all’università. L’attuale taglio delle risorse pubbliche agli atenei viene appoggiato da chi opera all’interno per renderli sempre più dipendenti da soggetti privati esterni. A loro volta, questi soggetti forniscono finanziamenti sostitutivi ma in cambio pretendono di governare anche le poche risorse pubbliche rimaste. A pensarci bene, è una sorta di privatizzazione potenziata: le istituzioni pubbliche non guadagnano nemmeno dalla vendita ai privati ma cedono a questi il controllo dei loro bilanci”.
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